| Gustav Le Bon, nato in Francia a Nogent-Le
    Retrou nel 1841, fu il primo psicologo a studiare scientificamente il
    comportamento delle folle, cercando di identificarne i caratteri peculiari
    e proponendo tecniche adatte per guidarle e controllarle. Per questa
    ragione le sue opere vennero lette e attentamente studiate dai dittatori
    totalitari del novecento, i quali basarono il proprio potere sulla capacità
    di controllare e manipolare le masse.  Sia Lenin che Hitler lessero l'opera
    di Le Bon e l'uso di determinate tecniche di persuasione nella dittatura
    nazionalsocialista sembra ispirato direttamente dai suoi consigli, ma
    Mussolini fu certamente il più fervido ammiratore dell'opera dello
    psicologo francese. "Ho letto tutta l'opera di Le Bon - diceva
    Mussolini- e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle
    folle. E' un opera capitale alla quale ancora oggi spesso
    ritorno". In effetti gli scritti di Le Bon e in particolare la Psicologia
    delle Folle edita nel 1895 erano una vera e propria miniera d'oro per
    chi voleva comprendere il comportamento della massa, il nuovo soggetto che
    si affacciava sulla scena politica negli ultimi decenni dell'ottocento e
    che avrebbe dominato tale scena nel novecento. La nascita della massa,
    intesa come "grande quantità indistinta di persone che agisce in
    maniera uniforme" fu infatti il risultato di un processo storico a cui
    concorsero una pluralità di cause e che iniziò a prendere forma sul finire
    del XIX secolo. Nella creazione di una società di massa un ruolo importa 747b11h nte
    fu svolto dall'avanzare del progresso tecnologico, inteso sia come processo
    di standardizzazione del lavoro sia come modello di produzione di oggetti
    detti appunto "di massa". La seconda rivoluzione industriale si caratterizzò infatti per una forte
    razionalizzazione e meccanizzazione dei processi produttivi, i quali
    tendevano ad omologare e serializzare il lavoro degli operai e degli
    impiegati. Mentre nella prima rivoluzione industriale l'operaio era
    impiegato in mansioni che non si discostavano di molto dal lavoro
    artigianale, a partire dal 1870 il suo lavoro divenne sempre più simile a quello
    delle macchine e privo di qualsiasi contributo personale nella creazione
    dell'oggetto. Secondo il classico modello della catena di montaggio,
    l'operaio doveva semplicemente ripetere infinite volte una serie identica
    di gesti che non comportava l'intervento di alcuna capacità pratica o
    tecnica e che finiva per annullare ogni contributo personale nella
    realizzazione del manufatto. Tale sistema, che finiva per eliminare le
    differenze tra operai semplici e specializzati e tra operai dotati
    d'ingegno e semplici esecutori di ordini favorì la creazione di una massa
    omogenea di lavoratori, i quali non si distinguevano né per genere di
    impiego, ne per capacità, ne per reddito e che quindi tendevano a formare
    un gruppo compatto all'interno della società. L'omologazione dei processi
    produttivi determinò inoltre l'omologazione degli oggetti creati e venduti,
    la quale a sua volta generò una standardizzazione dei consumi e dei gusti.
    L'oggetto di massa, sempre identico a se stesso, tendeva a creare
    consumatori identici e a modificare in direzione di un uguaglianza anonima
    i comportamenti collettivi.
 Per quanto importante, la trasformazione industriale e produttiva non fu
    tuttavia l'unica responsabile della creazione della cosiddetta
    "massa", a cui concorsero anche eventi di natura più
    spiccatamente politica. Paradossalmente, l'esistenza della massa fu
    scoperta e studiata la prima volta a partire da una serie di fatti politici
    in cui si dimostrò la sua incredibile forza. In Francia ad esempio, la
    massa divenne oggetto di attenzione all'indomani dei fermenti rivoluzionari
    del 1789, per affermarsi poi come tema ricorrente della trattazione
    politica e sociologica dopo gli episodi della Comune di Parigi del 1871. La
    particolare ferocia dei comportamenti collettivi nel periodo del terrore
    rivoluzionario e dell'insurrezione della Capitale spinsero molti
    intellettuali francesi ad interrogarsi e soprattutto a preoccuparsi per i
    comportamenti della folla, la quale era ritenuta capace delle più
    spaventose aberrazioni.
