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Un sistema partitico in cerca di istituzionalizzazione: il caso della Polonia post-comunista

sociologia




Un sistema partitico in cerca di istituzionalizzazione: il caso della Polonia post-comunista












Un avvio difficile per i partiti

I partiti est-europei si sviluppano in contesti socio-politici soggetti a trasformazioni ad almeno tre livelli: le transizioni di regime aprono fasi di incertezza che durano anni prima che si sviluppino assetti politici con una fisionomia costituzionale definita; inoltre, una transizione investe anche il sistema economico con lo smantellamento del vecchio sistema di pianificazione e l'avvio di un'embrionale, quanto caotica, economia di mercato; la fine della "sovranità limitata" di stampo sovietico apre infine nuove prospettive di indipendenza e autonomia che rimettono in discussione la collocazione internazionale dello Stato e, in molti casi, la stessa fisionomia dello Stato-nazione e le relazioni tra le sue componenti interne. L'instabilità dei contesti istituzionale e socio-economico finisce per trasmettersi anche ad un'arena partitica che, nella maggior parte dei casi, si forma su una tabula rasa, senza continuità con un passato pre-comunista: una nascita ab initio, che ricorda più da vicino i paesi dell'Europa nel XIX secolo che le nuove democrazie della fine del XX [Lewis 2000, 17 e 32]. A ciò si aggiungono, poi, alcune eredità peculiari dei regimi comunisti. Le nuove formazioni finiscono così, da un lato, per subire le influenze e i condizionamenti di una transizione che riguarda il regime, il sistema economico e spesso anche la forma di stato; e dall'altro lato, pur essendo quasi sempre organizzazioni ancora deboli e poco strutturate, i partiti sono chiamati a svolgere il ruolo di attori protagonisti nella transizione democratica.



Il sistema partitico polacco non fa eccezione a questo quadro. Esso comincia a formarsi alla fine degli anni '80, con la crisi finale del regime comunista. I vari partiti hanno origini diverse: a quelli che nascono dall'attività di opposizione degli anni '80, vanno aggiunti i partiti ereditati dal vecchio regime e quelli che si svilupperanno nel corso degli anni '90. Queste differenti origini, insieme ai primi vincoli determinati dalle nuove istituzioni politiche centrali, peseranno sia sul tipo di struttura, sia sulle condizioni di stabilità del sistema partitico nel suo insieme.

La Polonia costruisce le sue istituzioni attraverso un processo di constitution-building che dura otto anni, dal 1989 al 1997. Nel 1989, a conclusione della "tavola rotonda", si hanno la rilegittimazione di Solidarnosc, il riconoscimento del pluralismo politico, la rifondazione della presidenza della Repubblica e del Senato, la nascita del nuovo parlamento con le elezioni semi-democratiche del 1989 e l'elezione di Jaruzelski a primo presidente della Repubblica. L'arrendevolezza dei comunisti all'interno e il disimpegno sovietico incoraggiano però alcune frange dell'opposizione ad accelerare i tempi e a chiedere l'estromissione del neo-presidente Jaruzelski e l'introduzione dell'elezione diretta del capo dello stato. L'emendamento è approvato nel settembre 1990 e nel dicembre il leader di Solidarnosc Walesa è eletto presidente, senza che a suo sostegno vi sia un'identificabile coalizione di partiti, fatto questo che rappresenterà la vera anomalia e debolezza della sua presidenza. Al presidente la costituzione, così come è emendata nell'aprile e dicembre 1989 e poi nel settembre 1990, assegna vari poteri, tra i quali quello di sciogliere il parlamento se questo a) non è in grado di nominare primo ministro e gabinetto nell'arco di tre mesi, b) non è in grado di varare la legge finanziaria dello Stato, c) si fa protagonista di un'azione mirante ad impedire al Presidente l'esercizio dei suoi poteri in quanto garante degli obblighi internazionali (norma voluta dai comunisti a tutela dei rapporti con l'Urss) [Jasiewicz 1997, 136].

Le circostanze sembrano tutte spingere verso l'affermazione di un presidente forte e questo rallenta la maturazione del sistema partitico. L'elezione diretta fa di Walesa il primo prodotto di una vera competizione democratica, rafforzandone la legittimazione sia rispetto ad un parlamento che nel 1989 era stato eletto con un sistema solo parzialmente competitivo (vedi oltre), sia rispetto a partiti ancora deboli e in via di strutturazione, difficilmente in grado di condizionare il presidente. Infine, la stessa personalità di Walesa andava in questa direzione: tutti e cinque gli anni della sua presidenza sono caratterizzati dalla sicurezza di avere il sostegno plebiscitario dei polacchi e da un atteggiamento di fastidio nei confronti dei partiti. Ciononostante, i primi conflitti tra presidente e parlamento non si risolvono affatto con un rafforzamento del primo: sul sistema elettorale delle elezioni 737g63h del 1991, per esempio, prevarranno i favorevoli all'adozione di un sistema proporzionale, contro Walesa che avrebbe voluto invece un sistema misto.

La "Piccola Costituzione" del 1992 Bartole 1993; Wyrzykowski 2001 conferma l'elezione diretta del capo dello stato e alcuni suoi poteri significativi: iniziativa legislativa; esercizio del potere di veto superabile con un voto a maggioranza di due terzi del Sejm; potere di scioglimento del Sejm se questo non approva una legge di bilancio entro tre mesi della sottomissione della legge finanziaria da parte del governo. Inoltre, esistono i cosiddetti i "ministeri presidenziali" (Esteri, Interni e Difesa), i cui titolari possono essere nominati solo con il consenso del presidente. Primo ministro ed esecutivo sono soggetti al voto di fiducia del parlamento.

Attriti tra presidente ed esecutivo continuano anche dopo le elezioni legislative del 1993, con le quali prevale una maggioranza di sinistra e s'inaugura la fase della coabitazione. La posizione di Walesa s'indebolisce ulteriormente Jasiewcz 1997, 157 , anche per l'assenza di una forza parlamentare che lo sostenga e il fallimento di ogni tentativo di costruirne una di peso. Nel 1995 perde le elezioni presidenziali e la costituzione del 1997 formalizzerà lo "scivolamento" del sistema polacco verso il parlamentarismo. La sconfitta di Walesa contribuisce a ri-bipolarizzare la politica polacca e prepara la riunificazione del centrodestra due anni dopo Jasiewcz 1997 . Il varo della Costituzione nel 1997, con voto del parlamento il 2 aprile e referendum popolare il 25 maggio, segna la fine di un percorso difficile, iniziato nel 1993 e proseguito tra le critiche dei partiti eredi di Solidarnosc e della Chiesa. La bozza finale è un compromesso, ma i risultati del referendum sono tutt'altro che esaltanti per il governo: la costituzione è approvata dal 53% dei votanti ma, avendo votato appena il 42,8 % degli aventi diritto, la percentuale di coloro che l'hanno espressamente approvata è poco più del 22%.


Partiti ed elezioni

Al contrario di altri paesi della stessa area (per esempio la Romania e, in parte, anche l'Ungheria), in Polonia una parte dei partiti ha origine nei movimenti e nelle organizzazioni che hanno operato in clandestinità in opposizione al regime comunista: Solidarnosc innanzitutto, con le sue varie ramificazioni organizzative, ma anche le formazioni del dissenso intellettuale che ebbero nel KOR (Comitato per la difesa degli operai) una delle prime organizzazioni protagoniste fin dagli anni '70, nella quale si sono formati alcuni degli esponenti storici della nuova classe dirigente democratica polacca.

La nascita del sistema partitico si fonda sulla polarizzazione iniziale tipica di tutti gli Stati post-comunisti, sintetizzabile nella formula dell'intellettuale dissidente Adam Michnik [1993] "noi e loro". Le elezioni semi-competitive del 1989 perpetuano e trasferiscono, finalmente sul piano elettorale, la contrapposizione tra comunisti e anti-comunisti. Il sistema elettorale adottato fu il frutto di un compromesso fra i protagonisti della Tavola rotonda. Inoltre, risentì del fatto che la Polonia era il primo paese dell'area ad imboccare il percorso di uscita dal comunismo. Il compromesso ristabiliva due Camere, delle quali il Senato (100 seggi) era formato da due rappresentanti per ogni Voivodato (province), e tre per Varsavia e Katowice, eletti liberamente con un sistema maggioritario a doppio turno. Del Sejm (camera bassa), invece, fu messo in competizione solo il 35% dei seggi, mentre il restante 65% rimase riservato al vecchio partito unico, facendo di nuovo uso del doppio turno in 108 collegi da due a cinque seggi. I risultati (la schiacciante vittoria di Solidarnosc che si aggiudica tutti i seggi messi in competizione) confermano la natura bipolare del sistema, ma le divisioni in merito alla candidatura di Walesa alla presidenza nel 1990 segnano una prima svolta nel sistema partitico polacco.

