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Ambito e contesto della riflessione di Platone sul rapporto tra arte e verità
L'arte, vista secondo l'indicazione di Nietzsche nella prospettiva dell'artista, di colui che crea, ha la sua realtà nell'ebbrezza della vita del corpo. Il formare e il raffigurare artistici, nella loro essenza, sono fondati nell'ambito del sensibile; l'arte è l'affermazione del sensibile. Secondo la dottrina del platonismo viene però affermato come ente vero e proprio il soprasensibile. Coerentemente, il platonismo e Platone dovevano rinnegare l'arte, affermazione del sensibile, come un non ente e come un ente-che-non-deve-essere. Nel platonismo, per il quale la verità è il soprasensibile, il rapporto con l'arte diventa evidentemente un rapporto di esclusione, di antitesi e di divisione, dunque di discrepanza. Se tuttavia la filosofia di Nietzsche è il rovesciamento del platonismo, e il vero è perciò l'affermazione del sensibile, allora la verità è quella stessa cosa che l'arte afferma: il sensibile. Per il platonismo rovesciato il rapporto tra arte e verità può essere soltanto un rapporto di concordanza e concordia. Se mai dovesse sussistere in Platone una discrepanza (cosa che è da vedersi, dato che non già ogni distanza può essere intesa come discrepanza) allora nel rovesciamento del platonismo, cioè nella soppressione di questa filosofia, anch'essa dovrebbe scomparire.
Eppure Nietzsche dice che il rapporto è una discrepanza e addirittura tale da suscitare sgomento. Nietzsche parla di questa discrepanza che suscita sgomento non nel periodo precedente l'autentico rovesciamento del platonismo, ma proprio nel periodo in cui questo rovesciamento è per lui deciso.
Dov'è una via per giungere al senso che si nasconde dietro queste strane parole sul rapporto tra arte e verità?? Dobbiamo arrivarci, perché solo da lì possiamo vedere la posizione metafisica di fondo di Nietzsche nella sua luce propria. Faremo bene a partire da quella posizione filosofica fondamentale nella quale una discrepanza tra arte e verità appare perlomeno possibile, cioè del platonismo.
La questione se nel platonismo sussita necessariamente, e quindi realmente, un contrasto tra la verità, il vero ente, da una parte, e l'arte con ciò che in essa è rappresentato, dall'altra, va risolta soltanto in base all'opera stessa di Platone. Qualora vi sia qui un contrasto, lo si deve poter formulare in una tesi che, nel comparare arte e verità, dica il contrario di quello che Nietzsche decide nella valutazione del loro rapporto.
Nietzsche dice: l'arte vale più della verità.
Platone deve decidere: l'arte vale meno della verità, cioè della conoscenza del vero ente, vale a dire della filosofia.
Così, nella filosofia di Platone, che viene presentata volentieri come la fioritura del pensiero greco, si deve arrivare ad una degradazione dell'arte. Questo presso i Greci, che pure affermarono e fondarono l'arte come quasi nessun altro popolo occidentale! È strano, ma innegabile. Dobbiamo quindi esporre dapprima, sia pure con la massima brevità, come si presenta in Platone questa degradazione dell'arte rispetto alla verità, e in che misura essa risulta necessaria.
Ma con la seguente indicazione non si intende affatto soltanto far conoscere, in questa prospettiva, l'opinione di Platone sull'arte. Vorremmo ricavare da Platone, per il quale sussiste una divisione tra arte e verità, un cenno che indichi dove e come, nel rovesciamento del platonismo in Nietzsche, possiamo rintracciare questa discrepanza. Nello stesso tempo, seguendo questa via, si deve dare un significato più pieno e più determinato al termine generale platonismo:
Poniamo 2 domande:
Dev'essere chiaro che in genere i Greci non hanno una parola che corrisponda a quello che noi intendiamo con arte nel senso più stretto. La parola arte ha per noi una non casuale polisemia. I Greci, da maestri del pensiero e della parola quali sono, hanno subito traslato questa polisemia nella pluralità di diverse parole univoche. (1) Se con arte intendiamo principalmente l'essere capaci nel senso dell'intendersene di qualcosa, del sapere che conosce bene e quindi padroneggia, questo si chiama per i Greci con un termine ben preciso. In questo sapere è inclusa, senza però essere mai la cosa essenziale, la conoscenza delle regole e dei criteri di un procedimento.
