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La giustizia nell'età di Pericle

letteratura



La giustizia nell'età di Pericle


I Greci avevano un altissimo concetto della giustizia tanto che la rappresentavano come una dea, di nome Temi. Nei tribunali greci nacquero le prime figure di oratori (avvocati) che, attraverso l'uso della parola, sostenevano civilmente le accuse e le difese.

In Atene la giustizia non perseguiva autonomamente i reati: esisteva infatti la polizia, i cui capi erano gli Undici. Essi facevano arrestare i criminali colti in flagrante e, se confessavano, li sottoponevano alla loro 747f52h pena. Se non confessavano, li deferivano al tribunale. Nelle cause private il processo poteva essere intentato solo da chi si riteneva leso o da un suo rappresentante il quale poteva farsi ascoltare in udienza, avvalendosi del sostegno del "sunhgoros", una sorta di avvocato. Nelle cause pubbliche la denuncia poteva essere sporta da qualunque cittadino. Nel caso di reati che causavano un danno al commercio o alle dogane o alle miniere, coloro che avevano provveduto alla denuncia, nel momento in cui gli accusati venivano riconosciuti colpevoli, ricevevano un premio che ammontava a tre quarti della multa inflitta. A loro volta dovevano versare una certa somma come rimborso delle spese processuali. Il dibattito si teneva solo tra le due parti e si svolgeva, in genere, nell'arco di un giorno.




I TRIBUNALI


Gli Ateniesi avevano un vero e proprio gusto per le procedure giudiziarie e nella città avevano istituito molti tribunali.

Di questi il più importante era l'Areopago, che giudicava i casi di delitto premeditato. Facevano parte di questo tribunale gli ex- arconti, con carica vitalizia. A seconda della gravità del reato, l'accusato riconosciuto colpevole poteva essere condannato a morte, all'esilio o alla confisca dei beni.

Il Palladio trattava invece le cause di omicidio involontario e di istigazione al delitto: poteva condannare all'esilio a tempo determinato.

Il Delfinio si occupava dei casi di omicidio preterintenzionale o legittimo. Sul mare c'era, poi, il tribunale nel quale erano discusse le accuse di coloro i quali, esiliati temporaneamente per omicidio preterintenzionale, si erano macchiati di un altro delitto. Essi, non potendo rientrare in città, presentavano la loro difesa stando su una barca, mentre i giudici sedevano sulla spiaggia.

Infine di fronte al Pritaneo si radunavano i giudici che dovevano condannare criminali ignoti e provvedere alla purificazione del territorio in cui era stato assassinato un uomo.

Tutte le altre cause diverse dai delitti erano giudicate dall'Eliea, emanazione dell'assemblea popolare, divisa in varie sezioni che agivano contemporaneamente. Essa era composta da 6000 cittadini ateniesi incensurati di età superiore ai 30 anni: infatti, ogni anno i nove arconti estraevano a sorte 600 nomi da ognuna delle dieci tribù. Ogni tribunale in cui si suddivideva l'Eliea, poteva avere una giuria o di 501 persone o di 1001 o di 1501 o anche di 2001. I diversi tribunali erano formati con grande precauzione e con cura meticolosa, in modo tale che nessun giudice fosse conosciuto dalle parti in causa. Perciò era stato perfezionato il sistema di formazione delle giurie, messe in atto il giorno stesso della discussione della causa. Una volta chiamati in tribunale, gli eliasti prendevano posto in banchi di legno. Il presidente sedeva in fondo alla sala su un'alta cattedra e aveva il compito di registrare dichiarazioni, prove e testimonianze; accanto a lui sedeva il cancelliere, il quale leggeva l'atto di accusa e la risposta scritta della difesa; di fronte era posta la tribuna dei difensori. Una barriera separava il pubblico dall'area destinata ai giudici. Gli eliasti erano dotati di una tessera di riconoscimento, una specie di carta di identità, sulla quale era inciso il nome del possessore seguito dall'indicazione della sezione dell'Eliea cui il giudice apparteneva. La tessera di identificazione serviva ai giudici per riscuotere, alla fine delle operazioni, il "misqos dikastikos": il gettone di presenza che costituiva una forma di indennizzo per la giornata di lavoro che i cittadini perdevano partecipando alla seduta del tribunale.