La spaccatura tra l'anima populista (Walesa) e quella liberale (Mazowiecki) porta, con le elezioni libere del 1991, alla formazione di almeno sette partiti che si proclamano continuatori di Solidarnosc: Unione democratica (UD), Azione cattolica (WAK), Alleanza civica di centro (PC), Congresso liberaldemocratico (KLD), Alleanza contadina (PL), Solidarnosc lavoro (SP), Sindacato Solidarnosc ((NSZZ). La proliferazione dei partiti in queste elezioni è anche il frutto di una normativa molto blanda, che richiedeva appena quindici iscritti per la registrazione formale di un partito, e di un sistema elettorale per la camera bassa proporzionale e poco selettivo. Questo prevedeva, infatti, 391 seggi su 460 distribuiti in 37 circoscrizioni a scrutinio di lista (formula Hare-Niemeyer), senza soglia di sbarramento e con voto di preferenza, mentre i restanti 69 erano assegnati al collegio nazionale (formula Sainte Laguë), l'accesso al quale era subordinato alla conquista di seggi in almeno cinque circoscrizioni o del 5% dei voti. I senatori, invece, erano eletti in collegi bi- o tri-nominali col plurality system [Webb 1992]. 

Il risultato fu che in Polonia si formarono all'inizio del 1991 un centinaio di partiti; che circa 75 si registrarono formalmente [Lewis 2000, 41]; e che il parlamento scaturito dalle elezioni risultò fortemente frammentato. Furono rappresentati nel Sejm 29 partiti, di cui 11 con un solo seggio, e solo due raggiunsero il 12% dei voti; si formarono 18 gruppi parlamentari; inoltre, i quattro principali partiti non raggiungevano il 50% dei seggi (tabella 1). L'esordio della Polonia democratica non era dei migliori: per fare il primo governo ci vollero oltre due mesi e nei primi sette mesi si alternarono tre primi ministri, ogni volta a capo di coalizioni prive di una reale maggioranza politica e programmatica.

La quasi altrettanto frammentata composizione del Senato non scagionava del tutto la legge elettorale dall'accusa di essere la causa principale, anche se non unica, di tale frammentazione: gli effetti selettivi prodotti dalla riforma elettorale del 1993 dimostrano, infatti, che la legge super-proporzionale del 1990 per la camera bassa finiva per avere un effetto di trascinamento anche sui partiti rappresentati al Senato[1]. Da questo momento in poi, il sistema partitico polacco sarà caratterizzato da un'evoluzione asimmetrica. Da una parte, la trasformazione ideologica e organizzativa, salvaguardando però gran parte dell'organizzazione precedente, del vecchio Partito operaio unificato (SLD) e dell'ex satellite Partito contadino (PSL) che, di fatto, saturano lo spazio politico della sinistra e ne consolidano l'offerta politica. La trasformazione del partito unico comunista nella nuova Alleanza della sinistra democratica appare assai profonda. La continuità nella membership viene interrotta (ai vecchi iscritti è richiesta la re-iscrizione) e la nuova struttura si articola integrando varie altre organizzazioni. Dal punto di vista dell'ideologia, poi, la rottura col passato è netta. Il nuovo partito proclama la propria adesione all'economia di mercato e si dichiara a favore dell'entrata della Polonia nella Nato e nella Ue [Pisciotta 2005 e bibliografia ivi].

Dall'altra parte, invece, inizia nel centrodestra una fase d'instabilità, di dinamiche centrifughe, di ostilità personali e di forte competizione interna. Una volta realizzato che il vecchio cemento anticomunista non basta più a fare un programma di governo, le diverse anime interne al glorioso sindacato (cattolica, liberale, nazionalpopulista, socialdemocratica, ma anche operaia, agraria, borghese, intellettuale) trovano fin da subito notevoli difficoltà a collaborare. Inoltre, un'endemica cultura anti-politica e anti-partitica, ereditata dalle lotte degli anni '70 e '80 [Smolar 1998] e di cui Lech Walesa si fa portatore anche dallo scranno di presidente della Repubblica, toglie spazio ad ogni serio tentativo di costruire un moderno partito popolare e conservatore in grado di rappresentare stabilmente una sintesi degli orientamenti del centrodestra. L'assenza di un chiaro progetto di partito, la trascuratezza verso ogni forma di organizzazione e verso l'istituzionalizzazione dei canali di finanziamento sono gli effetti più immediati e visibili di questo approccio alla politica dei partiti eredi del movimento anticomunista.

La fine di Solidarnosc avvia così una fase fluida che, nel corso del 1992-93, vedrà il continuo avvicendarsi di fusioni, scissioni, scomparse di partiti e nascita di nuovi, seguendo percorsi spesso tortuosi e difficili da ricostruire, che muteranno a più riprese la fisionomia dei gruppi parlamentari nelle due camere fino alle elezioni del 1993. Un effetto di questa fluidità del sistema partitico è anche la scarsa stabilità dei governi e dei primi ministri: tra le elezioni "critiche" del giugno 1989 e quelle del 1993, la Polonia ha avuto sei primi ministri [Wiatr, 1996, 107].

A correzione del sistema del 1991, si vara un nuovo sistema elettorale per il Sejm (al Senato resta il plurality), sempre proporzionale, ma assai più selettivo. Si introducono poi circoscrizioni più piccole, che aumentano da 37 a 52, la formula d'Hondt e clausole di esclusione del 5% per i singoli partiti e dell'8% per le coalizioni di due o più partiti, nonché una clausola del 7% per l'accesso al riparto dei seggi su base nazionale. Anche per questo le elezioni del 1993 avviano una prima fase di stabilizzazione che troverà, però, un'ulteriore battuta d'arresto alle elezioni del 1997, con il riaccorpamento dei partiti eredi di Solidarnosc e la loro vittoria sugli ex comunisti. Ma le diverse anime di Solidarnosc non riusciranno a conservare a lungo la collaborazione e torneranno a scindersi prima delle elezioni del 2001.

Ulteriori modifiche al sistema elettorale polacco sono introdotte nel 2001: viene eliminato il livello di attribuzione dei seggi su base nazionale, rendendo tutti i 460 seggi del Sejm direttamente eleggibili dalle circoscrizioni; aumentano le dimensioni delle circoscrizioni (che passano da 52 a 41); la formula D'Hondt per la distribuzione dei seggi è sostituita da quella Sainte Laguë della media più alta [Ka-lok Chan 1995; Nikolenyi 2004].


TABELLA 1 CIRCA QUI


I risultati delle elezioni del 2001 sono significativi per almeno tre ragioni. La prima è che la coalizione di sinistra, formata questa volta dall'Alleanza della sinistra democratica (SLD) e dall'Unione del lavoro (UP), torna a vincere guadagnando oltre 50 seggi, pur senza riuscire a conquistare la maggioranza assoluta in parlamento. La seconda è che i vincitori delle elezioni del 1997 (AWS e UW), logorati dalle scissioni, non raggiungono nemmeno la soglia di esclusione prevista dal nuovo sistema elettorale che essi stessi avevano elaborato e che non ha funzionato secondo le modalità previste; l'unico obiettivo raggiunto era quello di privare la sinistra della maggioranza assoluta dei seggi, ma con ciò contribuiscono solo all'aumento dell'instabilità. La terza ragione, infine, è che le elezioni del 2001 imprimono un forte rinnovamento della classe politica parlamentare, composta per il 62,4% da neo-eletti e, ancora una volta, al sistema partitico [Millard 2003, 82]. Principali espressioni di questo mutamento sono i quattro nuovi partiti entrati in parlamento, dei quali tre collocati sulla destra conservatrice e/o nazionalpopulista:

Piattaforma civica (PO), partito di centrodestra formato da un gruppo di scissionisti dell'AWS e dell'UW (che a sua volta era nata nel 1994 dalla fusione dell'UD con il KLD), su posizioni liberalconservatrici, pro-mercato e con qualche pulsione anti-partitica (al punto da definirsi come "gruppo di elettori" più che un partito vero e proprio) [Millard 2003];

Autodifesa (SRP), una formazione radicalpopulista difficilmente collocabile sul continuum sinistra-destra, con connotazioni carismatiche, formatosi attorno al leader Andrzej Lepper (personaggio assai controverso) e che assumerà un orientamento euroscettico;

Diritto e Giustizia (PiS), su posizioni di destra, affonda le radici nelle formazioni pro-Walesa degli anni '90, diviene membro dell'AWS, quindi attrae gruppi di scissionisti sia dal Partito conservatore popolare (SKL) che dall'Unione cristiana nazionalista; la popolarità del partito cresce grazie al leader Lech Kaczynski, noto per le sue vibranti battaglie contro la corruzione e la criminalità, divenuto poi ministro della Giustizia, quindi eletto recentemente presidente della Repubblica, mentre il fratello gemello Jaroslaw, diviene prima capo del partito, poi primo ministro ricevendo l'incarico dal fratello Lech;

la Lega delle famiglie polacche (LPR), infine, aggrega varie piccole formazioni accomunate sia dalla delusione verso i partiti che avevano dominato la politica negli anni precedenti, sia da orientamenti nazionalisti e clericali il cui leader Padre Tadeusz Rydzyk è molto vicino all'emittente cattolica integralista Radio Maryia.

