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ANALISI CRITICA DEL FEDRO
Il tema dell'amore, nel Fedro, è trattato da Platone con grande entusiasmo e slancio poetico. Il dialogo ha solo due personaggi: Fedro e Socrate, che discutono fuori città, in un punto bellissimo lungo l'Ilisso, all'ombra di un platano, vicino ad una fonte ed ad un santuario delle Ninfe.
Fedro è un giovane patito della retorica e, sdraiato comodamente sull'erba, vuole esercitarsi a recitare a memoria un discorso di Lisia sull'amore, ma Socrate, interessato all'argomento, convince Fedro che non può servirsi di lui per esercitare la 626f59g sua arte recitativa e lo esorta a leggere il discorso dal foglio sul quale lo teneva scritto. Il discorso di Lisia sostiene una paradossale tesi, secondo cui sarebbe preferibile compiacere a chi non ama piuttosto che a chi ama. Dopo aver ascoltato il discorso, Socrate mostra un atteggiamento di bonaria ironia nei riguardi dell'amico, e di aspra critica verso Lisia. Anche se egli considera vergognosa la tesi di Lisia, questo discorso dimostra tuttavia che è possibile articolare il medesimo contenuto secondo un metodo rigoroso e con maggiore chiarezza. Anche Socrate sostiene, come Lisia, che è meglio compiacere chi non ama, ma il suo procedimento è completamente diverso. Egli fornisce innanzitutto una definizione dell'amore; quindi, dopo aver stabilito che esso è un desiderio irrazionale, una forma di dismisura, ne esamina gli effetti negativi constatando che l'amante risulta dannoso e sgradevole per l'amato sotto tutti gli aspetti e concludendone che è meglio compiacere chi non ama. Tramite questo discorso improvvisato su come si possa sostenere la tesi lisiana con più valide ragioni, Socrate individua nell'eccesso d'amore un traviamento che distoglie dalla vera sapienza. Ma poi, protestando il suo timore di aver offeso Eros, Socrate recita uno splendido elogio dell'amore come follia o mania divina: esso è la forma superiore di follia, e appartiene ad Afrodite, come la follia profetica è di Apollo, quella mistica di Dioniso, e la follia poetica spetta alle Muse. Socrate, verso la metà del dialogo, si rende conto che l'aver ripreso il tema di Lisia era già stato per lui motivo di vergogna e contrario alla sua volontà: piuttosto che tradire ancor più vergognosamente i nobili insegnamenti di cui ha avuto la fortuna di ricordarsi, egli preferisce andarsene immediatamente. Proprio nel momento in cui sta andando via e sta per oltrepassare l'acqua, Socrate percepisce la voce del suo demone che gli dice di non farlo. In precedenza, mentre parlava, Socrate aveva avuto la vaga intuizione di una colpa personale, si era sentito turbato e confuso, aveva oscuramente percepito che l'elogio con cui gli uomini avrebbero onorato il suo linguaggio avrebbe potuto costituire un peccato contro gli dei: l'amore di cui i due discorsi hanno parlato (prima il discorso di Lisia poi quello di Socrate) è in effetti secondo me l'amore di persone senza nobiltà d'animo, non di uomini liberi. Ma è "l'ammonimento" del demone che ha veramente permesso, secondo me, a Socrate di prendere coscienza del suo peccato. E' difficile dunque non vedere in esso una cesura significativa nello sviluppo del dialogo: a un'ispirazione che veniva dal basso se ne sostituisce ormai un'altra che viene dall'alto ( mito della biga alata).
In seguito Socrate passa a discutere della vera retorica; ma poiché questa ha bisogno di conoscenze esatte, il suo presupposto è conoscere l'essenza reale delle cose. Essa dunque dovrà fare uso della dialettica, nei due momenti che la compongono: la divisione analitica dei concetti, e la sintesi operata secondo il criterio della ragione.
Il dialogo si chiude con Fedro e Socrate che, dopo aver pregato Pan e gli altri dei, ritornano in città.
Secondo me, per poter analizzare a fondo gli argomenti e le discussioni trattate in questo dialogo, bisogna trattare, tramite considerazioni personali, dei tre miti fondamentali del Fedro: il mito della biga alata; il mito delle cicale ed il mito di Theuth.
