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DAI GIGANTI BUFFONI ALLA COSCIENZA INFELICE di Celati (saggio incluso in FINZIONI OCCIDENTALI di Celati)

letteratura italiana



DAI GIGANTI BUFFONI ALLA COSCIENZA INFELICE di Celati

(saggio incluso in FINZIONI OCCIDENTALI di Celati)


La tradizione ideologica del riso.

Per studiare la questione del riso in epoca moderna credo sia utile riferirsi ad un tipo cupo e serioso come André Breton, cioè alla sua Anthologie de l'humour noir. Questa antologia ha il merito di mostrare quale grosso pasticcio sia l'idea moderna di humour. Il riso, attraverso questo cannocchiale bretoniano, appare piuttosto lo sforzo antropologico di una cultura che non sa più cos'è il riso. Comunque la morale che ne viene fuori è che la stagione del riso si è chiusa da un pezzo e che nel nostro uso della letteratura il comico è ormai tanto raro quanto infrequente è il pianto. Mutamenti di cultura ci permettono oggi di parlare del riso solo con riferimento al passato, per rifare all'indietro il percorso di questa perdita. La tradizione del riso ha un profilo abbastanza chiaro fino alle soglie dell'epoca moderna. Michail Bachtin da una parte e Allardyce Nicoll dall'altra forniscono utili tracce per seguire la storia di un rituale che si lega sempre all'ordinamento sociale, all'amministrazione degli spazi e dei corpi. Per mettere a fuoco la questione si può ricordare come la storia del riso tracciata da Bachtin nel suo libro su Rabelais sia la storia di divieti compiuti dalla cultura delle classi alte, contro una tendenza alla parodia generalizzata che mal si concilia con il sapere assertivo e teologico occidentale. Lo stesso rilievo si può compie 252g68c re attraverso la storia dei mimi o dei giullari esposta da Nicoll in Mask, Mimes and Miracles. Il mimo comico è da sempre il portavoce di un riso volgare e la sua vicenda è una continua vicenda di condanne ed emarginazioni da parte del sapere alto e dell'ordine costituito. È come se, col trasformarsi della società, si mantenesse intatto fino alle soglie dell'epoca moderna questo rapporto di ostilità tra il comico giullaresco e il sapere occidentale. A partire dal mimo classico, per tutto il Medioevo, fino alle festività carnevalesche del Rinascimento e alla pratica teatrale della commedia dell'improvviso, la costante risorsa del riso sta ne:



la volgarità

i termini sboccati

la tematica dell'osceno

Cosa voglia dire ciò, e perché la volgarità o l'oscenità debba contrapporsi così ostinatamente al sapere, è il fondo per nulla chiaro della questione. Scelgo di prendere la tradizione del riso studiata da Bachtin in quanto modello di riferimento, per parlarne in termini generalizzati e svolgere tutti i confronti a partire da qui. Il riso carnevalesco è un fenomeno di smembramento del sapere e dell'unità di visione del mondo, riducendo a frammenti caricaturali ciò che altrove ha valore di destino. Le gerarchie sociali, le attribuzioni di valore agli oggetti e alle parti del corpo, la tematica del rapporto tra carne e spirito, tutto ciò sembra scoppiare nel riso carnevalesco, invertendo il senso, abbassando ciò che è alto ed elevando ciò che è basso.

il re o il vescovo per burla del carnevale

l'esaltazione del cibo

la gioia dell'escrezione e della poltroneria

la valutazione degli oggetti del mondo secondo i desideri circostanziali del corpo

la concezione del corpo grottesco senza un centro o un dentro, senza una fissazione sul modello perfetto adulto, ma luogo di continui flussi che vanno dentro e fuori in forma di cibo e di escrementi

questa è la morfologia sommaria di un modo di spreco e di dispersione dei valori della società per mezzo del riso. Modo che entra in naturale conflitto con la cultura occidentale alta, la quale è per origine accentratrice, monocentrica, logocentrica, insomma essenzialmente basata sul modello drammatico, che sempre porta ad un'unica conclusione, chiamata destino. Le mésalliances (= matrimonio con persona di ceto inferiore) tipiche della comicità, come associazione di elementi incompatibili, del re e del pazzo, del sapere e della volgarità, dell'uomo e della bestia, della religione e dell'oscenità, dei sentimenti e del cibo, distrugge il dramma, eliminando la separazione di valori, di ordini, di classi, che è il presupposto dell'unità del mondo. Questo tipo di comico è un abbassamento della soglia ideologica, come abbassamento della dianoia letteraria (il senso-tema-verità di un'opera) riportata ad un gioco di funzioni corporali che sollecita il riso rituale. La pratica carnevalesca dell'incoronazione del pazzo, della sua successiva scoronazione ed eventuale bastonatura, che è il nucleo della dianoia comica secondo Bachtin, costituisce uno schema di ambivalenza ed instabilità rispetto alle gerarchie sociali di ogni tipo: una richiesta di scoronazione anche dei nuovi valori che sostituiscono quelli precedentemente negati. Il mondo al rovescio del modello carnevalesco non offre in alcun modo come definitivo il proprio ribaltamento, né come monovalenti i suoi segni. Continuando questa recensione dei tratti morfologici del riso carnevalesco secondo Bachtin, si arriva a dire che la tradizione del riso è prima di tutto una tradizione plebea, è il luogo dei linguaggi bassi. Le sue funzioni privilegiate sono:

la parodia come raddoppiamento e volgarizzazione di discorsi alti

l'imprecazione come abolizione della distanza dialogata tra i parlanti

la metafora delle funzioni corporali come riduzione della portata nobilitante dei linguaggi

Questa tradizione ha un suo spazio privilegiato, che è quello della piazza; quindi la sua autentica sorgente linguistica sono i modi di recitazione della piazza pubblica. La piazza non è solo il luogo di tutte le mésalliances e del mondo alla rovescia, è anche un luogo di festività collettiva. La tradizione carnevalesca ha una propria dimensione temporale, che è la dimensione delle alternanze: continuo disprezzo del passato e continua decadenza del presente. Questa dimensione temporale si differenzia da quella dei generi delle classi alte, dove l'idea di festività è indebolita ed egualmente indebolito è il senso dell'alternanza. La piazza poi è il luogo di abolizione delle distanze interumane e della separazione tra le categorie sociali, il luogo dove lo spettacolo non si realizza come divisione netta di ruoli tra palcoscenico e pubblico, ma come coinvolgimento e compresenza in uno spazio spettacolare. L'importanza di Bachtin è quella di aver descritto per la prima volta il riso come rituale del ridere, come un preciso luogo-tempo culturale, e non come un meccanismo astratto, ricetta buona per tutte le salse.


Da Rabelais a Breton.