 In questo contesto sociale e intellettuale, carico di curiosità e ancor più
    di paura verso la massa "nascente" maturò l'opera di
 Gustav Le Bon, il quale non a caso
    era dovuto fuggire precipitosamente da Parigi nel 1871 dopo aver rischiato
    più volte la vita e che perciò condivideva le preoccupazioni di chi vedeva
    nella folla un pericolo per le moderne società capitaliste. Tuttavia, per quanto ispirata da una esperienza personale e per quanto
    affine alle riflessioni di molti altri autori, la Psicologia delle
    folla rappresentò per l'epoca una grande novità e come tale fu accolta sia
    dai contemporanei ma ancor più dai lettori dei primi del novecento.
 Ma quale era la peculiarità dell'opera di Le Bon e perché si meritò tanta
    fama, nonostante le accuse di dilettantismo che il mondo accademico rivolse
    contro lo psicologo francese?
 Anzitutto, Le Bon seppe delimitare un nuovo campo di studi, che fino ad
    allora era suddiviso tra la psicologia, che si occupava solo dei
    comportamenti individuali e la sociologia, che si occupava delle
    trasformazioni della società. Le Bon fu il primo ad utilizzare gli
    strumenti e il linguaggio della psicologia per descrivere i fatti sociali,
    nella convinzione di poter assimilare il comportamento della massa a quello
    di un singolo soggetto, per quanto questo fosse costituito da una pluralità
    di persone. Questa grande intuizione di Le Bon - che ancora oggi sotto
    molti aspetti conserva la sua validità- era a sua volta il frutto di una
    specifica visione della massa dello psicologo francese. Per l'autore della
    "Psicologia della folla" l'esistenza di una massa anonima rappresentava
    un segno di regresso nella società moderna, che perdeva quella diversità
    individuale che era la vera ricchezza e il vero patrimonio della società
    umana.
 Per Le Bon le grandi folle erano il risultato di un arresto del processo
    evolutivo, il quale in linea teorica avrebbe dovuto procedere dall'informe
    alla forma, dall'indifferenziato alla progressiva differenziazione e
    pertanto dai comportamenti collettivi ai singoli gesti promossi dalle
    singole coscienze. Il fallimento del processo evolutivo tendeva a riportare
    la società verso gli stadi più antichi della sua evoluzione e quindi
    l'imporsi delle masse- almeno finché queste fossero rimaste senza controllo
    e senza guida- era il segno di un ritorno della barbarie che disgregava una
    cultura formatasi in una storia bimillenaria.
 Di tale involuzione Le Bon trovava conferme anche analizzando il
    comportamento stesso della massa, che era guidato dall'istinto e
    dall'emotività piuttosto che dalla logica e dalla ragione. La folla gli
    appariva agire sulla base dei sentimenti più primitivi, quelli che dal
    punto di vista dell'evoluzione costituiscono le prime tappe dello sviluppo
    dell'umanità, mentre in questi raggruppamenti ciò che andava smarrita era
    la più grande conquista degli uomini moderni, ovvero la razionalità e l'uso
    delle superiori capacità intellettive. Come molti suoi contemporanei Le Bon
    era convinto dell'estrema fragilità delle ragione che era considerata una
    conquista recente e pertanto fragile, al contrario dell'istinto, che era
    invece ritenuto una caratteristica permanente e duratura dell'essere umano.
 Ma lo smarrimento della ragione nell'aggregazione di massa era, per lo
    psicologo francese, il presupposto per un ben più importante perdita: la
    dissoluzione di una identità individuale in una identità collettiva. Senza
    una ragione autonoma, suggeriva Le Bon, l'uomo regredisce allo stadio
    animale e in natura gli esseri della stessa specie si somigliano tutti
    l'uno all'altro: così nella massa l'uomo si fa "animale" e i suoi
    istinti primitivi lo rendono praticamente identico a chi si trova a
    condividere con lui questa esperienza di gruppo.
 Se l'uomo nella folla è un tutt'uno con gli altri uomini - pensava Le Bon- era quindi possibile considerare la folla come
    un unico soggetto e pertanto era lecito applicare ad essa quell'analisi
    psicologica che per solito si riservava agli individui singoli. La folla, in quanto tendente ad avere un comportamento
    collettivo era, dal punto di vista medico-scientifico, un
    "paziente" che lo psicologo doveva analizzare e se possibile
    curare, in quanto affetta da una regressione verso agli stadi arcaici.
