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La Repubblica di Platone: la distanza dell'arte (mimesi) dalla verità (idea)
Fissiamo ancora una volta la questione: in che rapporto sta l'arte con la verità?? Dove sta l'arte in questo rapporto?? L'arte è (imitare). In base all'essenza dell' (imitare) si deve poter vagliare il suo rapporto con la verità. Che cos'è (imitare) ?? Socrate dice a Glaucone: "l'imitare, visto nell'insieme, sapresti dirmi che cosa mai è?? Perché anch'io, in effetti, non comprendo del tutto che cosa pretenda di essere".
Così i 2 incominciano a dialogare, fissando lo sguardo sulla cosa stessa nominata dalla parola, e precisamente essendo in cammino, per seguire la cosa, nel modo consueto, perché questo è quanto vuol dire la parola greca metodo. Il modo consueto di procedere, è questo il modo praticato da Platone per porre la questione dell'ente in quanto tale. Nei suoi dialoghi Platone si è ripetutamente pronunciato in merito a ciò. Il metodo, il suo modo di porre le questioni, non fu mai una tecnica rigida, ma si svolgeva in misura del suo procedere verso l'essere. Quando dunque, nel nostro passo, il metodo viene riassunto in un'affermazione 151f52b essenziale, questa connotazione del pensiero platonico delle idee corrisponde a quello stadio della filosofia di Platone che viene raggiunto con l'elaborazione della Repubblica, ma che non è affatto quello sommo. Per il contesto delle questioni che ora ci riguardano, questa connotazione del metodo è di particolare importanza.
Socrate (cioè Platone) dice al riguardo: "un qualcosa di rispettivamente uno, abbiamo preso la consuetudine di porcelo (farcelo stare davanti) in riferimento all'ambito dei rispettivi molti ai quali attribuiamo lo stesso nome". Qui un qualcosa di rispettivamente uno non significa concetto, ma l'aspetto di qualcosa. Nell'aspetto, questa o quella cosa non è attuale e presente nella sua particolarità, ma piuttosto in ciò che è. Essere-presente significa essere; l'essere viene dunque percepito nello scorgere l'aspetto. Come accade ciò?? Un rispettivo aspetto viene posto. Che cosa vuol dire?? La tendenza ovvia è di aggiustarsi l'affermazione citata, che deve descrivere concisamente il metodo, nel modo seguente: per una molteplicità di cose singole, per esempio di singole case, viene posta l'idea (casa). Tuttavia, con questa rappresentazione corrente del modo platonico di pensare le idee non cogliamo il nocciolo del metodo. Non si tratta semplicemente della posizione dell'un qualcosa di rispettivamente uno, ma di quella impostazione per mezzo della quale soltanto, e non prima, ciò che ci capita di incontrare, nella sua molteplice individualità, viene posto contro l'unità dell'un qualcosa di rispettivamente uno, e viceversa questo è posto contro quella, e quindi entrambi vengono messi in relazione fra loro. Viene posta, postulata, cioè messa al suo posto e rappresentata per il guardare, non soltanto l'idea, ma prima ancora la molteplicità dell'individuale in quanto riferibile e quell'uno che è il suo aspetto unitario. Il procedimento è perciò uno stabilirsi tra le molte cose individuali e il rispettivo uno dell'idea, per cogliere entrambi e determinarne il riferimento reciproco.
L'indicazione essenziale in questa procedura è data dal linguaggio, mediante il quale comunemente l'uomo si rapporta all'ente. Nella parola, e precisamente in quella direttamente parlata, si incrociano le 2 prospettive:
la prospettiva che guarda a ciò che di volta in volta viene direttamente chiamato in causa: questa casa, questo tavolo, questo letto
e la prospettiva che guarda all'in quanto che cosa questo singolo viene chiamato in causa con la parola: questa cosa in quanto casa (guardando al suo aspetto)
Soltanto se leggiamo l'affermazione sul metodo secondo questa interpretazione cogliamo pienamente il senso inteso da Platone. Siamo da tempo abituati a considerare subito le molte cose individuali guardando al loro carattere universale. Tuttavia, la scoperta di Platone consiste proprio nel fatto che qui le molte cose individuali, come tali, appaiono nell'ottica del loro aspetto in quanto tale. Solo riattuando questa scoperta, l'affermazione sul metodo poco fa citata dà la retta indicazione sul procedimento che va ora messo in atto nello stare dietro all' (imitare).