Saranno proprio questi quattro partiti (specialmente PO e PiS) a vincere le elezioni del 2005, segnando forse il tramonto definitivo dell'era Solidarnosc. La loro affermazione, insieme al forte astensionismo (vota appena il 46,2% degli elettori), significa l'entrata in parlamento di formazioni con personale politico nuovo (il gruppo di SRP al Sejm è quasi interamente composto di deputati privi di esperienze parlamentari precedenti), ma ancora una volta divise e poco coese, difficilmente capaci di esprimere coalizioni di governo più stabili ed efficienti. Ne sono una prova le lunghe trattative per la formazione del governo, sfociate alla fine in un governo del PiS, con l'appoggio esterno dei due partiti più estremisti LPR e SRP e l'opposizione di PO.

Assai più stabili, invece, appaiono i due partiti della sinistra. L'Alleanza della sinistra democratica, che da coalizione di vari partiti e movimenti comprendente gli ex comunisti si era poi strutturata in partito vero e proprio nel 1999, si allea alle elezioni del 2001 con l'Unione del lavoro. E' vero che questo partito subisce un vero e proprio crollo alle elezioni 2005 (quasi il 30% di voti in meno), ma è anche vero che una sua scomparsa e sostituzione a sinistra al momento non sembra probabile. Non che siano mancate, anche su questo versante, scissioni e dissensi interni. Nel marzo 2004, infatti, si è verificata una scissione di un gruppo di parlamentari, per dissensi dovuti ai numerosi episodi di corruzione che avevano caratterizzato la vita del governo di centrosinistra. La nuova formazione che ne scaturisce (Socialdemocrazia polacca, SdPl) toglie l'appoggio al governo Miller (che poi si dimetterà) e si presenta da sola alle elezioni europee del 2004 e alle politiche del 2005, ma fallisce nell'intento di soppiantare il ruolo dell'SLD: otterrà, infatti, 3 seggi alle prime, con il 5,3% dei voti, ma non riuscirà a superare la clausola di esclusione alle seconde (appena il 3,9% dei voti). Meno rilevante poi, anche se pur se pur sempre una presenza costante, è il Partito popolare (ex partito contadino), solitamente alleato della SLD, che mantiene nel corso degli anni una percentuale di voti oscillante tra l'8% e il 15%.


Il sistema partitico: le dimensioni dell'instabilità

Le oscillazioni elettorali costituiscono l'espressione più visibile della fluidità dei partiti polacchi e sono misurabili attraverso la volatilità elettorale. Su questo punto, già da tempo si va osservando Mair 1997, 182; Lewis 2000, 85 (tabella 2) come le elezioni di tutti i paesi est-europei presentino percentuali di volatilità totale mediamente superiori a quelli di altri blocchi di paesi neo-democratici (Italia e Germania negli anni '50; Grecia, Spagna e Portogallo negli anni '70) nelle loro prime elezioni democratiche.

Inoltre, è possibile notare che mentre negli altri paesi europei neo-democratici il sistema partitico, dopo una o al massimo due elezioni, tende ad assestarsi e a "congelarsi", nel caso dei paesi est-europei, rotazioni al potere, oscillazioni elettorali e riallineamenti partitici imprimono quasi ad ogni elezione un carattere rifondativo. E anche in Polonia questa fase di instabilità tende ad accentuarsi e a prolungarsi rispetto ad altre esperienze post-autoritarie. La volatilità totale media misurata per le elezioni che si tengono tra il 1991 e il 2005 è una delle più alte nell'area e raggiunge il 40,6%. Valori così alti non si ottengono solo quando ad ogni elezione si verifica la sconfitta della coalizione di governo, ma anche quando vi è un intenso fenomeno di alternanza tra partiti che scompaiono e nuovi partiti che si affermano elettoralmente (vedi tabella 1). In questo senso, le elezioni più rifondative sono quelle del 1991 (la prima veramente competitiva), del 1993 e del 2001, nelle quali, ogni volta, si verifica un rinnovamento totale dell'offerta partitica del centrodestra; nel 1993 e nel 2001, poi, si ha anche una sconfitta netta per la maggioranza di governo. Se poi dalla volatilità totale passiamo a misurare quella di blocco, i valori relativi al centrodestra sono oltre il doppio di quelli del centrosinistra. In tali condizioni, non c'è da stupirsi dell'instabilità dei governi: tra il 1991 e il 2003 si contano 9 governi con una durata media di 15 mesi scarsi [Müller-Rommel, Fettelschloss & Harfst 2004, 874-877].

Un fenomeno diverso, ma che costituisce sempre una manifestazione della debolezza partitica e di un mercato politico ancora incerto e aperto, è quello della mobilità interpartitica tra i candidati parlamentari. Tale fenomeno, denominato come "nomadismo istituzionale" o "turismo politico", conosciuto anche in altre esperienze, è documentato in un saggio di Shabad e Slomczynski [2004], i quali si concentrano sulla Repubblica ceca e sulla Polonia confrontando le elezioni del 1990, 1992, 1996 e 1998 per la prima e del 1991, 1993 e 1997 per la seconda. Esso consiste nell'alta frequenza con cui singoli parlamentari abbandonano il loro partito di origine per aderire ad altri partiti o per formarne di nuovi. Nei dati conclusivi riportati dai due autori, tenendo presente che essi riguardano solo quei candidati che avevano già partecipato alla precedente competizione elettorale, si rileva che: a) in Polonia i candidati che cambiano partito rispetto all'elezione precedente sono l'8% e il 14% alle elezioni del 1993 e del 1997; e che b) tra questi è in crescita il numero di coloro che cambiano partito volontariamente, cioè non costretti da un qualche evento che ha strutturalmente modificato l'offerta partitica (scissioni, fusioni, scomparse di partiti, ecc.).

Le dinamiche elettorali sono, infine, caratterizzate da un forte astensionismo. I dati sono riportati nella tabella 2 e nella figura 1 [Kostadinova 2003]. Il fenomeno non pare legato a qualche fatto contingente, ma è abbastanza stabile nel corso di tutto il quindicennio; inoltre, raggiunge un picco notevole con le elezioni per il Parlamento europeo del 2004. Anche escludendo queste ultime, che sono elezioni del tutto particolari, la Polonia è il paese con i valori medi più alti di astensionismo: tra il 1990 il 2005 sceglie di non votare una media di quasi il 53% degli elettori, una percentuale largamente al di sopra di quella di tutti gli altri paesi dell'Europa orientale, baltici inclusi.


TABELLA 2 E FIGURA 1 CIRCA QUI


Come si vede, volatilità elettorale, "nomadismo" politico e astensionismo sono fenomeni in parte riconducibili ad una stessa origine. Lo scarso radicamento dei partiti nella società e il non sempre chiaro ancoraggio ad interessi organizzati rendono più deboli sia la relazione fra elettore e partito, sia l'identificazione partitica, e meno "costosi" comportamenti come il cambiamento del proprio voto o la rinuncia ad esso, o il passaggio degli eletti da un partito all'altro. Al contrario, quando i partiti sono solidamente ancorati ad interessi presenti nella società, crescono le probabilità che essi possano contare sul sostegno continuo e duraturo di uno "zoccolo duro" di elettori identificati che mantengono la loro opzione di voto anche nei momenti di maggiore delusione nei confronti della politica. Altri indicatori di debolezza partitica sono, poi, la forte personalizzazione della politica, la diffusione di una cultura spiccatamente anti-partitica e la carenza o debolezza dell'organizzazione, tutti aspetti in qualche modo connessi tra loro.

L'affermazione di candidati che si fanno apprezzare più per il loro carisma personale che per il partito di appartenenza è un sintomo abbastanza tipico della debolezza partitica: i candidati si presentano con forti caratteri anti-partito, i partiti preferiscono definirsi "movimenti" o "associazioni di elettori", le campagne elettorali si concentrano sulla persona del candidato o del leader partitico, piuttosto che sul programma del partito. Nelle prime elezioni presidenziali, ambedue i candidati ammessi al ballottaggio (Walesa e Tyminski) non facevano mistero della loro ostilità verso i partiti.