    Quest'analisi della folla di Le Bon non era però
    esente da una serie di presupposti ideologici e di pregiudizi che
    esploderanno in maniera evidente con l'uso che delle sue teorie faranno i
    dittatori totalitari. Anzitutto, se le masse sono l'esito di un processo
    involutivo della coscienza e della ragione è quasi scontato pensare che
    esse debbano essere controllate e instradate su una giusta via da un' elite o da un capo che abbia conservato una forte
    individualità, quasi che le folle fossero considerate al pari di un
    incapace bisognoso di tutela.
 E questo fu per l'appunto l'atteggiamento di
    Mussolini, che così si espresse sulla folla e sul proprio ruolo di guida
    delle masse: "La massa per me non è altro che un gregge di pecore
    finché non è organizzata. Non sono affatto contro
    di essa. Soltanto nego che possa organizzarsi da sé."
    Quello di Mussolini era un pensiero perfettamente aderente a quello di Le Bon, che
 
 riteneva necessario mettere un capo
    alla guida delle masse: "l'avvento di un conduttore di folle
    rappresenta l'unica alternativa al rassegnarsi a subire il regno delle
    folle poiché mani imprevidenti hanno rovesciato una dopo l'altra tutte le
    barriere che potevano trattenerle". La preoccupazione di Le Bon per la libertà della
    masse è indice dell'ideologia conservatrice di cui egli era portatore e che
    lo induceva a contrastare sia le aperture democratiche proprie della sua
    epoca sia i presupposti del pensiero illuminista.
 L'autore della Psicologia delle folle considerava con disprezzo l'ipotesi
    di una società pienamente democratica, capace di autogoverno
    e regolata dai principi della ragione. Per Le Bon
    le società democratiche non solo erano destinate al fallimento ma
    rappresentavano anche una minaccia per la vita stessa della società, poiché
    conducono gli uomini verso la mediocrità. Le Bon
    riteneva impossibile educare l'intera massa ai principi della ragione e al
    pieno dominio di sé e al tempo stesso pensava che il potere dovesse essere
    detenuto da uomini eccellenti: perciò l'unica forma di governo possibile
    era per lui quella delle elite. Tuttavia Le Bon
    era consapevole che nella sua epoca nessun capo avrebbe potuto governare
    senza il consenso delle masse: finita l'epoca delle monarchie basate sulla
    forza economica, militare o sull'autorità dinastica, il vero capo politico
    avrebbe potuto governare solo guadagnandosi il consenso delle folle.
 E, quale moderno Macchiavelli, Le Bon si assumerà
    l'incarico di insegnare al futuro principe come conquistare l'anima e il
    cuore delle folle.
 La prima regola che un capo deve seguire per guadagnarsi il consenso della folla è quella di comandare ricorrendo ai sentimenti e
    non alla ragione; e di questo consiglio di Le Bon fecero ampiamente uso i
    dittatori totalitari del novecento, che furono l' incarnazione di un potere
    che si guadagna il consenso della folla senza concederle rappresentanza e
    distruggendone le libertà.
 Le Bon era fermamente contrario al progetto
    illuminista di distruzione delle certezze tradizionali, che incrinando la
    fede in Dio e nello Stato avevano indebolito la capacità di credere delle
    masse. Diceva Le Bon: " i filosofi
    dell'ultimo secolo si sono consacrati con fervore al compito di distruggere
    le illusioni religiose, politiche e sociali di cui per centinaia di anni
    avevano vissuto i nostri padri. Distruggendole, hanno inaridito le fonti
    della speranza e della rassegnazione."
 Per essere governate senza che si instauri un
    regime di pericolosa anarchia le masse devono tornare a credere ed è
    compito del futuro meneur de foules reintrodurre la fede nella
    comunità, anche se questa non sarà più di natura trascendente ma terrena.
