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UN CASE-STUDY: LA NATO IN KOSOVO
3.1. Premessa.
I cambiamenti avvenuti in seno all'Alleanza Atlantica in seguito al crollo del muro di Berlino e alla successiva scomparsa dell'Unione Sovietica possono essere meglio identificati analizzando un caso specifico: l'azione militare condotta dalla NATO in Kosovo nel 1999.
Quanto si è verificato nei Balcani - la prima concreta azione della NATO in cinquant'anni di vita - offre una varietà di esempi e di spunti di riflessione che è bene analizzare e che portano alla luce interessanti aspetti di questa "nuova NATO".
Il problema balcanico ha radici profonde e origini che si perdono nella notte dei tempi. Le otto nazioni e le varie minoranze etniche di quest'area intrapresero una guerra selvaggia lungo confini etnici e religiosi sin dal crollo simultaneo di Unione Sovietica e Jugoslavia.
Nonostante le misure politiche prese - quali l'invio di missioni militari sotto l'egida dell'ONU - per porre fine agli eccidi e alle persecuzioni, le potenze occidentali riuscirono solo nel 1995 a fermare il massacro in Bosnia-Erzegovina, tra i più lunghi e sanguinari. Il principio fondamentale dello Statuto dell'ONU (cap. 1: Scopi e principi) tratta della "non ingerenza negli affari interni degli Stati". Il rispetto della sovranità degli Stati doveva sempre avere la priorità su qualsiasi altro principio etico, sia pure dinanzi alla violenta repressione di minoranze etniche non serbe presenti in Bosnia. Di qui la paralisi che ha impedito alle Nazioni Unite di opporsi ai massacri in quella regione. Ne deriva pertanto la "legittimazione" della NATO ad agire, che ha operato per congelare la crisi tramite le missioni IFOR/SFOR, pur sempre sotto mandato dell'ONU. Ma un altro conflitto era già alle porte, e tre anni più tardi, in Kosovo, si è manifestato in tutta la sua disumanità. Di essa si è appunto occupata la NATO, lanciando ultimatum, minacciando bombardamenti, anche senza un'esplicita risoluzione dell'ONU, al suo interno essendo contrarie Cina e Russia (titolari del ben noto diritto di veto).
"Nel 1949, alla firma del Trattato di Washington, nessuno pensava che cinquant'anni dopo l'Alleanza Atlantica sarebbe stata impegnata a bombardare la Serbia, né soprattutto che tale impegno militare non avrebbe avuto nulla a che fare con la Russia."62 Sono stati invece i Balcani a diventare il centro delle preoccupazioni strategiche della NATO. La liberazione del Kosovo sarebbe dovuta diventare, negli intenti, la prima azione umanitaria condotta in modo esemplare dalla "nuova NATO". Ciò che non era sicuramente previsto, invece, è che il Kosovo sarebbe diventato un campo trincerato a tempo indeterminato; questa regione -grande all'incirca quanto la nostra Lombardia- è stata infatti difesa con nobili argomenti ma con scarsa preveggenza politica. Eppure tale possibilità era in qualche modo già insita nelle modalità stesse con cui è stata decisa e condotta l'azione bellica di quei "settantadue giorni".
Il modo in cui la NATO si è avvicinata e poi impegnata nel problema dei Balcani ricorda un po' quello in cui si è attuato l'allargamento dell'Alleanza stessa alla fine della Guerra Fredda: senza strategia, senza una vera decisione politica preventiva, quasi controvoglia. E' questo un punto su cui ci proponiamo di riflettere, cercando quindi di capire perché "la più potente realtà politico militare europea non abbia obiettivi politici e strategici complessivi e coerenti, ma viva più o meno alla giornata, più reagendo alle provocazioni e agli stimoli, che imponendosi in un suo disegno di lungo termine."63
Una prima parziale causa la possiamo rintracciare nel fatto che gestire una crisi come quella dei Balcani presenta difficoltà maggiori che fronteggiare una minaccia comune, quale era l'Unione Sovietica fino ai primi anni Novanta. Allora, l'unità d'intenti e un paritario livello di solidarietà erano garantiti proprio dall'esistenza del pericolo sovietico. Inoltre, allora la NATO non aveva né alternative, né rivali per fronteggiare "il pericolo rosso" ed era perfettamente in sintonia con il dettato della Carta delle Nazioni Unite.64
Per ciò che concerne la gestione delle attuali nuove crisi, invece, la NATO deve convivere ed accordarsi con altre organizzazioni internazionali quali ONU ed OSCE; inoltre, al suo interno, deve riuscire a tutelare e far convergere gli interessi di tutti gli Stati membri, ognuno con proprie e particolari esigenze. Infine deve concordare un piano d'azione su più livelli: militare, diplomatico, politico ed economico, campi in cui non ha ovviamente il monopolio. Coordinare tutte queste esigenze su un piano d'azione coerente non è certo semplice, ed è questo il motivo per cui si è assistito spesso a soluzioni di compromesso.
Nostro scopo è quello di fotografare il processo decisionale che ha condotto alle principali azioni intraprese dalla NATO e le zone d'ombra tuttora oggetto di discussione. Ci chiederemo pertanto quale fosse l'originario scopo politico dell'Alleanza perseguito sin dall'inizio ai vertici della NATO e come esso è stato progressivamente rivisto e modificato. Cercheremo di capire se alla base della scelta dell'intervento aereo ci sia stato un errore di valutazione e per quale motivo. Cioè, il comando NATO pensava realmente che Milosevic avrebbe accettato le trattative di fronte ad una breve serie di raids aerei? Oppure si è scelto così sotto le pressioni dei "civili", scartando opzioni alternative? O si è agito istintivamente, seguendo la consolidata tradizione militare americana? E di quanto potere effettivo hanno potuto godere i politici, approvando incursioni selettive e graduali. Ci sia infine concesso domandarci quale sia stata la vera ragione di questo primo attacco NATO, alla luce delle ipotesi sollevate al riguardo.
Cercheremo in questa sede di rivisitare le dichiarazioni degli obiettivi e i risultati ottenuti, ricostruendo il lungo iter che ha portato a decidere l'attacco alla Serbia, analizzando in particolare i rapporti intercorsi tra politici e militari, interrogandoci sulla "congruenza tra obiettivi dichiarati e lo strumento militare usato",65 nella presenza reale o presunta di un decisore ultimo, e sulle conseguenze sia per l'edificio politico dell'Europa sia per l'ONU. Alla luce di tali considerazioni, cercheremo infine di delineare le possibili linee di sviluppo di un'alleanza che sembra non poter più prescindere da un pilastro europeo in grado di tutelarci da ingerenze esterne e possibili nuove crisi.
3.2. L'escalation delle tensioni fino alla conferenza di Rambouillet.
La fine della Jugoslavia era prevedibile fin dagli anni di apparente tranquillità interetnica dell'epoca della dittatura titina. I diversi nazionalismi cominciarono a fronteggiarsi non appena venne meno la minaccia sovietica, e in nessun caso la Jugoslavia avrebbe potuto reggere alle spinte centrifughe e alle rivendicazioni indipendentiste di sloveni e croati. Ciò che non era tuttavia scontato è che la preannunciata frammentazione sarebbe stata raggiunta sotto il segno della pulizia etnica e di ripetuti massacri.
La responsabilità ultima di ciò che è accaduto ricade sicuramente su Slobodan Milosevic e sulle forze armate federali, che hanno rivendicato e combattuto per affermare un improbabile superiorità dell'etnia serba, iniziando così le ormai tristemente note operazioni di pulizia etnica. Prima mossa di Milosevic è stata quella di abolire l'autonomia di due territori facenti parte della Repubblica Serba: Vojvodina e Kosovo. Le altre repubbliche si sono così convinte che Milosevic volesse rendere la Serbia assoluta dominatrice dell'area balcanica; ed hanno cominciato ad avanzare le proprie pretese indipendentiste.
In Kosovo, l'opera di pulizia etnica di matrice serba, è stata osteggiata e combattuta con tutti i mezzi da un'organizzazione clandestina nota con il nome di UCK. La NATO ha cominciato a seguire più da vicino l'evolversi della situazione e delle violenze in Kosovo, sin dall'inizio del gennaio 1998, pur non avendo alcun ruolo diretto nell'opera di pacificazione. Discussioni a tal proposito si sono tenute sia a livello ambasciatoriale nel North Atlantic Council (NAC) - partecipanti gli allora 16 membri dell'Alleanza -, sia all'interno dei meeting dell'Euro Atlantic Partnership Council (EAPC) - cioè i membri del NAC più altri 28 Paesi partners. Alla fine di gennaio dello stesso anno è stato poi creato un Gruppo di Contatto per la ex Jugoslavia, consesso dei ministri degli Esteri di Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, al fine di seguire la situazione dell'area balcanica più da vicino.
L'otto marzo 1998, la polizia serba, in seguito all'uccisione di due poliziotti serbi da parte dell'UCK, attacca la roccaforte della guerriglia albanese, Drenica, causando la morte di un'ottantina di persone, tra cui donne e bambini. "Dopo otto anni di confronto freddo o drôle de guerre, la crisi del Kosovo precipita in questo marzo 1998. Il massacro di Drenica è il punto di non ritorno nella mente degli albanesi, dopo il quale nulla più è come prima. L'impetuoso sviluppo della guerriglia dell'UCK avviene in costante riferimento a questa strage".66
La prima reazione della comunità internazionale viene gestita dal Gruppo di Contatto, che conduce indagini sull'accaduto e che contemporaneamente approva sanzioni contro Belgrado, cui sarebbe stato dato corso effettivo entro due settimane se la repressione non fosse cessata. Viene inoltre avanzata la possibilità di un embargo alle armi su cui si sarebbe dovuto pronunciare il Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Alla fine del mese di marzo, finalmente viene imposto l'embargo alla fornitura di armi alla Repubblica Federale di Yugoslavia (FRY), e lo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta la risoluzione 1160 con la quale Yugoslavi e Kosovari sono invitati a collaborare alla ricerca di una soluzione politica.67 Ma le repressioni nel Kosovo non accennano a diminuire e, in aprile, il Gruppo di Contatto adotta nuove sanzioni nei confronti del regime serbo, nonostante il veto della Russia e la ferma opposizione della Cina.
In ambito NATO, contemporaneamente, il Military Committee viene incaricato di studiare possibili opzioni militari, in previsione di un intervento contro la Serbia. Il North Atlantic Council (NAC) istruisce altresì il Political Coordination Group (PCG) per studiare le possibili opzioni alternative atte a porre fine all'escalation della violenza in Kosovo, ma senza ricorrere alle forza. Esso propone un "cordone sanitario" in Albania e Macedonia per bloccare il flusso di guerriglieri, armi e rifugiati dell'UCK. Tuttavia, la svolta in questo periodo coincide con la decisione americana di avviare in proprio una risoluta iniziativa diplomatica, dimostratasi ormai l'incapacità del Gruppo di Contatto nel gestire la crisi.
Il mese di giugno vede ancora una volta il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intervenire con la risoluzione 1199, nella quale si chiarisce per la prima volta che la situazione in Kosovo costituisce "una minaccia alla pace e alla sicureza". Con essa si chiede che le ostilità cessino al più presto e che si instauri una stretta collaborazione tra gli Stati interessati per la risoluzione dei numerosi problemi umanitari venutisi a creare. In base al cap. VII della Carta delle Nazioni Unite, l'esistenza di "una minaccia alla pace e alla sicurezza" comporterebbe l'attivarsi dell'ONU, ma è chiaro sin da subito che la Russia avrebbe opposto il proprio veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza in favore di un intervento armato nei Balcani.