Se con arte intendiamo invece l'essere capaci nel senso della capacità di eseguire, esercitata e diventata quasi una seconda natura e una modalità fondamentale dell'esistenza, l'essere capaci come attitudine dell'eseguire, allora il Greco usa un altro termine ancora, la sollecitudine del prendersi cura. Questa sollecitudine è più dell'accuratezza esercitata, è il controllo della risolutezza raccolta nei confronti dell'ente, la cura. Come tale dobbiamo concepire anche l'essenza intima del primo termine, per tenerlo sgombro dalla successiva interpretazione puramente tecnica. L'unità di questi 2 termini designa poi la posizione fondamentale del ri-solversi in anticipo, dell'esserci a fondare l'ente partendo da questo stesso.
Se per di più con arte intendiamo il prodotto di un produrre, ciò che è posto lì da un fabbricare e il fabbricare stesso, il Greco parla allora con un altro termine ancora. Il fatto che questa parola, in un senso accentuato, sia stata riservata per denominare il produrre qualcosa in parole, il fatto che il termine in quanto poesia diventasse per antonomasia il nome dell'arte della parola, l'arte poetica, è una testimonianza del primato di questa arte nel quadro dell'arte greca nel suo insieme. Perciò non è casuale nemmeno il fatto che Platone, dove parla e decide del rapporto tra arte e verità, tratta in primo luogo e prevalentemente dell'arte poetica e del poeta.
Fin dall'inizio bisogna pensare dove, e in quale contesto, Platone pone la questione del rapporto tra arte e verità; infatti la posizione di questa questione determina, entro la totalità della molteplice riflessione sull'arte così come Platone la mette in atto, la forma della sua intepretazione. Platone pone la questione nel grande dialogo sullo Stato quale forma fondamentale della comunità umana. Si è quindi creduto che Platone abbia posto la questione dell'arte in modo politico, e questa posizione politica della questione dovrebbe essere messa in contrapposizione a quella estetica, e perciò teorica in senso lato, o almeno venirne essenzialmente differenziata. Si può dire politica la posizione della questione dell'arte in Platone nella misura in cui essa emerge in connessione con il grande dialogo sullo Stato; ma bisogna allora in primo luogo sapere, e in secondo luogo dire, che cosa mai significhi politico. Se la dottrina platonica dell'arte dev'essere concepita come dottrina politica, si può allora intendere la parola politico soltanto secondo il concetto che risulta dal dialogo stesso sull'essenza del fare. Questo è tanto più necessario in quanto il grande dialogo, in tutto il suo impianto e il suo andamento, mira a mostrare che il fondamento portante e l'essenza determinante di tutto l'essere politico non consistono in niente di meno che nel teorico, cioè nel sapere essenziale che verte sulla (giustizia). Si traduce questa parola greca con giustizia e se ne manca in questo modo il senso autentico, in quanto ciò che è così nominato viene subito trasposto nell'ambito della moralità o addirittura solo del diritto. Ma questo è un concetto metafisico e non originariamente morale; nomina l'essere relativamente alla congruenza, conforme all'essenza, di ogni ente e di tutti gli enti. Certo, proprio con la filosofia di Platone questo termine si sposta nell'ambigua luce dell'ambito morale; ma rimane quindi tanto più necessario tenere fermo il senso metafisico, perché altrimenti non divengono visibili i retroscena greci di questo dialogo sullo Stato. Il sapere dell'insieme delle leggi che dispongono dell'essere dell'ente, è la filosofia. Pertanto, la conoscenza decisiva dell'intero dialogo sullo Stato dice: è necessario, per essenza, che siano i filosofi a comandare. Questa tesi non significa che i professori di filosofia debbano assumere la guida degli affari dello Stato, ma che le modalità fondamentali di comportamento che reggono e determinano la comunità debbono essere fondate sul sapere essenziale, certo a condizione che la comunità, come ordinamento dell'essere, si fondi da se stessa e non voglia assumere i propri criteri da un altro ordinamento. La libera autofondazione dell'esistenza storica pone se stessa sotto la giurisdizione del sapere (e non della fede, intendendo come tale un annuncio divino della verità autorizzato in conformità con una rivelazione). Ogni sapere è in fondo svincolamento all'ente da esso stesso posto in luce. L'essere diventa visibile per Platone nelle idee. Esse sono l'essere dell'ente e sono così esse stesse il vero ente, il vero.