Imitare vuol dire presentare e fabbricare, pro-durre una qualche cosa al modo di un'altra. L'imitare si muove nell'ambito del fabbricare, inteso in senso molto ampio. Dunque il prossimo passo è che capita di vedere una molteplicità di cose fabbricate, ma non come una confusa massa di molte cose diverse, ma come quelle molte singole cose che noi chiamiamo già con un unico nome. Queste molteplici cose fabbricate sono per esempio le suppellettili che troviamo, molteplici, in uso in molte case. Ci sono molteplici letti e tavoli, cioè molte di numero e molteplici nella rispettiva apparenza immediata. Ma l'importanza non è la constatazione che ci sono molti, anziché pochi, tavoli e letti; piuttosto lo sguardo si dirige subito e soltanto su ciò che è già posto con questa constatazione: molti letti, molti tavoli, eppure ogni volta soltanto un'unica idea di letto e un'unica idea di tavolo. La rispettiva unicità dell'aspetto non è soltanto l'uno di numero, ma è, prima ancora, l'uno nel senso dello stesso e unico, quell'uno che continua a sussistere attraverso tutte le variazioni degli impianti, vale a dire che mantiene la sua stabilità. Nell'aspetto si vede che cosa è ciò che ci capita di incontrare. Fa quindi parte dell'essere (dal punto di vista di Platone) la stabilità. Tutto ciò che diviene e che muta non ha, in quanto instabili, alcun essere. Pertanto, nel senso del platonismo, l'essere sta sempre in antitesi al divenire e al cambiamento, escludendosi. Oggi, invece, noi siamo abituati a chiamare reale ed ente vero e proprio anche ciò che muta, ciò che accade, anzi proprio esso. Nietzsche invece, quando dice essere, lo intende (anche dopo il rovesciamento del platonismo) sempre nel senso di Platone, cioè in antitesi al divenire.
Ma le idee invero per l'ambito di queste suppellettili sono 2, una in cui si mostra il letto, l'altra in cui si mostra il tavolo. Qui è fornita la chiara indicazione che la stabilità e l'identità dell'idea sono sempre per l'ambito dei molti e in quanto l'intorno che abbraccia i molti, quindi non una qualsiasivoglia stabilità indeterminata. Ma con ciò la visione filosofica non è alla fine; si è invece solo guadagnata la prospettiva per domandare: che ne è delle molte cose fabbricate, delle suppellettili, in riferimento alla rispettiva idea?? Questa domanda viene posta per arrivare a sapere qualcosa dell' (imitare). Bisogna pertanto, entro l'ambito visivo guadagnato, guardarsi intorno in modo più preciso, e questo, daccapo, partendo dalle molte suppellettili. Esse non sono semplicemente lì davanti, ma sono a disposizione per l'uso o sono direttamente in uso. Esse sono in vista di quest'ultimo; in quanto prodotti, sono fatte per l'uso generale nella comunità di coloro che abitano insieme. Costoro che abitano insieme sono il popolo, detto nel senso del pubblico essere l'uno con l'altro conoscendosi reciprocamente ed essendo affiatati. Le suppellettili sono fatte per il popolo. Chi fabbrica tali suppellettili si chiama per questo artigiano, artefice e costruttore di qualcosa per il popolo. Nella nostra lingua, per indicarlo, abbiamo ancora una parola, per quanto di uso raro e limitato ad un determinato ambito: il carradore (artigiano che fa o che ripara carri), colui che fa telai, cioè telai di carrozze. Che le suppellettili e i telai vengano costruiti dal carradore non è però niente di speciale! Certo che no.