Il riso cambia radicalmente in epoca moderna secondo un processo di decomposizione ancora tutto da studiare. Bachtin dà qualche suggerimento anche sul modo di interpretare quel che segue per arrivare fino a Breton. Qualunque sia il tratto distintivo che vogliamo dare al concetto di humour, l'antologia di Breton è un'antologia del grottesco romantico, della tarda tradizione del riso attenuato. Lo humour nero romantico, con il suo radicalismo e la sua assenza di allegria, non è che una vendetta per questa mancata vita serena, e ripropone continuamente la parabola della coscienza infelice. Il grottesco romantico utilizza i procedimenti di dissacrazione del riso carnevalesco studiati da Bachtin, ma solo per dissacrare una certa porzione di realtà, che è quella noiosa, la prosa del mondo importa dalla miopia bottegaia del potere borghese; cioè per una parodia non generalizzata che mantiene in vita un'aspirazione all'elevato. Per far questo deve escludere categoricamente la degradazione e la volgarità del riso carnevalesco, da ora in poi poste al bando dalla letteratura della classi alte. C'è un punto abbastanza indicativo in apertura della Anthologie de l'humours noir, in cui Breton separa il riso grossolano e innocente di Rabelais della lucidità antisentimentale di Swift. Ma in realtà Swift e Rabelais fanno parte della stessa tradizione, e semmai ciò che li distingue è un uso riflesso e già archeologico dei procedimenti di degradazione e volgarità rabelaisiani in Swift. Per comprendere la periodizzazione di Breton, l'origine della sua idea di humour e della sua linea anti-rabelaisiana, occorre riallacciarsi a Swift. Nonostante nella prefazione comicità e humour compaiano come termini sostitutivi, tutta l'antologia dimostra una perfetta noncuranza della tradizione ideologica della comicità. Breton definisce lo humour come:

rivolta superiore dello spirito

evasione nella sfera puramente spirituale (discorso simile a quello fatto da Jean-Paul)

qualcosa di sublime ed elevato (da Freud)

Da Hegel riprende l'idea più fondamentale di una restituzione oggettiva dello humour. L'enigma dell'umor nero è l'ispiratrice di un hasard objectif (= fortuna obiettiva), come mezzo di svelamento di coincidenze impensate nel reale. Qui il modello portante è Lautréamont:

sia   perché offre come pochi una risposta alle esigenze di Breton di trovare una forma di riso senza resti di ilarità ma altamente provocatoria

sia   perché il suo schema è la definizione più esatta dello hasard objectif che si possa trovare

L'ipotesi che i percorsi della realtà formino un fascinoso gioco di coincidenze nascoste permette a Breton di ritrovare un'essenza di meraviglioso nel mondo. Ciò può venire rilevato da un uso dello humour come scoperta oggettiva, ossia spontanea e non prestabilita, di coincidenze. La meccanica delle mésaillances carnevalesche, cioè l'accoppiamento inadeguato di elementi in accoppiabili, perde ogni energia comica. Sottomesso ad un'esigenza teologica lo humour, questo debole scherno del mondo per difendere un'aristocrazia dello spirito, non fa ridere nessuno. In sostanza, è soltanto il meraviglioso che interessa a Breton, non tanto il fenomeno comico. Il riso e la tradizione che gli sta dietro non si adeguano ai canoni delle élites letterarie moderne; perciò sono relegati in un ambito subalterno come manifestazioni innocenti che non fanno i conti con le difficoltà del reale. Ma qual è la portata di questa emarginazione, di questo ripudio che sfocia in una non dichiarata ma comune gerarchia dei generi?? Qual è il momento in cui questa emarginazione trova il suo impulso storico?? Concludendo la presentazione della sua antologia Breton sostiene che l'umor nero ha confini rigidi e, tra le altre cose, deve guardarsi dall'idiozia, dall'ironia scettica e dallo scherzo senza serietà. Ed è proprio per quest'ultima colpa che Rabelais viene liquidato: 'il gusto dello scherzo pesante e innocente e il costante buon umore da dopo bevuta'. Non è utile criticare questi termini, anche perché coincidono abbastanza bene con quelli rabelaisiani. Casomai c'è da chiedersi cosa sfugga a questa avversione moderna per il riso senza serietà, per lo scherzo grasso da bevitore: anche tenendo conto che nel sapere dell'epoca di Rabelais la teoria del riso ha uno sviluppo ben più vasto ed articolato di quanto non abbia in epoca moderna, e il riso viene considerato come un limite tra natura e cultura perché 'rire est propre de l'homme' (= ridere è cosa caratteristica dell'uomo). Il contrasto diventa istruttivo nella misura in cui riusciamo a prendere l'avversione di Breton per Rabelais come testimonianza non più solo di un gusto letterario, ma di una chiusura storica, del perfetto ribaltamento di un rituale umano e della sua funzione sociale. Quando e come il riso è venuto a significare il contrario di gayeté d'esprit (= allegria dello spirito), o il contrario di allegria, che è melanconia, spleen, humour noir?? Naturalmente bisogna subito dire che allegria e il suo contrario, anche immaginando di sapere di che si tratta, non sono stati assoluti di una entità assoluta chiamata Uomo, ma modelli antropologici, rituali di contesto. Anche la coscienza infelice è un rituale di contesto. Interrogarsi su un taglio e su un trapasso vuol dire interrogarsi su come certi indicatori del mondo cambiano stile, pertanto il loro stile e la loro funzione precedenti risultano, oltre che incomprensibili, innocenti: così come Rabelais è incomprensibile e innocente per il moderno Breton.


Le terapie espulsive.

Secondo il parere medico dell'epoca di Rabelais, la vecchiaia comporta un abbassamento di temperatura del corpo, al contrario della fanciullezza che ha un eccesso di calore. Il vino dunque non è solo rimedio ma sostanza di un principio generativo, sostanza del calore stesso, agitazione vitale che nella metafisica rabelaisiana è un equivalente del movimento ininterrotto di movimento nel cosmo. Il calore innato è il segno stesso della vita condiviso senza eccezioni da tutti gli esseri viventi. Così nel caso della malattia e terapia umorale della medicina ippocratica è il calore sotto forma di febbre che cuoce la materia morbosa del corpo facendola maturare e quindi espellendola. La guarigione è sempre concepita come espulsione. Il vino in questa concezione ha dunque un ruolo metaforico centrale perché, in quanto calore, analogo o sostanza del calore solare, è agente di maturazione della materia morbosa e quindi della sua espurgazione. Che si debba mettere tutta la teoria del riso sul conto del sapere medico mi sembra anche dimostrato dal fatto che l'opera rabelaisiana si propone da sé come genere terapeutico più che letterario, simile per sostanza e per forma ai formulari medici, specialmente dedicata fin dall'inizio ai sifilitici (= malattia venerea infettiva, contagiosa), e infine continuamente celebrante la salute come unica meta. La teoria delle virtù curative del riso, oltre a risalire all'antichità, era particolarmente sviluppata nella facoltà di medicina di Montpellier, da cui escono diversi trattati sull'argomento. Nella dottrina ippocratica aria e fuoco sono strettamente collegati perché il soffio è l'alimento del fuoco e il fuoco privato del soffio non potrebbe vivere. Tutto questo sorregge la metafisica del riso in Rabelais: il riso come metafora del flusso vitale che è soffio ed espurgazione. Riso e vino hanno tra loro lo stesso rapporto che c'è tra aria e fuoco nel cosmo. Nella teoria umorale la virtù curativa del riso deve aver avuto un posto d'onore perché attraverso il riso si attuano quei processi ritenuti necessari per la buona combinazione degli umori; mentre a livello simbolico col riso si manifesta il principio vitale del mondo. Il riso inoltre è diuretico al pari del vino; poi, come si spiega nella teoria del joyeux medecin (= medico felice), è una specie di contagio curativo par transfusion des esprits (= tramite trasfusione di umorismo). Perciò è importante che il medico si faccia buffone, per non contagiare negativamente il malato con spiriti cupi o melanconici.

vino " calore (+ soffio) " vita


La commedia degli humours.