Il mito che, secondo me, rappresenta quella che è la vera concezione dell'amore e, di conseguenza, dell'animo umano all'interno del Fedro è senza dubbio il mito della biga alata. Secondo questo mito l'amore conduce l'anima a contemplare le regioni al di là del cielo, dove ha sede la verità, ossia "l'Idea" di bellezza; ma non a tutti è dato di raggiungere questa meta, poiché l'anima è come un auriga che debba guidare un carro tirato da due cavalli, di cui uno tende al bene, mentre l'altro recalcitra. A seconda dunque che prevalga l'uno o l'altro, l'anima può restare nel mondo "iperuranio", o deve "incarnarsi nella materia". E' questo un altro di quei miti in cui Platone fa conoscere l'energia concettuale con l'immaginazione poetica, inventando metafore straordinariamente rispondenti all'obiettivo del suo pensiero, e al tempo stesso dotate di una prerogativa fantastica che si vorrebbe definire surreale. Leggendo questa metafora di vita che Platone definisce "mito", ho cercato subito di fare un paragone con la vita delle anime dei nostri giorni. In base a questa riflessione ho potuto constatare che anche al giorno d'oggi ogni anima si trova al centro su di una auriga trainata da un cavallo che tende ad andare verso l'alto (verso la purificazione interiore e la libertà dell'anima) e da uno che tende ad andare verso il basso (verso la vita peccaminosa). A mio parere però, a differenza di Platone, penso che i cavalli che trascinano l'auriga, e quindi l'anima, verso il basso siano, al giorno d'oggi, più forti di quelli che cercano di portare l'anima alla serenità interiore.
Il mito delle cicale, insieme a quello di Theuth, è una creazione platonica originale, che svolge nel dialogo una funzione fondamentale. Tramite questo mito, secondo me, Platone non vuole costituire soltanto un intermezzo ma soprattutto vuole rivolgere un monito a Fedro, affinché colga il fondamentale passaggio che sta per compiersi e comprendere l'importanza del nuovo tipo di retorica che sarà esaminato in questa seconda parte del Fedro. E' giunta l'ora della siesta: Socrate e Fedro la impiegano per analizzare un altro tema che si offre al loro esame. Il canto ammaliatore delle cicale non li soggiogherà, per perderli, come nell'Odissea quello delle Sirene. Al contrario, essi possono sperare che resistere all'incantesimo impiegando il tempo a filosofare rechi loro il vantaggio di essere segnalati da queste delegate ed interpreti delle Muse a quelle di queste ultime che occupano il più nobile rango, ossia Calliope, la più anziana, e Urania, più giovane. Infatti Socrate racconta a Fedro che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse. Ma quando nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni degli uomini di allora furono travolti da un tale piacere che, cantando, non si curarono più di mangiare né di bere e morirono senza accorgersene. Da quegli uomini, in seguito a questo fatto, ebbe origine la stirpe delle cicale che fin dalla nascita ottenne in dono dalle Muse di non aver alcun bisogno di cibo, ma di cantare subito senza né mangiare né bere, fino alla morte. Successivamente, le cicale, giunte al cospetto delle Muse, riferiscono loro chi sono gli uomini che quaggiù le onorano e quale Musa ciascuno onora. In questo modo, di conseguenza, le Muse onorate offrono doni di sapienza e di capacità agli uomini che le hanno adorate. Le cicale in tutto questo, quindi, svolgono in modo particolare un ruolo di intermediari tra le Muse e gli uomini.
Forse, secondo me, non è un caso che Platone abbia posto all'inizio di quest'ultima parte il mito dell'invenzione della scrittura ad opera di Theuth, così come aveva posto il mito delle cicale ad introduzione della terza parte (infatti il mito delle cicale viene pronunziato da Socrate proprio al centro di un argomento ed un altro, quindi alla fine della seconda parte del Fedro e all'inizio della terza). Comunque sia, la sua intenzione è evidente; questa storia è il simbolo di un idea: lo scritto uccide nel pensiero l'attività viva della memoria. Esso non fa altro che supplire artificialmente alla sua pigrizia e alle sue mancanze; è un soccorso estraneo che ci disabitua allo sforzo interiore. Il progresso dell'istruzione non può che essere il risultato di una lunga e paziente cultura guidata dall'uomo che sa, cultura adatta a chi deve riceverla e che presuppone da parte di quest'ultimo una comunione con il maestro che gliela impartisce. Mentalmente lontano dall'assecondare questo progresso, lo scritto ingenera l'illusione orgogliosa di un sapere acritico e troppo facilmente acquisito per essere solidamente fondato. Dalla lettura di questo mito ho notato con quale severità Platone giudichi la pittura, in quanto inganno visivo destinato a fornirci l'errata apparenza della realtà viva: la vita delle figure che la pittura pone davanti ai nostri occhi è in realtà una vita morta e, se le chiamiamo, queste figure rimangono inerti e silenziose. In base a ciò, lo stesso accade per lo scritto: ci si aspetta di trovarvi un "pensiero vivo", ma quando si formula una domanda, esso non sa fare altro che ripetersi o tacere; inoltre, data la sua incapacità di discernere a chi deve o non deve rivolgersi, esso capita a caso nelle mani di chiunque; infine, se lo si attacca esso non sa difendersi da se. Esattamente all'opposto stanno le cose per quanto riguarda la parola viva. La sua parentela con lo scritto e il comune nome di "discorso" con cui si designano entrambi, non devono trarci in inganno: lo scritto è il figlio "bastardo" del pensiero.
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