Eppure le cose più semplici devono essere pensate a fondo nella più semplice chiarezza dei loro riferimenti. In questo senso, il fatto quotidiano che il carradore fabbrica, pro-duce telai, diede da pensare anche ad un pensatore come Platone. Gli diede da pensare anzitutto questo: nel fabbricare tavoli il falegname procede in modo da fare questo e quel tavolo guardando all'idea. Tiene d'occhio l'aspetto di un tavolo. E questo aspetto di una cosa come il tavolo?? Che ne è di esso dal punto di vista del fabbricare?? Il falegname fabbrica anche questo?? No. Infatti, nessuno degli artigiani fabbrica mai l'idea stessa. E come potrebbe mai costruire un'idea con scure, sega e pialla! Qui si mostra una fine (un confine) che nessuna pratica può superare, e si mostra precisamente in ciò di cui essa ha bisogno per poter essere pratica. Infatti, altrettanto essenziale quanto il fatto che il falegname con i suoi arnesi non è in grado di costruire l'idea è che egli deve guardare all'idea per essere quello che è: fabbricatore di tavoli. Così, l'ambito di una fabbrica si estende essenzialmente oltre le 4 pareti che racchiudono gli arnesi del mestiere e le cose fabbricate. Essa ha una vista sull'aspetto, sull'idea di ciò che è immediatamente alla mano e in uso. Il carradore è uno che fa telai e che, nel fare, deve guardare a qualcosa che egli stesso non può fare. L'idea è prima di lui, ed egli viene dopo di essa. Dunque come uno che fa, come produttore, egli è già in qualche modo uno che fa-dopo, seguendo, è un imitatore, ri-produttore. Dunque uno che sia un puro pratico non esiste affatto; anch'egli, necessariamente e fin da principio, è già da sempre più che pratico. Questa è la cognizione fondamentale a cui vuole arrivare Platone.
L'altra cosa che gli diede da pensare (e che noi dobbiamo ricavare dal fatto che le suppellettili sono costruite da artigiani) era tuttavia per i Greci stessi evidente, mentre per noi è vaga, e precisamente per l'ovvietà del fatto che le cose costruite in quanto fabbricate, che un tempo non erano enti, ora sono. Esse sono. Noi comprendiamo questo sono (e nel farlo pensiamo molto poco). Per i Greci l'essere delle cose costruite era determinato, ma in modo diverso da come lo è per noi. Ciò che viene fabbricato è, poiché l'idea lo fa vedere, lo fa essere presente nell'aspetto, cioè lo fa essere. Solo in questo senso ciò che viene fabbricato può essere detto ente. Fare, costruire significa pertanto: portare l'aspetto stesso a mostrarsi in qualcos'altro, in ciò che è costruito, porre-qui l'aspetto, non costruirlo ma farlo apparire. Ciò che viene costruito è soltanto in quanto in esso appare l'aspetto, l'essere. Qualcosa di costruito è vuol dire: in esso si mostra la presenza del suo aspetto. Un artefice è uno che spinge l'aspetto di qualcosa nella presenza della visibilità sensibile. Con ciò sembra essere sufficientemente definito che cos'è, e com'è, quello che l'artigiano propriamente fa o non può fare. Ciascuno di questi fabbricatori o pro-duttori di suppellettili disponibili e utilizzabili e di arnesi si mantiene nell'ambito dell'idea che lo guida: il falegname guarda all'idea del tavolo, il calzolaio a quella della scarpa, e ciascuno è tanto più abile quanto più puramente egli sta nei suoi limiti; altrimenti è un acciarpane (colui che fa in fretta e senza cura).
Ma che dire di un uomo che fabbrica, produce tutto quello che ciascuno degli artigiani è in grado di fare?? Sarebbe un uomo potentissimo, inquietante e che susciterebbe meraviglia. Costui esiste realmente. Fabbrica ogni genere di cose. Non soltanto sa fabbricare suppellettili, ma fabbrica anche ciò che cresce dalla terra, piante e animali e tutti gli altri viventi; perfino se stesso, e inoltre la terra e il cielo, e addirittura gli dèi, e tutto quello che è in cielo e negli inferi. Ma questo fabbricatore che sta al di sopra di tutti gli enti, addirittura al di sopra degli dèi, sarebbe il vero taumaturgo (che fa miracoli) ! Eppure questo artigiano esiste, non è niente di inconsueto, ognuno di noi è in grado di mettere in atto questo fabbricare. Si tratta soltanto di considerare in quale modo egli fabbrica.