La scarsa considerazione tra i cittadini di cui sembrano godere i partiti è stata ampiamente documentata, fin dai primi anni dopo la fine del vecchio regime autoritario. Basti richiamare i dati riportati da Linz e Stepan [2000, 97-98], relativamente a sondaggi condotti nella prima metà degli anni '90, con i quali la Polonia si collocava ai livelli più bassi sia nella percentuale di risposte che esprimevano una vicinanza a qualche partito o movimento politico, sia nella percentuale di risposte dichiaratamente favorevoli ad un sistema multipartitico. Addirittura, nel dicembre 1995, il 65% degli intervistati affermava di non sentirsi rappresentato da alcun partito [Kubiak 1999]. In sostanza, una percentuale oscillante tra il 30 e il 40%, ben al di sopra di quelle di altri paesi europei, esprime in modo esplicito una chiara ostilità verso i partiti nel loro complesso.




Organizzazione e strategie elettorali

Anche le dimensioni organizzative (struttura interna, penetrazione nel territorio, nazionalizzazione, membership) ci forniscono informazioni circa il grado di stabilizzazione dei partiti e ci aiutano anche a ricostruirne le strategie di massima e l'elettorato di riferimento. Come negli altri paesi dell'Est, anche in Polonia i nuovi partiti degli anni '90 si affermano come partiti di élite [top-down parties: Mair 1997, 183] e poi come formazioni prevalentemente di origine parlamentare. Inoltre, non perseguono il fine di un forte sviluppo organizzativo, capillare e a livello di massa. Questi caratteri s'impongono nel corso degli anni '90 e sono il prodotto del tipo di competizione che si afferma in seguito alla democratizzazione. Essi finiscono per caratterizzare sia i partiti eredi del vecchio regime (che pure mantengono elementi della vecchia organizzazione), sia Solidarnosc, una volta che al vecchio movimento sindacale si sostituiscono, a causa delle divisioni interne e delle scissioni, i vari partiti e partitini parlamentari che se ne proclamano eredi.

Un partito fortemente e capillarmente strutturato offre uno scenario di stabilizzazione assai più efficace di un partito "leggero"; tuttavia è anche vero che un partito, per essere stabilizzato, non ha bisogno, come condizione necessaria, di una forte organizzazione: la stabilizzazione si manifesta anche con la stabilità elettorale nel tempo e con il radicamento dei consensi elettorali. La scarsa stabilità dei partiti est-europei (e conseguentemente, date le dimensioni del fenomeno, dei sistemi partitici all'interno dei quali si collocano) diviene evidente osservandone l'evoluzione da una prospettiva comparata nei circa quindici anni di democrazia. Tale evoluzione è il frutto di fattori ambientali: un quadro complessivo di instabilità, che include la statualità, i rapporti centro-periferia, la collocazione internazionale, il sistema istituzionale, le leggi elettorali, non può che trasferire tale stato anche ai partiti. La tripla transizione costringe, inoltre, i sistemi politici post-comunisti ad un vero e proprio stress decisionale, obbligandoli ad un sovraccarico di decisioni concentrate nel tempo che accrescono la portata della posta in gioco, mantengono una competizione aperta e accentuano i caratteri di conflittualità e di straordinarietà della lotta politica [Mair 1997].

Il debole radicamento dei partiti in una società civile in via di formazione e il ripudio del modello organizzativo del vecchio partito unico spiegano poi i pochi iscritti e la scarsa priorità ad uno sviluppo organizzativo capillare. Sappiamo da tempo come in tutti i paesi europei gli iscritti ai partiti siano in declino, sia in cifre assolute che in percentuale rispetto all'elettorato [Mair e Van Biezen 2001, 11].  E se gli Stati est-europei fanno parziale eccezione a questa tendenza generale è solo perché il confronto è fatto con gli inizi degli anni '90, quando i partiti si stavano formando e il reclutamento degli iscritti (almeno per i partiti non comunisti) era agli inizi. Resta comunque il dato che, a distanza di dieci anni dall'avvio della transizione, le percentuali di iscritti rispetto agli elettori, relativi, per esempio, a Slovacchia, Repubblica ceca, Ungheria e Polonia sono tra le più basse [Mair e Van Biezen 2001, 9 e 15-16].

Nell'ultimo paese, poi, la percentuale di iscritti ai partiti è la più bassa in assoluto (1,15%) e l'obiettivo dichiarato da tutti i partiti è quello di attrarre elettori, non iscritti. Inoltre, sempre in Polonia, gli iscritti ai nuovi partiti tendono a essere concentrati soprattutto nelle aree urbane: in quelle rurali l'unica formazione in grado di assicurare una qualche presenza è il Partito contadino, che alla metà degli '90 è quello che denuncia il maggior numero di iscritti (190.000, tre volte quello del partito ex comunista, al secondo posto) [Gebethner 1996, 130]. In terzo luogo, sia per quanto concerne la membership, che l'organizzazione e le infrastrutture locali (uffici, comunicazioni, personale stipendiato, ecc.), emerge un forte vantaggio dei partiti eredi del regime comunista (partito post-comunista e Partito contadino) rispetto a quelli nati nel periodo post-comunista: i primi, grazie probabilmente alle strutture ereditate, sono assai più organizzati e con più iscritti [Szczerbiak 1999a, tab. 1 p. 526-7], anche se la loro struttura ricorda solo da lontano il tradizionale partito burocratico di massa con organizzazione di "sezione" su base territoriale.

Data la scarsità della membership (che non produce, quindi, un grande gettito economico) e dato anche il fatto che l'organizzazione locale non riceve - salvo l'eccezione del Partito contadino - risorse dall'apparato centrale del partito, molte delle risorse locali provengono dai parlamentari e dai loro uffici (staff, attrezzature informatiche, ecc.). Solo in parte ciò si ripercuote sui processi decisionali interni: anche se alcuni partiti appaiono più centralizzati di altri (sicuramente Alleanza della sinistra democratica e Partito contadino), un certo grado di autonomia è lasciato alle strutture locali, anche se l'ultima parola è sempre di quelle centrali. Sintomatico il processo di selezione delle candidature: avviato su base locale, esso si conclude generalmente con una decisione finale presa dalla leadership centrale del partito [Szczerbiak 1999a, tab. 1 p. 527].

Com'è noto, un provvedimento che favorisce la stabilizzazione dei partiti, e in parte anche del sistema partitico, è quello relativo al finanziamento pubblico, che può assumere varie forme, dal rimborso di spese elettorali e dall'attribuzione di risorse ai singoli parlamentari e ai gruppi parlamentari fino alla diretta elargizione di somme periodiche al partito. Fino al 1997 il finanziamento dei partiti in Polonia consisteva soprattutto nel rimborso parziale delle spese elettorali, con cifre piuttosto modeste se si tiene conto che il partito vincitore delle elezioni del 1993, l'Alleanza della sinistra democratica, percepì appena l'equivalente di 1,4 milioni di dollari, e che il partito più piccolo, il Blocco non partitico per il sostegno alle riforme (BBWR), percepì l'equivalente di appena 119.000 dollari [Lewis 2000, 109). Per alcuni partiti, tuttavia, i rimborsi statali delle spese elettorali finiscono per costituire la parte più cospicua del proprio bilancio: non si hanno molte informazioni in proposito, ma secondo dati ufficiali riportati da Lewis [1998, 139 e 144], nel 1994 i contributi statali all'Unione del lavoro (UP), una formazione medio-piccola, rappresentavano oltre l'80% del bilancio del partito[2]. Forme statali di finanziamento affluiscono in molti modi e manca ancora una chiarezza completa su questo aspetto. Finanziamenti arrivavano anche ai gruppi parlamentari: nel 1995 la SLD percepiva quasi quattro milioni di dollari, oltre tre milioni il PSL e un milione e 500 mila la UW. La legge del giugno 1997 stabilì poi di attribuire un regolare finanziamento a tutti quei partiti che avevano ottenuto almeno il 3% dei voti. Come dimostreranno le vicende successive, la crescita dei finanziamenti statali ai partiti non ha influito molto in direzione di una loro maggiore stabilità e istituzionalizzazione.