Contemporaneamente ha luogo l'iniziativa diplomatica americana. Rugova, presidente dell'autoproclamata repubblica albanese del Kosovo, viene forzato a recarsi a Belgrado per incontrare Milosevic, cosa che aveva sempre evitato in passato; ma le trattative si arenano subito, a causa della guerra che investe la regione. Per ciò che concerne invece l'UCK, bisogna sottolinearne l'estraneità al negoziato, sebbene gli americani stessero già cercando di prendere contatto con i suoi dirigenti.
Anche l'Alleanza Atlantica continua le sue discussioni sulla situazione in Kosovo, in molte delle sue strutture: Nuclear Planing Group, Defence Planning Committee, North Atlantic Council ( a livello di ministri della Difesa), NATO - Russia Permanent Joint Council, EAPC. Si cerca di accelerare l'elaborazione dei piani militari e di possibili opzioni alternative. I ministri della Difesa dei Paesi membri si dichiarano pronti a discutere più serenamente la questione non appena un chiaro consenso politico sia raggiunto tra le capitali.69 Nel frattempo decidono di continuare a dare assistenza all'Albania nel contesto della Partnership for Peace e di intraprendere immediatamente un'esercitazione aerea nella regione, al fine di dimostrare la rapidità e la capacità della NATO e nel colpire i propri bersagli, nell'eventualità di una mobilitazione militare d'emergenza, l'11 giugno, a Bruxelles, i ministri della Difesa decidono così la "Determined Falcon", senza un'esplicita risoluzione dell'ONU, per il successivo 15 giugno. A questo punto, la possibilità di un preciso intervento in Kosovo non appare più come utopica.
Alla fine di giugno, le opzioni militari studiate dal Military Committee sono quasi pronte e sono sul punto di essere presentate e sottoposte all'esame del North Atlantic Council (NAC), a livello ambasciatoriale; esse possono essere riassunte in tre documenti, di cui solo il terzo è stato effettivamente ultimato:
n Categoria 1: misure da attuarsi nell'ambito della Partnership for Peace (PFP) con Albania e Fyrom (former Yugoslav Republic of Macedonia);
n Categoria 2: misure concernenti un preventivo stanziamento di truppe in Albania e Macedonia, studiate dai ministri degli Esteri;
n Categoria 3: prima fase con misure aeree; seconda fase con truppe di terra, se la prima fase non dovesse sortire un risultato accettabile.
E' chiaro che questo è solo un primo abbozzo delle attesissime opzioni militari; i sedici ambasciatori del NAC tuttavia, non essendo pienamente soddisfatti, esortano il Military Committee a continuare lo studio delle differenti opzioni e invitano gli esperti militari ad andare più nel dettaglio.
L'estate non porta alcun miglioramento. Le cifre parlano di cinquecento vittime tra militari e civili albanesi, trecentocinquanta villaggi distrutti, duecentocinquantamila sfollati.72 Gli uomini dell'UCK vengono ridotti notevolmente di numero in pochi mesi. E tra le vittime della pulizia etnica figurano persino molti serbi del Kosovo. Tuttavia, sul piano internazionale, l'UCK riesce a sottoporre il dramma del Kosovo all'attenzione dei media come una priorità. L'opinione pubblica mondiale prende progressivamente coscienza del genocidio in atto e le masse di sfollati costretti a vivere nei boschi, con l'inverno alle porte, scuotono la coscienza collett 414h77e iva. Si moltiplicano gli appelli umanitari e i reportage sul Kosovo. E la questione umanitaria diventa politica. Parallelamente comincia a prospettarsi un possibile intervento della NATO contro il regime di Belgrado, nel caso non venga data rapida soluzione al dramma dei profughi. Le autorità militari dell'Alleanza Atlantica continuano a studiare le possibili opzioni militari preliminari, impegnandosi a renderle flessibili quanto più possibile per le autorità politiche che, d'altra parte, cercano d'impartire le loro direttive in modo sempre più chiaro. Per quanto riguarda le cosiddette "opzioni alternative", il Policy Coordination Group propone di inviare una missione OSCE al fine di osservare e verificare la reale situazione in Kosovo.
Le difficoltà a decidere una linea d'azione immediata e soprattutto adeguata appaiono evidenti. Il Pentagono è restio ad impegnarsi in un'azione militare, considerandola un'arma a doppio taglio. Il continuo evolversi della situazione rende chiaro quale sia l'opzione militare più appropriata tra le tre presentate al NAC, che continua a prendere tempo chiedendo ulteriori approfondimenti degli studi. L'opzione di uno stanziamento preventivo di truppe - già bocciato da alcuni ministri della Difesa più propensi ad un'opera di sorveglianza aerea lungo i confini - viene ripresa e rilanciata.74 A livello politico, si continuano a studiare le diverse strategie adottabili in corrispondenza delle diverse fasi di ciascuna delle tre diverse opzioni militari presentate: ci si trova comunque d'accordo sulla necessità di una risoluzione preventiva delle Nazioni Unite, cioè di un mandato esplicito del Consiglio di Sicurezza dell'ONU; e questo sarebbe più facile ottenerlo cercando di scegliere strategie concilianti, meno radicali possibili. Ma alcuni governi - segnatamente americano e inglese- preferiscono giungere ad una più severa punizione per i serbi (ridimensionandone il potenziale bellico), ritenuti i veri ed unici responsabili dell'intera crisi balcanica degli anni Novanta.
Verso la fine di luglio, cominciarono a circolare voci sulla approvazione di un piano operativo (OPLAN) da parte della NATO. Pare che ci sia stia anche orientando verso la Categoria 3, concernente le opzioni aeree in Kosovo (package II) e le opzioni per una successiva invasione via terra (package III). Per entrambe sarebbero già state studiate modalità e termini per le tre diverse fasi: preavviso di attivazione (Activation Warning), richiesta di attivazione (Activation Request), e ordine di attivazione (Activation Order).75
Ma a livello diplomatico si continua a lavorare, cercando soluzioni accettabili per gli albanesi (che desiderano l'indipendenza e che non accettano di sentir parlare di semplice autonomia) e per i serbi. La guerra - che costerebbe due milioni di dollari al giorno76- deve essere evitata anche per ragioni economiche. Tuttavia le autorità militari iniziano a sondare le intenzioni dei Paesi membri dell'Alleanza, riguardo il contingente bellico da mettere a disposizione della NATO, in vista di una prossima eventuale azione bellica. Contemporaneamente giunge l'invito delle Nazioni Unite alla Serbia a cessare il fuoco.
All'inizio di settembre, la NATO si dichiara pronta ad agire, presentandosene la necessità, e alla luce di ciò comincia a prospettarsi l'ipotesi di un accordo a tempo tra Belgrado e Pristina. Il 9 settembre 1999 il NAC, completati gli studi da parte del Military Committee, approva tre diversi piani di azione, approfonditi e perfezionati rispetto a quelli rifiutati in precedenza:
n Categoria I: preventivo stanziamento in Albania (lungo i confini con il Kosovo);
n Categoria II: operazioni aeree, con l'intento di colpire bersagli militari prestabiliti;
n Categoria III: stanziamento di truppe di terra, supportate anche dalle forze dell'aviazione.
n Le forze da mettere sul campo oscillano tra 25000 uomini per la Categoria I a 35000 truppe per la categoria III.
Finalmente in ottobre - di fronte alle minacce della NATO - si concretizza un appeasement provvisorio. L'ambasciatore americano Richard Holbrooke si reca a Belgrado per sottoporre a Milosevic una serie di condizioni in cambio del congelamento dei preparativi militari. Il 12 ottobre, Milosevic accetta di ritirare gran parte delle forze di polizia serba e di farvi entrare duemila osservatori dell'OSCE, impegnandosi a rispettare le risoluzioni 1160 e 1199 del Consiglio di Sicurezza; in più, accetta un accordo con la NATO relativo ad un monitoraggio aereo della missione OSCE. Il Kosovo si internazionalizza. Inoltre, per evitare equivoci, il NAC decide di fissare nel 27 ottobre la data ultima per l'applicazione della risoluzione 1199, relativa alla cessazione delle ostilità e all'avvio di negoziati per risolvere i problemi umanitari. Così, il 24 ottobre, il Consiglio di Sicurezza può adottare la risoluzione 1203, allo scopo di dare "copertura politica" ai due accordi raggiunti.78
In seguito all'accordo tra Holbrooke e Milosevic, viene dato incarico all'ambasciatore Hill di elaborare una piattaforma negoziale sullo status del Kosovo, un accordo - quadro tra serbi e albanesi. Holbrooke confida a Hill il sogno di elaborare questo progetto di regolamento politico: le frontiere della Yugoslavia sarebbero teoricamente mantenute, al fine di non creare un precedente che potrebbe poi essere invocato da altre etnie della regione, in primis quella macedone; al Kosovo dovrebbe venire concessa un'autonomia sostanziale, che in pratica la trasformerebbe in uno stato de facto, almeno per ciò che concerne la politica interna; e la provincia verrebbe occupata da forze della NATO, garanti dell'applicazione dell'accordo concluso. Questo in linee essenziali il progetto preparato dall'ambasciatore Hill - secondo ciò che aveva in mente Holbrooke - che costituirà l'intelaiatura del progetto presentato qualche mese dopo a Rambouillet.
L'accordo raggiunto sembra produrre buoni frutti: il controllo della polizia serba sul Kosovo si riduce considerevolmente e il territorio viene pattugliato dai mezzi semiblindati dell'OSCE. L'UCK si riorganizza e il 60% del Kosovo è ora "zona liberata". Ma nonostante questi positivi sviluppi, gli ultimi due mesi del 1998 vedono crescere le tensioni. Col passare delle settimane l'UCK si fa più aggressivo, forte dello spazio ritrovato, del flusso di armi che ora può ricevere, dell'incoraggiamento della NATO. Si ricomincia così a sparare, da entrambe le parti e le vittime si moltiplicano. In questo clima l'OSCE si dimostra particolarmente utile a ridurre la violenza della condotta dei guerriglieri albanesi e dei poliziotti serbi; tuttavia al suo interno non vi è mai completa sintonia, a causa delle differenti posizioni politiche dei Paesi membri.
Negli ultimi mesi del 1998, tuttavia, avviene probabilmente la vera svolta che deciderà il destino del Kosovo. Dopo i tentativi iniziali, gli Stati Uniti decidono di avvicinarsi maggiormente all' UCK, fino a raggiungere una più esplicita collaborazione. "La diplomazia americana agisce su due binari. In parallelo a Hill che con vigore decrescente conduce il negoziato fra serbi e albanesi secondo i canoni della mediazione diplomatica, si sviluppano le relazioni con la guerriglia albanese, non è dato sapere con quale prospettiva politica, se di semplice appoggio alla causa albanese in Kosovo o di destabilizzazione complessiva del regime serbo. Si tenga presente la radicata avversione americana per Milosevic e la convinzione che Belgrado costituisca l'ostacolo principale anche per la pace in Bosnia".79
Già dal 1997 gli americani sono alla ricerca di una forza politica più capace di quella espressa da Rugova - il "Gandhi dei Balcani" - per farne il loro partner. Così dall'autunno del 1998 le attenzioni americane si rivolgono risolutamente verso l'UCK, accettabile interlocutore in Yugoslavia in mancanza di un punto di riferimento più compatibile con l'ideale democratico. Inoltre si intravede la possibilità di accorciare i tempi. Ex diplomatici americani, in veste di consiglieri politici, compaiono a fianco degli esponenti dell'UCK. Fonti non ufficiali parlano anche di flussi di armi e di istruttori che l'UCK avrebbe ottenuto dagli americani.80
Il 1999 sia apre così come si era chiuso il 1998. Gli scontri tra serbi e UCK si fanno sempre più violenti e la NATO continua a richiamare all'ordine entrambe le parti, ricordando che l'ordine di attivazione (ACTORD) per un attacco aereo è ancora in vigore. Si rivede anche il Gruppo di Contatto, ritenuto unilateralmente lo strumento più adatto per rilanciare il processo di pace.