Nel riflettere su quanto viene fabbricato e sul fabbricare bisogna fare attenzione al (modo). Siamo soliti tradurre questa parola greca, correttamente ma con una resa insufficiente, con modo e maniera; vuol dire: come uno si volta, dove si volge, dove si trattiene, per che cosa si impiega, e che cosa rimane rivolto e legato, a che cosa mira. Che cosa significa ciò nell'ambito del fabbricare e pro-durre?? Si può dire che il modo in cui il calzolaio procede è diverso da quello in cui un falegname si mette all'opera. Certo, ma la diversità è qui determinata da ciò che di volta in volta dev'essere fabbricato, dal materiale in base a ciò prescritto e dalla lavorazione richiesta da quest'ultimo. Eppure tutti questi modi di fabbricare sono governati dallo stesso (modo). In quale misura?? È quanto si deve stabilire dall'andamento del dialogo, che ora dobbiamo seguire.
"E che (modo) è questo che rende possibile un fabbricare in grado di produrre ogni genere di cose, nelle dimensioni indicate e non limitate più da niente?? Questo (modo) non presenta difficoltà; seguendolo si può procedere e produrre ovunque e subito. Ma nel modo più rapido prendendo semplicemente uno specchio e portandolo in giro ovunque.
Farai così presto a fabbricare il sole e ciò che è nel cielo, farai presto anche la terra, presto anche te stesso e gli altri viventi e le suppellettili e le piante e tutto quanto è stato or ora presentato".
Vediamo da questo passaggio del dialogo quanto essenziale sia riuscire a pensare fin dall'inizio nel senso greco il fare, come fabbricare, pro-durre. Questo pro-durre l'aspetto lo effettua lo specchio, esso fa essere presenti tutti gli enti nel loro aspetto.
Ora, però, questo è anche il luogo opportuno per elaborare un'importante distinzione nel (modo) del fabbricare. Essa soltanto consente un concetto più chiaro dell'artigiano e quindi dell'imitare, ri-produrre, ri-fare.
Se volessimo intendere il fare nel senso indeterminato del costruire, l'esempio dello specchio non avrebbe allora alcuna forza; infatti lo specchio non costruisce il sole.
Se lo intendiamo invece come pro-durre nel senso greco dell'apportare l'idea (l'aspetto di qualcosa in qualche altra cosa, in un qualsiasi modo), allora lo specchio pro-duce, in questo determinato senso, il sole.
In riferimento al portare in giro lo specchio e allo specchiare Glaucone deve perciò anche ammettere subito: certo, è un produrre l'ente; ma nota: però le cose che si mostrano nello specchio hanno soltanto l'aspetto di, ma non sono enti presenti nella svelatezza (cioè dis-simulati (mascherati) dal semplice aspetto di, dalla sembianza). Lo specchiare produce certo l'ente come qualcosa che si mostra, non però come ciò che è nella dis-velatezza, nella dis-simulatezza. Qui si contrappongono
l'ente in quanto si mostra
e l'ente in quanto dis-simulato
non
l'ente in quanto si mostra come parvenza e parvente, da un lato
e l'ente in quanto dis-simulato come essere, dall'altro
bensì entrambe le volte ente presente, ma in modi diversi dell'essere presente. Ma non sono la stessa cosa ciò che si mostra e ciò che è dis-simulato?? Sì e no. Sono la stessa cosa in quanto sono quello che è presente (casa), e la stessa cosa in quanto sono ogni volta un essere presente, in cui però il (modo) è diverso.
Nel primo caso la casa è presente nel mostrarsi, apparendo sulla superifice metallica dello specchio e per suo mezzo
nell'altro, la casa è presente mostrandosi nella pietra e nel legno
Quanto più nettamente teniamo ferma l'identità, tanto più chiara deve diventare la differenza. Platone si affanna qui a cogliere il diverso (modo), cioè, al tempo stesso e soprattutto, a determinare quel modo in cui l'ente presente stesso si mostra il più puramente possibile, in modo che esso non si presenti tramite altro, ma il suo aspetto costituisca l'essere. Questo mostrarsi è l'aspetto come idea.
