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Jean Piaget (1896-1980) - La vita,La teoria di Piaget

psicologia



Jean Piaget (1896-1980)

La vita

Jean Piaget nacque a Neuchâtel, in Svizzera, nel 1896 il padre era uno studioso di storia, uomo di

intelligenza lucida e critica, come scrisse Piaget nell'autobiografia; la madre, «una donna

estremamente intelligente ed energica», ma affetta da disturbi nevrotici, e proprio questa sua

«scarsa salute mentale» avrebbe spinto Piaget, come egli riconosceva nell'autobiografia, ad

occuparsi all'inizio di psicoanalisi e psicopatologia. Bambino geniale, Piaget cominciò a

interessarsi di zoologia e a dieci anni pubblicò il suo primo articolo su un passero albino. Iniziò a

frequentare regolarmente il Museo di storia naturale di Neuchâtel come aiutante del direttore Paul



Godet, divenendo presto un esperto di molluschi. I suoi articoli uscirono su autorevoli riviste

specializzate e i lettori - ricorda Piaget - non pensavano fossero opera di un ragazzo, tanto che gli

fu offerto di curare la collezione di molluschi al Museo di storia naturale di Losanna (Piaget

rispose al direttore del Museo che non gli era possibile accettare: «fino a quando non ho finito i

miei studi ginnasiali, cioè solo tra tre anni»; la lettera del 10 maggio 1912 è in Vidal, 1986). Si

laureò in scienze naturali e nel 1918 si specializzò con una tesi sui molluschi.

In quegli anni maturò l'nteresse per la psicologia, preceduto da «crisi» connesse alla situazione

famigliare e probabilmente alla intensa attività scientifica negli anni della pubertà e dell'adolescenza.

Nel 1918 Piaget pubblicò un romanzo filosofico (Recherche), in cui si trovano già abbozzate

alcune sue idee future sul rapporto tra il tutto e le parti e sull'equilibrio. Sempre nel 1918 si

trasferì a Zurigo, dove frequentò l'Ospedale psichiatrico Burghölzli diretto da Bleuler. Cominciò

allora a leggere le opere di Freud e a seguire le conferenze di Pfister e di Jung. Fu analizzato per

alcuni mesi da Sabina Spielrein. Tra il 1919 e il 1921 fu a Parigi. Alla Sorbona seguì le lezioni degli

psicologi Georges Dumas (1866-1946), Henri Piéron (1881-1964) e Henri Delacroix (1873-1937)

e dei filosofi André Lalande (1867-1963) e Léon Brunschwicg (1869-1944). Delacroix può esser

stata una fonte importante di Piaget: in quel periodo si interessava di psicologia del linguaggio e

nel 1924 scrisse il libro Le langage et la pensée. Nel 1922 Piaget partecipò al congresso di psicoanalisi

di Berlino e conobbe personalmente Freud: «A quel congresso io tenni una conferenza e ricordo

l'angoscia che mi prese a dover parlare davanti a un pubblico tanto numeroso. Freud era seduto

in poltrona alla mia destra e fumava il sigaro. Io parlavo ad un pubblico che non mi degnava

nemmeno di uno sguardo. Guardava solo Freud per scoprire se ciò che veniva detto era da lui

approvato o meno. Quando Freud sorrideva, tutti nella sala sorridevano; quando Freud si

mostrava serio, tutti nella sala si mostravano seri» (Piaget, 1973, p. 47).

Una svolta importante fu determinata dall'incarico offerto a Piaget, da parte di Théodore

Simon, di standardizzare i test di Cyril Burt per i bambini parigini. Piaget lavorò quindi presso il

laboratorio di Binet, che si trovava nella scuola elementare di Parigi in rue de la

Grangeaux-Belles. Studiando non tanto le risposte fornite ai test, quanto i modi di ragionare e le

strategie seguite per risolvere i test, Piaget, ottenne i suoi primi risultati sullo sviluppo mentale del

bambino e li espose in due articoli pubblicati nel 1922 sul «Journal de Psychologie», diretto da

Ignace Meyerson (cfr. cap. VI) e in un terzo nel 1923 sugli «Archives de Psychologie», diretti da

Edouard Claparède. Colpito dalla novità delle ricerche di Piaget, Claparède lo invitò ad assumere

il posto di direttore di ricerca presso l'istituto J.-J. Rousseau a Ginevra (fondato nel 1912). Nel

1921 Piaget si trasferì definitivamente a Ginevra e iniziò le sue ricerche sistematiche sullo

sviluppo mentale infantile avvalendosi dei bambini che frequentavano la Maison des Petits

dell'Istituto. I risultati furono illustrati nei libri Le langage et la pensée chez l'enfant Le jugement

da G. Mecacci, Storia della psicologia del Novecento, Laterza, Bari, 2002, pp.239-315.