L'UCK si mostra capace di pari ferocia e crudeltà della polizia serba: vengono scoperte due fosse comuni (con 10 e 14 corpi) di serbi. Ma lo sdegno della comunità internazionale viene in parte offuscato dopo il ritrovamento del 15 gennaio dei corpi di 45 vittime di colpi da arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata: sono gli albanesi del massacro di Racak. La scena è raccapricciante; ma al tempo stesso ideale per suscitare lo sdegno dell'opinione pubblica internazionale. "Come la guerra di Bosnia insegna, le denunce di efferatezze sui corpi, segni di torture, decapitazioni, sono una diffusa arma di propaganda".
La reazione del massacro di Racak è innanzitutto mediatica. Il procuratore della Corte internazionale dell'Aja per i crimini di guerra, la canadese Ann Harbour si presenta al confine jugoslavo, 82 ma non viene accettata "for not having a visa". William Walker, diplomatico americano a capo della missione OSCE in Kosovo viene definito "persona non gradita". La NATO decide così di mandare due ufficiali a Belgrado, Klaus Naumann e Wesley Clark, nel disperato tentativo di riportare Milosevic al tavolo delle trattative. Il Segretario Generale della NATO, Javier Solana, conferma che 400 piani per un attacco aereo contro il regime serbo sono pronti già dal mese di ottobre e che l'ordine di attivazione (ACTORD) continua ad essere effettivo. Ma i due generali NATO ritornano ancora a mani vuote da Belgrado e il 20 gennaio espongono al North Atlantic Council (NAC) il contenuto delle loro conversazioni con il leader serbo.
Dopo quest'ennesimo fallimento, gli ambasciatori del NAC decidono di prendere alcune "purely precautionary measures".84 Il SACEUR dispone che le forze armate si conformino all'ordine del NAC riguardo:
a) riduzione del preavviso di attacco aereo da 96 a 48 ore;
b) ordine alle navi del STANAVFORMED (la flotta permanente della NATO nel Mediterraneo) di radunarsi nel porto di Brindisi;
c) ordine alla STRIKE FORCE SOUTH di muoversi dall'Egeo all'Adriatico.85
Contemporaneamente, il portavoce della NATO, Jamie Shea, afferma che sebbene Milosevic non abbia dimostrato alcun tipo di flessibilità né di lungimiranza nel trattare con la comunità internazionale, e nonostante le misure precauzionali prese dalla NATO, niente è ancora compromesso, essendo la negoziazione ancora doverosa e possibile per evitare un bagno di sangue.
Nel frattempo si moltiplicano le riunioni della grande diplomazia mondiale per discutere sul da farsi. Il NAC continua a seguire pedissequamente tutti gli sviluppi diplomatici; a livello ambasciatoriale, si aspettano con fremente attesa i risultati del meeting di Bruxelles, dei ministri degli Esteri dell'Unione Europea. La maggior parte degli ufficiali ritiene che la fine di gennaio segni il limite ultimo oltre il quale non sarà più possibile trovare una soluzione pacifica. Infine il Gruppo di Contatto, che si riunisce a livello ministeriale, coinvolgendo per l'occasione la Signora Albright: Washington è propensa a porre un ultimatum a Belgrado, mentre gli alleati europei preferiscono incrementare gli sforzi a livello politico e diplomatico e la pressione militare, senza però spingersi fino ad un "punto di non ritorno". Si prospetta così un nuovo piano di pace, proposto proprio dal Gruppo di Contatto, per raggiungere una tregua temporanea, della durata di tre anni. E' questa l'ultima possibilità concessa alla diplomazia, un "clear warning" dunque, preferendo evitare la parola ultimatum.
Il Gruppo di Contatto convoca per il 6 febbraio 1999 i leaders serbi e albanesi del Kosovo nel castello di Rambouillet, per discutere di una "sostanziale autonomia" per la provincia. Parallelamente il NAC da al suo Segretario Generale l'autorità di lanciare attacchi aerei sull'intero suolo della Repubblica Jugoslava, nel caso in cui l'approccio politico non dovesse sortire gli effetti desiderati.86
Nel frattempo, fra molti Paesi dell'Alleanza, comincia a circolare l'idea di uno stanziamento congiunto di truppe di terra in Kosovo, come ulteriore pressione per spingere Milosevic al tavolo delle trattative, sul modello della SFOR in Bosnia,87 il secondo tra i quattro ormai possibili scenari (cease-fire; peace settlement; no cease-fire; no peace-settlement): pare infatti si opti decisamente per quella che viene chiamata l'Opzione "A-minus".
Il leader serbo tergiversa: "Milosevic told Cook during a 30-minute meeting in Belgrade, the capital of both
Yugoslavia and Serbia, that he will consult with senior aides before deciding
if his governement will partecipate in the proposed talks. But in a steatement
issued later to state news media, the yugoslav government said it preferred
that negotiations be held in
3.3. La conferenza di Rambouillet.
La conferenza di Rambouillet si apre tra grandi speranze e indicibili tensioni. I governi dei Paesi del Gruppo di Contatto - Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Russia - raggiungono però l'obiettivo a cui hanno cominciato a lavorare in seguito al massacro di Racak (15 gennaio 1999): la messa a punto di una soluzione politica ad hoc per la crisi del Kosovo. Il governo di Belgrado e i rappresentanti della comunità albanese della provincia sono così invitati nel castello di Rambouillet per studiarla e discuterne. Abbiamo già visto con quali pressioni tale invito sia stato presentato alla Serbia.
Il progetto approvato dal Gruppo di Contatto ruota attorno a dieci punti cardine, che si ritengono non negoziabili, ancor prima dell'apertura ufficiale della conferenza.
1) necessità di porre rapidamente termine alle violenze e di rispettare il cessate il fuoco;
2) soluzione pacifica della crisi attraverso un dialogo tra le due parti;
3) un periodo di transizione, della durata di tre anni, nell'attesa di mettere a punto una soluzione definitiva;
4) divieto di cambiamenti unilaterali dello statuto provvisorio della provincia;
5) integrità territoriale della Yugoslavia e, di conseguenza, per gli Stati confinanti;
6) rispetto del diritto di tutte le comunità, in particolare delle loro lingue, delle loro istituzioni religiose e dell'insegnamento;
7) elezioni libere e sotto il controllo dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE);
8) procedimento giudiziario per le azioni commesse durante il conflitto del Kosovo, salvo per i crimini di guerra o contro l'Umanità;
9) amnistia e liberazione di tutti i prigionieri politici;
10) partecipazione internazionale e cooperazione delle due parti per lo studio di una soluzione futura della crisi.
Bisogna sottolineare come la parte Jugoslava accetti subito questi punti; non lo stesso fanno i rappresentanti della comunità albanese, che trova imprecisa e lacunosa la prevista "soluzione definitiva" da raggiungere di comune accordo con Belgrado, preferendo pertanto pronunciarsi autonomamente per la loro indipendenza al termine dei tre anni di tregua previsti.90
Tuttavia, il 6 febbraio 1999, tutte le parti in causa sono presenti all'apertura della conferenza: serbi, kosovari albanesi, mediatori, americani e russi del Gruppo di Contatto, sotto la presidenza franco - inglese. E la presenza dei russi non destabilizza l'ambiente essendo ben noti il desiderio di questi ultimi per la stabilità dei Balcani, nonché il loro sempre impellente bisogno del denaro degli occidentali.91
Francia e Inghilterra cominciano con l'esporre i due scopi alla base dell'accordo da raggiungere: uno politico, secondo il quale il Kosovo dovrà godere di una autonomia sostanziale (molto lontana dalla desiderata indipendenza); e uno militare, che prevede una forza di circa 30 mila uomini della NATO da disporre sul territorio jugoslavo, incaricata di garantire la pace e l'autonomia del Kosovo, i cui rappresentanti, dal canto loro, continuano a spingere per l'indipendenza e un referendum, mentre i serbi non sono disposti né a concedere l'autonomia sostanziale, né soprattutto a consentire l'ingresso alle forze NATO sul loro territorio.92
La conferenza inizia con tre ore di ritardo poiché l'aereo militare francese Hercules C 130, predisposto per portare a Parigi i rappresentanti albanesi, è bloccato all'aeroporto di Pristina: i serbi, d'accordo sulla presenza dei moderati di Rugova alla conferenza, non permettono che sullo stesso aereo salgano anche i terroristi dell'UCK. L'ostacolo viene poi superato grazie ad una sopraggiunta presa di posizione degli stessi moderati, che si oppongono a partire senza i rappresentanti dell' Armata di liberazione del Kosovo (KLA).
Chirac apre la Conferenza con un discorso chiaro che fissa gli obiettivi della negoziazione . I tredici delegati serbi e i 17 delegati albanesi sono faccia a faccia, ma non accennano a rivolgersi la parola. E si gira in tondo. Questa impasse si rompe con l'arrivo di Madeleine Albright, il 14 febbraio, che riesce a far comunicare serbi e albanesi per circa un'ora, col risultato di concordare un prolungamento dei lavori per una settimana, fino a sabato 20 febbraio a mezzogiorno, prefigurando così la reale intenzione di raggiungere una soluzione pacifica.
Col passare dei giorni, però, nessuno sembra accorgersi di ciò che sta avvenendo in Serbia. In seguito ad un suggerimento di Thèodore Pangalos, ministro greco degli Esteri, Milosevic progetta di ordinare un nuovo censimento nel Kosovo per dimostrare che gli albanesi non sono affatto il 90% della popolazione - come affermano da tempo- ma solo il 60%, al più. Ciò dovrebbe far riflettere sul reale utilizzo che il leader serbo farebbe della nuova stima - una volta che si riveli esatta - e di conseguenza sui reali ordini impartiti anche alla delegazione serba presente a Rambouillet. Così però non è, e si preferisce credere alle "buone intenzioni" degli uomini di Belgrado.
La scelta pare trovare un positivo riscontro quando i serbi dichiarano di accettare l'obbiettivo politico del piano franco - inglese, e questo in seguito ad un estenuante discussione tra i giuristi americani, i delegati, i mediatori e Madeleine Albright, prolungatesi sino alle cinque del mattino di venerdì 19 febbraio. Così tre ore più tardi, una Albright visibilmente soddisfatta annuncia di aver trovato una "apertura".
I kosovari si trovano disorientati di fronte alla tattica serba. Essi auspicano da tempo un intervento della NATO; tuttavia questo non sarebbe stato più possibile una volta che avessero rifiutato "la mano tesa del nemico", e in tal caso si sarebbero trovati a fronteggiare da soli uno schieramento di forze superiore nel numero e nell'equipaggiamento. D'altra parte, i politici albanesi non possono accettare un mezzo successo, che non prevede neppure un referendum, come richiesto. Decidono di chiedere così un periodo di tre settimane per poter prendere una decisione ben ponderata. L'appuntamento viene passato per il successivo 19 marzo a Parigi.