Ne risultano 2 modi della presenza: la casa (cioè l'idea) si mostra
nello specchio
o nella casa stessa che sta lì davanti
Di conseguenza, bisogna distinguere e illustrare 2 modi del produrre e 2 tipi di produttori. Se si chiama ogni pro-duttore artigiano, allora colui che fa specchi è un tipo particolare di artigiano. Per questo Socrate prosegue: di questo tipo di pro-duttori (del tipo di chi fa specchi) credo infatti faccia parte anche il pittore. L'artista fa essere presenti gli enti, ma come mostrantisi nell'apparire tramite altro; non produce come svelato ciò che produce. Non produce l'aspetto. Eppure anche il pittore produce un letto, in un certo modo. Il (modo) vuol dire qui il modo della presenza dell'ente presente (dell'idea) e quindi ciò in cui e attraverso cui l'ente presente si pro-duce e si pone nella presenza. Il (modo) è in un caso lo specchio, nell'altro la superficie dipinta, nell'altro ancora il legno in cui il tavolo viene alla presenza.
Si fa presto a dire che gli uni fanno cose apparenti, gli altri cose reali. Ma la questione è: che cosa significa, qui, reale?? E il tavolo costruito dal falegname è per il Greco il tavolo reale, quello che è?? In altri termini: il falegname, costruendo un tavolo, questo e quel tavolo, produce con ciò il tavolo che è, oppure il costruire è un apportare siffatto che non è in grado, né mai lo sarà, di produrre il tavolo stesso?? Abbiamo già sentito che c'è una cosa che anch'egli non pro-duce né può pro-durre con i suoi mezzi di carradore: non produce il puro aspetto in sé (di una cosa come il letto). Lo presuppone come già datogli e quindi come a lui e per lui fornito e pro-dotto.
Ora, che cos'è questo aspetto di per sé e in riferimento al singolo letto che il carradore produce?? L'aspetto del quale diciamo che è ciò che il letto è, quindi che cosa esso è in quanto tale: il che cos'è. È evidentemente l'essenziale nell'ente, ciò per cui esso in prima e ultima istanza è. Se ora, però, l'artigiano non pro-duce appunto l'aspetto in sé, ma guarda ad esso soltanto come qualcosa a lui già da sempre fornito, e se l'aspetto è ciò che, nell'ente, è in senso vero e proprio, allora l'artigiano non pro-duce nemmeno l'essere dell'ente, bensì sempre e soltanto questo e quell'ente; non il che cos'è del letto, ma un qualche letto.
Così, anche l'artigiano, che pure è attivo e mette mano alla realtà tangibile, non è presso l'ente stesso, presso l'ente in quanto dis-simulato. Per questo Socrate dice: per niente dunque ci meraviglieremo se anche ciò che è stato costruito dall'artigiano si rivelasse come qualcosa di offuscato e opaco in rapporto alla svelatezza. Certo, il legno del letto, le pietre della casa fanno di volta in volta apparire l'idea, eppure questo pro-durre è un offuscarsi e un opacizzarsi dello splendore originario dell'idea. Così, la casa che noi diciamo reale decade in un certo modo allo stesso livello dell'immagine della casa nello specchio e di un dipinto. Ciò che si offusca è poi però, rispetto a ciò che è dis-simulato, un qualcosa di opaco e di debole; non ha l'intima potenza dell'essere presente dell'ente stesso.
Solo ora si è guadagnata la posizione dalla quale Socrate può invitare, rifacendosi a quanto discusso, a tentare di rischiarare l'essenza dell' (imitare). A tal fine, ricapitoliamo i risultati finora raggiunti in una caratterizzazione più precisa.