Se proprio si vuol dire che qui Platone pone la questione dell'arte in modo politico, questo può significare soltanto che egli valuta l'arte riguardo alla sua posizione nello Stato in base all'essenza e al fondamento portante dello Stato, in base al sapere della verità. Una tale posizione della questione dell'arte è in sommo grado teorica. La distinzione tra un porre la questione in modo politico o in modo teorico perde qui qualunque senso.
Ora, però, il fatto che la questione dell'arte in Platone divenga l'inizio dell'estetica non ha il proprio fondamento nel suo carattere teorico, cioè nel suo scaturire da un'interpretazione dell'essere, bensì nel fatto che il teorico come coglimento dell'essere dell'ente viene fondato su una determinata interpretazione dell'essere. L'idea, l'aspetto visto, connota l'essere, e precisamente per quella specie di vedere che riconosce in ciò che vede, in quanto tale, la pura presenza. L'essere sta nel riferimento essenziale al mostrarsi e all'apparire, ne ha lo stesso significato. Riguardo alla possibilità della sua attuazione, ma non riguardo alla finalità, il cogliere le idee come idee è fondato su ciò che nell'estetica di Nietzsche corrisponde all'ebbrezza. L'idea più di tutte amata e bramata nell'ebbrezza, e quindi posta nel riferimento fondamentale, è quella che è al tempo stesso ciò che appare e splende nel modo più luminoso. Questa idea si rivela come l'idea del bello, la bellezza.
Platone tratta del bello e dell'eros soprattutto nel Simposio. La problematica della Repubblica e quella del Simposio vengono fuse insieme (su un fondamento originario e al tempo stesso in vista delle questioni fondamentali della filosofia) nel Fedro. Qui Platone presenta la sua più profonda e più ampia posizione della questione dell'arte e del bello nella forma più rigorosa e più compatta. Lo diciamo per non dimenticare già adesso che le discussioni sull'arte svolte nella Repubblica, le uniche di cui per ora ci importa, non esauriscono la riflessione di Platone a tale riguardo.
Ma come si arriva, nel contesto della domanda-guida del dialogo sullo Stato, alla questione dell'arte?? Vi si pone la questione della struttura della comunità, che cosa in essa, in quanto intero, deve fungere da guida del tutto e che cosa, in quanto suscettibile di essere guidato, ne è parte costitutiva. Non viene descritta una formazione statuale esistente, né viene escogitato l'ideale di uno Stato futuro, ma partendo dall'essere e dal rapporto fondamentale dell'uomo con esso viene progettato l'ordine interno della comunità. Vengono fissati i criteri e i principi dell'educazione al fine della retta partecipazione alla comunità e all'esistenza attiva. Nel proseguo di questo domandare risulta, tra le altre, la seguente questione: fa parte della comunità anche l'arte, soprattutto l'arte poetica?? E come?? Tale questione costituisce nel terzo libro l'oggetto del dialogo. Qui, ma solo allusivamente, si mostra che quello che l'arte apporta e offre è sempre la raffigurazione di un ente; essa non è inoperosa, ma il suo fabbricare e fare rimane imitare, copiare e riprodurre immagini, un poetare nel senso dell'inventare. Così essa reca in sé il pericolo dell'illusione e della menzogna costanti. Secondo l'essenza del suo fare, essa non ha alcun riferimento diretto e determinante al vero e al vero ente. Ne risulta, già in linea di principio, una cosa: nella gerarchia delle forme d'opera e dei modi di comportamento all'interno e per la comunità l'arte non può occupare il rango supremo. Se vi viene ammessa, lo è soltanto in quanto il suo ruolo è fissato e delimitato e il suo fare viene sottomesso a determinate esigenze e indicazioni che risultano dalle leggi direttrici dell'essere statuale.