Hashim Thaçi, guida della delegazione albanese, al termine di questa prima fase di negoziati, viene invitato a Washington "dove con pazienza gli viene spiegata la convenienza di firmare".94 Al termine di questa visita, Thaçi viene rassicurato sull'impegno che gli Stati Uniti avrebbero profuso nel perseguire quattro punti, ritenuti essenziali anche dall'UCK:
le elezioni in Kosovo al più presto possibile, al fine di portare la comunità albanese al governo della provincia;
il disarmo delle milizie, come previsto dal regolamento presentato a Rambouillet, ad esclusione però delle armi individuali da considerarsi come proprietà personale;
la presenza effettiva delle forze NATO, a tutela del nuovo ordine raggiunto, provvisorio o definitivo che sia;
l'esame dell'ipotesi dell'indipendenza per il Kosovo sarà fatto allo scadere di tre anni di tregua, compatibilmente con l'ordine regionale e internazionale raggiunto.95
Bisogna anche menzionare l'alternativa, presentata dai serbi, alla parte militare dell'accordo (quella rifiutata a Rambouillet): trattasi di una "forza internazionale" da far entrare in Kosovo, e fornita da militari russi, greci e dell'Europa occidentale, ma senza milizie dipendenti ufficialmente e direttamente dalla NATO.96 Ma questa ipotesi non viene presa in considerazione dagli occidentali.
Il risultato, benché minimo, a Rambouillet è stato raggiunto. Il tempo guadagnato non gioca però a favore della pace. Il nuovo appuntamento fissato per il 15 marzo, alla vigilia della primavera quando tradizionalmente nei Balcani fiorisce la guerra, rappresenta realmente l'ultima possibilità per evitare lo scontro armato. Bisogna a questo punto parlare della contemporanea evoluzione in seno alla NATO. In particolare, occorre ricordare come il North Atlantic Council (NAC) avesse cominciato più seriamente a prendere in considerazione l'eventualità di uno stanziamento di truppe di terra, e a predisporne lo studio, nell'ipotesi di un fallimento della conferenza.
Abbiamo già parlato dell'Opzione "A-minus", mentre i preparativi per le operazioni aeree erano già stati ultimati, come affermato dal Generale Klaus Neumann, all'inizio della conferenza. Il 12 febbraio 1999, il Nac approva formalmente un "operational concept" per una forza terrestre di peace keeping (chiamandola KFOR = Kosovo Force). Infine, mercoledì 17 febbraio, il Military Committee presenta al NAC il suo piano d'azione (OPLAN 10413) sull'operazione di peace keeping chiamata "Joint guardian", che dovrà approvarlo al massimo entro il giovedì successivo.98
3.3.1. La seconda fase dei negoziati.
Durante le tre settimane che separano la fine della conferenza di Rambouillet dal 15 marzo, data della ripresa dei negoziati, si assiste ad alcuni sviluppi significativi.
Le forze di Belgrado infittiscono gli attacchi (altre migliaia di civili in fuga, secondo le Nazioni Unite) e la situazione dei 1400 osservatori OSCE - alcuni dei quali maltrattati dalla polizia di Milosevic - è considerata insostenibile dai responsabili della missione, almeno fino a quando non si disporrà una forza militare di appoggio. In particolare a Drenica si assiste ad una recrudescenza dei massacri contro gli albanesi. Centinaia di rifugiati vagano affamati sulle strade del Kosovo. Tuttavia, nonostante la loro ormai inutile presenza sul territorio, i verificatori dell'OSCE vi rimangono fino al 20 marzo, quando in seguito ad un ordine di evacuazione, si mettono sulla via del ritorno. E fortunatamente non avvengono incidenti, dissipando i dubbi e le preoccupazioni della NATO al riguardo. In queste tre settimane, tutto ciò che conta a livello diplomatico, occidentale e russo, avviene a Belgrado. Ma invano. All'UCK viene attribuita la responsabilità di un attentato che causa 6 morti e 70 feriti.
In ambito NATO, si lavora assiduamente per trovare un accordo di pace che tenga conto delle diverse esigenze. Ciò che produce, tuttavia, è una rinnovata minaccia dell'uso della forza, nel caso l'ultimo negoziato fallisca. I rappresentanti del North Atlantic Council (NAC) non appaiono disposti a cedere sulle forze armate che devono necessariamente essere stanziate in Kosovo a tutela della pace. Sandy Berger, consigliere per la sicurezza nazionale, annuncia che c'è un "forte consenso" all'interno della NATO sul fatto che se un'offensiva serba ci sarà, il Segretario Generale della NATO, Javier Solana, avrà la "necessaria autorità per prendere provvedimenti".100
Si arriva così al 15 marzo a Parigi. I serbi rompono subito gli indugi presentando un documento in 20 punti e 80 emendamenti, che politicamente annulla tutte le disposizioni dell'obbiettivo politico da loro precedentemente accettate.
Il testo ufficiale dell'accordo - che rimane in sostanza quello di Rambouillet - viene ripresentato dal Gruppo di Contatto (dove tra l'altro si è riusciti a raggiungere una posizione comune, non avendo i rappresentanti russi sottoscritto alcuni punti): non è prevista indipendenza per il Kosovo, esattamente come a Rambouillet.
Tuttavia, "gli albanesi politicamente più moderati, come Rugova e Agani, riconoscono l'esigenza di tappe intermedie per raggiungere l'indipendenza".101 Così i kosovari dichiarano che accettano in pieno il piano di pace presentato dall'Alleanza, lo stesso 15 marzo. Tre giorni più tardi firmano l'"Interim Agreement Peace and self - Government in Kosovo", un documento di 82 pagine. "Il consenso infine espresso al piano di pace di Rambouillet da parte kosovara non significa la rinuncia all'indipendenza bensì una progressione tattica verso questo obiettivo. Anche Thaçi firma. Lo fa sapendo che i serbi non intendono firmare e che il loro significato del piano di pace decreta l'inizio dei bombardamenti". In effetti la delegazione serba osserva la scena "da lontano" e il mediatore russo, Boris Mayorsky, rifiuta di apporre la sua firma.
Ma perché i serbi non firmano? I punti 2,5 e 7 del piano di pace assumono tutta la loro importanza in funzione dell'obbiettivo militare dell'accordo, che prevedeva sempre la presenza permanente di forze della NATO nel Kosovo. Il punto 2 tratta del controllo del funzionamento della polizia e della giustizia da parte dell'OSCE. Il punto 5 riguarda direttamente la messa in opera delle clausole militari dell'accordo, prevede esplicitamente che in caso di contrasto, le due pari faranno appello solo alla NATO. Sono infatti questi i punti per i quali la Serbia si rifiuta di firmare: essi avversano la trasformazione del Kosovo in un "protettorato dell'alleanza militare atlantica". "Milosevic sa che la presenza massiccia della polizia serba garantisce ormai che questa regione al 90% albanese, resti jugoslava. Preferisce accettare una guerra disastrosa per il proprio popolo piuttosto che cedere il Kosovo. L' irresponsabilità di questa scelta è pari all'irragionevolezza dimostrata nel mantenere il possesso di una regione già perduta sul piano demografico. L'irremovibilità di Milosevic è del resto coerente con la condotta seguita negli anni precedenti, avara di concessioni e di prospettive."104
Le parti sono ormai ferme sulle loro posizioni. La differenza tra la prima e la seconda fase di questi negoziati è chiara: nella prima si era dato più spazio alle pretese dei serbi in sede di trattative, riservando loro una notevole indulgenza, sebbene fossero i principali responsabili del problema, e corrispondentemente si era ridotto quello a disposizione dei kosovari, sebbene fossero le vittime ; in questa seconda fase, invece, si è deciso di assumere una posizione non negoziabile, rendendo le minacce di attacchi aerei sempre più concrete e reali.
3.3.2. La via verso la guerra.
Il 18 marzo 1999, i ministri degli Esteri e della Difesa francesi, inglesi e tedeschi si riuniscono a Bonn per discutere, in teoria, dell'avvenire della difesa europea. Ma la durata estremamente limitata dei colloqui chiarisce che in realtà si è discusso di ben altro; e le posizioni sono subito apparse definite e concordanti. I sei si separano dopo appena due ore; all'uscita il ministro degli Esteri francese Védrine dichiara: "Siamo al punto di non ritorno"; Alain Richard, ministro della Difesa, più poeticamente "Siamo dall'altro lato dello specchio".106 Si va verso la guerra.
Il 19 marzo, Parigi e Londra prendono atto del fallimento della negoziazione. Le capitali entrano in ebollizione e al momento di decidere l'attacco molti Paesi esitano, avanzando dubbi sulla necessità di una risoluzione così radicale. Le diplomazie giocano così un'ultima carta; domenica 21 marzo i 19 membri della NATO decidono di temporeggiare ancora: Richard Holbrooke parte alla volta di Belgrado per incontrare Milosevic, nella speranza che gli imminenti attacchi abbiano sortito un effetto deterrente, ma invano.107
I piani approvati dalla NATO constano di cinque fasi:
n fase 0 : stanziamento di aerei aircraft and ships nella regione addestramento, ricognizione aerea (fase che ha già avuto inizio negli ultimi mesi);
n fase 1 : colpire obiettivi precisi, vie di comunicazione, industrie, simboli di potere;
n fase 2 : colpire le truppe di terra, i centri cittadini serbi, ponti, riserve di carburante;
n fase 3 : espansione oltre il 44° parallelo;
n fase 4 : fine della guerra.
Tutti gli attacchi devono comunque riguardare "bersagli militari attentamente selezionati" se possibile senza "danni collaterali".108 Il 23 marzo, in sede del North Atlantic Council (NAC) si decide di estendere a Javier Solana, Segretario Generale della NATO, l'autorità di ordinare le eventuali operazioni previste anche dalla fase 2 del piano di guerra approvato. Contemporaneamente Clinton giustifica davanti a una quarantina di membri del Congresso la sua decisione di impegnare gli Stati Uniti in questa avventura. Un uomo del Congresso, dopo aver accordato il sostegno, aggiunge che la maggioranza degli elettori sarebbe incapace di situare il Kosovo in una cartina geografica. A questo punto Clinton si pronuncia più decisamente a favore della guerra, anche se in una regione grande quanto Los Angeles. I senatori accordano il loro sostegno all'operazione "Allied Force" con 58 voti a favore e 41 contrari. Ma non intendono sentir parlare dell'eventualità di un attacco via terra .
Riportiamo il testo della dichiarazione fatta ala stampa dal Segretario Generale della NATO, Solana, il 23 marzo alle ore 23 di Bruxelles:
"Good evening, ladies and
gentlemen, J have just directed SACEUR General Clark, to initiate air
operation in the
I have taken the
decision after extensive consultation in recent days with all the Allies, and
after it became clear that the final diplomatic effort of Ambassador in
All efforts to achieve a negotiated, political solution to the Kosovo crisis having failed, no alternative is open but to take a military action.
We are taking action following in the Federal Republic of Yugoslavia Government's refusal of the International Community's demands: acceptance of the interim political settlement which has been negotiated at Rambouillet; full osservance of limits on the Serb Army and Special Police Forces agreed on 25 October; ending of excessive and disproportionate use of force in Kosovo.
As we warned on the 30 January, failure to meet these demands would lead NATO to take whatever measures were necessary to avert a humanitarian catastrophe.
NATO has fully supported all relevant UN Security Council resolutions, the efforts of the OSCE, and those of the Contact Group. We deeply regret that these efforts did not succeed, due entirely to the intransigence of the FRY Government.
This military action is entitled to support the political aims of the international community. It will be directed towards disrupting the violent attacks being committed by the Serb Army and Special Police Forces and weakening their ability to cause further humanitarian catastrophe. We wish thereby to support international efforts to secure Yugoslav agreement to an interim political setlement. As we have stated, a viable political settlement must be guaranteed by an international military presence. It remains open to the Yugoslav Government to show at any time that it is ready to meet the demands of the international community. I hope it will have the wisdom to do so.
At the same time, we are
appealing to the Kosovar Albanians to remain firmly committed to the road
to peace which they have chosen in
Let me be clear: NATO is
not waging war against
We must stop an
authoritarian regime from repressing its people in
Mercoledì 24 marzo, alle ore 20.00 di Bruxelles, inizia l'operazione "Determined Force".