et le raisonnament chez l'enfant La répresentation du monde chez l'enfant La causalié physique

chez l'enfant (1927 Le jugement moral chez l'enfant

Dal matrimonio di Piaget con una studentessa dell'Istituto, Valentine Châtenay, divenuta sua

collaboratrice, nacquero tre figli sui quali i due coniugi condussero una serie sistematica di osservazioni

riportate nei libri La naissance de l'intelligence chez l'enfant La construction du réel chez

l'enfant (1937) e La formation du symbole chez l'enfant (1946

Negli anni '20 e '30 Piaget insegnò filosofia a Neuchâtel, psicologia infantile e storia del

pensiero scientifico a Ginevra. Nel 1929 divenne direttore del Bureau International de

l'Education, in seguito una branca dell'UNESCO. Nel 1940, dopo la morte di Claparéde, divenne

direttore dell'Istituto J.-J. Rousseau e professore di psicologia sperimentale a Ginevra. Diresse

anche gli «Archives de Psychologie», in seguito divenuti sempre più il periodico della scuola

piagetiana. Dopo la guerra Piaget ebbe importanti incarichi all'UNESCO e cominciò a ricevere

riconoscimenti ufficiali in tutto il mondo. Dal 1952 al 1963 insegnò psicologia genetica alla

Sorbona di Parigi. Nel 1956 fondò il Centre Internation d'epistém0logie Génétique a Ginevra.

Nel 1950 Piaget publicò i tre volumi della Introduction à l'épistémologie génétique, cui fecero seguito

altre numerose pubblicazioni di epistemologia genetica e psicologia genetica. Tra il 1963 e il 1965

uscirono gli otto volumi del Traité de psychologie expérimentale (curati da Piaget assieme a Paul

Fraisse), la «summa», della psicologia francese di quegli anni. Nel 1965 Piaget sferrò un duro

attacco alla filosofia speculativa nel libro Sagesse et illusions de la philosophie. Infaticabile, negli anni

'70 continuò a scrivere e a tenere conferenze. Morì nel 1980.

Piaget fu una personalità geniale, un ricercatore nato: «sono fondamentalmente un inquieto

che solo il lavoro può placare», disse di sé nell'Autobiografia (1950, p. 145) ma anche un carattere

difficile ed egotista. Lo psicologo americano David Elkind (1979) ne ha tracciato il ritratto, così

come appariva negli ultimi anni della vita: «È ancora, a 74 anni, un'immagine familiare per le vie

di Ginevra, mentre pedala in bicicietta o passeggia lentamente; alto, con le spalle curve, è qualcosa

di imponente, come se stesse rimuginando tra sé su qualche nuovo problema sorto dalle sue recenti

ricerche sul mistero di come la conoscenza si sviluppa nei giovani esseri umani. La pipa

sporge dalle sue labbra e una massa di bei capelli bianchi sfugge di sotto al basco blu. Nei luoghi

chiusi il basco non c'è più, ma resta la pipa di schiuma ambrata; lui tira boccate di fumo, l'indice

attorno al cannello, e gli occhi, dietro le lenti cerchiate di corno, si stringono con interesse

quando gli viene mossa una domanda. E risponde - in francese - con un linguaggio lucido e

chiaro, intercalando nelle risposte qualche lieve battuta; i suoi modi hanno il fascino del Vecchio

Mondo» (p. 15).

La teoria di Piaget

Introduzione. Nell'opera dello psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980) lo studio dello sviluppo

psichico infantile si inquadra in una problematica più ampia, in parte già prospettata da Baldwin,

relativa alla genesi della conoscenza umana e al rapporto tra la mente e il mondo esterno. Si tratta

di una tematica (quella di come si sivluppa la conoscenza e quale sia la corrispondenza tra essa e

gli oggetti esterni) che aveva alle spalle una lunga tradizione filosofica, rispetto alla quale Piaget

volle distaccarsi in quanto scienziato della natura che studia la struttura della mente

abbandonando il metodo dell'argomentazione speculativa e ricorrendo al metodo scientifico. Nel

libro Sagesse et illusions de la philosophie del 1965, Piaget svolse una critica durissima contro la filosofia,

accettabile sotto forma di saggezza fatta di riflessioni teoriche e di massime etiche, ma

condannabile nelle sue invasioni speculative nel campo della scienza, compresa la psicologia.

Eppure, come è stato spesso sottolineato, Piaget è stato anzitutto un filosofo, un filosofo in una

accezione nuova, con una competenza in discipline diverse, dalla biologia alla logica e alla


matematica, dalla fisica alla psicologia e alla pedagogia. Come scriveva il filosofo Lucien

Goldmann (1973), «che lo voglia o no, Piaget finisce col fare della 'filosofia', portando un

contributo essenziale alla soluzione di un certo numero di questioni dibattute dai filosofi da più di

venti secoli» (p. 7). Vygotskij (Pensiero e linguaggio, 1934) notava che «Piaget non è riuscito ed in

fondo non poteva riuscire a sfuggire le costruzioni filosofiche, perché l'assenza stessa della filosofia