Nell'attacco iniziale della considerazione abbiamo constatato che ci sono molteplici singoli letti montati nelle case. Questa molteplicità è facile da vedere, tanto più se ci si guarda intorno in modo solo approssimativo. Per questo Socrate (Platone) dice all'inizio del dialogo con un rinvio molto profondo, ironico, a quello che segue e a cui stiamo ora per arrivare: molte e molteplici cose vedono coloro che vedono con occhi ottusi, più di coloro che osservano acutamente. Coloro che osservano più acutamente vedono meno, me in compenso vedono l'essenziale e il semplice. Non si perdono nel semplice molteplice che rimane inessenziale. Gli occhi ottusi vedono una molteplicità innumerevole di diversi singoli letti. Gli occhi acuti vedono un'altra cosa, anche quando, anzi, proprio quando si soffermano solo su un unico letto che sta lì davanti. Per gli occhi ottusi il molto diviene sempre di più un molteplice (che è ritenuto molto e passa per ricchezza); per gli occhi acuti, invece, il semplice si fa più semplice. In tale farsi più semplice nasce ciò che è per essenza plurimo. Vale a dire:
la prima (una) cosa pro-dotta dal dio, (il puro) aspetto uno e identico, l'idea
la seconda cosa, quella costruita dal falegname
la terza, quella a cui il pittore ha dato forma
Nella parola letto è nominata una cosa semplice, ma in un certo modo sono qui venute fuori un primo, un secondo e un terzo letto. Uno infatti è quello che è nella natura. Ci rendiamo conto che con questa traduzione non ne veniamo fuori. Che cosa vuol dire qui natura?? Nella natura non si trovano letti, essi non crescono come alberi e arbusti. Certo, ancora per Platone e soprattutto nel primo inizio della filosofia greca, natura significa lo schiudersi al modo in cui la rosa si schiude e si mostra sviluppandosi da sé. Ma quella che noi chiamiamo natura, il paesaggio, la natura esterna, è soltanto un determinato campo specifico della natura, della natura nel senso essenziale secondo il quale essa vuol dire: ciò che è presente sviluppandosi da sé. Natura è la parola-fondamentale greca iniziale per indicare l'essere stesso nel senso della presenza che si schiude da sé e che così regna sovrana.
Il letto che è nella natura vuol dire: ciò che, in quanto da sé presente, permane nel puro essere, ciò che viene fuori da sé, sta in antitesi a quello che dev'essere prima pro-dotto da altro. Ciò che si produce da sé nel suo aspetto puro. Ciò che è così presente è quello che di un aspetto è scorto in modo assolutamente puro, senza il traminte di nient'altro, dunque l'idea. Un uomo non può far sì che una tal cosa venga in luce, si schiuda. L'uomo non può produrre l'idea, può solo esserle condotto dinanzi. Per questo Socrate dice della natura: di essa diremmo, come credo, che un dio l'ha prodotta e fornita.
Un altro letto è quello che costruisce l'artigiano. E un altro ancora quello che mette in piedi il pittore.
Questa triplicità di un unico letto, e quindi naturalmente di ogni singolo ente sussistente, viene condensata nella seguente affermazione: dunque il pittore, il carradore, il dio, questi 3 sono tali che si assegnano, presiedono a 3 modi dell'aspetto del letto. Ciascuno presiede ad un diverso modo del mostrasi e, nel suo modo, guarda ad esso, ne è il sopraintendente che sorveglia e domina il mostrarsi. Se si traducesse un qualcosa di rispettivamente uno semplicemente con specie (3 specie di letti) si occulterebbe l'aspetto decisivo; infatti, quello a cui Platone mira è far vedere come la stessa cosa si mostri qui in modi diversi: 3 modi del mostrarsi e quindi della presenza, dunque 3 varianti dell'essere stesso. Ciò che importa è l'unitarietà del carattere fondamentale che permane in ogni diversità, cioè che permane senza interruzione nel mostrarsi: avere questo e quell'aspetto ed essere presente nell'aspetto.
Facciamo attenzione a qualcosa che ha sempre accompagnato la considerazione fin qui svolta: tutte le volte che si è parlato dell'ente vero e proprio, si è peralto di ciò che è in verità. Ma verità, concepita in modo greco, significa: dis-simulatezza, apertura, e precisamente per ciò stesso che si mostra.
L'interpretazione dell'essere come essere presente nell'aspetto, presuppone l'intepretazione della verità come dis-simulatezza. Bisogna fare attenzione a ciò, se vogliamo capire rettamente, cioè in modo greco, il rapporto tra arte (imitare) e verità nella concezione di Platone. In questo ambito soltanto, e non prima, nascono le questioni di Platone e da esso ricevono la possibilità delle risposte.