3.4. La NATO e la gestione del conflitto.
Fino a qui abbiamo esaminato l'intricato percorso che ha portato l'Alleanza Atlantica ad impegnarsi nel suo primo conflitto armato in 50 anni di vita. Abbiamo visto come l'arte del compromesso non abbia potuto impedire un conflitto in qualche modo annunciato; e ci siamo resi conto di come, dopo un preventivo studio di opzioni, in seno al North Atlantic Council (NAC) sia maturata la decisione di costringere Belgrado alla resa.
Tuttavia, l' effettivo svolgimento del conflitto, le voci su possibili fora privilegiati di discussione e decisione, il continuo modificarsi di obiettivi e tecniche di guerra, alcuni inaspettati tentennamenti di grandi leaders politici, investiti dell'effettiva autorità per prendere le "grandi decisioni", fino al modo in cui si è concluso il conflitto nel giugno 1999, gettano alcune ombre sui meccanismi decisionali e gestionali interni ad un'Alleanza che sembra tuttavia allargare i propri orizzonti - geografici e funzionali - in modo inopinabile nel lontano 1949.
Su queste ombre proveremo a gettare luce, cercando di aggirare le fonti di documentazione ufficiali e seguendo le linee tracciate e le domande poste da esperti in materia e da giornalisti autorevoli, che si sono occupati della questione in esame.
3.4.1 Il problema dell'autorizzazione delle Nazioni Unite.
Uno dei problemi più importanti che la NATO ha dovuto affrontare e superare prima di impegnarsi militarmente contro la Serbia riguarda la preventiva e necessaria autorizzazione dell'ONU, solo in seguito alla quale avrebbe potuto iniziare qualsiasi attacco contro una nazione sovrana. Il modo in cui tale problema è stato aggirato dai decisori del NAC è tuttora oggetto di accesi dibattiti.
"La carta prevede due tipi di operazioni militari: autorizzate e dirette, le prime essendo quelle comandate da nazioni o organizzazioni tipo NATO, UEO all'uopo delegate, le seconde quelle comandate dall'ONU direttamente. Nelle operazioni militari in Serbia la NATO non ha avuto un esplicito mandato dell'ONU, né lo ha richiesto ritenendole una logica estensione di quelle in Bosnia e per evitare il veto della Russia nel Consiglio di Sicurezza; il rigetto da parte del Consiglio di una mozione russa per bloccare l'intervento della NATO in Serbia e le recenti dichiarazioni del Segretario Generale dell'ONU, che ha posto alla Serbia le stesse condizioni della NATO per cessare i bombardamenti aerei, sembrano avallare tale tesi".111
In altre parole spetta all'ONU il mantenimento della pace nel mondo, quale sua competenza globale; è sotto la responsabilità delle Nazioni Unite qualificare le diverse situazioni, dire cioè se la pace è minacciata o rotta. Scopo dell'ONU è altresì quello di garantire il rispetto dei diritti umani. Nel caso del Kosovo, i disordini hanno raggiunto un grado molto elevato di violenza, ma senza oltrepassare chiaramente, tuttavia, ben delimitati confini geografici, caratterizzandosi così il problema per la sua natura esclusivamente interna, etnica. Da un punto di vista strettamente giuridico, l'ONU non sarebbe legittimata ad intraprendere le azioni previste dai capitoli VI e VII della Carta delle Nazioni Unite: di qui le difficoltà a decidere tempestivamente. Osta quindi il "principio di non ingerenza negli affari interni".
La Carta prevede altresì che al Consiglio di Sicurezza dell'ONU vengano messe a disposizione forze preorganizzate (che non sono mai state costituite). Inoltre il capitolo VIII prevede che i contenziosi d'ordine locale possano essere regolati da organismi regionali. Teoricamente quindi, l'ONU non avrebbe potuto delegare alla NATO l'uso della forza armata - non essendo quest'ultima un organismo regionale -, neppure in assenza del veto russo e cinese. Infatti, il diritto di veto di cui possono disporre i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza - Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia e Cina - sarebbe stato sicuramente fatto valere da Russia e Cina (contrarie ad una soluzione di forza) in sede di discussione/decisione.
Comunque sia, l'ONU rimane l'unica istanza legittima per regolare un problema dell'ampiezza di quello serbo - kosovaro.
Tuttavia "most Western European government supported
NATO' s decision to launch the first
attack against a sovereign country in its 50-years history (.)",112 ma senza alcun voto esplicito della
rappresentanza nazionale, discreditando in qualche modo i vari Parlamenti. "The show of European unity
was narred by a statement by
Ma come è stato
possibile, allora, aggirare l' ostacolo? Abbiamo visto sopra come la NATO non
abbia neppure richiesto un'autorizzazione esplicita al Consiglio di Sicurezza,
ritenendo di esserne già in possesso, come naturale estensione delle operazioni
condotte in Bosnia pochi anni prima. Un escamotage,
dunque, sull'opportunità del quale si sono fronteggiate - neanche troppo a
lungo - Francia e Stati Uniti: "The
United States has opposed efforts to require the U.N. Security Council to
approve NATO military strikes, such as the ongoing action against Yugoslavia.
C'è anche chi 115 avanza dei dubbi su questa "difficile dialettica" tra ONU e NATO, considerando il silenzio di risoluzioni ad hoc delle Nazioni Unite come una sorta di "delega implicita" ad agire. Ciò non sembra condivisibile, alla luce della dichiarazione fatta da Kofi Annan, Segretario Generale dell'ONU, mercoledì 24 marzo 1999 a New York, in occasione di una riunione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, su richiesta della Russia : "U.N. Secretary General Kofi Annan justified NATO's use of force but also called, in a statement, for involvment on the part of the Security Council. It is of course tragic, he said speaking of the first NATO raids, that diplomacy has failed, but there are times when the use of force may be legitimate in order to achieve peace. He stressed that the U.N. Charter attributes responsibility first and foremost to the Security Council for peace - keeping and security in the world. The Council should therefore be ilvolved in any decision on the use of force, he said".116
Quello appena trattato è un problema non di poco conto: il timore che gli escamotages trovati possano costituire un precedente per futuri casi di intervento in altre aree non è privo di fondamento. "Ogni ampliamento dei compiti dell'Alleanza, e dei doveri degli alleati, dovrebbe riconoscere la preminenza dello Statuto dell'ONU, e specialmente dell'articolo 51, che attribuisce al Consiglio di Sicurezza l'ultimo potere decisionale, anche in casi in cui gli Alleati stanno esercitando il loro diritto di legittima difesa".117 Non pare ci siano dubbi, tuttavia, sul fatto che l'ONU stia perdendo progressivamente parte dei suoi poteri, prospettando un imminente trasferimento dei suoi poteri ad un'istituzione più moderna e in grado di adattarsi alle mutate esigenze della comunità internazionale. Quale sia questa istituzione e quali caratteristiche debba possedere rimane ancora in dubbio.
3.4.2. Gli errori della NATO.
"Quando l'aviazione della NATO ha cominciato ad attaccare le forze serbe in Kosovo, per i guerriglieri albanesi indipendentisti dell'UCK sembrava venuta la tanto attesa occasione per riprendere l'iniziativa e possibilmente ottenere la rivincita sulle forze di sicurezza serbe (.) Il quadro però è subito apparso meno lineare delle speranze dei guerriglieri, perché Belgrado aveva previsto l'intervento aereo alleato. Le forze serbe, con i soliti metodi, brutali quanto efficaci, sono riuscite non solo a riprendere il controllo di buona parte del territorio, ma anche a condurre sistematiche operazioni di controguerriglia, cercando di ottenere un successo militare decisivo prima dell'intervento diretto degli aerei dell'Alleanza Atlantica in operazioni di supporto tattico e interdizione del campo di battaglia".118 Il vero obiettivo militare consisteva nell'arrestare la repressione serba in Kosovo e degradare la capacità delle forze armate di Belgrado di condurre in futuro nuove campagne di questo tipo.
Tuttavia i risultati non sono stati pari alle aspettative. La campagna aerea condotta dalla NATO - almeno nelle prime due settimane di bombardamento - è stata piuttosto blanda e non ha sortito l'effetto di piegare la resistenza serba, come si auspicava.
"La NATO ha sempre ribadito che le operazioni militari non avrebbero avuto una durata breve, ma certo tutti si rendono conto che il fattore tempo, almeno per un certo periodo, ha giocato a favore della Serbia, visto che il fronte alleato non è affatto compatto e pronto ad una guerra ad oltranza. Difficile pensare di poter bombardare per un mese di fila la Yugoslavia senza che qualcuno cominci a rompere le righe. E del resto le pressioni interne ed esterne ed i giochetti diplomatici per fermare gli aerei sono cominciate già dopo pochi giorni dall'inizio delle ostilità".119 Ma che cosa non ha funzionato in sede di programmazione? E' chiaro che combinare intenti politici, obiettivi militari e mezzi per raggiungerli all'interno di un'organizzazione di 19 Paesi non è impresa semplice. Inoltre, come già ricordato, la guerra contro la Serbia è stata anche la prima in assoluto condotta e gestita dall'Alleanza Atlantica in quanto tale: quanto i suoi meccanismi non fossero ancora rodati è apparso subito chiaro.
"Alla vigilia del conflitto ci si aspettava la scelta tra due opzioni: un attacco esclusivamente missilistico (.) che costituisce un serio e credibile monito per Milosevic, oppure una offensiva aeromissilistica violenta e massiccia. Alla fine è stata scelta la via di mezzo: si è partiti subito con gli attacchi combinati, ma "al piccolo trotto". In parole povere la strategia prevista doveva essere di tipo incrementale, con un aumento progressivo della pressione militare." Tuttavia non pare si possa effettivamente suddividere le operazioni in "fasi" nettamente differenziate: alle operazioni di controaviazione offensiva per bloccare al suolo l'aviazione serba, si aggiungono e si sovrappongono presto quelle contro obiettivi militari ed industriali/militari strategici preselezionati; successivamente ci si sposta anche nei cieli del Kosovo.
Chi si occupa di dottrina delle operazioni aeree conosce bene la necessità di investire simultaneamente diversi tipi di obiettivi; ma per fare ciò bisogna poter disporre di forze in abbondanza, da utilizzare al massimo grado di intensità per evitare il cosiddetto "effetto pendolo", che consiste nell'adibire i (pochi) mezzi a disposizione per differenti operazioni e altrettanti fini, con la conseguente necessità di spostarli di continuo lungo il teatro del conflitto, rendendo l'azione meno efficace e gli stessi mezzi più vulnerabili.121 E' proprio ciò che è accaduto in Kosovo, almeno fino alla prima metà del mese di aprile.
Agli errori strettamente tecnico - militari, si aggiungono quelli in campo politico - diplomatico. Ci riferiamo alle nefaste conseguenze prodotte dalla stessa campagna aerea, al ritardo con cui è stata iniziata e ai deludenti effetti che ha sortito nelle sue fasi iniziali. E c'è anche chi sostiene che sia stata comunque intempestiva, perché scatenata "proprio quando il Premier russo Primakov stava per iniziare il suo viaggio negli USA. E' stata così perduta l'opportunità diplomatica privilegiata, vista l'influenza che la Grande Madre Russia ha sempre avuto su Belgrado, (.) grazie all'attacco hanno reso monolitici il fronte interno serbo, esaltato i fautori del panslavismo, incrinato i rapporti tra Mosca e la NATO, regalato l'abbattimento del primo F-117 ai serbi (che ne parleranno per secoli), ma soprattutto hanno lasciato mano libera alla repressione nel Kosovo in quanto i paramilitari impegnati nella pulizia etnica non vengono "disturbati" dai raid aerei".122
La conseguenza più grande degli errori della NATO in sede di programmazione è proprio l'incremento delle vittime di una pulizia etnica sempre più spietata: trattasi infatti del più grave disastro umanitario a cui l'Europa abbia assistito dalla fine della Seconda guerra mondiale.
