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Volontà e potenza

psicologia



Volontà e potenza. L'essenza della potenza


Potremmo ora raccogliere le determinazioni evidenziate dell'essenza della volontà di potenza e comporle in un'unica definizione: volontà come

l'essere signore di .. che si slancia al di là di sé

affetto (l'attacco sovraeccitante)

passione (il rapimento che si slancia nella distesa dell'ente)



sentimento (l'essere nello stato dello stare-dalla-parte-di-se-stesso)

comando

Con qualche fatica si potrebbe certo riuscire a produrre una definizione formalmente corretta che raccolga quanto detto. Tuttavia vi rinunciamo. Non perché non diamo valore a concetti rigorosi e univici. Anzi, li cerchiamo. Ma un concetto non è un concetto (almeno in filosofia) se non è fondato e provato in modo tale da far diventare per sé misura e percorso del domandare ciò che percepisce, invece di coprirlo con la forma di una semplice formula. Ma quello che il concetto di volontà (quale carattere fondamentale dell'ente) deve qui concepire, cioè l'essere, non ci è (o meglio: noi non gli siamo) ancora abbastanza vicino.

Conoscere e sapere: non sono semplice conoscenza di concetti, ma sono u 858g61i n concepire ciò che è colto nel concetto; sono un concepire l'essere, vale a dire un rimanere consapevolmente esposti all'attacco dell'essere, cioè al suo presentarsi. Se pensiamo a ciò che il termine volontà denomina (l'essenza dell'ente stesso) si può allora capire quanto impotente debba restare una parola così isolata, anche quando le si accompagna una definizione. Per questo Nietzsche può dire: "volontà: ecco un'ipotesi che non mi spiega più nulla. Per chi conosce non c'è volere".

Da tali affermazioni non dobbiamo concludere che tutto lo sforzo di cogliere l'essenza della volontà, dunque, è disperato e vano, e che quindi è pure indifferente e lasciata all'arbitrio la scelta del termine e del concetto con cui si parla della volontà. Prima dobbiamo invece domandare partendo sempre dalla cosa stessa. Soltanto così perveniamo al concetto e al giusto uso della parola.

Ora, per eliminare fin dall'inizio questo vuoto nella parola volontà, Nietzsche dice: volontà di potenza. Ogni volere è un voler-essere-di-più. La potenza stessa è soltanto in quanto, e soltanto finchè, rimane un voler-essere-più-potenza. Non appena questa volontà viene meno, ecco che la potenza non è già più potenza, anche se ha ancora in suo potere la cosa dominata. Nella volontà in quanto voler-essere-di-più, nella volontà in quanto volontà di potenza, è essenzialmente insito il potenziamento, l'elevazione; infatti soltanto nella costante elevazione ciò che è elevato può tenersi in alto e sopra. La sprofondare può essere contrastato soltanto con un'elevazione ancora più potente e non mantenendo semplicemente l'altezza fin qui tenuta, perché, alla fine, questo ha come conseguenza il semplice esaurimento. Nietzsche dice nella Volontà di potenza: "ciò che l'uomo vuole, ciò che vuole ogni minima particella di un organismo vivente, è un di più di potenza. Prendiamo il caso più semplice, quello del nutrimento primitivo: il protoplasma allunga i suoi pseudopodi per cercare qualcosa che gli si opponga, non per fame, ma per volontà di potenza. Poi fa il tentativo di vincerlo, di assimilarlo, di incorporarselo: ciò che si chiama nutrimento è solo un fenomeno conseguente, un'applicazione particolare di quella volontà originaria di diventare più forte".

Volere è un voler-diventare-più-forte. Anche qui Nietzsche parla nella prospettiva di un rovesciamento e al tempo stesso di una difesa della contemporaneità, ossia del darwinismo. La vita non ha soltanto l'impulso all'autoconservazione, come ritiene Darwin, ma è autoaffermazione. Il voler conservare si attacca unicamente a ciò che è già presente, vi si irrigidisce, vi si perde e diviene così cieco nei confronti della propria essenza. Autoaffermazione, cioè voler restare a capo, sopra, è un costante riandare all'essenza, all'origine. L'autoaffermazione è l'originaria affermazione dell'essenza.