IL VERDETTO


Quando l'accusato veniva assolto, l'accusatore, se non aveva ottenuto almeno 1/5 dei voti, doveva pagare una multa e talvolta perdeva anche i diritti civili. Questa pena era stata resa necessaria dal fatto che il sistema giudiziario ateniese favoriva l'iniziativa dei sicofanti, delatori sempre pronti ad accusare chiunque, allettati dal fatto che per la legge ateniese, in caso di condanna dell'accusato, essi potevano anche entrare in possesso di una parte dei beni confiscati.

In caso di condanna dell'imputato si potevano configurare due ipotesi:

la pena era prefissata o perché sancita dalla legge o in virtù di un accordo preliminare tra le parti;

la pena era lasciata a discrezione della giuria: veniva decretata dopo che sia l'accusa che la difesa avevano avuto la possibilità di formulare ciascuno la propria proposta.

Le pene erano di diverso tipo: pecuniarie (il pagamento delle spese, la multa, la confisca dei beni), l'esilio temporaneo o definitivo, la perdita dei diritti civili, la prigione, pene fisiche fino alla morte. La prigione era riservata a coloro i quali erano in attesa di giudizio oppure a chi non era cittadino. Le pene fisiche comminate potevano essere: la flagellazione, la marcatura a ferro rovente, la gogna e altri vari supplizi. C'erano anche pene di stampo antico, quali l'interdizione dalle cerimonie religiose e il divieto di portare ornamenti o la privazione di una tomba o l'iscrizione infamante su una stele. I supplizi erano inflitti fuori della città. Ad ovest dell'acropoli era situato un precipizio da dove venivano dirupati i condannati per sacrilegio o per delitti politici; la lapidazione era, invece, la pena sommaria inflitta ai traditori e agli empi. Il sistema di esecuzione meno crudele consisteva nel permettere che i condannati bevessero la cicuta, veleno che li portava alla morte. Comunque la pena capitale per eccellenza era l'apotumpanismos, che consisteva nella decapitazione o nella bastonatura a morte. 

La guerra nell'età di Pericle


Ad Atene, come in tutte le città greche, la guerra era considerata una questione di pubblica utilità e il servizio militare un dovere, poiché le guerre erano molto frequenti in Grecia. Per questo motivo l'educazione dei giovani era mirata alla preparazione militare. Infatti tutti i ragazzi di Atene iniziavano ad esercitarsi con le armi in giovane età e svolgevano il servizio militare da i diciotto ai sessant'anni, ma agli anziani venivano affidati incarichi poco pesanti, ai ragazzi quelli meno pericolosi. Nei momenti di maggiore difficoltà erano chiamati anche schiavi o mercenari. Il comando dell'esercito ateniese era affidato a dieci strateghi (strathgos,-ou. Nell'età di Pericle venne istituita una retribuzione, con la quale i cavalieri provvedevano al mantenimento della cavalcatura e dell'attendente e gli opliti al proprio sostentamento. L'esercito ateniese, infatti, non aveva un servizio di sussistenza e, pertanto, i soldati dovevano pensare anche a procurarsi il vitto in proprio.


LE ARMI


Le truppe scelte ateniesi erano gli opliti, che costituivano la fanteria pesante. L'oplita (opliths, -ou) doveva possedere la panoplia (panoplia,-as), cioè l'insieme delle armi offensive e difensive. Essa era costituita da: un elmo (kranos,-ous) con copriguance e coprinaso e sormontato dal cimiero, un pennacchio ondeggiante che doveva incutere paura all'avversario; una corazza di bronzo o di cuoio con piastre in metallo (qwrax,-akos) che proteggeva il torace; degli schinieri (sing. knhmis,-idos), gambali di bronzo che proteggevano le gambe dalla caviglia al ginocchio; uno scudo rotondo (aspis,-idos), che poteva raggiungere il diametro di 1 metro, costruito in bronzo o in cuoio con borchie metalliche e decorato con diversi motivi ornamentali; una spada a doppio taglio (xijos,-ous); una lancia (doru, doratos) lunga sei metri, che non veniva scagliata, ma maneggiata per sfondare lo scudo dei nemici. Il peso globale di un'armatura  politica era di circa 80 Kg.