"I leaders politici militari della NATO hanno scelto di utilizzare i raid aerei nonostante fossero stati avvertiti dai loro esperti e consulenti che solo i bombardamenti, senza l'intervento di truppe di terra, non avrebbero impedito ai serbi di compiere l'operazione di pulizia genocida in Kosovo".123 Il Pentagono aveva avvertito pubblicamente e privatamente l'amministrazione che i raid aerei avrebbero potuto spingere Milosevic ad attaccare la popolazione albanese del Kosovo; e anche durante il periodo di preparazione della campagna aerea della NATO si erano sentite voci che facevano riferimento ad una tale possibilità. C'è chi si è lamentato del fatto che la strada verso i bombardamenti fosse stata percorsa perché l'unica possibile, nessuno volendo rischiare la vita di 100 o 200 mila uomini necessari per un risolutivo attacco di terra. Diplomatici britannici e osservatori OSCE avevano discusso di questo pericolo anche al termine della conferenza di Rambouillet. Nessun dubbio quindi che i leaders politici e militari della NATO fossero a conoscenza di ciò che Milosevic avrebbe potuto ordinare in seguito all'inizio dei bombardamenti.
Non è dato sapersi se e quanto il North Atlantic Council (NAC), che ha deciso l'azione militare, abbia discusso di questo aspetto del problema. I fatti sopravvenuti in seguito all'inizio della pulizia etnica dimostrano, tuttavia, che né la NATO, né l'ONU, né l'Unione Europea avevano approntato un piano efficace di accoglienza e assistenza per le vittime della deportazione. In un'intervista rilasciata in aprile al "Washington Post", Nicholas Dowling - staff member del Former National Security Council - si esprime così: "There was some planning, but taking care of refugees is not something NATO can do by itself".126
Errori che lasciano intendere come la NATO si sia impegnata nei Balcani quasi controvoglia , senza avere una vera strategia globale, ma riformulando scopi, obiettivi e mezzi per raggiungerli passo dopo passo, sotto la spinta degli eventi. "Avviene oggi che la più potente realtà politico - militare europea non abbia obiettivi politici e strategici complessivi coerenti, ma viva più o meno alla giornata, più reagendo alle provocazioni e agli stimoli, che imponendo un suo disegno di lungo termine".127
3.4.3. Pianificazione coerente o improvvisazione ?
Queste parole sollevano importanti interrogativi sull'intero decision making process all'interno dell'Alleanza Atlantica. Abbiamo visto come le diverse opzioni militari siano state studiate dall'estate 1998, in più di un comitato militare. Abbiamo analizzato le strategie prese in considerazione dai leaders politici del North Atlantic Council (NAC) e quale sia stata effettivamente selezionata. Eppure lo svolgimento del conflitto e la sua progressiva incerta evoluzione hanno palesato un'inaspettata carenza organizzativa.
E' chiaramente impossibile prevedere a tavolino tutti gli sviluppi di ciò che resta pur sempre un conflitto armato - tanto più se portato contro un Paese tradizionalmente "imprevedibile" -, ma la cautela con cui si è dato inizio ai bombardamenti e ai successivi e ripetuti cambiamenti nelle strategie e negli obiettivi finali provano che qualcosa non ha sicuramente funzionato sin dal principio in sede di programmazione.
"Siamo entrati in guerra senza obiettivi precisi, impreparati, senza piani: nessuno sa quando o come sarà possibile vincere; (.) i bombardamenti contro la Serbia non producono gli effetti previsti, evidentemente non servono ed è stato uno sbaglio considerarli il fulcro strategico delle operazioni; (.) la guerra non ha posto termine alle deportazioni dei kosovari: e allora perché farla? La NATO ha commesso un errore di calcolo credendo che Milosevic cedesse". Sono queste alcune delle frasi che si leggevano con più frequenza su tutti i quotidiani, nazionali e non, un mese appena dall'inizio dei bombardamenti, sintomo dell'inadeguatezza della condotta bellica della NATO.
Consci del fatto che non è possibile rispondere esaurientemente a queste domande, riteniamo però opportuno richiamare l'attenzione su due aspetti a nostro avviso determinanti. In primis bisogna rilevare come assai raramente i regimi democratici iniziano le guerre preparati e con piani ben precisi, e di conseguenza una Alleanza formata da 19 Paesi con regimi democratici. "I blitz fulminei, gli attacchi devastanti alla Pearl Harbour, sono perlopiù appannaggio di regimi soliti a pianificare in segreto le ostilità e le aggressioni anziché ricorrervi come extrema ratio".128 "Democracies are always at a fundamental disadvantage because criminals know when they will commit a crime; it always easier for somebody like Milosevic to pull the trigger than for us to respond".129
Secondariamente - ed è questo il punto nodale -, è necessario che tutte le opzioni studiate dagli addetti ai lavori (e cioè gli esperti militari) vengano analizzate, vagliate e filtrate da un'apposita istituzione formata da leaders politici, che, a loro volta, rispondano del loro operato dinanzi all'opinione pubblica. " (.) nei Paesi democratici come sono quelli della NATO, le diverse opzioni militari non possono essere adottate esclusivamente in base ad un criterio di efficienza tecnica, bensì devono possedere innanzitutto una praticabilità politica. Gli strumenti militari più distruttivi e più costosi in vite umane (comprese quelle della propria parte) possono essere impiegati solo quando, anche per effetto della durata delle ostilità, l'opinione pubblica arrivi a considerare giustificato il ricorrervi".130
Compatibilmente con queste esigenze, quindi, le democrazie sembrano seguire il motto "intanto s'inizia, poi si vede".131 Ciò pare confermato dalle stesse fonti ufficiali della NATO: "Nella maggior parte dei casi, la pianificazione di una missione ha luogo dopo che la missione ha avuto inizio, non prima".
Nel caso del Kosovo, la NATO interviene con l'intento di porre termine ai massacri, di prevenire l'effetto - contagio in altre aree della regione e per salvaguardare la credibilità dell'Alleanza stessa rispetto ad un dittatore renitente. L'effettiva condotta delle operazioni belliche, poi, dimostra come l'ordine delle priorità sia intercambiabile e come le carte vengano rimescolate a seconda delle mutate esigenze.133 L'obiettivo perseguito dall'Alleanza a fine maggio - imporre a Milosevic le condizioni di pace - appare ben diverso da quello per cui si era dato inizio alla campagna aerea alla fine di marzo.
Si discute anche molto del ruolo giocato dagli Stati Uniti e dal suo presidente a livello decisionale. Clinton riteneva l'azione militare non solo come "la cosa giusta" da fare, ma altresì "la cosa più intelligente (also the smart thing to do), decisamente nel nostro interesse nazionale". Ma a tal proposito c'è chi, in seno al Congresso degli Stati Uniti, preferisce parlare di Clinton in termini di "tactician" piuttosto che di "strategist", che forse "looks to the next day and not the day after".135 "Clinton is always inclined toward the easy , short - term win, the half - way solution; and he has been willing to sacrifice truth and to slight principle to achieve his daily victories; (...) many voters do not believe he has thought out the consequences of his Kosovo policy; in the post-impeachment era, many members of Congress do not believe him, period."136
3.4.4. Militari e politici.
Uno degli aspetti più controversi nella gestione NATO delle operazioni belliche in Yugoslavia concerne i rapporti intercorsi tra politici e militari. La questione riguarda da vicino il sistema decisionale e i diversi gradi di dipendenza - orizzontale e verticale - all'interno dell'Alleanza Atlantica.
In precedenza,137 analizzando la documentazione ufficiale diffusa dalla NATO stessa, abbiamo avuto modo di constatare come le procedure decisionali prevedano una netta preminenza del livello politico rispetto a quello militare, laddove ogni qual volta un'iniziativa è supposta avere delle implicazioni strategiche o politiche, essa debba essere necessariamente trasmessa al primo, che sia il North Atlantic Council, nelle sue riunioni ordinarie o straordinarie (a seconda che si riuniscano ambasciatori o ministri dei 19 Stati membri), oppure il Defence Planning Committee (che riunisce i vari ministri della Difesa).
In seguito ad un controllo da noi effettuato presso il "Comitato Atlantico Italiano", a Roma, Fabrizio W. Luciolli - Segratario Generale dello stesso Comitato - ci ha risposto così: "Per ciò che riguarda i processi decisionali all'interno dell'Alleanza Atlantica, è il Consiglio dell'Atlantico del Nord (NAC) il supremo organo politico e decisionale" - confermando in pratica quanto già riportato nel NATO Handbook - "Tale organo composto da 19 Rappresentanti Permanenti dei Paesi membri delibera per consensus, ovvero all'unanimità, ciò che assicura il massimo grado di democraticità, di unità d'intenti e di coesione." Nessuna contraddizione di sorta sembra emergere, pertanto, dalla documentazione ufficiale sul fatto che le decisioni vengano prese al più alto livello politico.
Il modo in cui le fasi precedenti allo scoppio della guerra nei Balcani sono state gestite, in seno alla NATO, sembra confermare tutto ciò. Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come le decisioni salienti siano state prese in coincidenza di meeting ministeriali tenutisi nei diversi comitati della NATO (così per la dimostrazione dell'aeronautica atlantica nei cieli della Yugoslavia, del giugno 1998; per l'incarico conferito ai comitati militari di studiare le possibili opzioni per risolvere la crisi e per la conseguente selezione dell'opzione migliore; fino agli ultimatum posti a Milosevic). Si è anche creato un comitato ad hoc, il Gruppo di Contatto, per seguire più da vicino gli sviluppi dell'intera questione balcanica, che ha in effetti gestito la crisi fino a quando ha potuto, ma pur sempre a livello politico.
Conseguentemente allo scoppio del conflitto, però, sono stati avanzati dei dubbi sugli effettivi rapporti tra politici e militari, alla luce di alcuni atteggiamenti inaspettatamente sospetti di grandi leaders politici sin troppo imbarazzati di fronte a domande sull'immediato prosieguo della guerra. 138 Dopo le fasi iniziali del conflitto, si è assistito a ripetuti cambiamenti di strategia, che hanno conferito gradualmente la libertà di scelta agli ufficiali, consapevoli dell'incongruenza tra la necessità di vincere la guerra e quello di assecondare l'opinione pubblica. Le reazioni all'ipotesi prospettata di un'invasione di terra per porre fine alle ostilità hanno infine mostrato il basso grado di uniformità tra le posizioni prese degli uni e dagli altri.
Ma ripercorriamo gli eventi. La reticenza dei generali a iniziare la campagna aerea è cosa ormai nota. Nei giorni precedenti l'attacco, nella tankroom del Pentagono hanno espresso delle riserve verso un'operazione che ricordava loro la disastrosa esperienza in Vietnam. Lo stesso patron della CIA, George Tanet, ha avvertito i senatori delle conseguenze che tale campagna aerea avrebbe prodotto per la popolazione albanese. Ma - lo ripetiamo - la decisione l'avrebbero poi presa i politici.
In un incontro privato alla Casa Bianca tra il Presidente Clinton e il Primo Ministro italiano D'Alema, all'inizio delle operazioni, quest'ultimo chiede quale sarebbe stato l'atteggiamento degli Stati Uniti nell'eventualità che Milosevic non si fosse arreso alle bombe della NATO. Clinton, visibilmente imbarazzato, non risponde, ma si rivolge al suo consigliere (per la sicurezza nazionale), Sandy Berger, e gli gira la domanda: questi, dopo una breve esitazione risponde che si sarebbe continuato a bombardare ad oltranza.