è una filosofia assai precisa» (p. 66). L'epistemologia genetica elaborata da Piaget ha

rappresentato di fatto la proposta di una nuova filosofia della mente, fondata su basi empiriche e

su una integrazione interdisciplinare che erano mancate alla filosofia. Si tratta comunque di

una teoria generale che non riguarda solo la mente umana nella sua dimensione psicologica, ma le

strutture della conoscenza nel senso filosofico. Questa considerazione preliminare non vuole

ricacciare Piaget nel mondo delle argomentazioni filosofiche illusorie da lui respinte, ma

dovrebbe far comprendere come Piaget stesso si fosse posto in definitiva come l'erede di una

tradizione occidentale di pensiero che considerava centrale il problema della conoscenza. Piaget

ha mostrato come questo problema possa avere soluzioni nuove, basate su indagini empiriche e

sulla integrazione tra discipline diverse, e soprattutto su una teoria della mente che ha come

presupposto fondamentale la nozione di sviluppo. La conquista delle modalità adulte di conoscere

non è immediata, ma procede per stadi successivi, ciascuno dei quali svolge un ruolo

necessario e ineludibile per la progressiva ristrutturazione del loro funzionamento. La mente che

studiarono un Cartesio, un Locke o un Kant era una mente adulta, già data, immune dallo

sviluppo. Con Piaget fu portata a compimento la scoperta di una «mente infantile», intravvista e

approssimativamente abbozzata già negli ultimi decenni dell'Ottocento, ma mai indagata

sistematicamente. Piaget compì una serie incredibile, per numero ed originalità, di ricerche su

bambini, aprendo un varco definitivo per accedere al mondo cognitivo infantile, proprio negli

stessi anni in cui la psicoanalisi si poneva il problema dell'«analisi infantile» per svelare

direttamente il mondo psicodinamico infantile. Infine, con Piaget, l'indagine sullo sviluppo

psichico non è più la raccolta di aneddoti e la registrazione di fatti sporadici, ma diviene

un'impresa sistematica, fondata su metodologie precise e su presupposti teorici rigorosi. E

sebbene si possa rintracciare l'influenza di vari autori, in particolare di Baldwin, sulla concezione

piagetiana, a Piaget va riconosciuta una grande originalità teorica e metodologica. È

comprensibile che per decenni si sia pensato allo sviluppo mentale nel bambino nei termini della

concezione piagetiana.

Il metodo clinico. Come abbiamo notato più volte, nella tradizione wundtiana si era posto il

problema della validità dello studio della psiche infantile e della possibilità di estendere i risultati

conseguiti alla spiegazione dei processi psichici dell'adulto. Questo problema si intrecciava con

quello della metodologia più adeguata da adottare nel momento in cui non si aveva più a che fare

con soggetti adulti, istruiti (gli studenti e i professori di psicologia), ma con bambini con i quali

era difficile poter applicare le stesse istruzioni e procedure. Per quanto riguarda i soggetti della

psicologia infantile ai suoi esordi, va rilevato che si trattò - soprattutto nei casi di registrazione

diaristica del comportamento - dei figli degli psicologi stessi. Questo apsetto portò poi alla critica

rivolta a tali ricerche di aver generalizzato I risultati ottenuti con i propri figli - ancora una volta

appartenenti ad un ambiente socio-culturale privilegiato - estendendoli a tutti ibambini senza

tener conto della peculiarità dei rapporti stretti tra l'osservatore (il genitore) e il soggetto (il figlio).

Questa critica fu estesa anche all'assunzione che lo sviluppo accertato in un gruppo, sia pure più

ampio, di bambini di un certo ambiente socio-culturale potesse essere sovrapposto a quello di

bambini di un altro ambiente. Si tratta della critica rivolta a Piaget e lla psicologia del «bambino

svizzero», considerato implicitamente il prototipo di tutti i bambini del mondo. Scriveva in

proposit Vygotskij (Pensiero e linguaggio, 1934): «Le regole che Piaget ha fissato i fatti che ha

trovato, hanno un significato non universale, ma limitato. Sono validi hic et nunc, qui e ora in un


ambiente sociale dato e determinato. Così si sviluppa non il pensiero del bambino in generale, ma

il pensiero di quel bambino che ha studiato Piaget» (p. 81).

Piaget usò nelle sue ricerche metodi non propriamente sperimentali, bensì metodi quasisperimentali

e in particolare il metodo clinico. Piaget si oppose da una parte al metodo dei test e,

dall'altra, a quello dell'osservazione pura. I test (o reattivi) permettono, per Piaget, di accertare in

molti bambini una serie di conoscenze e comportamenti rispetto a domande e compiti uguali per

tutti; ma la procedura è rigida, deve seguire certe tappe uguali per tutti, senza consentire di

ampliare e aggiustare le domande e i compiti in modo da mettere in evidenza il reale percorso

mentale e le effettive strategie mentali di ciascun bambino. Anche l'osservazione pura, per Piaget,

non è sufficiente per lo studio della mente del bambino, perché questi è lasciato libero nei suoi

pensieri e nei suoi comportamenti senza la possibilità di manipolarli per poter cogliere ciò che lo

psicologo avverte come retrostante a tali pensieri e comportamenti. Così Piaget individuò il

metodo per eccellenza della psicologia infantile nel metodo clinico nel quale l'osservawione si

lega alla sperimentazione. Piaget aveva appreso questo metodo durante la sua permanenza all'