La volontà di potenza non è mai il volere una singola cosa, una singola realtà. Riguarda, anzi è, l'essere e l'essenza dell'ente. Perciò possiamo dire: la volontà di potenza è sempre volontà di essenza. Sebbene Nietzsche non la colga esplicitamente così, in fondo egli vuol dire proprio questo; altrimenti, infatti, non si capirebbe quello che egli non manca mai di menzionare contestualmente all'accentuazione del carattere di potenziamento della volontà, del plus di potenza, cioè che la volontà di potenza è qualcosa che crea. Anche questa connotazione rimane ambigua, in quanto spesso sembra che con ciò si voglia dire che nella volontà di potenza e per suo mezzo debba essere prodotto qualcosa. Decisivo non è il produrre nel senso del predisporre, ma il fare venir fuori e il trasformare, questo diversamente da .., nel senso dell'essenzialmente diverso. Per questo del creare fa essenzialmente parte il dover distruggere. Nella distruzione è posto il ripugnante, il brutto e il male; fa necessariamente parte del creare, cioè della volontà di potenza, quindi dell'essere. Fa parte dell'essenza dell'essere ciò che è nullo, non come semplice niente vuoto, ma come no che è potenza.

Sappiamo che l'idealismo tedesco ha pensato l'essere come volontà. Questa filosofia si spinge addirittura fino a pensare il negativo come appartenente all'essere. Basti rammentare quanto dice Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito. Hegel parla qui dell'immane potenza del negativo che è l'energia del pensare, del puro io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più terribile, e trattenere ciò che è morto è compito che richiede la massima forza. La bellezza priva di forza odia l'intelletto, perché quest'ultimo le attribuisce ciò di cui essa non è capace. Ma non la vita che teme la morte e che si preserva dalla devastazione, bensì la vita che sopporta la morte e che in essa si mantiene è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità soltanto trovando se stesso nell'assoluta lacerazione. Esso non è questa potenza in quanto è il positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando diciamo di qualcosa che non è niente o che è falso, e quindi basta così e passiamo a qualcos'altro; ma esso è questa potenza soltanto in quanto guarda in faccia al negativo, rimane presso di lui.

Così, anche l'idealismo tedesco si spinge fino a pensare il male come appartenente all'essenza dell'essere. Il massimo tentativo in questa direzione lo troviamo nel trattato di Schelling Sull'essenza della libertà umana. Nietzsche aveva un rapporto troppo originario e maturo con la storia della metafisica tedesca perché gli sfuggisse la forza della volontà riflessiva nell'idealismo tedesco. Così scrive in un passo: "il significato della filosofia tedesca (Hegel): escogitare un panteismo in cui il male, l'errore e il dolore non siano avvertiti come argomenti contro la divinità. Di questa grandiosa iniziativa hanno abusato i poteri esistenti (Stato, ..), come se fosse in tal modo sancita la razionalità di ciò che ora è dominante. Schopenhauer appare al confronto un cocciuto moralista, che infine, per avere ragione con la sua valutazione morale, diventa un negatore del mondo. Infine un mistico".

Questo passo, inoltre, mostra chiaramente che Nietzsche non intese mai approvare il discredito, il disprezzo e la denigrazione dell'idealismo tedesco messa in circolazione da Schopenhauer e da altri intorno alla metà dell'800. La filosofia di Schopenhauer, già pronta nella sua forma definitiva fin dal 1818, cominciò verso la metà del secolo scorso ad avere influenza sul vasto pubblico. Anche Wagner e il giovane Nietzsche subirono tale influenza.