Parlando della reazione di D'Alema, Michael Kelly - giornalista del Washington Post - scrive: "It must have been disconcerting to discover that the leader of the world's sole superpower was about to launch a war without a plan that extended beyond next Sunday's talk shows, or without a thought to one of bombing's most likely consequences."139 Ivo Doolder, consigliere alla Casa Bianca sui Balcani durante il primo mandato di Clinton, afferma che, a suo avviso, i suoi ex colleghi non hanno approntato né una "post-bombing strategy", né hanno una risposta "for what happens if Milosevicic doesn't sign a Western - backed autonomy plan for Kosovo."140
Il 22 marzo, alle ore 19:00, Milosevic riceve Holbrooke, ma fa scivolare la discussione su questioni senza rapporto con la crisi: la diplomazia fallisce così la sua ultima carta. Holbrooke telefona a Clinton e a Solana prima di prendere l'aereo per Bruxelles, il giorno 23, dove lo stesso Solana "appelle tous les chefs de gouvernement pour se faire confirmer l'autorisation d'ordonner les frappes aériennes."141 Al suo arrivo a Bruxelles (ore 22:15), Holbrooke informa i 19 ambasciatori riuniti nell'ufficio di Solana dell'infelice conclusione della sua missione. Il 24 marzo, al Quartier Generale della NATO, tutta la giornata è dedicata a preparare l'attacco; "le général Clark a reçu la liste des cibles à frapper et les instructions lui ont été transmises par le général allemand Klaus Naumann, chargé de traduire en termes comprehénsibles par des militaires les ordres reçus des politiques." Il ritardo di 24 ore tra l'annuncio e l'inizio dei bombardamenti è dovuto alle condizioni meteo non ottimali, a causa delle quali occorre aspettare l'oscurità: alle ore 20:00, i primi attacchi cominciano.
All'inizio di aprile, "NATO's top decision - making council then voted to give authority to the supreme allied commander, U.S. Gen. Wesley Clark, to broaden the scope and accelerate the temp of the bombing campaign." Nel frattempo la strategia militare continua ad allontanarsi sempre più da quella decisa dai politici: l'ordine di distruggere il palazzo di Milosevic, così come la sede del ministero della Difesa, è oggetto di intenso contrasto in sede decisionale. "It's an important symbol of Serb culture. Do you really think we can win the hearts and minds of the people and turn them against their leadership if we destroy part of their history?"144 Così si esprime un alto ufficiale della NATO.
Tuttavia, la maggiore minaccia all'unità dalla NATO è un'altra. In ambito militare pare si tenti di dare ora una risposta alla domanda fatta da D'Alema a Clinton, giorni prima: alla possibilità di utilizzare gli elicotteri Apache, si aggiunge quella di una risolutiva invasione via terra, ipotesi questa improponibile al tavolo della diplomazia. "If Belgrade continues its resistance and manages to complete the expulsion of ethnic Albanians, alliance officials say they may soon have to confront the possibility of further revisions in their military strategy - which might require use of combat ground forces."145
Con il passare dei giorni le difficoltà della NATO diventano evidenti, e gli ufficiali cominciano a servirsi dei media per prendere le distanze dalla politica.146 Essi richiamano l'attenzione pubblica sul fatto che l'unico risultato che l'air power possa conseguire sia "the slow destruction of the Yugoslav army and police." Ma è ovvio che l'andamento del conflitto non li soddisfa, non producendo gli effetti desiderati, a causa di un'ingerenza politica in ambito militare troppo marcata.
Ma come si possono interpretare tutte queste incongruenze? Su che cosa in realtà struttura civile e militare non concordavano? Su quali considerazioni strategiche poggiava la risposta data dal consigliere Berger a D'Alema? E quanto hanno finito per incidere le due strutture di comando parallele?
La prima considerazione de farsi concerne l'esistenza di due specifiche strategie, coesistenti inizialmente una di fianco all'altra. Quella politica - che richiama l'esperienza americana in Bosnia - è stata usata in principio per giustificare l'attacco e perseguiva lo scopo di costringere Milosevic ad accettare il negoziato tramite la campagna aerea, che negli intenti sarebbe dovuta durare solo pochi giorni. Al contrario, la strategia militare, meno ambiziosa, puntava ad attaccare, distruggere e indebolire la capacità di Milosevic di continuare la pulizia etnica contro gli albanesi del Kosovo.
L'operazione Allied Force ha riportato alla ribalta delle cronache "il tentativo di micro-management da parte delle autorità politiche per quanto riguarda sia la scelta ed il "rilascio" degli obiettivi (il cosiddetto targeting), sia la scelta di spostare il fuoco delle operazioni aeree dall'iniziale campagna strategica al "lavoro" sul campo di battaglia in Kosovo."149
Alla luce di queste considerazioni, i vari discorsi sulle cinque fasi della campagna aerea appaiono del tutto fuorvianti, probabilmente studiate per soddisfare esigenze politiche e di comunicazione ai media. Del resto, nonostante gli obiettivi ufficiali della missione, le forze della NATO hanno di fatto concentrato il fuoco contro la Serbia ed il suo sistema integrato di difesa: del resto la logica poco ci aiuta a comprendere come si possa fermare, secondo gli intenti, la pulizia etnica in Kosovo distruggendo le fabbriche del complesso militare industriale a Nord di Belgrado.
I vincoli di natura politica, imposti da vari Stati membri della NATO durante la campagna aerea, si sono subito evidenziati: Wesley Clark - comandante supremo delle forze alleate in Europa - è stato spesso descritto dalla stampa internazionale come un "generale in catene". "La politica ha agito da legislatore dispotico, invece di adattarsi alle leggi della guerra e di quelle aeree in particolare, che impone di infliggere all'avversario il massimo danno al suo apparato militare nel più breve tempo possibile per facilitare la vittoria delle forze terrestri. Il Consiglio Atlantico ha rinunciato a questi principi commettendo un grave errore strategico che favorisce insperatamente l'avversario. La Serbia infatti ha potuto rinunciare a fare assumere alle proprie forze terrestri un dispositivo difensivo e le ha disperse, mascherate e mimetizzate in tutto il territorio per preservarle dagli attacchi aerei alleati."150
L'errore principale commesso dalla NATO 151 è stato ritenere che i primi bombardamenti cosiddetti "chirurgici", avrebbero indotto il governo serbo a fermare il genocidio in Kosovo. Una chiara analogia con la strategia adottata nella Guerra del Golfo, laddove, però, sono state necessarie sette settimane di raid aerei, ma al solo scopo di preparare il campo di battaglia. Al contrario, in Kosovo le missioni sono state lanciate per preparare un campo di battaglia sul quale nessuno avrebbe dovuto combattere. "I militari si sono lasciati convincere dalle contingenze politiche a combattere solo una mezza guerra."
L'ingerenza politica nelle prime fasi della campagna aerea non può essere negata, nonostante la "diplomazia" usata dallo stesso generale Clark: "Direi piuttosto che si sono viste un bel po' di speculazioni di stampa su questo argomento. D'altra parte il lavoro del comandante supremo delle forze alleate per l'Europa è quello di coordinare l'azione militare e di assicurarsi il consenso degli Stati membri della NATO."153
Degne di nota, al riguardo, sono le considerazioni fatte dal generale Mario Arpino - capo di Stato Maggiore della Difesa - in un'intervista apparsa su "la Repubblica".154 Il generale afferma che "il potere aereo", nella guerra alla Serbia, non sia stato utilizzato rispettando la dottrina, perché in tal caso l'unità della NATO sarebbe potuta saltare.
Tuttavia Arpino ritiene necessario un bilanciamento tra valutazioni tecniche, politiche e militari, nazionali ed internazionali, all'interno di un'Alleanza che conta 19 Paesi; è questo il motivo per cui la campagna aerea è stata avviata in modo graduale. Inoltre "il comandante supremo era convinto che pochi giorni di bombardamenti avrebbero indotto la leadership yugoslava a un ripensamento (.)"155
Questa idea non era però unanimemente condivisa in seno all'Alleanza: "Italia e Francia innanzitutto pensavano che non potessero bastare dieci giorni di bombardamenti per separare Milosevic dal suo popolo. Questa falsa partenza ha continuamente sottoposto l'uso dello strumento militare a una verifica politica. Nella Guerra del Golfo i militari ebbero sin dall'inizio chiaro l'obiettivo: liberare a qualunque costo il Kuvait. La campagna aerea sulla Yugoslavia forse è stata più vicina a quella sul Vietnam, un incremento continuo, un poco alla volta, con il rischio che il passare del tempo vanificasse i risultati raggiunti il giorno prima."156 Un'operazione, cioè, condotta in regime di non - guerra, dove sono venute a mancare sorpresa, concentrazione e massività degli attacchi, i fondamentali di ogni operazione bellica così come sono conosciuti dai tempi degli antichi romani.
Ingerenze e condizionamenti inevitabili, secondo il generale: "(...) il potere aereo non è stato applicato come prevede la dottrina. Per giorni è stato come combattere con un braccio legato dietro la schiena, un'operazione fortemente condizionata dalla politica. Ma d'altronde è la politica che decide, che calibra il nostro intervento: la NATO è un'alleanza di 19 nazioni, che si porta dentro la sensibilità, le politiche estere di 19 governi che per fortuna non sono il Governo Unico Mondiale. Spesso la decisione è stata raggiunta al livello minimo possibile, ma era giusto che fosse così."157
La svolta è sopraggiunta al vertice di Washington, dove la NATO ha adottato una nuova linea strategica: bombardamenti a oltranza, con un potere di fuoco crescente e un numero di bersagli sempre più esteso. Ponendo fine al fenomeno di targeting, a Washington si è deciso di allargare gli attacchi, fino ad allora portati contro centri militari o strutture serbe legate alla pulizia etnica dei kosovari. "(....) l'intensificazione va a colpire una serie di bersagli molto più estese. Il vertice di Washington ha concesso ai generali vasta libertà d'azione: gli obiettivi non dovranno più venire concordati con le autorità politiche dell'Alleanza. Clark ha ottenuto carta bianca ? Non proprio, spiegano alla NATO, ma avrà flessibilità operativa nella scelta delle missioni. (....) Oltre ai centri di potere di Milosevic, sono finiti nel mirino la televisione, le centrali telefoniche e gli impianti elettrici."158
Questa evoluzione si è verificata in corrispondenza delle sempre più ricorrenti discussioni su un intervento di terra. "Quando ci si è resi conto che un'invasione di terra poteva diventare inevitabile, beh, allora gli alleati hanno dato mano libera a Clark nell'uso del potere aereo."159
Tuttavia, come sottolinea Arpino, sebbene la NATO avesse studiato, fra diverse opzioni, anche quella per un intervento di terra (200 mila uomini per invadere tutta la Yugoslavia, per conquistare Belgrado e 100 mila uomini per entrare in Kosovo in "ambiente ostile"),160"i piani dettagliati di queste operazioni non sono mai stati stilati, perché erano opzioni politicamente improponibili: anche per questo, alla fine, abbiamo premuto di più con la guerra aerea. Era impossibile che, a forza di colpire, la porta non si aprisse."
3.4.5. Il consenso all'interno dell'Alleanza atlantica: spontaneo o forzato? Un caso: l'opzione per un'invasione terrestre.
A. Un altro aspetto della NATO, su cui occorre interrogarsi, riguarda gli effettivi rapporti di forza al suo interno. Più volte abbiamo avuto modo di ricordare come, nonostante i dettami della Carta atlantica, i voti perlopiù si pesino e non si contino. Ecco che lo scenario entro cui il gigante americano si muove con più libertà rispetto agli altri alleati viene dipinto con sempre minore imbarazzo anche dalla stampa internazionale, fotografando una situazione di fatto che non sorprende più, ormai, quasi nessuno.