0spedale psichiatrico Burghölzli di Zurigo nel 1918. Il suo interesse per la psicoanalisi in quegli

anni contribuì alla sua impostazione clinica nella ricerca psicologica infantile (La psychanalyse et ses

rapports avec la psychologie de l'enfant, Inoltre, anche la pratica con i test durante la sua

permanenza a Parigi e la collaborazione con Théodore Simon gli fornirono gli elementi per individuare

la più adeguata metodologia di ricerca nel campo della psicologia, infantile. Nel metodo

clinico lo psicologo è guidato da ipotesi e quindi orienta e dirige il comportamento del bambino

in modo da poterle verificare; pone e articola le domande tenendo conto del percorso che

momento per momento il bambino segue per arrivare a rispondere alle domande e a risolvere i

compiti.

In uno dei suoi primi libri, La représentation du monde chez l'enfant ), Piaget descrive il metodo

clinico nei termini in cui era impiegato in psichiatria: «Dunque, è necessario a tutti i costi superare il

metodo dell'osservazione pura e, senza ricadere negli inconvenienti dei reattivi, assicurarsi i principali

vantaggi dell'esperimento. Impiegheremo a tale scopo un terzo metodo, che tende a riunire le risorse dei

reattivi e dell'osservazione diretta, evitando gli inconvenienti di entrambi: il metodo dell'esame clinico che

gli psichiatri usano come mezzo di diagnosi. Ad esempio, si possono osservare per mesi determinate

forme paranoidi senza veder mai affiorare l'idea di grandezza, che tuttavia si intuisce in ogni reazione

stravagante. D'altra parte non si posseggono reattivi differenziali per le diverse sindromi morbose. Ma il

clinico può:

1) parlare col malato seguendolo anche nelle risposte, così da non perder nessuna eventuale idea delirante;

2) condurlo dolcemente verso le zone critiche (la sua nascita, razza, fortuna, titoli militari, politica, talento,

vita mistica, ecc.), senza sapere dove affiorerà l'idea delirante, ma mantenendo costantemente la

conversazione su un terreno fecondo. L'esame clinico partecipa così dell'esperimento, nel senso che il

clinico si pone problemi, formula ipotesi varia le condizioni, e infine controlla ogni ipotesi in base alle

reazioni provocate dalla conversazione. Ma l'esame clinico partecipa anche dell'osservazione diretta, nel

senso che il buon clinico, pur dirigendo, si lascia dirigere, e tien conto di tutto il contesto mentale, invece

di cadere vittima di 'errori sistematici' come spesso accade allo sperimentatore puro. Poiché il metodo

clinico ha reso grandi servizi in una zona in cui altrimenti tutto sarebbe disordine e confusione, lo studio

della psicologia infantile farebbe molto male a privarsene. Non esiste, infatti, a priori una ragione per non

interrogare i fanciulli sui punti dove l'osservazione pura lascia incompiuta la ricerca [.]. Un bravo

sperimentatore deve riunire due qualità spesso incompatibili: saper osservare, cioè lasciar parlare il

fanciullo, non perdere nulla, non falsar nulla; e nello stesso tempo saper cercare qualcosa di preciso, avere

in ogni momento qualche ipotesi di lavoro, qualche teoria - giusta o falsa - da controllare. Bisogna aver

insegnato il letodo clinico per comprenderne le difficoltà vere. Talvolta i principianti suggeriscono al

fanciullo ciò che desiderano trovare, oppure non suggeriscono nulla, ma solo perché non cercano nulla ed

è perciò naturale che non trovino nulla» (pp. 9-11).


Lo sviluppo della mente. Piaget ha studiato lo sviluppo della mente affrontando sistematicamente in

numerose ricerche, documentate in una lunga serie di monografie, i principali processi cognitivi,

le rappresentazioni e le categorie mentali trattate tradizionalmente dalla filosofia: il linguaggio e il

pensiero (1923), il giudizio e il ragionamento (1924), la rappresentazione degli eventi della realtà

esterna e della vita psichica interna (1926), la causalità fisica (1927), il giudizio morale (1932),

l'intelligenza (1936 e 1947), la costruzione della realtà (1937), il concetto di quantità fisica (1941),

il concetto di numero (1941), la formazione del simbolo (1946), il concetto di movimento e

velocità (1946), il concetto di tempo (1946), la rappresentazione dello spazio (1948), la geometria

spontanea (1948), il concetto di caso (1951), la percezione (1961), l'immagine mentale (1966), la

memoria (1968), la presa di coscienza (1974), la soluzione di problemi (1974). Buona parte delle

ricerche e delle monografie furono realizzate in collaborazione prima con A. Szeminska e poi con

B. Inhelder. Negli anni '50 Piaget sviluppò la propria rifiessione teorica verso la fondazione della

epistemologia genetica, avviando un progetto di ricerca interdisciplinare di largo respiro presso il

Centro internazionale di epistemologia genetica.