    Per Le Bon, le folle non potevano essere guidate
    dalla ragione, perché l'animo della folla è caratterizzato dal sentire e
    non dal pensare. Il discorso logico e razionale può servire per convincere
    un singolo uomo, non certo per guidare una massa. Secondo l'autore della Psicologia l'uomo inserito nella massa ha bisogno di
    illusioni, di passioni, è animato dalla volontà di credere e questa volontà
    cresce nel momento stesso in cui le vecchie illusioni sono state messe in
    crisi dall'illuminismo. Mentre la ragione è fatto
    transitorio, il sentimento e il bisogno di credere sono forze arcaiche ed
    eternamente operanti dell'uomo e il capo deve colmare con nuove speranze e
    illusioni questa sete di speranza. Se si guarda alle grandi rivoluzioni,
    diceva Le Bon, si nota come tutte furono prodotte
    dalla speranza e dalle fede e non da un accurato ragionamento: il
    cristianesimo e l'islamismo, il successo della rivoluzione francese e di
    Napoleone sono frutto della fede e della speranza e non della "ragion
    pura".
 I totalitarismi del XX secolo accolsero in pieno
    la lezione di Le Bon, fornirono agli individui nuove illusioni in cui
    credere, si preoccuparono di costruire sempre miti sempre nuovi anche se
    spesso tra loro in contraddizione. Mussolini in particolare vantò più volte
    l'assenza di programma del primo fascismo, giungendo ad ostentare sia il
    suo trasformismo politico sia i cambiamenti nel programma del partito. Con questo atteggiamento Mussolini mostrava di aver
    metabolizzato l'insegnamento di Le Bon circa il carattere inconfutabile
    delle illusioni e di ricordare il suo suggerimento di assecondare la
    volontà di credere delle folle anche a costo di sacrificare la coerenza dei
    propri ragionamenti. Era infatti lo stesso
    Mussolini ad affermare che "solo la fede smuove le montagne, non la
    ragione. Questa è uno strumento, ma non può essere la forza motrice delle
    masse. Oggi, meno di prima. La gente, oggi, ha meno tempo per pensare. La
    disposizione dell'uomo moderno a credere ha dell'incredibile."
 Ma oltre ad aver appreso l'insegnamento sulla necessità delle illusioni,
    Mussolini dimostrava di aver recepito un altro e
    forse ancora più importante suggerimento proposto da Le Bon: la creazione
    della fede incondizionata nel capo.
 
 Mentre ogni illusione può essere
    sostituita da un'altra, ogni credenza prendere il
    posto di quella precedente anche in aperto contrasto con quanto prima, la
    fede nel capo deve rimanere sempre inalterata se si vuole mantenere il
    controllo delle folle. Il capo deve essere trasformato in una vera e
    propria divinità terrena, sottratto anche al solo dubbio dell'errore e
    dello sbaglio, fatto oggetto di vera e propria idolatria utilizzando tutte
    le strategie messe a disposizione dalla propaganda. In tal senso, l'esempio
    del fascismo italiano, ma ancora più di quello
    tedesco e di quello sovietico sono dimostrazioni inconfutabili di questa
    necessità intuita con largo anticipo da Le Bon. In Unione Sovietica il
    culto della personalità di Stalin fu uno dei principi su cui si resse
    l'intero apparato totalitario e in Germania nessuno dubitò
    dell'infallibilità di Hitler anche quando i segnali della sconfitta nella
    seconda guerra mondiale cominciarono ad essere evidenti.
    Per un sistema totalitario, il capo costituisce infatti
    il fulcro dell'intero sistema, perché a differenza di quanto accade nelle
    semplici dittature, tutto ciò che accade nel paese è sotto la sua
    responsabilità. In Unione Sovietica e in Germania sia Stalin che Hitler si assumevano la responsabilità di qualsiasi
    azione compiuta da un loro funzionario, a dimostrazione che solo loro erano
    l'emanazione del potere e che i burocrati e i sottoposti altro non erano
    che semplici esecutori della loro volontà. Allo stesso
    modo, la svolta autoritaria - e per certi aspetti totalitaria - del
    fascismo italiano si ebbe nel gennaio del 1925, quando Mussolini decise di
    assumersi la piena responsabilità per l'assassinio Matteotti, che era stato
    compiuto da due sicari per conto di un non precisato mandante. Tale
    assunzione di responsabilità da parte del capo unico fa parte del processo
    dialettico che nei regimi totalitari si instaura
    tra chi comanda e chi obbedisce e che non può venire meno se non si vuole
    mettere in crisi l'intera struttura: questo spiega perché una volta saliti
    al potere questi dittatori riuscirono a conservarlo senza dover combattere
    contro fazioni interne, perché la convinzione di tutti era che se il capo
    fosse caduto tutto il sistema sarebbe crollato. In un sistema totalitario,
    a differenza di quanto si può comunemente pensare, il potere non viene infatti detenuto esclusivamente con la violenza, ma è
    frutto di una reciproca "contrattazione" tra il capo e le masse
    dominate. L'onnipotenza del capo fa da sfondo al desiderio da parte della
    massa di sottrarsi alla responsabilità della
    propria libertà e la consegna del proprio libero volere nelle mani del capo
    è il prezzo che la massa è disposta a pagare per poter riversare addosso a
    qualcun altro le proprie colpe e i propri errori.