Da qui è possibile vedere che si può decidere dell'essenza dell'arte e della sua essenzialità limitata entro lo Stato soltanto in base al rapporto originario e autentico con l'ente in quanto è ciò che pone i criteri, in base al rapporto che sa della (giustizia), che sa ciò che in riferimento all'essere è il congruo e l'incongruo. Pertanto, dopo queste discussioni preliminari sull'arte e sugli altri modi di operare nello Stato, si arriva alla questione del rapporto fondamentale con l'essere, quindi alla questione del vero comportamento in rapporto all'ente e infine alla questione della verità. Preseguendo attraverso questi discorsi ci imbattiamo, all'inizio del settimo libro, nella discussione dell'essenza della verità che si basa sul paragone della caverna. Soltanto dopo che per questo lungo e ampio cammino la filosofia è stata determinata come il sapere sovrano dell'essere dell'ente, si arriva, ritornandovi sopra, a fondare le tesi enunciate dapprima solo allusivamente e così anche quelle sull'arte, e precisamente nel decimo e ultimo libro.
Qui si mostra anzitutto che cosa significa che l'arte è (imitare), e poi perché, conformemente al suo carattere, essa non può avere che una posizione subordinata. Qui si decide (ma solo sotto un determinato riguardo) del rapporto metafisico tra arte e verità. Dal decimo libro, seguiamo brevemente la cosa capitale, senza addentrarci in dettaglio nell'andamento del dialogo, ma anche senza entrare nel merito del mutamento e della radicalizzazione, negli ultimi dialoghi, di quanto viene qui trattato.
Rimane intatto il presupposto che ogni arte è (imitare). Noi traduciamo questa parola con ri-fare, ri-produrre, imitare. All'inizio del decimo libro ci si domanda che cos'è il (riprodurre). Siamo facilmente indotti a volervi trovare una rappresentazione primitiva dell'arte, o quanto meno unilaterale, nel senso di un indirizzo artistico chiamato naturalismo, cioè la raffigurazione che riproduce ciò che è lì presente. Entrambi i pregiudizi vanno fin dall'inizio tenuti lontani. Ma ancor più erronea è l'opinione secondo la quale sarebbe un presupposto arbitrario concepire l'arte come (imitare); infatti, proprio con il chiarimento dell'essenza dell' (imitare), compiuto nel decimo libro, non solo dev'essere illustrata la parola, ma dev'essere perseguita in vista della sua possibilità interiore e dei suoi fondamenti portanti la realtà da essa nominata. Questi non sono altro che le rappresentazioni fondamentali dell'ente come tale proprie dei Greci, la loro comprensione dell'essere. Poiché la questione dell'essere è congiunta con la questione della verità, a fondamento dell'interpretazione dell'arte come (imitare) sta il concetto greco di verità. La (imitare) ha senso e peso, ma anche la usa necessità, soltanto su questo fondamento. Questa indicazione è necessaria per fissare subito il giusto orizzonte per la discussione che segue. Ciò che vi viene trattato, dopo una più che millenaria tradizione e assuefazione del pensiero e del rappresentare, sono per noi quasi soltanto luoghi comuni. Ma, dalla prospettiva dell'età di Platone, tutto è una prima scoperta e un primo dire in modo determinante. Per essere fedeli all'atmosfera di questo dialogo, faremo quindi bene ad accantonare per un momento la nostra apparente maggiore intelligenza e il sapere già che si sente superiore. Bisogna qui però rinunciare a percorrere completamente l'intera successione dei singoli passi del dialogo.
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