Il taglio storico da mettere in luce è tra una cultura medica arcaica ed una cultura moderna dove la medicina perde il suo ruolo centrale. Da questo punto di vista ha rilievo la diversa formulazione della teoria umorale data da Descartes nel Traité des passions. Per Descartes gli umori e i loro effetti, che sono le passioni, continuano a funzionare più o meno secondo il criterio della buona mescolanza o dell'eccesso. Ma la nuova versione di questo meccanismo risulta disposta in modo che le passioni (effetti degli eccessi) trovino il loro controllo naturale nella volontà. La quale è concepita come una specie di termostato di contro ad un pensiero di qualità passiva, causato dal movimento degli spiriti umorali, cioè le passioni. Le passioni trovano il loro regolatore in una zona centrale: Descartes contesta alla medicina precedente proprio questa zona centrale, che non è il cuore ma il cervello. C'è quindi un'inversione di tutto il senso dinamico della cura. La stessa inversione si ha nella commedia e nella comicità classicista in generale, basata sul ritualismo dello smascheramento. La cura d'ora in poi non consisterà nell'esteriorizzazione del male, ma nello smascheramento e accusa delle passioni, che le fa rientrare all'interno del personaggio, sotto il controllo della volontà a cui sono sfuggite per esteriorizzarsi. La volgarità diventa così fuori luogo, perché se prima corrispondeva metaforicamente ad una pratica positiva di espulsione di eccessi interni, ora corrisponde ad una metafora negativa di eccessi che si sottraggono al controllo della volontà. È qui che si affaccia per la prima volta l'idea di humour; e il suo luogo giusto di partenza è proprio la commedia dei caratteri, autoingannati per effetto di passioni che sfuggono alla volontà: ciò che in inglese si dice la commedia degli humours. La teoria della commedia degli humours risale a Ben Jonson (fine anni 90 del 1500). È la commedia classicista ad elaborare i veri contenuti di questo tema e a renderli operanti in tutte le zone della finzione, letteraria e non. Ecco alcune definizioni sommarie sul ruolo degli humours nella commedia:

Northrop Frye: 'la funzione drammatica dello humour è di esprimere uno stato di quella che può essere definita schiavitù rituale. Egli è ossessionato dal suo umore e la sua funzione nel dramma è soprattutto quella di ripetere la sua ossessione. Un uomo malato non costituisce uno humour, ma un ipocondriaco sì, perché in quanto ipocondriaco non può mai essere in buona salute e non può far nulla che non sia coerente con il ruolo che si è imposto. Allo stesso modo un avaro non può fare o dire nulla che non sia connesso al fatto di nascondere dell'oro e risparmiare del denaro'.

Inoltre il tic della risposta fissa è in fondo lo schema fondamentale di questo tipo di comicità, volto a colmare uno spazio apertosi nell'azione o nel testo con una battuta improvvisata e obbligata allo stesso tempo

Paul Goodman: è giusto dire che in molti casi non c'è differenza tra tematica comica e discorso comico: in quanto l'una si trasforma nell'altro, in uno schema di risposte fisse che corrisponde ad uno humour. Uno humour è definito prima del tutto, a livello minimo, da una traccia sonora; è uno schema di reazione vocale che si applica automaticamente ad ogni circostanza e che esprime la condizione di meccanismo automatico di chi è in preda agli spiriti passivi, sfuggiti al controllo della volontà. Questo spesso è già implicito in quell'altra traccia sonora che è il nome. I personaggi jonsoniani chiamati Brainworm (~ verme del cervello), Fastidious Brisk (~ fastidioso attivo) o Volpone, quelli shakespeariani chiamati Sir Toby Belch (~ signor Tobia Rutto) o Sir Andrew Aguecheek (~ signor Andrea Faccia tosta), sono già nomi di una affezione e di una risposta fissa. Per essi si può dire che il nome parla da sé, nel senso esatto che funziona da richiamo sonoro che permane oltre la cancellazione comica dei loro umori. La reazione vocale che si fa puro meccanismo automatico è:

da una parte il segno principale di presenza degli humours

MA dall'altra è il culmine della deflation (= sgonfiamento) del personaggio, della riduzione del senso a suono come nei giochi di parole

E il riso verrà fuori bene e tanto più quando ritmi comici accelerati porteranno verso questo effetto dell'automatismo verbale. In conclusione l'automatismo dello humour, che deriva dall'eccesso di un umore nel personaggio, è il modello fisso di questo tipo di comicità. Ma è anche l'immagine inclusiva della comicità che si trasmetterà fino a Bergson, oscurando tutte le altre o includendo impropriamente tutte le altre (es: quella di Rabelais). Tutta la teoria ufficiale del riso fino a Bachtin rimane bloccata su questo schema, da studiare quindi sempre come riflesso motorio prodotto da un meccanismo astratto, non da un ritualismo specifico.


Il riso istruttivo.