Schopenhauer ha considerato il fatto di essere letto con fervore dal pubblico colto come una vittoria filosofica sull'idealismo tedesco. Ma Schopenhauer arrivò al successo nella filosofia di questo periodo non perché la sua filosofia avesse sconfitto l'idealismo tedesco, ma perché di fronte all'idealismo tedesco i Tedeschi crollarono, ossia non erano più alla sua altezza. Fu questa decadenza a fare di Schopenhauer un grande: la conseguenza fu che la filosofia dell'idealismo tedesco, vista in base ai luoghi comuni di Schopenhauer, divenne qualcosa di strano e di eccentrico e cadde in dimenticanza. Soltanto per vie traverse e secondarie ritroviamo la strada per arrivare a quest'epoca dello spirito tedesco. Ma siamo ben lontani dall'avere un riferimento veramente storico alla nostra storia. Nietzsche avvertiva che era qui all'opera una grandiosa iniziativa del pensiero metafisico. Ma egli non è andato, non poteva andare oltre questo presentimento, giacchè il decennio di lavoro dedicato alla creazione della sua opera capitale non gli lasciò la tranquillità per indugiare tra le vaste costruzioni delle opere di Hegel e di Schelling.

La volontà è, in sé, creativa e distruttiva al tempo stesso. L'essere-signore-al-di-là-di-sé è sempre anche annientamento. Tutti i momenti della volontà menzionati (l'al-di-là-di-sé, il potenziamento, il carattere di comando, il creare, l'affermarsi) parlano in modo abbastanza chiaro da consentire di riconoscere che la volontà è, già in se stessa, volontà di potenza; potenza non vuol dire nient'altro se non la realtà della volontà.

Prima di connotare in generale il concetto nietzscheano di volontà, è stato fatto un breve rimando alla tradizione della metafisica per accennare che la concezione dell'essere come volontà non ha in sé nulla di eccentrico. Ma lo stesso vale anche per la connotazione dell'essere come potenza. Così come l'interpretazione dell'essere in quanto volontà di potenza rimane decisamente propria di Nietzsche, e così come egli sapeva ben poco, in termini espliciti, del contesto storico in cui sta il concetto di potenza come determinazione dell'essere, altrettanto certo è che, con questa interpretazione dell'essere dell'ente, Nietzsche entra nel cerchio più interno e più ampio del pensiero occidentale.

L'essenza della potenza, a prescindere dal fatto che per Nietzsche potenza significa lo stesso che volontà, è non meno complessa dell'essenza della volontà. Per chiarire questo fatto, potremmo procedere in modo simile a come abbiamo fatto quando abbiamo indicato le singole determinazioni del volere date da Nietzsche. Ma limitiamoci per ora a evidenziare 2 momenti dell'essenza della potenza.

La potenza viene spesso equiparata da Nietzsche alla forza, senza che di quest'ultima sia data una determinazione ulteriore. La forza è la facoltà in sé raccolta e pronta ad operare, l'essere capace di ..

La potenza è però altresì l'essere potente nel senso dell'atto del dominio, dell'essere-all'opera-della-forza.

La potenza è volontà come volere-al-di-là-di-sé, ma così è appunto il venire-a-se-stesso, il trovarsi e affermarsi nella compatta semplicità dell'essenza.

Potenza per Nietzsche significa tutto questo contemporaneamente.

Nella raccolta di trattati nota con il nome di Metafisica se ne trova uno, il libro nono, che tratta di questi 3 concetti come determinazioni supreme dell'essere.

Ciò che qui Aristotele (ancora nel solco di una filosofia originaria, benchè già alla fine) pensa, cioè domanda, dell'essere si è poi trasmesso alla filosofia scolastica come dottrina della potentia e dell'actus. Dall'inizio dell'età moderna la filosofia si concentra nello sforzo di comprendere l'essere partendo dal pensiero. Le determinazioni dell'essere (potentia e actus) si avvicinano allora alle forme fondamentali del pensiero, del giudizio. Possibilità, realtà e inoltre necessità diventano modalità dell'essere e del pensiero. Da quel momento, la teoria delle modalità entra a far parte del patrimonio di ogni dottrina delle categorie.