Scarso sviluppo della membership e dell'organizzazione, nonché la tendenza alla centralizzazione interna spiegano uno sviluppo lungo le linee del partito pigliatutto o elettorale professionale, anziché lungo quelle del partito burocratico di massa [Szczerbiak 1999a; Mair e Van Biezen 2001]. Si tratta, in sintesi, di partiti con un'organizzazione ridotta all'essenziale, spesso caratterizzati in senso carismatico (un partito carismatico non ha bisogno di una grande organizzazione), sostanzialmente protesi alla preparazione di campagne elettorali che costituiscono l'obiettivo principale della loro attività e nel corso delle quali si affermano come essenziali l'uso e il controllo dei mass media e la capacità di attrazione dei candidati. L'attaccamento e la lealtà di candidati ed eletti al partito, poi, è ampiamente strumentale e dura finché questo è percepito come un canale efficace di reclutamento e di promozione politica.

In altre parole, se si guarda ai modelli organizzativi dei partiti dell'Europa centro-orientale ci si rende conto di come la fase del partito burocratico di massa (centralità della burocrazia interna, sviluppo della membership, finanziamento attraverso il tesseramento, predominio dei dirigenti all'interno, ideologizzazione) abbia per lo più coinciso con quella del partito unico. Esaurita questa fase, era abbastanza improbabile che essa si ripresentasse in uno scenario di pluralismo partitico. L'organizzazione capillare sul territorio, l'accento sugli iscritti, l'ideologia pervasiva, la burocrazia interna ricordano troppo da vicino l'esperienza comunista per essere riproposti dopo. La rinascita dei partiti avviene inoltre in un'epoca in cui la politica va cambiando ovunque: l'attenuazione delle identità di classe, l'indebolimento dei legami organizzativi verticali, la sostituzione del militante volontario col professionista, l'importanza della televisione, la personalizzazione e l'attrazione esercitata dai candidati che caratterizzano le nuove modalità di condurre la propaganda politica sono tutti caratteri che si diffondono anche nelle nuove democrazie. Il partito professionale elettorale, a suo tempo elaborato da Panebianco [1982, 481], magari con alcune differenziazioni interne che producono taluni sottotipi, nella forma di partiti "pigliatutto", partiti "programmatici" e partiti "personalistici", a seconda che si enfatizzino le potenzialità aggregative, quelle identitarie o quelle legate alla personalità dei leader [Gunther e Diamond 2003], sembra oggi essere la categoria più adatta per descrivere i partiti polacchi ed est-europei in genere.


Nuovi partiti, vecchie e nuove linee di frattura

Molti autori hanno spiegato i più alti livelli di volatilità elettorale nei paesi post-comunisti con il fatto che i partiti sono assai meno ancorati alle divisioni e alle fratture della società di quelli dei paesi occidentali: essi, piuttosto, "galleggiano" sopra la società [Elster, Offe, Preuss, ], senza vincolarsi ad un solido sistema di fratture sociali. Naturalmente, non mancano differenziazioni sociali rilevanti, ma la maggiore fluidità della struttura della società e la debolezza delle lealtà e delle identità sociali rendono più difficile che tali differenziazioni si riproducano in modelli stabili di allineamenti partitici. Una ragione di ciò starebbe anche nel fatto che questi partiti non hanno radici sociali ma piuttosto un'origine istituzionale, riguardante essenzialmente "la desiderabilità, il grado e la direzione del cambiamento di regime" [van Biezen 2000, 397]

Le linee di frattura hanno un ruolo esplicativo fondamentale nelle origini e nell'azione dei partiti. Esse consistono in linee di divisione sociale che implicano identità collettive, le quali, a loro volta, politicizzandosi, si esprimono attraverso l'azione di organizzazioni come i partiti [Lipset e Rokkan 1967; Bartolini e Mair 1990]. Sotto questo punto di vista, sono abbastanza evidenti le differenze tra i partiti est-europei e quelli occidentali: mentre questi ultimi hanno origine da fratture che si sono poi cristallizzate nel tempo, con i primi la relazione causale si ribalta ed essi emergono come partiti di élites, nati in una tabula rasa di fratture sociali e di linee di divisione, col risultato che anche in Polonia i nuovi partiti sono più delle "comunità spirituali" che delle organizzazioni portatrici di interessi consolidati. Le fratture inizieranno a svilupparsi dopo, grazie anche all'azione dei partiti stessi, che ne sono, quindi, i principali artefici piuttosto che gli effetti.

Tra le eredità del vecchio regime vi è stato l'abbattimento delle fratture tradizionali, a suo tempo identificate da Lipset e Rokkan [1967]: a) quella stato-chiesa viene annullata con la fine di ogni ruolo politico e sociale delle chiese (con la parziale eccezione polacca); b) quelle rurale e di classe scompaiono in seguito all'eliminazione dei bersagli principali delle lotte contadine e operaie (gli imprenditori privati); c) quella centro-periferia viene neutralizzata e resa silente dalle politiche repressive che sanciscono il modello del predominio di una nazione sulle altre minoritarie.

La transizione multipla plasma l'ambiente all'interno del quale ricominciano a formarsi le fratture che poi i partiti esalteranno e approfondiranno. La transizione politica è pacifica e non contempla alcuna eliminazione traumatica della vecchia classe politica e delle sue strutture. Anzi, le vecchie élites e le esistenti strutture del partito unico, anziché venire smantellate, hanno modo e tempo di adattarsi sia ideologicamente che strutturalmente al nuovo contesto e ciò spiega la nascita e l'articolazione della prima frattura tra (post)comunisti e anti-comunisti, essendo questi secondi timorosi di una transizione incompleta e di una decomunistizzazione di facciata. E' la frattura alimentata dalla formazione delle grandi organizzazioni-ombrello, di cui Solidarnosc costituisce uno dei precursori

La fine del comunismo e la democratizzazione fanno poi gradualmente riemergere le vecchie fratture, sia pure con le difficoltà connesse all'assenza di solide identità sociali e professionali. In Polonia riemergono parzialmente la frattura Stato-Chiesa e quella città-campagna. La prima è conseguente al ruolo che la Chiesa svolge prima e durante la democratizzazione e ruota intorno ad alcuni temi chiave della tradizionale disputa tra Stato e Chiesa. L'introduzione di una legislazione anti-abortista nel 1993 fu seguita dai tentativi di liberalizzazione del Parlamento a maggioranza di sinistra negli anni successivi e dai veti del presidente Walesa. Tutti i tentativi di cambiare la legge sull'aborto, che la sinistra polacca considera una delle più restrittive in Europa, sono falliti anche nell'ultima legislatura dominata da governi di centrosinistra (2001-2005). Analogamente, si hanno molte discussioni sulla rilevanza che i valori cristiani devono avere nell'istruzione scolastica e, successivamente, nella bozza di trattato costituzionale europeo. E forse è proprio la crescente secolarizzazione della società polacca, testimoniata anche da sondaggi che segnalano un certo declino del prestigio della Chiesa [Wiatr 1999], ad aver alimentato per reazione il recente successo di movimenti cristiani e confessionali alle elezioni del 2001 e del 2005.

La rilevanza assunta dalla frattura città-campagna è l'effetto di due cause. La prima è che, al momento del crollo del vecchio regime, la struttura dell'economia agricola (sempre rimasta in mani private) era del tutto inadatta a far fronte alla concorrenza internazionale: aziende troppo piccole, arretrate e prive di risorse spiegano perché quello agricolo è stato uno dei settori che ha più sofferto della transizione economica. Una seconda ragione sta nel ruolo sempre più rilevante degli interessi rurali nel quadro socio-economico del paese, anche in vista dell'adesione all'Unione europea. Ad alimentare un'"identità rurale" e a farsi carico delle rivendicazioni delle aziende agricole è soprattutto il Partito contadino (PSL), che acquisisce una sua identità forte e una sua autonomia e riesce ad assicurare una costante presenza di propri eletti nei parlamenti della Polonia democratica. Di orientamento moderato, difficilmente collocabile sullo spettro sinistra-destra perché disponibile ad allearsi con chiunque si impegni a favore del settore agricolo, è l'unico partito polacco che si fonda sia su una precisa constituency socio-economica, sia su un'ideologia neoagraria che considera l'agricoltura una delle basi dell'esistenza nazionale. Tra le sue priorità dichiarate vi è quella di mantenere l'unità politica della comunità rurale. Il fatto che poi si rivolga anche alla comunità urbana, facendo leva sulle sue origini rurali, ne fa un "partito rurale pigliatutto" [Szczerbiak 1999b].