 Con grande acume Le Bon individuò nel particolare
    rapporto tra capo e folla il segreto per la conquista del potere nelle
    moderne società industriali. Lo psicologo francese intuì il bisogno di identità presente in forma latente in tutti i grandi
    aggregati umani: all'abbandono della propria specificità che si realizza
    nella folla deve corrispondere la creazione di una chiara identità
    collettiva. L'individuo è disposto a rinunciare al proprio Io in favore di
    un Noi a patto che questo nuovo soggetto sia dotato di una specifica
    personalità e questa può formarsi solo attraverso l'intervento del conquistatore
    delle folle. La massa è un'anima collettiva informe, che il meneur deve
    manipolare come argilla nelle sue mani, a cui deve dare forma attraverso il
    sapiente utilizzo delle emozioni più primitive e perciò più arcaiche e
    forti. In un'altra sua opera "Aphorismes du Temps present" Le Bon esplicitò chiaramente questa sua idea: "la
    folla è un essere amorfo, incapace di volere e d'agire senza il suo meneur.
    La sua anima sembra legata a quella di questo meneur."
 Come un mago, come una divinità, il capo politico è chiamato a dar vita alla folla, a spingerla all'azione e in questo
    suo compito egli trova l'alleato più prezioso nel bisogno di credere e nel
    bisogno di identità dei soggetti massificati. L'individuo disperso nella
    folla è infatti un soggetto debole, che ha perso
    la propria capacità di autogoverno e che è alla ricerca di un Io forte a
    cui appoggiarsi. Il moderno capo politico, spiega Le Bon,
    è un conduttore di anime, che sostituisce la propria personalità a quella
    dell'individuo, proponendosi alla folla come un modello con cui
    identificarsi e come una guida da seguire. Il rapporto tra il capo e la
    folla, tra quest'io egemone e le identità fragili
    e disperse che compongono la folla è estremamente delicato e complesso e
    dalla sua corretta gestione dipende il successo o l'insuccesso nella lotta
    per il potere. A differenza di quanto avvenuto in passato con le antiche
    tirannie, l'aspirante dittatore moderno non può conquistare e mantenere il
    potere soltanto attraverso il principio di autorità
    o con il puro dominio della forza. Egli non può imporre modelli di
    comportamento rispondenti
 esclusivamente alle proprie volontà senza
    correre il rischio di perdere il consenso della folla che si propone di
    comandare. Il moderno dittatore, sostiene Le Bon,
    deve saper cogliere i desideri e le aspirazioni segrete della folla e
    proporsi come l'incarnazione di tali desideri e come colui che è capace di
    realizzare tali aspirazioni. Anche in questo caso l'illusione risulta
    essere più importante della realtà, perché ciò che conta non è portare a compimento tali improbabili sogni quanto far credere
    alla folla di essere capace:"nella storia - scriveva Le Bon nella Psicologia
    delle Folle- l'apparenza ha sempre avuto un ruolo più importante della
    realtà". Il tiranno moderno deve però prestare la massima attenzione nell'evitare il
    confronto con la realtà, perché a parere di Le Bon
    la massa, per essere controllata, devono essere mantenute in questa scena
    onirica priva di precisi contorni. Procedendo in tale direzione non sarà
    quindi sufficiente proporsi come il realizzatore di determinati desideri ma
    occorrerà prestare la massima attenzione anche alla forma in cui tali
    aspirazioni e progetti vengono presentati. Secondo
    l'autore della Psicologia delle Folle il meneur deve far ricorso soprattutto al mito, che per la sua
    particolare natura è capace di catturare l'emotività delle folle e di
    sottrarsi ad una verifica razionale.