Così qui, al culmine dell'interpretazione platonica dell'essere dell'ente come idea, è subito viva la questione: perché il dio, per il rispettivo ambito di cose individuali, per esempio per i letti, ha fatto di volta in volta venire fuori una sola idea?? O non voleva, o gli si imponeva una certa necessità di non ammettere più di un letto che si schiude nel suo aspetto; 2 siffatte idee, o più, non furono fatte venir fuori dal dio, né verrebbero mai fuori. Per quale ragione?? Perché, di idee di una cosa, ce n'è sempre una soltanto??
Esponiamo brevemente la risposta di Platone con una retrospettiva sulla già discussa essenza del vero, sulla sua unicità e immutabilità.
Che cosa succederebbe se per una cosa e per la sua moltiplicazione (casa e case, albero e alberi, animale e animali) il dio facesse schiudere più idee?? Risposta: se, anziché un'unica idea casa, ne facesse schiudere anche solo 2, ne apparirebbe allora di nuovo una di cui quelle 2 avrebbe l'aspetto, e il che cos'è del letto o della casa sarebbe daccapo ques'uno, e non quelle 2. Dunque questa unità e unicità fa parte dell'essenza dell'idea. Ora, dove sta per Platone il fondamento di questa rispettiva unicità dell'idea (dell'essenza) ?? Non nel fatto che, ponendo 2 idee, queste ne lasciano venir fuori una più alta, al di sopra di loro, ma nel fatto che il dio, sapendo dell'elevarsi del rappresentare da una molteplicità ad una unità, vuole essere il produttore che è essenzialmente di una cosa che è essenzialmente, non di una singola cosa qualsiasi e non come un carradore. Poiché il dio volle essere tale, fa venir fuori, per esempio i letti, nell'unità e unicità dell'essenza. Su che cosa è fondata quindi in ultima istanza, per Platone, l'essenza dell'idea e perciò dell'essere?? Sulla postulazione di un creatore la cui essenzialità appare salva soltanto se ciò che egli crea è qualcosa di rispettivamente unico, uno, perché con ciò si è tenuto conto al tempo stesso di quell'elevarsi della rappresentazione di un molteplice fin nella rappresentazione del suo uno.
La fondazione di questa interpretazione dell'essere ricorre alla postulazione di un creatore e alla pre-supposizione di un uno che unifichi rispettivamente cose molteplici. Per noi qui si cela la questione: come si coappartengono l'essere, come essere presente e far essere presente, e l'uno come ciò che unifica?? Il ricorso ad un creatore contiene una risposta alla questione menzionata?? Oppure questa questione rimane non posta perché né l'essere è certamente pensato come essere presente, né l'unificare dell'uno è determinato in vista dell'essere come essere presente??
Ogni singolo ente (che noi oggi prendiamo, come tale, per il reale vero e proprio) si mostra in 3 modi dell'aspetto. In conformità con ciò, può essere portato a mostrarsi, cioè pro-dotto, in 3 modi. Di conseguenza ci sono anche 3 specie di produttori:
il dio; egli fa schiudere l'essenza. Egli procura lo schiudersi del puro aspetto e lo tiene pronto affinché l'uomo lo possa scorgere
l'artigiano; produce un letto secondo l'essenza di quest'ultimo, ma lo fa apparire nel legno, ossia in ciò in cui il letto, in quanto singolo letto, sta di volta in volta a disposizione per l'uso generale
il pittore; porta il letto a mostrarsi nell'immagine. Può ancora essere detto un artigiano, cioè lavora ancora per il pubblico essere l'uno con l'altro e usare le cose?? No! Infatti egli non tiene a disposizione l'essenza pura come il dio, ma la offusca nel materiale del colore e della superficie, né tiene a disposizione per l'uso, in quello che sono, le cose da lui messe in piedi. Il pittore non è un artigiano, bensì un imitatore di ciò di cui quelli sono produttori per il pubblico. Che cos'è allora l'imitatore?? L'imitatore presiede e domina un modo in cui l'essere, l'idea, viene portata ad avere un aspetto. Ciò che egli apparecchia, il dipinto, è la terza pro-duzione, la terza contando dal puro schiudersi dell'idea considerato come prima. Nel tavolo dipinto si mostra in qualche modo il tavolo in generale, dunque si mostra pure in qualche modo la sua idea; e si mostra inoltre un singolo impianto ligneo, dunque in qualche modo una cosa che in verità è fatta dall'artigiano: entrambi però si mostrano in un altro elemento, nel colore, in una terza cosa. In questo mezzo non può né trovarsi un tavolo che sia utilizzabile, né il suo aspetto mostrarsi puramente come tale. Il modo in cui il pittore pro-duce il tavolo nella visibilità si allontana dall'idea, dall'essere dell'ente, ancora di più della produzione del tavolo ad opera del falegname.