Nelle prime opere degli anni '20 Piaget compì una ricognizione dei processi mentali mettendone

in evidenza l'evoluzione ontogenetica; nelle opere degli anni '30 consolidò la nozione di stadi di

sviluppo e fece risaltare la dimensione costruttiva della realtà operata dalla mente; negli anni '40 e

'50, infine, Piaget approfondì i meccanismi funzionali di adattamento e regolazione dei processi

mentali, richiamando l'attenzione più sulle funzioni che sulla struttura della mente. Il rapporto tra

struttura e funzioni della mente rimandava ad una problematica centrale che il giovane Piaget

aveva incontrato sin dai primi studi di biologia e che riguardava l'evoluzione della struttura di un

organismo in relazione alle funzioni svolte per l'adattmento all'ambiente. In questa prospettiva

biologica Piaget innestò la sua ricerca sullo sviluppo della struttura delle mente, considerato come

un processo di continua riorganizzazione realizzatosi nell'interazione tra la mente e l'ambiente.

Nell' autobiografia scriveva a proposito delle sue riflessioni svolte poco prima del 1920: «Le mie

osservazioni sul fatto che la logica non è innata ma si sviluppa a poco a poco apparvero coerenti

con le mie idee sulla formazione dell'equilibrio verso cui tende l'evoluzione delle strutture

mentali. Inoltre la possibilità di studiare direttamente il problema della logica si accordava con i

miei precedenti interessi filosofici. Infine il mio desiderio di scoprire unasorta di embriologia

dell'intelligenza si accordava con la mia preparazione biologica; fin dall'inizio del mio pensiero

teoretico ero certo che il problema della relazione tra organismo e ambiente si estendeva anche al

campo della conoscenza, essendo possibile considerarlo come un problema della relazione tra il

soggetto agente o pensante e gli oggetti delld sua esperienza. Adesso avevo la fortuna di studiare

questo problerna in termini di sviluppo psicogenetico» (1950, p. 133). La psicogenesi si delineava

come una evoluzione - a partire dalla nascita del bambino - da strutture mentali semplici, fondate

sull'azione a strutture sempre più complesse, fondate sul pensiero. Lungo questo sviluppo la

mente assolve lo stesso ruolo delle altre strutture dell'organismo come sistema di adattamento

all'ambiente, dapprima in forma subalterna alle strutture biologiche e poi sempre più con una

funziine egemone rispetto a queste. L'adattamento avviene attraverso due processi fondamentali,

l'assimilazione e l'accomodamento, già descritti da Baldwin. L'assimilazione permette

all'organisrno (e alla mente) di incorporare nelle sue strutture gli elementi dell'ambiente esterno;

l'accomodamento produce invece un cambiamento in tali strutture per gli effetti

dell'assimilazione. Tra assimilazione e accomodamento si realizza un equilibrio che consente la

riorganizzazione delle strutture mentali e il loro sviluppo ontogenetico.

In La naissance de l'intelligence chez l'enfant (1936), Piaget chiarisce nel modo seguente il ruolo

dell'assimilazione e dell'accomodamento nel processo di adattamento all'ambiente e di

organizzazione delle strutture mentali: «Alcuni biologi definisicono semplicemente l'adattamento

mediante la conservazione e la sopravvivenza, ossia l'equilibrio fra organismo e ambiente. Ma la


nozione perde allora ogni interesse, poiché si confonde con quella della vita stessa. Vi sono gradi

nella sopravvivenza e l'adattamento implica un più e un meno. Occorre dunque distinguere

l'adattamento-stato e l'adattamento-processo. Nello stato non v'è nulla di chiaro. Considerando il

processo, le cose si chiariscono. C'è adattamento quando l'organismo si trasforma in funzione

dell'ambiente e questa variazione ha per effetto un accrescimento degli scambi fra ambiente e

organismo favorevoli alla conservazione di quest'ultimo. Cerchiamo di precisare questi concetti,

da un punto di vista formale. L'organismo è un ciclo di processi fisio-chimici e cinetici i quali, in

relazione costante con l'ambiente, si generano a vicenda. Siano a, b, c, ecc. gli elementi di questa

totalità organizzata e x, y, z, ecc. gli elementi corrispondenti dell'ambiente. Lo schema

dell'organizzazione è dunque il seguente:

(1) a + x b;

b + y c;

c + z a, ecc.

I processi (1), (2), ecc., possono consistere sia in reazioni chimiche (allorché l'organismo ingerisce

sostanze x che trasformerà in sostanze b facenti parte della sua struttura), sia in trasformazioni

fisiche qualsiasi, sia infine, in particolare, in comportamenti senso-motori (quando un ciclo di

movimenti corporali a combinati con movimenti esteriori x porta a un risultato b che a sua volta

entra nel ciclo d'organizzazione). Il rapporto che unisce gli elementi organizzati a, b, c, ecc., agli

elementi x, y, z ecc. è dunque una relazione di assimilazione: il funzionamento dell'orgamsmo non

distrugge, ma conserva il ciclo organizzativo e coordina i dati dell'ambiente in modo da

incorporarli nel ciclo. Supponiamo dunque che nell'ambiente si produca una variazione che

trasformi x in x 0 l'organismo non si adatta affatto, e si ha la rottura del ciclo, oppure ha luogo

l'adattamento, ciò che significa che il ciclo organizzato si modificato richiudendosi su se stesso:

(1) a + x' b

(2) b + y c;

(3) c + z a.