 Il mito risulta particolarmente adatto a catturare
    l'attenzione della folla perché è linguaggio arcaico, appartiene alle fasi
    iniziali dell'umanità proprio come la folla rappresenta una regressione
    agli stadi più primitivi dell'organizzazione umana e ha una forza
    persuasiva molto forte perché si basa principalmente su contenuti inconsci.
    A differenza di un qualsiasi progetto razionale il mito non prevede nessun
    controllo a posteriori della sua validità, perché il suo contenuto è sempre
    abbastanza indefinito da non poter essere verificato e in questo senso
    fornisce una serie ininterrotta di alibi ai
    conduttori di folle, che possono continuamente trasformarne i contenuti o
    modificarne le sfumature potendo sempre evitare di confrontarsi con la
    realtà. Il mito, spiega Le Bon, non necessita di
    alcuna coerenza logica, perché esso si basa esclusivamente sulle fantasie e
    sulle necessità degli uomini e funziona quanto più è in grado di
    rappresentare le esigenze di riscatto e le aspirazioni della folla. Ancora
    una volta il discorso di Le Bon trovò una sua
    applicazione tanto precisa quanto spietata nei totalitarismi del novecento,
    che proprio sui miti- la razza ariana, la romanità imperiale per fare
    qualche esempio- fondarono buona parte del proprio potere. Tutti i
    dittatori totalitari mostrarono sempre un estremo disprezzo per i fatti,
    costruendo una propaganda priva di qualsiasi fatto dimostrabile, che porterà Kruscev a descrivere Stalin come un uomo che
    manifestava una estrema "riluttanza a considerare le cose della vita..indifferente allo stato reale delle cose".
 La realtà fu effettivamente messa a dura prova dai regimi totalitari, che
    cercarono di imporre l'onnipotenza della volontà e del desiderio sui fatti
    e sulla oggettività del mondo. In un regime
    totalitario pienamente realizzato come quello
    sovietico degli anni trenta, risultava spesso difficile distinguere il vero
    dal falso e la fantasia dall'illusione, perché più nulla veniva misurato
    con questo metro di giudizio. Dato che l'unico elemento importante di un
    avvenimento era la sua funzionalità per il partito
    e la rivoluzione, non importava più nulla che un determinato fatto fosse
    realmente avvenuto o che un certo discorso fosse stato pronunciato: l'unica
    domanda a cui il mondo era chiamato a rispondere era la fedeltà o meno alle
    direttive del regime. Per quanto potesse apparire folle - ed effettivamente
    si trattava di episodi di follia collettiva - in
    Unione Sovietica si portarono avanti processi a migliaia di persone sulla
    base di complotti semplicemente presunti o immaginati da Stalin, che sempre
    si conclusero con la condanna a morte o la deportazione degli imputati. In un simile regime totalitario, che aveva annullato la
    differenza tra vero e falso anche grazie all'attiva collaborazione della
    massa che si lasciava sedurre dalle lusinghe della fantasia e della volontà
    onnipotente, circolavano le ipotesi più improbabili su continue congiure
    contro la rivoluzione e queste diventavano spesso capi d'accusa contro soggetti
    totalmente innocenti. La polizia segreta sovietica riusciva anzi a
    convincere molti imputati innocenti della loro colpevolezza, spesso senza ricorre all'uso di torture fisiche, perché formulava le
    accuse senza far mai riferimento ad alcun fatto concreto. Essa costruiva un
    processo generico alle intenzioni, isolando l'individuo dalla realtà
    circostante e convincendo chi gli era attorno a confermare le accuse, di
    modo che l'imputato finiva per arrendersi alla
    coerenza della storia proposta dalla polizia, arrivando infine a confessare
    i crimini mai commessi.