Per segnare un punto in cui quest'immagine inclusiva della comicità s'impone e si divulga, il riferimento alla nuova meccanica della passioni di Descartes mi sembra d'obbligo, anche se la commedia degli humours si elabora ben prima di Descartes. Ma è tutto il quadro dei segni culturali e del ritualismo di una società che muta, e muta soprattutto il rapporto con la malattia. La malattia in Rabelais era il punto di riferimento specifico dell'attività comica; la buffoneria non faceva che mimare una cura, mimando l'eccesso di una discrasia (= condizione anomala della composizione di umori dell'organismo) all'esterno. Ora, in epoca classicista, è proprio questo che deve essere limitato: il riferimento alla malattia e il riflesso dei suoi effetti nei gesti e nel linguaggio del tipo comico. Goodman definisce la comicità della commedia come un limite estremo di permesso all'interno di una struttura che tende a normalizzare l'anormalità degli humours. Paradossalmente il problema della comicità teatrale è quello di limitare al suo interno la comicità, gli eccessi del personaggio, le sue improvvise scenate virtuositiche, il suo spreco di gesti e di parole. Lo spiega bene Ben Jonson in Timber and Discoveries: il riso non è sempre il fine della commedia, anzi è un difetto, 'una volgarità che corrompe alcune parti dell'uomo senza malattia'. Un tipo deforme, una volgare clown travestito da donna, una faccia tutta storta, dice Jonson, sono proprio le cose che hanno mosso gli antichi filosofi a ritenere il riso indegno dell'uomo saggio. I veri comici per Jonson sono piuttosto insegnanti, didaskaloi. L'attore che muove il riso inganna la gente: dunque la comicità si manterrà nei limiti giusti solo quando insegnerà l'inganno del ridicolo, o questo autoinganno che sono le passioni che si esteriorizzano. L'idea teatrale di Jonson si spiega come allontanamento degli eccessi del personaggio attraverso una segnicità esteriore molto marcata, la quale non permette alcuna identificazione negli eccessi o nel personaggio che li incarna. Non si ride più con il testo comico, ma su una devianza esibita dal testo comico come anormalità ridicola. Così la commedia insegna e così i comici sono insegnanti, didaskaloi. Secondo Jonson, gli interventi burleschi dovranno essere limitati e sottoposti alle regole della favola, la quale viene prima del personaggio per privilegio teorico. Goodman, studiando questo problema con particolare riferimento a The Alchemist di Jonson, distingue i 2 registri degli elementi burleschi e della favola o intreccio. Gli elementi burleschi 'generano relazioni casuali e superficiali che alla fine non fanno nessuna differenza'. Ossia: la buffoneria è centrifuga (= disgregatrice), porta da tutte la parti, e quindi incide un moto inverso a quello dell'intreccio, che deve procedere per riduzione e selezione di possibilità fino alla soluzione finale. Su questo si può avere un riscontro in Rabelais, dove la buffoneria crea un tempo dilatato che va da tutte le parti, senza concludersi in una precisa agnizione (= nelle rappresentazioni teatrali, scoperta della vera identità di un personaggio): rilievo utile che segna una fondamentale differenza fra questa comicità teatrale e quella carnevalesca. Se i personaggi teatrali potessero raggiungere indifferentemente rispetto alla favola i loro climax (= massima intensità) selvaggi e confusi di battute e azioni ad libitum (= secondo la propria volontà), non vi sarebbe soluzione finale che tenga insieme secondo necessità tutte le parti. A questo scopo la commedia usa la strategia di riduzione degli humours all'impotenza, in pratica la loro degradazione a personaggi normali in cui le passioni rientrano all'interno. Lo sgonfiamento degli humours è il processo di limitazione e infine di annullamento di una licenza comica, e di ogni possibilità di virtuosismi spreconi e burleschi, centrifughi e non volti a un fine del personaggio o dell'attore. Quindi, più che gli estri o i sintomi manifestati dai personaggi in sé, più della loro licenza e potenziale devianza, ciò che conta nella comicità teatrale è la struttura dell'equivoco, del qui pro quo e della beffa: struttura creata per esibire e distruggere l'autoinganno dello humour e assicurare a tutte le parti una finalizzazione complessiva in vista dello svelamento finale. Ma cos'è che svela alla fine la commedia?? Non tanto o soltanto che il vizio ci lascia sempre le penne, ma il senso preciso che le passioni o i vizi del personaggio sono una maschera, un segno esteriore portato sul volto senza legami tragici o di necessità con sintomi più profondi. Una maschera dunque che può cadere con una semplice rivelazione: si dice appunto per smascheramento. Praticamente la commedia insegna che le passioni sono solo segni di un'altra cosa che si chiama follia, con cui possono anche essere scambiate, ma da cui si distinguono per la soggettività del legame tra il segno e la cosa indicata. Insegna che tutti i significati ridondanti messi in gioco sono il frutto di un equivoco, per la somiglianza di segni con riferimenti diversi: la follia e la maschera di follia, le illusioni delle passioni e i falsi indizi della realtà. Una volta risolto questo, la commedia lascerà comparire una soluzione semplice, univoca e condivisibile da chiunque non è folle o non è malato, ossia da chiunque sa distinguere i segni dalle cose. Il noto happy end è molto più di una necessità consolatoria: è una necessità logica per indirizzare i significati centrifughi messi in circolazione dagli humours verso questo imbuto di tutti i significati che è l'agnizione (= nelle rappresentazioni teatrali, scoperta della vera identità di un personaggio). Alla strategia della dispersione, che è propria della comicità carnevalesca e della tradizione bassa del mimo, si contrappone questa strategia dell'imbuto che elimina ogni dispersione, eccedenza e sperpero dei significati, e sostanzialmente elimina ogni loro profondità. Non a caso la profondità sarà uno dei bersagli satirici preferiti della cultura settecentesca, da Swift a Fielding. È che la profondità rimanda sempre al di là dei segni, alla zona dei sintomi dove non è possibile distinguere i segni dai loro contesti.


Smascheramento e potere politico.

La commedia imposta un tipo di comicità basata sui segni, non sulla malattia: il gioco consiste nella somiglianza di segni tra lo humour e il folle, e poi nello sgonfiamento dello humour che lo riduce all'evidenza della sua normalità. Questa comicità deve dunque lavorare su segni comuni, possibili, non eccezionali, anzi smascherando ogni eccezionalità del tipo comico per lasciarlo apparire alla fine come tipo comune. Il personaggio comico è un autoinganno per effetto di una passione dominante che gli crea equivoci e pasticci con miraggi e idee bizzarre. La sua maschera di ossessione che la commedia deve smontare è un'esteriorità fasulla, tutto il contrario di una esteriorizzazione curativa del male: è ciò che i contemporanei chiamavano affettazione. Nella poetica settecentesca l'affettazione è la vera sorgente del ridicolo perché raddoppia la natura umana, nelle 2 varianti de:

la vanità, che afferma il falso per creare l'applauso

l'ipocrisia, che nasconde il vizio sotto l'apparenza delle virtù

(Henry Fielding)

Il fatto che questo sia ridicolo viene dall'idea che si tratti di un errore logico di proiezione all'esterno dei miraggi che il pensiero passivo crea all'interno del soggetto. La cura per smascheramento consiste nel distruggere questa proiezione esterna e nel far regredire l'ossessione alla sua qualità naturale di pensiero dominato dalla volontà. Ciò avviene come annientamento del linguaggio e dei tic verbali che esteriorizzano l'ossessione, che è indizio di un nuovo ruolo del linguaggio tendente a manifestarsi come segno dei sintomi, ma ben distinto da questi. L'accordo tra linguaggio e sintomi che in Rabelais determinava uno scambio costante di parole e cose, e soprattutto di sintomi e cura, di medico e malato posti a mimarsi a vicenda (come nella teoria del 'joyeux medicin'), fa parte inevitabilmente di una cultura che non si pone il problema della discutibilità del linguaggio. Rabelais, insomma, ignora la separazione tra la parola, la realtà sensibile, l'immagine e l'idea. Ora è questa separazione che si fa avanti anche nella comicità, per trovare ridicolo chi prende per realtà il linguaggio dell'ossessione, e prende per cose vere le immagini illusorie proiettate all'esterno dalla passione. Lo smascheramento non è che un modo per smontare le ragioni ingannevoli del pensiero passivo, degli impulsi, e per risolvere i suoi equivoci creati dal linguaggio che esteriorizza l'ossessione. Se il vizio, le passioni ammettono questa traducibilità in un altro linguaggio (un metalinguaggio) che le svela come futili, il gran problema sarà lo smascheramento della passioni nella loro forma mascherata, attraverso una scienza di segni capace di interpretare e controllare ogni linguaggio attraverso il metalinguaggio. La medicina di Rabelais si riferiva sempre alla totalità del corpo, o al corpo come totalità, perché non c'era differenza tra l'immagine e il suo linguaggio, tra la realtà dei sintomi e i segni che le esprimevano. Ora il male ridotto al linguaggio delle passioni è separato dalla sua realtà dei sintomi e quindi tanto più controllabile ogni volta che si vuole esteriorizzare; ed è maggiormente controllabile attraverso una riduzione della totalità del corpo alla zona centrale: il volto, e dentro il volto negli occhi (Descartes: 'non c'è nessuna passione che non venga dichiarata da qualche particolare azione degli occhi'). Il volto e lo sguardo divengono dunque il luogo privilegiato di questo metalinguaggio di controllo. Ciò ha conseguenze su tutta l'espressività comica, sulla recitazione e sulle metafore messe in gioco dalla recitazione. Il volto mascherato dei vecchi tipi comici è un volto senza espressività, per il semplice motivo che lo spettacolo riguardava la totalità di una presenza fisica in scena in quanto presenza e non in quanto espressività. Di contro la maschera che cade, con Molière, è la metafora principale di questo teatro; ma anche di un nuovo ruolo del linguaggio comico appunto come qualcosa che è lì per esprimere qualcos'altro, non tanto per far ridere quanto per istruire. E sul ritualismo che sta dietro a queste operazioni, bisogna ricordare come si diffonda anche fuori della letteratura e della comicità tutta una psicologia dello smascheramento, l'idea della decifrazione dei segni nel viso e negli occhi per sorprendere il vizio appena si esteriorizza e smontarlo prima che crei confusioni. Ad esempio Christian Thomasius offre a Federico III di Brandeburgo, nel 1962, 'la nuova invenzione di una scienza ben fondata e altamente necessaria per lo Stato, su come riconoscere nella conversazione ordinaria i segreti nascosti nei cuori dell'altra gente, persino contro la sua volontà'. Tutta la mitologia della dissimulazione che si elabora fra 600 e 700 non è altro che la conseguenza di un'ossessione del controllo politico. Secondo Thomasius, Richelieu e Mazarino possedevano quest'arte dello smascheramento, e questa era la base del loro successo politico. Tutta la teoria comica dello smascheramento ha stretti legami con un'ideologia del potere assoluto, e anzi simboleggia un controllo sociale assoluto del potere politico sopra qualsiasi possibile devianza.