La forte omogeneità etnica della Polonia post-Seconda guerra mondiale comporta la quasi sparizione (rispetto alla Polonia degli anni '30) di ogni forma di partito etno-nazionalista (la minoranza tedesca e le altre minoranze danno vita a partiti numericamente irrilevanti nel panorama partitico nazionale). Il conflitto centro-periferia si manifesta, semmai, nella frattura fra chiusura nazionale, scetticismo e ostilità nei confronti degli aiuti esterni e delle "ingerenze" dell'Unione europea, da una parte, e coloro che intendono invece avvalersi degli aiuti esterni e che mirano ad una rapida integrazione della Polonia nell'Ue, dall'altra. Giovani, persone più istruite, lavoratori specializzati tendono ad avere una visione più cosmopolitica rispetto ad anziani, pensionati, persone meno istruite e lavoratori non specializzati. D'altra parte, il referendum del 2003 per l'entrata nell'Unione europea ha dimostrato come l'antieuropeismo avesse anche una qualche base religiosa. La Lega delle famiglie polacche, che alle elezioni del 2001 e del 2005 guadagna rispettivamente 38 e 34 seggi al Sejm (tabella 1), fonda il suo no all'Europa sui valori cattolici, nella convinzione che questi verrebbero banditi una volta che la Polonia entrasse nell'Ue [Jasiewicz & Jasiewicz-Betkiewicz 2004, 1106-1115].

Diverso il discorso relativo al conflitto di classe. Inizialmente questo è sostituito dalla contrapposizione fra (ex)comunisti e anticomunisti, contrapposizione presente fino alle elezioni del 1991 e in parte anche in quelle del 1993 e nelle presidenziali del 1995. La frattura si manifesta sul giudizio sul vecchio regime, sulla necessità o meno di "fare pulizia" della vecchia nomenklatura comunista e sull'esigenza di impedirne il "riciclaggio" nel nuovo sistema politico ed economico. Gradualmente, però, questa frattura assume la fisionomia del tradizionale confronto sinistra-destra, sia pure mantenendo caratteri specifici un po' in tutti i paesi post-comunisti: la frattura fra nostalgici e sostenitori più o meno tiepidi del vecchio regime, da una parte, e innovatori dall'altra tende in altre parole a canalizzarsi nella contrapposizione tra sostenitori dello stato sociale e liberisti, ossia tra coloro che intendono subordinare le riforme economiche al mantenimento di politiche di protezione sociale e di welfare e coloro, invece, che mirano ad una trasformazione più accelerata del sistema economico, nella convinzione che i costi sociali pagati oggi verranno riassorbiti da una maggiore crescita economica nell'immediato futuro. Queste differenze cominciano a dare effetti anche sul piano delle politiche pubbliche perseguite dai vari governi di centrodestra e di centrosinistra: questi ultimi generalmente si caratterizzano assai più dei primi nel promuovere politiche sociali e assistenziali [Lipsmeyer 2000], anche se uno dei principali motivi di protesta contro la coalizione di centrosinistra del periodo 2001-2005, e - insieme alla corruzione - probabile con-causa della sua sconfitta elettorale, era quello di non aver saputo adeguatamente affrontare il problema della disoccupazione (nel 2004 attorno al 20%) e di non aver attuato incisive politiche sociali [Jasiewicz & Iasiewicz-Betkiewicz 2005].

Le fratture che "pesano" sono, alla fine, quella tra Stato e Chiesa e quella di classe nella forma aggiornata tra protezionisti e liberisti. Un modo per raffigurare queste divisioni e le relative collocazioni tra i partiti principali nella legislatura tra il 1997 e il 2001 è quello della figura 3, dalla quale si desumono le profonde differenze tra AWS e UW: la prima cattolica e populista (pesa la dimensione sindacalista della tradizione di Solidarnosc) e la seconda più "laica" e liberale (fig. 2).


FIGURA 2 CIRCA QUI


Residui del vecchio confronto tra comunisti e anti-comunisti non mancano, tuttavia, di riemergere in varie occasioni: come quando, una volta affermatosi il principio del finanziamento pubblico dei partiti, sono avviate indagini sulla provenienza dei patrimoni dei partiti eredi del vecchio regime, indagini che il governo di sinistra nel 1995 cerca di bloccare o congelare e che l'opposizione vuole invece approfondire [Lewis 2000, 111]. In ogni caso, la trasformazione dei comunisti polacchi in un partito socialdemocratico favorisce questa trasformazione in una linea di frattura più omogenea a quella presente in Europa occidentale. L'allineamento delle varie categorie di elettori su queste linee di orientamento non manca, poi, di suscitare sorprese.

I vari sondaggi svolti nel corso degli anni '90, oltre a varie conferme, riportano infatti anche qualche sorpresa. Tra le prime, la forte identificazione dei lavoratori agricoli con il Partito contadino; tra le seconde, l'identificazione della maggior parte degli operai dell'industria, almeno nel 1997, con Azione elettorale Solidarnosc [Szczerbiak 1999b], più che con l'Alleanza della sinistra democratica. La vittoria della sinistra alle elezioni del 2001 e, successivamente, la sua sconfitta a quelle del 2005 rendono evidente come queste identificazioni fotografate dai sondaggi di opinione siano estremamente volatili. Resta comunque che, a partire dalle elezioni del 1997 e del 2001, la dimensione socio-economica della competizione partitica sembra aver sostituito la primitiva frattura comunismo-anticomunismo, ma per arrivare ad affermarsi in modo compiuto occorrerebbe una stabilizzazione dei partiti del centro-destra. Su questo versante, invece, l'affermazione di un moderno partito liberale e conservatore è fortemente insidiata da una frammentazione interna che offre possibilità occasionali di affermazione a partiti e movimenti di stampo nazionalpopulista e cattolico integralista.

Le contrapposizioni che si impongono nella competizione politica polacca sono in gran parte il frutto delle passate esperienze e dei precedenti snodi politici che hanno condizionato la storia di quel paese. Il regime comunista, che costituisce il terminus a quo della transizione democratica, rappresenta un'esperienza unica, fortemente caratterizzante l'intero contesto politico-istituzionale e socio-economico. E, del resto, la condivisione di questa esperienza con gli altri paesi dell'Europa centro-orientale non si traduce in una completa uniformità nella strutturazione dei cleavages e delle preferenze politiche[3].

E' vero, infatti, che, malgrado i forti aspetti comuni, non tutti i regimi comunisti sono uguali e che la Polonia costituisce, sotto questo profilo, un caso esemplare di singolarità al loro interno: il ruolo della Chiesa cattolica e il fallimento delle collettivizzazioni in agricoltura s'inquadrano in un insieme di specificità del "caso polacco", in grado di spiegarne poi sia le varie e frequenti situazioni interne di ribellismo e di protesta (nel 1956, nel 1968, nel 1970-71, nel 1976, nel 1980-81, 1988) [Grilli di Cortona 1989], sia la condizione del tutto peculiare del sistema partitico, al punto da indurre Giovanni Sartori ad accogliere e fare sua [2005², 204] la tesi di Jerzy Wiatr che definisce quello della Polonia un sistema a partito egemone [Wiatr 1970], una categoria che rende meglio conto delle differenze con gli altri monopartitismi "duri e puri".

Il caso polacco dimostra come la fase comunista non vada considerata solo per le eredità lasciate alla democrazia successiva (società civile disarticolata, lunga esperienza di mobilitazione politica totalitaria; economia collettivizzata; ideologizzazione dell'amministrazione), ma anche per gli eventi che ne segnano l'approssimarsi alla crisi finale, accelerata dai cambiamenti nel frattempo intervenuti a Mosca. Da un lato, infatti, la politica comunista (fino a tutti gli anni '50) operava pressioni costanti e coercitive sui cittadini per tenere alta la mobilitazione a sostegno del regime e del partito unico. Suscitare l'entusiastica adesione ai principi ideologici del partito e mobilitare le masse perché esprimessero questa adesione, rispondendo alle sollecitazioni della propaganda ufficiale, erano fra le attività maggiori delle strutture del regime. Questa pressione per una mobilitazione politica forzata, esercitata per tanti anni, ha finito per creare un'impermeabilizzazione dei cittadini nei confronti della politica. Una volta attenuatisi gli entusiasmi seguiti al crollo del regime, un tale stato ha iniziato a manifestarsi sia con l'astensionismo elettorale, sia con la diffusione di sentimenti anti-partito che hanno trovato terreno fertile anche in organizzazioni ombrello inizialmente refrattarie a lasciarsi assimilare ai partiti tradizionali. La politica di reclutamento degli iscritti e di espansione organizzativa è stata vista dai nuovi partiti est-europei, con la parziale eccezione di quelli della Bulgaria [Spirova 2005], come un fenomeno vecchio, appartenente ad un periodo da dimenticare[4].

