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Il Romanticismo
Il Romanticismo entra in Italia attraverso la garbata
mediazione di una grande "operatrice culturale", madame de Stäel
(1766-1817). Il suo articolo, esce nel gennaio del 1816 sulla Biblioteca
italiana, periodico milanese promosso e divulgato a cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli italiani ad aprire i propri orizzonti, a
guardare anche alla produzione d'oltr'Alpe e, in particolare, agli sviluppi
della cultura in Inghilterra, Germania e Francia, dove ormai si sta diffondendo
il Romanticismo. Subito si infiamma il dibattito fra i critici della proposta
della Stäel e i suoi sostenitori, come Pietro Borsieri (1786-1852), autore
dell'articolo Intorno all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani
(1816) e Ludovico Di Breme (1780-1820) che scrive Avventure letterarie di un
giorno (1816), ma non man 555c23f cano in primo piano gli amici del Manzoni, come Ermes
Visconti e Giovanni Berchet. Questi, nella Lettera semiseria di Giovanni
Grisostomo (dicembre 1816), elabora il manifesto del Romanticismo italiano. In
tono elegante e vivace polemizza contro i classicisti, che ripetono sempre gli
stessi moduli poetici, imitando i modelli antichi, fanno della poesia mezzo di
diletto, piuttosto che di educazione, ignorano il sentimento, si rivolgono a
una categoria ristretta di "addetti ai lavori".
Invece il Romanticismo propugna un'arte diretta a un ampio pubblico borghese,
mira a riprodurre i problemi degli uomini, calati nella realtà, si propone una
funzione importante, perché vuole educare le menti e i cuori. Anche Alessandro
Manzoni vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto.
Conosciamo le sue idee sul questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo,
inviata al marchese Cesare D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza il suo
consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo l'uso della mitologia, massicciamente
presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura d'evasione,
elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei
classici. Invece l'opera d'arte deve essere educativa, cioè deve aiutare l'uomo
a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo testo Manzoni
elabora una formula che mette a fuoco la sua concezione poetica: l'opera
letteraria ha «l'utile per iscopo, il vero per oggetto e l'interessante per
mezzo».
È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. In nome della Ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana sino al Settecento. I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più imitati, perché l'opera d'arte nasce strettamente congiunta con lo spirito di un'epoca, che è irripetibile. Infine anche la Religione è vissuta in sintonia con il vaglio della Ragione.
L'esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti
culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un grande romantico, nipote di un
grande illuminista, Cesare Beccaria. Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo
porta avanti, senza nasconderlo, un preciso intendimento
patriottico-risorgimentale che emerge dalle pagine del periodico Il
Conciliatore.
È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano,
dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto economicamente dal
conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal conte Federico Confalonieri
(1785-1846), che collaborano anche con interventi redazionali. Lo dirige il
piemontese Silvio Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di
Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi
nomi dell'economia, come Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835)
e Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come il ginevrino Sismonde de Sismondi
(1773-1842), scienziati come il medico-letterato Giovanni Rasori (1766-1837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività
creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però, con attenzione e
partecipazione, condividendone il programma. Il titolo del periodico,
Conciliatore, non è casuale: nasce dall'intenzione di mettere in comune gli
sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed
efficacia, per elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico:
inevitabile, quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che
intervenga l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca
vita al giornale. L'impegno sociale del Conciliatore, che mira alla «pubblica
utilità», istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il
progresso in tutte le branche del sapere (dalla pedagogia all'agricoltura,
dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle loro applicazioni
tecniche), lo pongono sulla linea del Caffè, del quale, peraltro, i
"conciliatori" si considerano eredi e prosecutori.
Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura
italiana. Per esempio, il problema della coltivazione della vite in Toscana non
risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto
basta per indurre l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio
i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo
Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere
asburgico dello Spielberg nel libretto Mie prigioni (1832), che fece grande
scalpore e rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta. Gli anni del
"periodo creativo" del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi
storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce profonde. Il
crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani,
"spazzati via" dalla conquista francese, porta la Lombardia
nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri Paesi
europei, si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che
organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando
l'indipendenza e l'unificazione delle regioni italiane: esprime le sue idee
soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili.
Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante patriottico,
perché non invita all'azione, rappresenta una riflessione sul rapporto fra
l'uomo e la storia. Manzoni introduce il concetto di provvida sventura,
affermando che le sconfitte, come l'esilio di Napoleone, avvicinano l'uomo alla
fede e gli fanno conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza
dell'anima.
Con la scrittura delle tragedie, Il conte di Carmagmola e l'Adelchi, si
rafforzano proprio due concetti che diventeranno il fondamento della poetica
manzoniana: la provvida sventura e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la
tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni offre un vero saggio di metodologia.
Egli sostiene che l'unità d'azione non corrisponde a un singolo avvenimento, ma
a molti avvenimenti, anche lontani nel tempo e nello spazio; essi, però, sono
collegati da rapporti interni (come quello di causa ed effetto). Collante che
garantisce l'unità dell'azione è, per Manzoni, il vero storico ossia rispetto
per i fatti e riproduzione fedele delle caratteristiche dei personaggi, così
come ci sono state tramandate dalla storia e puntualizzate in seguito a una
severa ricostruzione preliminare. Sentiamo l'eco dell'insegnamento dello
Schlegel che costituisce il punto fondamentale della poetica manzoniana: il
rispetto della verità storica è garanzia della validità morale ed estetica
dell'opera d'arte: l'unità d'azione, dunque, nasce dalla capacità dello
scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il senso più alto.
Si noterà anche che non è estranea, soprattutto in quest'ultima implicazione,
la visione religiosa dell'autore.
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