Il mimo melanconico.

La follia propriamente clinica è il modello attraverso cui si interpreta la mimica, la superficialità e i segni sintomatologici del carattere comico. Northrop Frye ha sottolineato che lo humour non è un malato, ma solo un'immagine della malattia nella forma della sua ossessione che lo costringe a risposte fisse e comportamenti stereotipati. La sua pazzia è quella di portare una maschera di pazzia sopra la naturale superficie del volto umano. Per un'inversione dei termini di riferimento, questo avrà qualche conseguenza in epoca moderna. Perché appena si riconosce questa esteriorità come semplice immagine, un linguaggio disgiunto dai suoi sintomi, l'unico modo di tornare ai sintomi sarà quello di mimare una 'vera' pazzia, nella forma speciale e più generica della melanconia. È nel segno di questo ritorno e dell'abbandono dell'esteriorità fasulla della maschera che si possono interpretare molte delle trasformazioni che intervengono tra 700 e 800 nel personaggio teatrale comico. La storia di Arlecchino è abbastanza esemplare. Riccoboni nella sua Historie du théâtre italien ce ne dà un ritratto riferito al xvii secolo, quando ancora la sua recitazione era costruita da un continuo gioco di battute stravaganti, di movimenti violenti e di smodate oscenità. Ma attraverso le sue parole si intravede già un'altra epoca, che considera l'Arlecchino corporeo e acrobatico come la metafora di una pura esteriorità bruta. La sua trasformazione infatti avviene attraverso la caduta dei segni più marcati che si riferiscono alla sua presenza in scena puramente fisica. Finiscono le sue mosse enfatiche e poi i suoi desideri sciocchi da commedia volgare. C'è un'essenzialità radicale nei nuovi tipi comici che riduce l'ingombro della presenza fisica alla semplificazione di un balletto. Nell'interpretazione che Watteau dà della commedia dell'arte le mosse stilizzate e danzanti d'insieme subentrano ai salti, alla forsennata gesticolazione e alle acrobazie individuali. Inoltre, quel che colpisce non è solo che i successori di Arlecchino (Gilles e Pierrot) siano stimati: è che la loro tendenza è decisamente anti-espansiva, essenzialmente catatonica (= forma di schizofrenia caratterizzata da catalessi, mutismo). Il volto è il punto dove sono attratti gli sguardi, e non le gambe snodate e il ventre goffo come nelle commedie dell'improvviso. Il corpo comincia ad essere sentito come un ingombro esteriore: il ventre o le tradizionali sporgenze sono segni di passioni da commedia bassa. Il corpo diventa magro ad indicare una sottrazione a queste passioni. E il comico senza passioni si offre nelle 2 varianti della tendenza catatonica o incantata oppure della tendenza cinica (indifferente). È Pierre-François Biancolelli che dà inizia alla riforma, trasformando moralmente Arlecchino e creando dei nuovi Arlecchini. Non è poi un caso se da qui in poi il tipo comico principale sarà un magro: il grasso carnevalesco è associato alle passioni da commedia che si esteriorizzano per mancanza di volontà. Anche lo status sociale era sempre stato una metafora della condizione di passività del tipo comico, cioè di condizione sottoposta alle passioni; la sua elevazione sociale scioglie questa passività facendo il tipo comico padrone non soltanto di un altro tipo comico (il suo servo), ma dei propri desideri e delle proprie passioni. Tutto questo va assieme: la magrezza, la perdita di desiderio sfrenato, la semplificazione della recitazione e l'innocenza o il cinismo dei nuovi Arlecchini. Il risultato è una nuova profondità che si fa avanti; ma non una profondità che discende nel corpo attraverso le sue cavità e aperture per ritrovarne i flussi e i sintomi: è una profondità dell'espressione, del senso, del linguaggio, che si carica solo in questa speciale forma autoironica dell'innocenza che è il cinismo. Quando nel 1830 si aprirà il Théâtre des Funambules, che doveva essere per la generazione dei poeti romantici e parnassiani la rivelazione di tutte le meraviglie, questo itinerario si è già concluso. Si ricalca così la lezione del cinismo come limitazione delle passioni da commedia, come comicità al di là delle passioni. Quel che avviene è una perfetta identificazione di Arlecchino con Amleto, della comicità con la malinconia dell'uomo magro. Si tratta di uno strano dramma, misto di riso e di terrore. La caduta dei colori nel personaggio comico (Arlecchino aveva la maschera nera, tutte le altre maschere colori vivaci) dev'essere interpretata come una riduzione della maschera ad un punto di innocenza, al di là delle passioni e dei colori delle passioni, al bianco che non è un colore. L'attore è un attore senza passioni, senza parole e quasi senza viso, che dice tutto, esprime tutto, si beffa di tutto; questo tipo comico ha abolito l'esteriorità ingannevole delle passioni da commedia, quel linguaggio speciale delle passioni che si concentra sul viso, e soprattutto quell'esteriorità di segni separati dai sintomi che è il linguaggio verbale. È nella forma della superficialità impassibile, o come si dice della disaffettività, che la melanconia spunta ad annullare l'immagine delle passioni e a ritrovare la radice di quei sintomi che la commedia aveva cancellato. Questi attori comici sono la denuncia di un'insostenibile esteriorità del personaggio comico; sono la denuncia di un impossibile ordine introdotto dalla commedia nei sintomi patologici, senza la ribellione dei quali la comicità è solo una forma di controllo e di esclusione. Ed è al di là di questo ostacolo che si salta con il silenzio della pantomima, per tornare a mimare una sintomatologia essenziale. Ma è importante tener presente come giochi la teoria delle passioni, l'inversione dello sviluppo curativo, all'origine di questo nuovo personaggio comico melanconico.


L'umor nero o atrabile.