Se chiamiamo accomodamento questo risultato delle pressioni esercitate dall'ambiente

(trasfomazione di b in b ), possiamo dunque dire che l'adattamento è un equilibrio tra

l'assimilazione e l'accomodamento.

Ora questa definizione si applica anche all'intelligenza. L'intelligenza è infatti assimilazione in

quanto incorpora nei propri quadri tutto il dato dell'esperienza. Sia che si tratti del pensiero che,

grazie al giudizio, riconduce il nuovo al noto riducendo così l'universo alle proprie nozioni, sia

che si tratti dell'intelligenza senso-motoria che pure struttura le cose percepite riconducendole ai

propri schemi, in ogni caso l'adattamento intellettuale comporta un elemento di assimilazione,

ossia di strutturazione mediante l'incorporazione della realtà esteriore in forme dovute all'attività

del soggetto. Quali che siano le differenze di natura che separano la vita organica (che elabora

materialmente le forme e assimila ad esse le sostanze e le energie dell'ambiente), l'intelligenza

pratica o senso-motoria (che organizza degli atti ed assimila allo schematismo di questi

comportamenti motori le diverse situazioni offerte dall'ambiente) e l'intelligenza riflessiva o

gnostica (che si contenta di pensare le forme, o di costruirle interiormente per assimilarvi il

contenuto dell'esperienza), le une come le altre si adattano assimilando gli oggetto al soggetto.

Che anche la vita mentale sia accomodamento all'ambiente non si può assolutamente mettere in

dubbio. L'assimilazione non può mai essere pura, in quanto l'intelligenza, incorporando gli

elementi nuovi negli schemi anteriori, modifica incessantemente questi ultimi per adattarli ai dati

nuovi. Ma, inversamente, le cose non sono mai conosciute in se stesse poiché questo lavoro


d'accomodamento non è mai possibile se non in funzione del processo inverso di assimilazione.

Così vedremo che la nozione stessa di oggetto è ben lontana dall'essere innata e presuppone una

costruzione ad un tempo assimilatrice ed accomodatrice.

In breve, l'adattamento intellettuale, come ogni altro addttamento, è il costituirsi progressivo di

un equilibrio fra un meccanismo assimilatore e un accomodamento complementare. Lo spirito

non può trovarsi adattato a una realtà se non v'è perfetto accomodamento, ossia se in questa

realtà nulla più viene a modificare gli schemi del soggetto. Ma, inversamente, non v'è adattamento

se la realtà nuova ha imposto atteggiamenti motori o mentali contrari a quelli che erano stati

adottati a contatto con altri dati anteriori: non c'è adattamento se non c'è coerenza e quindi

assimilazione. Certo, sul piano motorio, la coerenza presenta una struttura completamente

diversa che sul piano della rifiessione o su quello organico, e tutte le sistemazioni sono possibili:

ma sempre e dovunque l'adattamento non è compiuto se non quando peviene ad un sistema

stabile, ossia quando vi è equilibrio fra accomodamento e assimilazione.

Questo ci conduce alla funzione di organizzazione. Dal punto di vista biologico, l'organizzazione è

inseparabile dall'adattamento: sono i due aspetti complementari d'un meccanismo unico: il primo

è l'aspetto interno del ciclo, di cui l'adattamento costituisce l'aspetto esterno. Orbene, per quanto

concerne l'intelligenza, nella sua forma riflessa non meno che nella sua forma pratica, si ritrova

questo doppio fenomeno della totalità funzionale e dell'interdipendenza fra organizzazione e

adattamento. Quanto ai rappporti fra le parti e il tutto che definisconol'organizzazione, è ben

noto che ogni operazione intellettuale è sempre relativa a tutte le altre e che i suoi stessi elementi

sono retti dalla medesima legge. Ogni schema è così coordinato con tutti gli altri e costituisce

esso stesso una totalità di parti differenziate. Ogni atto d'intelligenza presuppone un sistema di

mutue implicazioni e di significazioni solidali. Le relazioni tra questa organizzazione e

l'adattamento sono dunque le stesse che sul piano organico. Le principali categorie a cui ricorre

l'intelligenza per adattarsi al mondo esteriore - lo spazio e il tempo, la causalità e la sostanza, la

classificazione e il numero, ecc. - corrispondono ciascuna a un aspetto della realtà, così come gli

organi del corpo sono relativi ciascuno a un caratter speciale dell'ambiente; ma otre ad adattarsi

alle cose, esse sono implicate le une alle altre, a tal punto che è impossibile isolarle logicamente.

L' 'accordo del pensiero con le cose' e l' 'accordo del pensiero con se stesso' esprimono questo

doppio invariante funzionale dell'adattamento e dell'organizzazione. Ma questi due aspetti del

pensiero sono indissociabili: soltanto adattandosi alle cose il pensiero organizza se stesso e

soltanto organizzando se stesso il pensiero struttura le cose» (pp. 12-15).