Dall'altro lato, come si è detto, la Polonia ha seguito una strada tutta particolare. La struttura dell'economia agricola, il ruolo sociale conservato (non senza persecuzioni) dalla Chiesa cattolica e i numerosi fenomeni di mobilitazione politica anti-regime che si verificano dal 1956 in poi non possono essere ignorati nel tentativo di capire la fisionomia del sistema partitico post-comunista. I persistenti orientamenti cattolici presenti nelle nuove formazioni politiche e la continuità degli interessi agrari espressi da un partito che, dalla condizione di satellite del partito unico cerca oggi di trasformarsi in un moderno partito popolare, sono solo due esempi del peso della recente storia polacca sulla fisionomia del nuovo sistema partitico. Non solo, ma tutti gli anni '80, con la legalizzazione di Solidarnosc e l'esercizio di un'attività sindacale che assume dimensioni quantitative molto rilevanti (circa dieci milioni di iscritti contro i tre milioni del sindacato ufficiale), la sua messa fuori legge del dicembre 1981, la continuazione della sua attività in forma clandestina fino agli scioperi del 1988, la sua rilegalizzazione del 1989, ma anche la maturazione politica di un dissenso intellettuale sempre più contiguo al sindacato anticomunista, si configurano come un importante periodo di incubazione dei partiti che inizieranno ad agire allo scoperto nel decennio successivo. Probabilmente è proprio in quel periodo che vanno ricercate molte spiegazioni dei punti di forza e di debolezza di partiti e sistema partitico della Polonia democratica.




Il sistema partitico polacco e la sua mancata istituzionalizzazione

Quale è stato l'impatto delle trasformazioni dei partiti sul sistema partitico? Sappiamo come tra partiti e sistema partitico esista un'influenza reciproca: i primi determinano il secondo, ma questo influisce, a sua volta, sul comportamento delle unità che lo compongono [Sartori 2005²]. Nel caso polacco la ricostruzione di questa interazione e l'individuazione di una fisionomia precisa del sistema partitico divengono difficili per alcune ragioni già emerse: la scarsa stabilizzazione dei partiti, la volatilità elettorale elevata e la successione di riforme elettorali.

Dopo oltre quindici anni di vita democratica e sei elezioni legislative, il sistema partitico polacco appare tutt'altro che stabilizzato. Dovrebbe essere emerso fin qui con sufficiente chiarezza quanto sia difficile "fotografare" il sistema partitico polacco: infatti, ad ogni nuova legislatura cambiano molti degli attori protagonisti e la "foto" relativa alla legislatura precedente è già vecchia. Gli indici di volatilità schizzano ai valori più alti dell'intera Europa. Alcuni segni di un incremento di stabilità politica e partitica, a cominciare dalle terze elezioni libere (1997), ci sono stati: il cammino verso l'integrazione europea, la fine delle emergenze economiche connesse alla transizione e l'influenza - lungo un periodo più lungo - delle istituzioni e dei sistemi elettorali sembravano aver prodotto un minimo di assestamento dell'offerta partitica, una più stabile collocazione dei partiti sullo spazio politico e una prima saturazione del mercato elettorale. Il consolidamento dei partiti della sinistra e il riaccorpamento delle formazioni che si rifacevano a Solidarnosc sembravano andare verso una stabilizzazione bipolare del sistema partitico. In realtà, con le elezioni del 2001 e del 2005, come si è visto, il sistema partitico polacco ha voltato nuovamente pagina, smentendo ogni precedente ipotesi di stabilizzazione.

Questo quadro di eccessiva mobilità rende quindi difficile collocare tipologicamente il sistema partitico della Polonia. Ciononostante, usando le categorie di Sartori, nel corso degli anni '90 il sistema partitico polacco tende ad attestarsi su una meccanica di pluripartitismo moderato, pur presentando un formato partitico che si avvicina più al pluripartitismo estremo che a quello limitato. Occorre però introdurre una distinzione temporale. Fino al 1997, nonostante i cambiamenti avvenuti, una linea di continuità sembrava essersi affermata. Lo confermavano almeno due aspetti qualitativi: il prevalente, sia pure ancora imperfetto, bipolarismo del sistema e l'assenza di rilevanti partiti estremisti in grado di imprimere dinamiche centrifughe alla competizione.

Il primo aspetto s'impone subito, come si è visto, con l'uscita dal vecchio regime e si mantiene omogeneizzandosi alla tradizionale contrapposizione sinistra-destra dei paesi occidentali, senza essere particolarmente vulnerata dall'instabilità del sistema partitico. La tendenza sembra confermata dal rafforzamento delle dimensioni del partito che vince alle elezioni (anche quelle del 2001, nelle quali il centrosinistra sfiora la maggioranza assoluta dei seggi). Quest'ultimo risultato era stato interpretato come un'attenuazione di quella politica delle alleanze che era stata la principale causa della litigiosità all'interno delle coalizioni di governo. Quanto al secondo aspetto (debolezza delle ali estreme), la trasformazione democratica del vecchio partito comunista, avvenuta senza scissioni a sinistra, e l'assenza in parlamento, almeno fino alle elezioni del 1997, di rilevanti formazioni che possano rientrare in questa categoria, confermano il carattere moderato e non polarizzato del sistema partitico.

Dopo il 1997 si apre una fase diversa, tuttora in corso. La riaggregazione delle forze di centrodestra poteva costituire un fatto positivo se le quasi 40 organizzazioni che aderivano ad AWS (vincitrice delle elezioni del 1997) avessero accettato di rinunciare alla propria sovranità per dare vita ad un partito omogeneo. In realtà, l'esperienza del governo, anziché favorire un tale processo, lo ha ostacolato, alimentando dissensi interni e tendenze centrifughe, avviando una nuova fase di divisioni nel centrodestra e dando vita a nuove scissioni e nuovi partiti (fig. 3). La maggioranza in parlamento appare fin dall'inizio poco omogenea e disciplinata e gruppi di parlamentari se ne distaccano e votano contro le proposte del governo: il mancato superamento della struttura coalizionale di AWS provoca l'ingovernabilità.

Il significato delle due ultime elezioni sembra essere stato, dunque, quello della fine delle formazioni partitiche che hanno gestito la transizione democratica dal 1990 al 1997. La scomparsa di Azione elettorale Solidarnosc (AWS) e dell'Unione democratica (UD), l'affacciarsi sulla scena politica nel 2001 di quattro nuovi partiti, alcuni dei quali di orientamento più radicale e populista e in grado di imprimere un andamento più centrifugo alla competizione, che ottengono poi una conferma alle elezioni del 2005, e il crollo della sinistra, sempre nel 2005, potrebbero modificare in modo sostanziale la fisionomia del sistema partitico, accentuandone sensibilmente la polarizzazione.


FIGURA 3 CIRCA QUI


Il caso polacco mostra poi i limiti dell'influenza delle riforme elettorali. Infatti, malgrado le quattro riforme nell'arco di quindici anni, il sistema partitico manifesta una continuità nella perpetuazione di uno stato di frammentazione e di instabilità di cui nessun nuovo sistema elettorale riesce ad avere completamente ragione. Anzi, è del tutto lecito ipotizzare che una variabilità della normativa elettorale nella fase genetica del sistema partitico non aiuta affatto la sua istituzionalizzazione.

Il concetto di istituzionalizzazione, proposto a suo tempo da Huntington [1968 tr. it. 1975], ha avuto un'ampia applicazione alle organizzazioni partitiche. Panebianco [1982, 110 ss.] lo definisce come il modo attraverso il quale un'organizzazione acquista solidità e incorpora valori e scopi dei fondatori: un'istituzionalizzazione che ha successo è quella che ottiene che "per i più il 'bene' dell'organizzazione tende a coincidere con i suoi scopi" e che "l'organizzazione  diventa essa stessa 'scopo' per una parte ampia dei suoi aderenti e in questo modo 'si carica' di valori". Lo sviluppo di interessi al mantenimento dell'organizzazione e lo sviluppo di lealtà organizzative diffuse ne costituiscono due sotto-processi essenziali. Morlino, a sua volta, scrive che l'istituzionalizzazione è acquisita dai partiti attraverso lo sviluppo di una struttura extra-parlamentare, l'acquisizione del controllo del partito parlamentare e l'istituzione di una qualche forma di finanziamento pubblico [Morlino 1998, 205].