L'utilità di porre tutta la questione del riso in termini medici deriva dal fatto che anche la proposta bretoniana è fondata su un termine medico. Humour noir non è che un ricalco del greco melancholia, che sarebbe la bile nera o atrabile. Nella quadripartizione della teoria umorale la bile nera corrisponde all'autunno, al freddo e al secco, contrapposta al sangue che corrisponde alla primavera, al caldo e all'umidità. Così il riso sanguigno, di primavera e di fertilità, ha come correlati il calore, la turbolenza e il vino; mentre il suo opposto nega il calore e rifiuta l'umidità del vino. I 2 tipi umani opposti saranno il sanguigno con spiriti sereni, aerei e gioiosi, e il melanconico con spiriti tenebrosi, terrestri e freddi. In Rabelais il medico deve guardarsi dall'essere melanconico, e quindi curare se stesso prima del malato per non contagiarlo per trasfusione di spiriti. Nello stesso tempo la sua cura consiste nel provocare un'espurgazione del morbo attraverso il flusso d'aria del riso, come espansione violenta all'esterno dell'eccesso di un umore. Anche in Montaigne a proposito della collera (la bile gialla) si predilige l'espansione turbolenta all'esterno come forma curativa. Mentre la tristezza (la bile nera) è una passione spregevole: ma è tale e incurabile proprio in quanto non può esprimersi. In ciò la tristezza rientra nei mali estremi, quelli che non possono manifestarsi, ma proprio per questo sono superiori. Le manca la facoltà del linguaggio, e ciò la pone al di là delle passioni da commedia. In un trattato sulla melanconia della fine del 500 Timothy Bright esprime lo stesso concetto di Montaigne, descrivendo il melanconico come mosso si rado all'esplosione dell'ira, ma fermo nei suoi affetti e nei suoi odi. Così si definisce

da un parte   l'idea di un legame tra melanconia e genialità

dall'altra   uno schema della melanconia come forma ritentiva (= che frena, che blocca), il contrario dell'esteriorizzazione del male

Naturalmente le valutazioni sono diverse, al di là di questo schema comune. Lo humour noir bretoniano viene similmente descritto come quel 'modo di provocare il riso, ma senza parteciparvi', senza esteriorizzazione cioè, quindi senza l'espansione all'esterno del sentimento. Anche nei termini il discorso si avvicina a quello tradizionale sulla melanconia, perché l'umor nero deve essere 'impassibile', 'glaciale'. Nei termini metaforici precedenti, l'umore nero corrisponde a tutto ciò che non è flusso, espansione, e inversamente corrisponde a ciò che è ritenzione e introiezione. Secondo Breton, l'umor nero è qualcosa di sublime ed elevato, una 'rivolta superiore dello spirito'; mentre le passioni che si lasciano manifestare 'non sono che mediocri'. Sul motivo di questa diversa valutazione delle passioni la tradizione rinascimentale è ancora il codice a cui ricorrere. Marsilio Ficino spiega gli effetti del ritirarsi in sé come un modo per cogliere le cause ultime della natura: è necessario che l'animo rientri dall'esterno all'interno, al centro di una circonferenza che è anche il centro dell'uomo. E quel centro sarà insieme il centro della terra, da cui egli potrà cercare le cose più singolari e comprendere le più elevate. La concentrazione su se stessi si associa alla concentrazione sulla terra: la terra è l'elemento che secca gli spiriti e genera la melanconia. Da causa, la natura, passa ad oggetto del sapere della melanconia. Melanconia e profondità si associano, così come si associano gioia e superficialità. In queste opposizioni rientrano quelle fra l'esteriorità delle passioni mediocri e l'interiorizzazione delle passioni superiori. Nel ritiro dal mondo del mostro melanconico che viene scacciato dalla gioia, c'è la scoperta di una dimensione che si dissocia dal mondo e soprattutto dal potere politico sul mondo: è la dimensione del sapere.


Il soggetto trascendentale.

La comicità romantica, di cui l'antologia di Breton è la sintesi conclusiva, riprende contatto con questo mito della melanconia. C'è da segnalare come questa linea tradizionale si opponga a quella delle passioni: la tematica delle passioni scorre indietro e si fonda nel problema del controllo politico. Anche nella tragedia le passioni riguardano unicamente quella zona di esteriorità che è la dimensione del potere politico: zona di illusione certo, com'è sempre presentato il dramma delle passioni, ma anche zona di un conflitto di fondo che la nostra cultura fa riemergere ininterrottamente. Al contrario la tematica della sapienza melanconica è distacco dal mondo, un ritirarsi dal mondo che svaluta il conflitto politico per ritrovare le radici più essenziali dei sintomi alla loro origine. La conoscenza dell'origine nello schema moderno diventa la conoscenza dell'origine e trama dell'inconscio: conoscenza della profondità più di ogni altra cosa, secondo cui la superficie porta tracce fuggevoli e mediocri di tracce ben più profonde che solo la complessità dello sguardo scopre. Ecco dunque Breton che rilancia il 'riso senza gravità'. Ma nel mondo moderno tutto si ripropone in termini di sistemi di esclusione e di impegno politico dei miti. La svalutazione delle passioni è una svalutazione politica, che registra una nuova posizione politica del sapere e della comprensione della profondità. L'altro importante descrittore di questo universo del riso romantico è Baudelaire. Egli distingue

una comicità assoluta dei malvagi, dei dannati, dei maledetti    da

una comicità solo significativa (Rabelais e Molière)

La sua linea è molto decisa: il comico assoluto è un'affermazione di superiorità dell'io sul mondo. Il che si associa ad una nozione diffusa di follia e al demonismo. Uno dei segni del comico assoluto è quello di ignorarsi: di manifestarsi con 'la gravità di certi animali' senza occuparsi della propria esteriorità. Lo humour romantico è questa possibilità dell'artista di scomporre e dissolvere tutto ciò che pretende di farsi reale e di acquistare una forma fissa nella realtà o che sembra possederla nel mondo esterno. Queste operazioni si possono compiere solo grazie ad uno sguardo che penetra al di là dell'esteriorità o della superficialità delle cose. Lo humour romantico deve svuotare il soggetto empirico, ridurlo a mito negativo dell'esteriorità mondana, introdurre un nuovo e più radicale sistema di esclusione che lo rilancia al di là delle soglie del sapere e della profondità, farne semplicemente un soggetto da commedia. Tutte le volte che i teorici dello humour romantico parlano del soggetto empirico, lo fanno in termini delle passioni mediocri che si esteriorizzano nel teatro. Per Baudelaire, Rabelais non raggiunge la comicità assoluta perché in lui la pratica terapeutica del riso si mostra solo come la mediocre purificazione di passioni mediocri della commedia. Per Breton quasi tutta la comicità del passato ha in sé un'intenzione satirica, moralizzatrice che degrada lo humour. Il soggetto empirico è colui che piange, che ride e che impreca; il soggetto trascendentale mantiene un dignitoso distacco da queste cadute nell'esteriorità. Il soggetto empirico piange, ride o impreca; ma è solo una marionetta agitata da passioni vane. Il sapere è invece custode dell'interpretazione del destino di questa marionetta; destino i cui segni vanno al di là dell'uomo empirico, e che solo si comprendono a partire dai linguaggi dell'io trascendentale: lo spirito, la storia, l'inconscio, la struttura, ..


I miti d'ascesa.