 Ma se il capo deve saper cogliere i desideri delle folle e proporsi come la
    figura messianica capace di realizzarli, c'è ancora un altro aspetto
    centrale nel rapporto con le masse che Le Bon
    seppe benissimo individuare nella sua Psicologia delle Folle. Oltre
    che essere un
 
 realizzatore dei desideri della massa,
    l'Io del capo deve infatti diventare, dice Le Bon, un oggetto di
    identificazione per le folle. Emulazione e assoggettamento, spiegava lo
    psicologo francese, vanno infatti di pari passo,
    nel senso che l'una è la condizione necessaria per l'altra. Nelle moderne
    dittature non è infatti consigliabile
    accontentarsi dell'ubbidienza passiva - che può da un momento all'altro
    venir meno - ma occorre suscitare la partecipazione entusiastica e
    volontaria al potere. La massa è perciò invitata continuamente non solo ad
    obbedire ma ad imitare il capo, ad atteggiarsi come se essa stessa fosse il
    capo, un comportamento che troverà la sua espressione nella
    agghiacciante interpretazione nazionalsocialista della morale kantiana:
    "Agisci in modo che se il Führer ti vedesse approverebbe la tua
    azione". I regimi totalitari misero in pratica questi insegnamenti di Le Bon, organizzando continuamente cerimonie atte a
    facilitare questa immedesimazione tra capo e folla, come le grandi adunate
    di Norimberga, le sfilate sulla piazza rossa a Mosca e i discorsi di
    Mussolini da piazza Venezia. Lo scopo di tali celebrazioni era quello di
    far sentire le masse partecipi della potenza e dei progetti del capo, di
    fornire loro l'impressione di poter magicamente assorbirne la forza, di
    vedersi riconosciuto un ruolo nella costruzione dello stato totalitario.
    Nelle grandi celebrazioni l'individuo massificato, privato della propria
    identità, veniva coinvolto in un rituale di unione
    sacrale e mistica con il suo capo e viveva l'ebbrezza di innalzarsi quasi
    al suo stesso livello. Allo stesso tempo però quest'esaltazione derivante
    dall'unione mistica con il capo contribuiva ad assoggettare sempre più la
    massa al capo, perché ciascun esponente della folla sperimentava
    l'insignificanza della propria esistenza in rapporto con quella del
    condottiero. Più il capo era ritenuto una persona eccezionale più il noi,
    composto di tante soggetti con un Io debole,
    poteva essere sacrificato alla sua causa. La vita di un anonimo
    appartenente alla massa non solo era sacrificabile per realizzare il
    progetto del capo, ma addirittura la morte volontaria per la causa era
    considerata la più grande delle virtù: non a caso quindi il fascismo impose
    un modello di virtù in cui si lodava principalmente la disciplina,
    l'obbedienza, il senso del dovere e della necessità di raggiungere uno
    scopo, l'eroismo, il sacrificio di sé.
 A Le Bon va dunque il merito di aver dimostrato
    come per governare in modo dittatoriale una società di massa un capo debba
    in primo luogo proporre come Io forte alla molteplicità di soggetti deboli
    prodotti da una società massificata. Lo psicologo francese ha inoltre
    dimostrato nella Psicologia delle folle quanto sia
    importante per un capo proporre una missione di vita ai suoi sottoposti,
    uno scopo anche irrealizzabile ma che abbia la capacità di riattivare le
    energie intorpidite e il loro bisogno di credere. Sempre a
    Le Bon ha per primo riconosciuto il bisogno delle masse di essere
    inserite in un mondo condiviso di simboli e di speranze, in una comunità-
    anche folle quale quella nazionalsocialista- ma in cui forti siano i legami
    con gli altri uomini e che siano retti da una forte ideologia comune.
    Infine, ma questa forse è la scoperta più importante e più abusata dai
    regimi totalitari, Le Bon aveva preannunciato il
    bisogno delle folle di trovare un proprio rappresentante che sapesse dar
    vita alle loro speranze e realizzare il loro bisogno di crudeltà e
    vendetta. All'opera di Le Bon si devono tutte
    queste scoperte, ai dittatori totalitari la colpa di aver usato con
    brutalità atroce queste suggerimenti teorici. E l'unico paragone che è
    possibile fare con altre storie è quello con gli
    inventori della bomba atomica, ricercatori che non avrebbero sganciato
    l'ordigno ma l'avrebbero creato: anche .Le Bon
    fornì le basi teoriche per realizzare il totalitarismo, ma lasciò ad altri
    il compito di applicarle.
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