Quello che l'odierna filosofia scolastica intende con ciò è una questione di erudizione e di esercizio di acume. Quel libro menzionato della Metafisica di Aristotele è la parte più degna di domande dell'intera filosofia aristotelica. Per quanto Nietzsche non conosca il nesso vivente che collega in modo latente il suo concetto di potenza come concetto dell'essere alla dottrina di Aristotele, e per quanto questo nesso rimanga in apparenza molto sciolto e indeterminato, si può dire che quella dottrina aristotelica sia in relazione più con la dottrina nietzscheana della volontà di potenza che con qualsiasi altra dottrina delle categorie e delle modalità della filosofia scolastica. La dottrina aristotelica stessa non è però che un esito ben determinato, un arrivare alla prima fine del primo inizio della filosofia occidentale avvenuto con Anassimandro, Eraclito e Parmenide.

L'indicazione dell'intima relazione della volontà di potenza di Nietzsche con i 3 concetti di Aristotele non deve però essere intesa come se la dottrina nietzscheana dell'essere si potesse interpretare direttamente con l'ausilio di quella aristotelica. Entrambe debbono venire riprese nel contesto di una domanda più originaria. Ciò vale soprattutto per la dottrina di Aristotele. Non è esagerato dire che noi oggi non comprendiamo e non sappiamo assolutamente più nulla di questa dottrina di Aristotele. La ragione è semplice: è perché ne diamo prima un'interpretazione di comodo aiutandoci con le corrispondenti dottrine del Medioevo e dell'età moderna, le quali a loro volta non sono che una variazione e un residuo di quella aristotelica e non sono quindi adatte a fornire il terreno per capire.

Dall'essenza della volontà di potenza come essere potente della volontà risulterà così, per diversi aspetti, come questa interpretazione dell'ente stia entro il momento fondamentale del pensiero occidentale e come per questo, e soltanto per questo, essa sia in grado di dare un impulso essenziale al compito del pensiero del 900.

Ma certo non coglieremmo mai questa intima storicità del pensiero nietzscheano, in forza della quale esso si estende attraverso i secoli, se andiamo esteriormente alla caccia di accordi, riprese e varianti, bensì solo se comprendiamo l'autentica volontà riflessiva di Nietzsche. Non sarebbe un pezzo di bravura, o meglio, sarebbe soltanto un pezzo di bravura se, armati di uno schema concettuale già pronto, volessimo scovare le singole discordanze, contraddizioni, trascuratezze e tutto quanto nelle esposizioni di Nietzsche è affrettato e spesso soltanto superficiale o casuale. Noi stiamo invece cercando l'ambito del suo autentico domandare.

Negli ultimi anni della sua attività Nietzsche ama caratterizzare il suo modo di pensare come un fare filosofia con il martello. Questa espressione, secondo il parere stesso di Nietzsche, ha più significati: di certo non quello di colpire rozzamente, frantumare.

Significa: scolpire la pietra e trarne il contenuto, l'essenza, la forma, nella pietra

Significa soprattutto: tastare tutte le cose battendole con il martello e sentire se emettono o no quel suono sordo che conosciamo (domandare se nelle cose ci siano ancora la gravità e un peso, oppure se ogni baricentro si sia dileguato)

La volontà speculativa di Nietzsche mira a questo: a ridare un peso alle cose

Se nell'esecuzione molte cose rimangono incompiute o soltanto abbozzate, non si può per questo, dal modo in cui Nietzsche parla, trarre per il lavoro filosofico la conclusione che il rigore e la verità del concetto, l'inflessibilità del fondare e del domandare siano qualcosa di secondario. Ciò che in Nietzsche è una necessità e quindi un diritto, non vale mai per altri; perché Nietzsche è unico, è quello che è. Ma questa unicità guadagna in determinatezza e diventa fruttuosa se viene vista nel movimento fondamentale del pensiero occidentale.





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