Nell'esercito ateniese giocavano un certo ruolo i cavalieri (ippeus,-ews). Il cavaliere era armato di due lance e una spada curva e anche i cavalli erano protetti da un'armatura.

Atene, quindi, aveva un buon esercito, ma faceva affidamento soprattutto sulla sua flotta. Questa era costituita da un insieme di più triremi ed era comandata da un navarca. La trireme (trihrhs,-ou, imbarcazione a tre file di remi, era una nave molto lunga e stretta che assicurava agilità e rapidità. Essa era costruita in legno di pino, tranne la chiglia che era in legno di quercia, per resistere al trascinamento a terra, e nella parte posteriore si incurvava verso l'alto. Davanti alla chiglia vi era il timone, retto da una barra. I remi erano di lunghezza diversa, secondo l'altezza di ogni livello rispetto al pelo dell'acqua. La trireme, a tutta forza, poteva raggiungere la velocità massima di 7 nodi (circa 13 Km/h). La propulsione era assicurata da circa 170 rematori. L'equipaggio era inoltre costituito da: il keleusths (colui che dà la cadenza ai rematori), che segnava il ritmo con l'aiuto di un suonatore di oboe, una decina di marinai addetti alle manovre e altrettanti fanti di marina (epibaths,-ou) equipaggiati da opliti, il comandante (trierarca), il pilota e il cambusiere.

Un altro ruolo importante nella guerra era quello degli ausiliari, come i corrieri (hmerodromos,-ou) e gli araldi (khrux,-ukos). Un ruolo a sè avevano gli indovini (mantis,-ews), incaricati di trarre gli auspici tramite l'osservazione delle viscere delle vittime sacrificate o di altri segni, al fine di interpretare la volontà degli dei.

LA BATTAGLIA


Al momento della partenza per la guerra i soldati si mettevano in marcia "con armi e bagagli". I bagagli erano piuttosto ridotti, costituiti principalmente da cibo facilmente conservabile, sufficiente per tre giorni: pane, cipolle, aglio, formaggio e olive. Una volta in territorio nemico infatti l'esercito viveva di razzia.

Prima di intraprendere una campagna militare si consultavano degli oracoli per capire se l'impresa avrebbe avuto il favore degli dei o meno. Spesso, però, il responso risultava ambiguo. Inoltre il comandante celebrava un sacrificio innalzando preghiere. Nel corso della guerra, in caso di difficoltà, si ricorreva spesso ai vaticini.

La tattica di guerra era molto semplice: le due schiere si affrontavano in campo aperto. Gli opliti si disponevano in una serie di file parallele che avanzavano in formazione serrata, protette da un'autentica muraglia di scudi e dotate di lance. Così schierati, i soldati dovevano mantenere tale disposizione e seguire il medesimo passo lento e cadenzato, al suono della doppia tibia (flauto), che li incitava alla battaglia e ne scandiva i movimenti. I fanti si spingevano così contro gli avversari ingaggiando una lotta violentissima corpo a corpo, sicchè una schiera riusciva a volgere in fuga quella avversaria con il peso del suo attacco.

Al termine della battaglia si stipulava una tregua per consentire il recupero e la sepoltura dei caduti, poiché era un dovere religioso. I vincitori innalzavano un trofeo (tropaion,-ou, che letteralmente vuol dire "prova della fuga dei nemici") costituito generalmente da armi ammucchiate o appese agli alberi. Le armi però costituivano anche parte del bottino, di cui la decima parte era usualmente consacrata agli dei per ringraziarli della vittoria. Il destino dei vinti era, invece, assai duro: la città sconfitta era solitamente rasa al suolo, gli uomini uccisi o venduti come schiavi. I feriti che sopravvivevano, erano mantenuti a spese dello stato, trattamento riservato anche agli orfani di guerra fino all'età dell'efebia.




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