Per Piaget lo sviluppo mentale del bambino si dispiega dall'infanzia all'adolescenza in due

periodi principali (senso-motorio, nei primi due anni di vita; concettuale, dai due ai dodiciquindici

anni) a loro volta suddivisibili in vari stadi. [...]

Nelle linee essenziali, le caratteristiche di questi stadi sono le seguenti.

Nel periodo senso-motorio, il bambino sviluppa progressivamente le proprie modalità di

interazione con l'ambiente. Passa dall'uso esclusivo dei rifiessi (succhiare, piangere, ecc.) alle

prime coordinazioni visuo-motorie. Nel primo mese di vita la percezione e il movimento sono

funzioni scoordinate. Il bambino vede un oggetto, ma non sa afferrarlo. Successivamente,

organizza le due funzioni separate, dapprima secondo una sequenza fissa e poi in modo sempre

meno rigido per adattare le proprie azioni alle varie condizioni ambientali. II bambino apprende

tra i 4 e gli 8 mesi che gli oggetti sono entità separate da lui e che questi oggetti continuano a

esistere anche se scompaiono dal campo visivo: la «permanenza dell'oggetto» è preceduta dalla

«permanenza della persona»: il bambino verifica che la madre si allontana da lui, ma poi ritorna; è

un'entità che scompare momentaneamente ma continua a esistere. Il bambino si forma così delle

immagini delle persone o degli oggetti che non percepisce direttamente. La mente può allora


operare mediante rappresentazioni interne che non necessitano di una corrispondenza immediata

con oggetti e persone.

Il periodo concettuale si divide in tre sottoperiodi ed è caratterizzato, in generale,

dall'introduzione del linguaggio e dei simboli nelle operazioni mentali.

Il primo sottoperiodo, lo stadio preoperatorio, va dai 2 ai 7 anni circa. In una prima fase (fino ai 4

anni circa), denominata fase preconcettuale, il bambino sviluppa ulteriormente le rappresentazioni

interne degli oggetti esterni. Ad esempio, comincia a classificare gli oggetti in categorie secondo

alcune proprietà (colore, grandezza, ecc.). La capacità di classificazione si sviluppa notevolmente

dopo i 4 anni. Una caratteristica importante della fase preconcettuale è il gioco simbolico. Il

bambino usa nel gioco un oggetto (sedia) al posto di un altro oggetto (cavallo). L'oggetto perde il

suo significato reale e acquista quello prodotto dalla mente del bambino. Nella seconda fase (dai

4 ai 7 anni), denominata fase del pensiero intuitivo, il bambino sviluppa le operazioni mentali di

classificazione e seriazione degli oggetti. Può raggruppare facilmente gli oggetti secondo le loro

proprietà fisiche (colore, grandezza, forma) o la loro classe di appartenenza (animali, piante, cose

da mangiare, ecc.). Può ordinare quegli stessi oggetti in una serie, dal più grande al più piccolo e

viceversa.

Nello stadio delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni), [...] il bambino sa compiere operazioni

mentali sugli oggetti usando i concetti di numero, peso, volume, ecc. sempre però riferendosi a

oggetti concreti, persone o cose. Fondamentale è l'acquisizione in questo stadio del principio di

conservazione. Nello stadio preoperatorio il bambino valuta le proprietà fisiche degli oggetti

secondo la loro apparenza. Egli ritiene, ad esempio, che il liquido contenuto in un recipiente

stretto e lungo sia di più di quello contenuto in un recipiente largo e basso, anche se ha visto che

si tratta dello stesso liquido travasato da un recipiente all'altro. Nello stadio delle operazioni

concrete il bambino riconosce invece che la quantità conservata indipendentemente dalla forma

assunta. Nello stadio delle operazioni formali (dai 12 ai 15 anni) si completa lo sviluppo mentale

del bambino. Egli può compiere operazioni mentali indipendentemente dal riferimento a oggetti

o persone concrete, usando concetti e simboli. Può affrontare la soluzione di problemi scientifici,

introducendo il metodo ipotetico-deduttivo (formula un'ipotesi, ne deduce le conseguenze sul

piano teorico e sperimentale ed esegue l'esperimento per verificare l'ipotesi).

L'epistemologia genetica. Negli anni '50, a cominciare dai tre volumi della Introduction à l'épistémologie

génétique (1950), Piaget dedicò numerose pubblicazioni alla fondazione dell'epistemologia genetica.

Nella collana «Etudes d'épistémologie génétique» sono apparsi dal 1957 fino al 1980, quando

Piaget morì, ben 37 volumi con saggi di Piaget stesso e dei suoi collaboratori.