Bisogna parlare infine di questa equivoca fascinazione che l'individuo civilizzato e sapiente nutre per il giullarismo. Jean Starobinski (Portrait de l'artiste en saltimbanque) ha fatto la storia di questa fascinazione che coincide un po' con la storia della modernità. Prima di tutto c'è la frequenza della scelta del circo, del saltimbanco, del clown come tema artistico e occasione poetica, a partire dai primi decenni del secolo scorso. Il tema del clown nell'età romantica e postromantica in Francia è un'isola di meraviglioso nel bel mezzo della civiltà industriale, un frammento rimasto intatto del paese della fanciullezza che seduce lo spettatore stanco della monotonia dei compiti della vita seria. La cosa importante da notare è che questa tematica nasce quando la grande tradizione occidentale del teatro mimico si è esaurita o è passata a ben altre raffinatezze. Il Théâtre des Funambules è ormai un residuo tutt'altro che comico. Seguendo la composizione di Starobinski emerge che, da Musset a Flaubert, dai Parnassiani a Mallarmé, lo scrittore si riconosce nell'acrobata, nel saltimbanco, nel funambolo, perché queste figure corrispondono ad un mito di solitudine narcisista, o in altri termini visualizzano un culto dell'io superiore a cui l'artista borghese si concede. Ma occorre capire meglio l'atteggiamento storico, le idee e le fascinazioni che sottostanno (tuttora) a questo comportamento. La scelta del circo, del clown, .. è sì, come dice Starobinski, una sfida alla tradizione ufficiale del 'Grand e Beau'; il pagliaccio nella sua desolante stereotipia è sì il resto di uno slancio perduto in cui si cercano le tracce di sintomi e pulsioni che la letteratura non conosce più. Ma tutto ciò è anche e soprattutto un modo per dire un sogno di ascesa dell'arte moderna, come ben esemplificano le esaltazioni dell'acrobata privo di pesantezza. La scalata sociale, l'ascesa spirituale (l'io superiore) e l'elevazione artistica rivestono gli stessi sensi metaforici e forse risentono della stessa motivazione sociale: l'elevazione al di sopra della banalità del mondo borghese, ossia poi l'illusione di un'ascesa al di sopra della propria classe sociale. I 3 motivi si mascherano a vicenda:

la scalata sociale (come mito proprio dell'individuo borghese) si traveste ne

l'ascesa spirituale (come mito proprio della coscienza infelice o della coscienza semplicem)  si traveste ne

l'elevazione artistica (come mito del poeta che assolve a doveri derivanti dalla sua 'vocazione')

Lo humour romantico si basa sull'io superiore, l'io invulnerabile, il soggetto che riordina a distanza l'oggettività senza partecipare al gioco mondano, attraverso uno sguardo più penetrante e soprattutto attraverso quella cosa che si chiama distacco filosofico; ma poi conferma tutto ciò attraverso la sua fascinazione a distanza del giullarismo. Ma nella passione del clown tutto va innalzato. Non c'è tanto dietro la tradizione del mimo da riscoprire, che coincide inevitabilmente con la tradizione del riso basso e sboccato, ma c'è il mimo o l'acrobata come geroglifici di un sublime che solo la letteratura delle classi alte sa cos'è. Naturalmente teso all'anagogia (= interpretazione che tende a scorgere nelle cose terrene un simbolo delle cose divine) per la struttura teologica e drammatica del suo sapere, l'artista borghese sa solo vedere simboli e segni là dove ci sono miserabili cose, poveracci che fanno il loro mestiere. Ci si accorge che la scelta dell'immagine del clown non è solamente la scelta di un motivo pittorico o poetico, ma un modo deviato e parodico di porre la questione dell'arte. È questa riduzione della comicità a forma superiore che da qui in poi fino a Breton farà sì che lo humour compaia come una specie di esperienza letteraria dove non c'è niente da ridere, dove c'è solo da pensare, da meravigliarsi, da comprendere, ma dove non c'è un gesto, una mossa, un trucco che parli dei sintomi del corpo. Perché il mimo comico, basato su:

le impensate posizioni degli arti

il contropiede ritmico

le tecniche di recitazione giullaresca con la voce che va giù a trovare l'eco di pancia o si blocca nel falsetto idiota

la ginnastica della lingua sulle più impossibili dissonanze

l'isterismo del gag che si piazza nei tempi giusti di attese e risposte

le simulazioni di stati-limite del corpo

la fame offuscata

la brama sessuale con la lingua fuori

la gioia escrementale

i gesti magici del maledire

la rabbia dell'intrattabile

tutto questo armamentario di trucchi comici, che è ciò che costituisce alla fine l'unica sopravvivenza della comicità, non è destinato a concludersi in un libro, bensì solo a concludersi o a dissolversi, se non trova un teatro testuale più vasto del libro, e più vasto anche del teatro. Michail Bachtin ci ha aiutato a pensare a questo spazio nei termini del Carnevale: 'il Carnevale è uno spettacolo senza scena e senza divisione in esecutori e spettatori. Nel Carnevale tutti sono attivi partecipanti, tutti prendono parte all'azione carnevalesca. Il Carnevale non si contempla e non si recita, si vive secondo le sue leggi'. Stando a Bachtin il Carnevale diventa l'esatto contrario di come i poeti di fine secolo vedevano il clownismo e gli spettacoli dei giocolieri: non discorso sulla condizione umana riflessa nel tragico cerone del clown ed elevazione al di sopra del disadattamento sociale e corporale, ma discorso del corpo e discesa filosofica oltre la soglia bassa dell'ideologia, nei rapporti fisici violenti di azione e reazione delle drammatizzazioni sociali. Da Bachtin si può ricavare che non si dà mai comicità ascenditiva, ossia una comicità basata su un mito di ascesa; la comicità è naturalmente basata su un mito discenditivo. È su questo punto che bisogna interrogare i giganti buffoni di Rabelais e Folengo, per vedere ciò che la moderna letteratura delle classi alte non hanno saputo cogliere, al fondo, in tutta questa storia del riso.


Il responso dei giganti buffoni.

Quelle 2 epiche della comicità arcaica che sono le opere di Rabelais (Gargantua e Pantagruel) e Folengo (Baldus) si concludono con la discesa nel regno dei morti. In entrambi gli autori questa discesa all'altro mondo non è più opera di uomini-eroi alla scoperta del loro destino di uomini, come nel caso di Odisseo. Qui funziona la regola del limite che Bachtin ha trovato per la letteratura carnevalesca: la concezione del corpo o dell'individuo lontano dal suo stato medio, troppo magro o troppo grasso, gigante o nano, sapiente o pazzo. Pertanto non è il destino la risposta che l'altro mondo darà a questi giganti o buffoni. Si osservi che la necessità classica su cui si regge la figura lineare del destino è concepita come una serie di rapporti logici, tale da permettere un solo passaggio logico alla fine, come nella tragedia. Nell'epica comica, invece, come risultato della catena discorsiva, si ha, con il passaggio finale, un circolo senza soluzioni, o con soluzioni diverse tutte presenti. Qui la follia loda se stessa come unica matrice di verità, dato che la follia è lo stato naturale della vita umana, e dal suo amore di sé e dalla sua presunzione nascono tutte le imprese umane. Emergono così tutti i flussi verbali interpretativi che sono il tessuto più considerevole delle 2 opere, e che riflettono una pratica del discorso puntata più sull'impresa che sull'esito educativo o oracolare. È uno schema produttivo dove la scelta univoca dei termini di verità si disperde nelle infinite divisioni del pensiero. La soluzione è un'ambivalenza che mantiene nel discorso entrambe le possibilità. Nella logica drammatica il segno finale annulla tutti i termini antitetici nell'unico passaggio logico possibile; nell'epica comica il segno finale indica un mantenimento nel discorso di tutte le ambivalenze staccate, ovvero dei suoi contrari. La pratica consiste nel ripercorrere tutti i contrari e mantenerli nel discorso appunto come flusso, crescita smisurata del linguaggio che non approda a nessuna conclusione. Tutto ciò combina il grosso guaio di non permettere più generalizzazioni. Il risultato è di riaprire tutti i temi del discorso continuamente, di far regredire il discorso dall'astrazione al balbettamento descrittivo, di ripresentarlo non nel suo stato perfetto e completo, ma sempre eccessivo o carente, discorso smisurato di rimandi e frammenti, di un eccesso incolmabile che non può mai concludersi del tutto.


Il libro da bere.