Scott Mainwaring [1998; ma si veda anche Mainwaring e Scully 1995] ha definito l'istituzionalizzazione del sistema partitico sulla base di quattro dimensioni:

a)     modelli di competizione partitica caratterizzati da una certa regolarità: quando i principali partiti sono facilmente soggetti a scomparsa o a diventare minoritari e marginali, e dove è quindi presente un'alta percentuale di volatilità, siamo in presenza di un sistema solo debolmente istituzionalizzato;

b)    forte radicamento nella società: un sistema nel quale i legami tra cittadini e partiti, tra organizzazioni degli interessi e partiti sono deboli, è un sistema poco istituzionalizzato;

c)     pronunciata legittimità dei partiti: un sistema partitico in cui i principali attori sociali e i cittadini in generale tendono a non accordare fiducia ai partiti, a non credere nel ruolo e nella rilevanza di questi e anzi maturano ostilità contro di essi è debolmente istituzionalizzato; una fiducia pubblica verso i partiti significa anche una reciproca accettazione tra partiti: quanto più questa esiste, tanto più il sistema partitico è istituzionalizzato;

d)    sviluppata organizzazione: un sistema partitico nel quale i partiti hanno strutture poco sviluppate e tendono, quindi, a rispecchiare gli interessi e le ambizioni dei leader, a divenire partiti basati sulla personalità del leader piuttosto che su una diffusa e capillare struttura in grado di garantire sopravvivenza, autonomia e continuità all'attività del partito è un sistema poco istituzionalizzato.

Se accettiamo questa definizione, e alla luce di quanto descritto nelle pagine precedenti, è evidente come il sistema partitico polacco presenti tutte le caratteristiche di una scarsa istituzionalizzazione. L'alto livello di volatilità, dovuto sia al crollo di fiducia subito da tutti i governi che si sono fin qui presentati alle elezioni legislative, sia alle difficoltà, tuttora presenti, di costruire una formazione di centrodestra capace di imporsi come alternativa credibile e duratura a quella di centrosinistra, ostacola l'istituzionalizzazione del sistema partitico. Così come la ostacolano i deboli legami tra società e partiti, il basso livello di organizzazione, l'accentuata personalizzazione e la carente legittimazione dei partiti. Di quest'ultimo fenomeno sono indicatori, come si è visto, gli orientamenti emersi nei sondaggi di opinione, l'elevato astensionismo e il comportamento assai disinvolto di molti candidati ed eletti in Parlamento che passano da un partito all'altro con estrema facilità.

Un'ulteriore considerazione riguarda il rapporto tra istituzionalizzazione dei partiti e istituzionalizzazione del sistema partitico. I due aspetti sono reciprocamente connessi: è evidente che modelli stabili di sostegno partitico e una continuità nelle alternative partitiche traggono benefici da e creano un ambiente favorevole all'istituzionalizzazione dei singoli partiti [Randall, V. e L. Svåsand 2002, 8]. Il caso polacco dimostra come sia difficile un'istituzionalizzazione del sistema partitico con singoli partiti che scompaiono così frequentemente da un'elezione all'altra e così frazionalizzati all'interno [Toole 2000]. D'altra parte, sappiamo anche che un'istituzionalizzazione di partiti e sistema partitico costituisce, a sua volta, una condizione favorevole al consolidamento della democrazia. Ma per "istituzionalizzazione dei partiti" si deve intendere un processo sostanzialmente uniforme: tutti i partiti principali "si istituzionalizzano" allo stesso modo, nel senso che tutti acquisiscono quella flessibilità, complessità, autonomia e coerenza delle rispettive organizzazioni e procedure interne, rafforzano la propria organizzazione e perseguono con tenacia e successo lo scopo della propria sopravvivenza [Huntington 1968 tr. it. 1975; Panebianco 1982]. Tali obiettivi sono raggiungibili solo catturando e conservando per un periodo ragionevolmente lungo il consenso di alcuni gruppi sociali e d'interesse. La longevità è una condizione necessaria all'istituzionalizzazione.

Come si è appena visto, questa simmetria nell'evoluzione partitica è assente in Polonia (così come in altri paesi dell'Est): se possono definirsi partiti istituzionalizzati la SLD e il PSL, nessun segno chiaro di istituzionalizzazione sembra finora essersi affermato sul versante di centrodestra (si veda ancora la fig. 3). In Polonia la via al consolidamento della democrazia è passata attraverso il ruolo di stabilizzazione svolto dalle istituzioni interne, a cominciare dall'operato delle nuove strutture di governo, sostenuto dal grande prestigio nell'opinione pubblica polacca, di istituzioni simbolo della rinascita e della continuità dello stato come le forze armate e la Chiesa (quest'ultima in una prima fase). Tutti questi fattori si sono, infine, sommati e intrecciati con le sollecitazioni e le condizionalità, probabilmente determinanti per spiegare il successo del consolidamento, provenienti dalle organizzazioni internazionali, in particolare dall'Unione europea [Mattina 2004], nella prospettiva dell'allargamento poi verificatosi nel 2004.

Se in Polonia i partiti, grazie anche all'azione di alcuni leaders dotati di un certo carisma, hanno svolto un ruolo decisivo nella transizione e nell'instaurazione della democrazia, pilotando la democratizzazione, progettando e avviando il disegno costituzionale del nuovo regime e canalizzandone la legittimazione politica, ben più debole risulta essere il loro ruolo nel consolidamento, soprattutto per le divisioni che hanno afflitto il polo di centrodestra, all'interno del quale, non a caso, più forti sono le riserve proprio nei confronti dei partiti stessi. Questo si spiega non solo con le eredità del regime comunista (disarticolazione della società civile, sentimenti anti-partito, diffidenza verso la politica in generale), che rendono più difficile ai partiti lo svolgimento del proprio ruolo di mobilitazione e aggregazione degli interessi presenti nella società, ma anche con i condizionamenti provenienti dalle prime istituzioni post-comuniste.

Tali condizionamenti assumono inizialmente due forme. La prima consiste in un avvio delle relazioni inter-istituzionali che deprime di fatto il ruolo dei partiti, in un momento particolarmente delicato della loro formazione: accento forte sul ruolo della presidenza, appello al sostegno plebiscitario del popolo, scarso potere iniziale del parlamento. Il secondo condizionamento viene dall'instabilità del quadro istituzionale: il troppo lungo e complesso processo di constitution-building (durato otto anni) e l'eccessiva variabilità della normativa elettorale (quattro riforme in dodici anni) non hanno aiutato a stabilizzare il sistema partitico.

Non stupisce, dunque, il paradosso della Polonia post-comunista: sono soprattutto gli attori che hanno svolto un ruolo determinante nella fuoruscita dal comunismo, che hanno guidato la transizione e avviato l'instaurazione verso la democrazia, ad aver poi rallentato e reso più difficile il consolidamento democratico e il rafforzamento dei partiti. Mi riferisco, in modo particolare, al movimento Solidarnosc e al suo leader Lech Walesa. Il primo ha mostrato come la persistenza delle organizzazioni ombrello (o addirittura la loro ricostituzione, come nel 1997) [Pisciotta 1999] rappresenti un elemento di perpetuazione della provvisorietà, di non stabilizzazione del sistema partitico, se poi alla fine viene a mancare il passaggio dalla struttura coalizionale alla costituzione di un partito omogeneo: sia perché tali organizzazioni sono sempre suscettibili di frantumarsi data la loro eterogeneità, sia perché il mantenimento di una simile struttura incoraggia "entrate" e "uscite", spesso sollecitate solo da interessi elettorali momentanei o da attriti personali. Walesa dal canto suo, come si è visto, durante l'intero periodo in cui ha ricoperto la carica di presidente della Repubblica, si è fatto portatore di una cultura anti-partitica. E il completamento del paradosso sta proprio nel fatto che, in queste condizioni, il consolidamento democratico è stato conseguito grazie ad un partito ex comunista e al doppio mandato alla presidenza della Repubblica del suo leader Kwasniewski (1995-2005). Legittimazione inclusiva e ancoraggio attraverso le istituzioni [Morlino 2003, 189-192] sono stati, alla fine, i due processi che stanno portando la democrazia polacca verso il suo consolidamento: con i partiti e nonostante i partiti





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Lijphart e Waisman [1996, 7] scrivono che la vera ragione del multipartitismo in Polonia sta nella grande diversità delle opinioni politiche che neppure un plurality system è capace di far confluire in un sistema bipartitico". Probabilmente non esiste un sistema elettorale in grado di produrre il bipartitismo; resta il fatto, però, che la legge elettorale del 1993 un effetto riduttivo sul numero dei partiti lo ha avuto.

Anche se va precisato che la voce in bilancio comprende, oltre ai rimborsi statali, anche I contributi dei candidati (Lewis 1998, 139).

Per i sostenitori della "tabula rasa" la strutturazione di linee di frattura, preferenze politiche e gruppi d'interessi inizia solo dopo la transizione (Schmitter e Karl 1994). Si veda anche Johannsen (2003).

Anche il divieto, stabilito dalla Legge sui partiti del 1990, di svolgere attività nei posti di lavoro deve essere letto come una reazione al ruolo invadente e coercitivo della mobilitazione ideologica dell'era comunista [Gebethner 1996, 120].






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