L'epistemologia genetica era divenuta per Piaget il fulcro della sua riflessione teorica, costituiva la

realizzazione del suo progetto di fondazione di una nuova teoria della formazione e della

struttura della conoscenza. Secondo la definizione di Piaget (1973) «l'epistemologia genetica si

occupa della formazione e del significato della conoscenza e dei mezzi attraverso i quali la mente

umana passa da un livello di conoscenza inferiore ad uno giudicato superiore. Non è compito

degli psicologi decidere quale conoscenza sia inferiore ma è loro compito, piuttosto, spiegare

come avviene il passaggio dall'una all'altra. La natura di questi passaggi, che sono storici,

psicologici e talvolta anche biologici, è un problema reale. L'ipotesi fondamentale della

epistemologia genetica è che ci sia un parallelismo tra il progresso compiuto nell'organizzazione

razionale e logica della conoscenza e i corrispettivi processi psicologici formativi» (p. 28).

La struttura della conoscenza (un tema classico della filosofia) si rivela quindi attraverso lo studio

della sua evoluzione nella storia della scienza da una parte e nello sviluppo mentale del bambino

dall'altra. Storia della scienza e psicogenesi si fondono per descrivere e spiegare il cammino

percorso dall'uomo nella costruzione scientifica della realtà, l'uomo nella sua dimensione storica,

dall'uomo primitivo all'uomo della cultura scientifica occidentale, e l'uomo nella sua dimensione


psicologica, dal neonato all'adulto. Al progetto di fondazione dell'epistemologia genetica

contribuirono psicologi, pedagogisti, matematici, logici, cibernetici, fisici, linguisti, storici della

scienza, filosofi. Dal Centro internazionale di epistemologia genetica si sviluppò la «scuola di

Ginevra», che ebbe il momento di massima espansione negli anni '50 e '60.

Sviluppi e fortuna della teoria piagetiana. La teoria piagetiana fu elaborata dapprima dal solo Piaget, poi

assieme alle sue collaboratrici, la moglie, la Szeminska e la Inhelder, e infine assieme ad un folto

gruppo di collaoratori attivi al Centro di Ginevra. Fuori dell'ambiente ginevrino, la teoria

piagetiana, benché conosciuta e apprezzata, cominciò ad essere assimilata da altri psicologi,

confrontata con altre teorie dello sviluppo mentale e sottoposta a nuove verifiche empiriche

soltanto a partire dagli anni '50. Importante fu la diffusione della teoria piagetiana negli Stati Uniti

ad opera di J. H. Flavell (The developmental psychology of Jean Piaget, 1963) e di altri psicologi come D.

Elkind e H. Furth. Negli anni '60 la conoscenza delle concezioni di Piaget contribuì

notevolmente a minare le basi del comportamentismo americano, poiché si metteva in evidenza

una concezione raffinata ed articolata della struttura e dello sviluppo dei processi cognitivi assente

nel modello comportamentista. Infine, la teoria piagetiana è stata decisiva per il rinnovamento

della pedagogia e per le ricerche su nuovi programmi attenti alle tappe dello sviluppo cognitivo.

Negli anni '70 la diffusione del cognitivismo ha spinto sia gli allievi di Piaget sia altri psicologi che

in Europa e in America si riferivano alla sua teoria, ad un arricchimento concettuale e

metodologico dell'impostazione piagetiana (questa evoluzione si può rilevare in particolare nella

stessa Inhelder, che ha spostato il centro delle ricerche sue e dei suoi allievi dalle grandi strutture

operatorie della mente allo studio di specifici processi cognitivi in condizioni concrete,

sperimentalmente manipolabili. Infine, l'epistemologia genetica è confluita in un progetto, epistemologico

rinnovato alla luce di nuovi concetti interdisciplinari quali quelli di

«auto-organizzazione», «autopoiesi» e «complessità» (cfr. il libro di Huberto Maturana e Francisco

J. Varela, Autopoiesis and cognition del 1980).

La teoria piagetiana, tuttavia, è stata sottoposta a continue critiche fin dalle prime formulazioni degli

anni '20. Un primo appunto fu forse quello espresso da Lurija e Vygotskij al congresso internazionale di

psicologia a New Haven nel 1929, in merito al problema dell'egocentrismo. Nel 1931 l'antropologa

Margaret Mead, nel capitolo su The primitive child dello Handbook of child psychology, curato da C. Murchison

(dove compariva anche lo stesso Piaget con il capitolo su Children's philosophies), affermò che lo sviluppo

per stadi descritto da Piaget poteva valere per una determinata cultura, ma non era generalizzabile per ogni

contesto culturale: una critica, sul versante antropologico, simile a quella fatta al «bambino svizzero» da

altri psicologi come Stern e Vygotskij. Negli anni '60, anni in cui esplose l'interesse per la teoria piagetiana,

comparve la traduzione americana dell'opera principale di Vygotskij contenente una critica sistematica al

concetto di egocentrismo e a tutto l'impianto teorico piagetiano. Si originò un dibattito, spentosi solo negli

anni '80, tra le tesi piagetiane e quelle vygotskijane. La grande fortuna di Piaget in campo pedagogico degenerò

nell'abuso di un riferimento meccanico alla nozione di stadio nella preparazione dei programmi di

insegnamento e nella verifica del processo di apprendimento scolastico. Negli anni '70 ad esempio, in

Italia l'approccio vygotskijano in campo psicopedagogico fu proposto come più fiessibile e più

compatibile con le differenze individuali e socio-culturali rispetto a quello di Piaget.





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