In questa cultura il paradosso funziona come uno schema euristico (= relativo alla ricerca) e produttivo: come produttore di separazioni. La tradizione in cui si iscrive questa pratica è

in parte  comica e popolare (come vuole Bachtin)

in parte  teologica ed ermeneutica (= relativa all'interpretazione)

La componente popolare copre tutta una zona che va dai riti carnevaleschi, le feste dei folli e delle organizzazioni comiche, al mito di Cuccagna. Dove si loda tutto ciò che è poco lodevole. In questa tradizione il riso e la comicità si fondano sul gioco delle ambivalenze di una verità conclusiva. Non è un caso se queste produzioni cesseranno di influenzare la letteratura alta a partire dal xvii secolo, dal momento cioè in cui una passione di verità tutta nuova invade i campi del sapere, attaccando la pratica viziosa della retorica e scegliendo come unico criterio quello della logica monopolare. La comicità, che sarà solo quella della commedia, abolisce da sé il paradosso; e allora sarà proprio l'inverso dello schema autoreferenziale la molla del riso: sarà l'inferenza (= passaggio logico) univoca finale che dissolve tutti gli equivoci del linguaggio, l'agnizione (= scoperta della vera identità del personaggio), lo smascheramento ad essere il meccanismo comico per eccellenza. Dall'altro lato, ci sono strette parentele di questa tradizione con quella ermeneutica basata sulla coincidenza degli opposti. Questa è una teologia del logos (= pensiero) dove tutte le differenze si livellano perché attraverso i contrari si esprime un unico logos infinito. Qui il pane della sapienza diventa vino, e il vino si incorpora come forza perché esso ha potere di riempire l'animo di ogni verità, di ogni sapere e filosofia. Le opposizioni del linguaggio o delle cose non sono rilevanti in questa teologia di una verità divina che si manifesta solo oscuramente, nell'ebbrezza dionisiaca e nella perdita della visibilità, e che nessuna definizione univoca può dire, nessuna conclusione del discorso può fissare. Le parole e le cose qui hanno legami essenziali perché nelle parole ci sono elementi sonori simili alle cose. Ed è così che il libro fattosi vino, analogo del vino e del calore espurgativo, parola che si incorpora per la bocca e non per le orecchie, può essere dedicato come terapia. Analogia ultima tra la medicina e una parola eccessiva che cura gli eccessi mimandoli, e dove appunto il segno e il sintomo si sovrappongono in una totale intercambiabilità.


Fantasmi e giganti.

La comicità del paradosso non si fonda sull'io empirico, ma sul corpo sociale in cui si riconoscono tendenze comuni, come l'amor di sé. Queste tendenze comuni a tutti gli uomini, in quanto errori universali, fungono da linguaggio assoluto. È il linguaggio dell'uomo nel suo tragitto sulla terra: solo la morte è la soglia di un diverso linguaggio, di una pienezza dove tutte le vanità crollano. Come dire che la vita è follia e la verità è la morte: non si dà verità o errore specifici del soggetto empirico, che in sé non conta come soggetto, conta come uomo uguale a tutti gli uomini, preso cioè nella follia della vanità mondana. La comicità da commedia è invece un tipico modo di rivelare l'esistenza dell'io empirico con l'indicazione dei suoi errori; l'avaro o il misantropo (= asociale) devono il loro riconoscimento sociale al fatto di non parlare il 'giusto' linguaggio di tutti gli uomini. Virtù speciale della commedia dei caratteri o degli humours questa. Il termine humour viene a definirsi nelle commedie di Ben Jonson, come designazione di un soggetto con una discrasia (= condizione abnorme della composizione di umori dell'organismo); ma se all'origine è il modello dei caratteri di Teofrasto che funziona, la condanna dello humour segnala che scopo della commedia non è di stendere un catalogo di caratteri, quanto di isolare la presenza pericolosa e deviante del soggetto empirico che sbaglia. L'umor nero romantico assume il punto di vista superiore della coscienza assoluta; non si tratta più di distinguere l'errore dal giusto discorso, ma di penetrare in profondità con lo sguardo in zone che al soggetto empirico sfuggono. Il termine humour importato dall'Inghilterra nell'800, si riferisce inizialmente alla pantomima di tradizione italiana, sopravvissuta nel teatro inglese ma scomparsa in quello francese. La contrapposizione tra la comicità sempliciona francese e quella stravagante inglese è un luogo comune nell'800. Il termine humour che per Valéry è intraducibile, non è che il resto di un repertorio da saltimbanchi. Quei saltimbanchi che vengono interpretati dai francesi come giocolieri del sublime, aquile acrobatiche che volano sopra il mondo banale e incarnano un sogno di ascesa alle regioni superiori dello spirito e della società. Humour viene dunque a significare non più un soggetto empirico che sbaglia, ma tutto il contrario: un io trascendentale che vola al di sopra di tutti gli errori e miserie della quotidianità. È sintomatico che il termine passi da qualificazione di un soggetto a designazione di una qualità assoluta, da indicazione di una maschera da commedia a definizione di una tendenza dello spirito. Gli errori della comicità, che sono l'emergenza dei sintomi di una discrasia, non esistono più: è per questo che lo humour non fa più ridere, fa solo fantasticare. La cultura di Rabelais è una cultura ancora dominata da un ritualismo segnino o cerimoniale, che fa sì che l'individuo valga più come esempio di status che come individuo empirico. Ma è proprio la comprensione di Rabelais a partire dalla cultura successiva che ha portato a confondere per 4 secoli la comicità visionaria di Rabelais con quella moderata di Molière, la comicità del paradosso con quella tutta opposta della commedia e dell'agnizione univoca. Solo Bachtin ha saputo ritrovare questi contorni specifici e dichiarare una separazione necessaria dalla comicità successiva. La coscienza infelice evita il delirio, vivendo la frattura che c'è tra un io trascendentale che parla il discorso giusto di tutti gli uomini e un io empirico che campa nell'errore. La coscienza infelice che Breton, attraverso Hegel, pone a fondamento della sua proposta è il repertorio di una sintomatologia nevrotica, dove la struttura si mantiene e si nutre di se stessa con quel tipico ritualismo del narcisismo nevrotico, della malattia che si interiorizza con consenso. È solo con il modello psicotico o schizofrenico che si salta al di là dei segni per arrivare ai sintomi, al di là della logica lineare per recuperare il paradosso, al di là del discorso ben controllato delle passioni sublimi e mediocri, per arrivare allo smisurato delirio.


Nota.

In molti carnevali medievali la Quaresima, nel suo contrasto con Carnevale, compariva col volto nero. Ciò perché la Quaresima si identificava con l'immagine della Malinconia. La follia del Carnevale doveva sconfiggere la Malinconia per riequilibrare un equilibrio terapeutico (come in Rabelais). La Melinconia solo a partire dal 500 prende i significati sublimanti di cui parlo. Ma con il 500 e con la Controriforma avviene anche un altro mutamento. È la Quaresima che comincia a vincere la battaglia rituale con il Carnevale. È come se questo contrasto definisse tutta la storia del rapporto tra cultura popolare e cultura alta. Possiamo dire che dalla Controriforma in qua la cultura europea entra in una fase quaresimale, e la Malinconia prende un'importanza sempre più decisiva. Se tutta questa storia va vista come contrasto (qui riassunto in quello tra giganti buffoni e coscienza infelice), è perché il contrasto è il nucleo della teatralizzazione carnevalesca. L'unico tipo di comicità studiata dai dotti, da Bergson in qua, è quello della commedia; in alternativa a questa comicità della risposta fissa, c'è la tradizione carnevalesca e la tradizione del mimo.




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