L'allontanamento dall'essere e dalla sua pura visibilità è decisivo per la determinazione dell'essenza dell'imitatore. Per il concetto greco-platonico dell'imitazione, decisivo non è il riprodurre, il copiare, il fatto che il pittore offra la stessa cosa un'altra volta, ma il fatto appunto di non essere capace di farlo e di essere ancora meno in grado di riprodurre di quanto lo sia l'artigiano. È perciò erroneo supporre dietro l'imitazione l'idea del riprodurre e del raffigurare naturalistico e primitivo. Imitazione, ri-facimento è: pro-durre subordinato. L'imitatore è determinato, nella sua essenza, dal punto di distanza risultante dalla successione gerarchica secondo la quale sono ordinati i modi del produrre in vista del puro aspetto, cioè dell'essere.
Ma la posizione subordinata dell'imitatore e dell'imitazione non è ancora sufficientemente definita. È necessario chiarire in quale modo il pittore sia subordinato anche al falegname. Un singolo tavolo reale presenta, dai diversi lati, diverse vedute. Ma, nell'usare il tavolo, esse sono indifferenti, ciò che importa è questo tavolo, unico e identico. Esso non si differenzia (nonostante le diverse visioni) in niente da se stesso. Questa cosa unica, singola e identica il falegname può costruirla. Il pittore invece può prendere di mira il tavolo sempre e soltanto da una determinata posizione. Quello che pro-duce è quindi sempre e soltanto una veduta, un modo in cui il tavolo appare: se lo dipinge di fronte, non può dipingerne il retro. Egli pro-duce il tavolo sempre e soltanto in una visione. Non solo il pittore non può produrre alcun singolo tavolo da usare, ma questo singolo tavolo egli non può nemmeno farlo apparire pienamente: ecco che cosa determina il suo carattere di imitatore.
L'imitazione è però l'essenza di ogni arte. Dunque, è propria dell'arte questa posizione distante dall'essere, dall'aspetto immediato e dis-simulato, dall'idea. Rispetto alla manifestazione dell'essere, cioè alla messa in evidenza dell'essere nello svelato, nella dis-simulatezza, l'arte è qualcosa di subordinato.
Dove sta dunque, per Platone, l'arte in rapporto alla verità?? Risposta: lontano dalla verità sta dunque l'arte. Ciò che essa produce non è l'aspetto come idea, ma soltanto la sembianza dell'aspetto puro; questa sembianza è un aspetto piccolo, non solo nel senso delle dimensioni, ma anche esiguo nel modo di mostrarsi e di apparire. Esso non è che un resto del genuino mostrarsi dell'ente, e questo elemento residuo sta in un ambito estraneo, per esempio quello del colore o di un altro materiale raffigurativo. La sminuizione del modo del pro-durre è offuscamento e simulazione. Siffatto sarà dunque anche il tragediografo, se è un artista, in certo modo in terza posizione partendo dal sovrano che domina lo schiudersi del puro essere, subordinato in terza posizione, secondo la sua essenza, rispetto alla verità (e al suo coglimento nello scorgere puro), e siffatti sono pure gli altri artisti.
Nella gerarchia dei diversi modi della presenza dell'ente, e quindi dell'essere, l'arte sta, per la metafisica di Platone, di gran lunga al di sotto della verità. Incontriamo qui una distanza. Ma la distanza non è discrepanza, soprattutto se l'arte (come vuole Platone) viene posta sotto la guida della filosofia in quanto sapere dell'essere dell'ente. Non è questo il luogo per seguire ciò che Platone pensa in questa direzione, dunque nemmeno l'ulteriore contenuto del decimo libro.
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