Le posizioni degli altri 18 Paesi membri, al riguardo, sono molto variegate, spaziando dalla concordanza più assoluta (rappresentata dall'intesa con la Gran Bretagna, partner privilegiato dagli Stati Uniti in Europa), fino al tradizionale scetticismo della Francia verso la sempre crescente ingerenza statunitense.
Anche nel caso della guerra in Kosovo si è avuta la riprova della discordanza di queste posizioni. Il ministro degli Esteri francese - Hubert Védrine - ha tuttavia affermato, a fine guerra, come il consenso tra le capitali sia stato raggiunto in questo caso senza troppe difficoltà. A cominciare dalle concessioni fatte ai russi: "Si l'on considère le processus continu qui va des fameux cinq points que mes collègues ministres des Affaires étraangères et moi avons élaboré dés le 6 avril jusqu'à la résolution du Conseil de Sécurité, en passant par les sept points du G8, on voit qu'il n'y a pas eu concession mais mise au point par étapes successives d'un véritable accord politique entre le Russes et nous. Il y a eu ainsi de vives discussions sur la qualification de la force internationale engageé au Kosovo. Le 6 mai encore, les Russes n'acceptaient de parler que de présence internationale de sécurité et non de force militaire. Ils savaient parfaitement de quoi il s'agissait, mais il leur fallait ménager leur opinion nationale et la Douma. Ni les Russes ni nous ne voulions d'une double clé mettre d'accord sur les modalités pratiques n'a pu se faire que progressivement."163
Sulla posizione presa a proposito della militarizzazione dell'UCK, poi, Védrine si è espresso così: "Américains, Russes, Européens, membres du Conseil da Sécurité: l'accord est complet. L'UCK doit respecter l'autoritè de la KFOR et de l'administration internationale. Lesquelles devront bien sur travailler avec des représentants des kosovars albanophones, comme des autres communautés du Kosovo."164
Molto chiaro, Védrine, riguardo agli sforzi compiuti per raggiungere il consenso tra le capitali: "(.) elle l'est sur la stratégie et sur l'essentiel. Sur les décisions à prendre chaque jour, elle s'élabore au fur et à mesure. C'est un des objests des coups de teléphone quotidiens avec ses collègues. J'ai eu a gérer dans una vie de mombreuses crises: je ne crois pas avoir jamais rescontré une telle unité dans les objectifs et dans leur mise en oeuvre."165
Nessuna possibilità, infine, di un ruolo predominante degli americani: "Les avions américains étaient prédominants dans les frappes aériennes. A part cela, vous ne pouvez pas parler du role prédominant des Américains dans la définition et la conduite de notre action. (...) Dans la gestion politique, diplomatique et statégique de cette crise, les Européens ont eu un role aussi important que celui des Etats - Unis. La coopération entre Européens a été elle - menue si intense qu'il est difficile aujourd'hui de déméler ce qui est du aux Français, aux Anglais, aux Allemands, aux Italiens ou aux autres. La cohésion européenne a eté sans faille, mais comme elle s'est inscrite dans une harmonie plus large, ce n'est pas cela qui s'est vu le plus. (....) Cependant, pour revenir à l'aspect militaire, ce n'est pas une découverte que de constater que les avions de l'OTAN sont majoritairement américains. Cela non plus n'infirme pas le reste du raisonnement. (....) Cette détermination dont les Européens ont fait preuve fournit une base renforcé pour de nouveaux progrès vers une politique etrangère européenne commune et una défense européenne (....) La réaction de fonde - plus jamais ça in Europe ! - a été une réaction autant européenne qu'américaine. (....) Ensuite, nous faisons partie de la meme alliance, que jé sache. (....) Nous pouvons avoir avec les Etats - Unis une relation suffisament saine et décomplexée pour etre capables de leur résister à chaque fois que s'est nécessaire, et les cas ne manquent pas. Et pour etre également capables d'accepter d'agir en accord avec eux quand cela se justifie. Nous avons démontré au Kosovo notre capacité collective à élaborer et à maintenir une cohesion exceptionelle pour surmonter une tragédie. Il ne manquera ni d'échéance ni d'occasion pour l'Europe des Quinze de faire preuve, dans les temps qui viennent de la même determination, de la même efficacité. Voilà le socle sur lequel nous allons bâtir."
A noi sembra che Védrine abbia centrato il punto: appurato che non c'è (e non ci potrà essere) "parità" tra i singoli Paesi membri dell'Alleanza, a livello di ipotesi sarebbe tuttavia realizzabile un bilanciamento quasi-paritario tra Stati Uniti e "polo europeo". Gli sforzi fatti sino ad ora, e quelli che ancora si stanno facendo, hanno dimostrato le enormi difficoltà che ancora si frappongono alla realizzazione di questo progetto, che ancora stenta a decollare a causa sia di un'istituzionalizzazione mai completata (o completabile), sia dei sempre attuali rapporti di dipendenza attiva nei confronti di chi non è ovviamente disposto a cedere "spazio".
La proposta presentata da D'Alema 167 a metà maggio, ad esempio, prevedeva un periodo di giorni di sospensione dei bombardamenti limitatissimo, da concedere a Milosevic per dargli modo di prendere atto e accettare un accordo -per altro ancora da trovare- sancito da una rivoluzione dell' ONU: abbiamo già visto come questo tentativo non abbia avuto buon esito, essendo stato ignorato da Clinton "perché la proposta italiana prevede che Milosevic accetti di eseguire un ordine dell' ONU mentre Clinton vuole che si pieghi ad un ordine della NATO."
Ogni tentativo unilaterale come quello italiano, in realtà, avrebbe potuto arenarsi di fronte alla medesima difficoltà, nel caso di un' opposizione da parte americana. Appare sempre più evidente la necessità di un più solido consenso tra i Paesi del blocco europeo. Occorre menzionare nuovamente la corrente di pensiero de "Le Monde Diplomatique" che, come già ricordato,169 si colloca in una posizione estremamente e tradizionalmente critica rispetto alla superpotenza americana.
"L'attaque de l'OTAN contre la Serbie n'est pas une décision américaine unilatérale. Mais, s'il s'agit en théorie d'une opération multilatérale pour rétablir la stabilité dans une région de l'Europe, coté européen elle fut perçue comme essentiellement américaine. La date et l'heure des offensives, les objectifs stratégiques, l'utilisation des avions et des missiles auraient d'ailleurs tout été décidés par le présidént des Etats - Units et ses chefs d'etat - major. La politique de sécurité américaine se détourne donc des engagements multilatéraux de Washington pour priviléger la seule puissance militaire américaine." Ciò sembrerebbe per altro smentito da alcune dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio italiano, D'Alema, soddisfatto dall'esito del conflitto e di aver giocato un ruolo - a suo modo di vedere - fondamentale per porvi termine e per evitare un atto di forza ancor più terrificante. "Non abbiamo mai dato la nostra approvazione a truppe di terra."171
Abbiamo già parlato della tesi di Joxe,172 in proposito, mentre secondo De la Gorce: "Les memes préoccupations de cohésion de l'OTAN et de prépondérance des Etats - Unis ont conduit Washington à èviter que se constitue un système européen de défense indépendent de l'organisation." Posizioni estreme, certo, ma che tuttavia ci confermano che il ruolo degli Stati Uniti nella gestione del decision-making è senza dubbio primario.
Infine Dana Priest, staff writer del Washington Post, che ha ipotizzato uno scenario ancora diverso. In una lunga inchiesta, apparsa sul quotidiano statunitense, ha analizzato molti dei punti più controversi del conflitto nei Balcani. "One of the myths of the war in that the leaders of NATO's 19 member countries ran the air campaign by committee. But that is not the way the decision - making looked to the allliance, it was clear that the important choices - such as whether to bomb targets that had a largely civilian character - were made by the leaders of three countries: the United States, Britain and France. And only one of them, France, regularly played the skeptic. France's veto power was one of the unwritten codicils to Operation Plan 10601, the military blueprint for Operation Allied Force."174 E' chiaro quanto questo contrasti con le pubblicazioni ufficiali di Bruxelles.175
"Washington created a
management committee, as one senior administration official called it, to
smooth over disagreements about the military campaign. The care of the
committee was the so - called quints: Secretary of State Madeleine K. Albright
and the foreign minister of
E' in quest'ottica che andrebbero altresì inquadrate le già citate dichiarazioni di D'Alema, conscio del ruolo decisivo giocato dal governo italiano nella vicenda.
B. A testimonianza di quanto affermato, giova a questo punto analizzare più da vicino un'eventualità presa in considerazione nell'ultimo periodo del conflitto, ma studiata già da lungo tempo: l'opzione per un'invasione terreste della Serbia. Dimostreremo come l'effetto deterrente prodotto da quest'ultima abbia di fatto condotto Milosevic alla resa.
Per chiarezza espositiva riportiamo le parole di Wesley Clark, comandante supremo delle Forze alleate in Europa (SACEUR): "La decisione di mandare o meno le truppe di terra era da prende ad un livello politico. Preferisco dunque non avanzare commenti al riguardo. Come militare, posso solo dire che Milosevic si è sempre comportato come se si aspettasse che la NATO avrebbe inviato truppe di terra in Kosovo. Abbiamo infatti assistito a massicci dispiegamenti di forze serbe lungo i confini della provincia meridionale jugoslava, come truppe in trincea, per l'intera durata del conflitto."178
Ma in effetti, "dopo le prime due settimane il comandante della NATO, Wesley Clark, cominciò a rendersi conto dell'impasse e a chiedere alle varie capitali, a cominciare da Washington, il permesso di pianificare un attacco da terra. Da Londra Tony Blair parlava apertamente di questa ipotesi."179 Al summit di Washington del 24-25 aprile - attorno ad un tavolo a forma pentagonale (!) - si è deciso di accelerare la pianificazione di questo attacco, nonostante Clinton avesse scartato questa ipotesi già la sera del 24 marzo, quando gli attacchi cominciarono.
Pochi giorni dopo e
senza una esplicita decisione del NAC,
"Clinton's national security adviser, Samuel R. "Sandy" Berger, persuaded NATO
Secretary General Javier Solana to authorize Clark's secret talks. Part of
Dana Priest menziona una riunione segreta tenutasi all'hotel Bristol di Bonn, il 27 maggio 1999, alla quale avrebbero partecipato il Segretario della Difesa americano Willliam Cohen e i Ministri della Difesa di Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia,181 per discutere sul da farsi. "After 6 ½ hours of debate, the five ministers reached a momentous conclusion: their governements must decide whether to assemble ground troups, and they must make the choice within days."
La giornalista del Post tenta così una valutazione dell'effetto psicologico che il possibile uso di truppe di terra ha avuto su Belgrado: "The main instigator of Cohen's May 27 secret rendez-vous in Bonn was British Defense Secretary George Robertson. In the session at the German Defence Ministry Robertson argued that NATO should prepare immediately to send ground troups into Jugoslavia, and he committed 50,000 british troops. (...) In Bonn, the German and Italian defense minister seemed more open than ever to the idea of ground troups.(...) The french, while not flatly opposing an inversion, argued that there wasn't time to prepare for one before winter. Cohen argued that it was safer to stick with the air campaign then to risk division over ground troops."183
In realtà, quando Milosevic ha ceduto, Clinton e gli altri leaders della NATO erano ancora lontani dall'autorizzare l'invasione. Poco dopo Cohen dirà: "It was clear from that meeting that a consensus for ground forces was not going to materialize. I argued for intensifying the air war and for streamlining and broadening the target selection process." 184 Evidentemente Milosevic credeva altrimenti.
Solo pochi giornali hanno dato notizia, all'epoca, di questa riunione di Bonn, e neppure Nouvelles atlantiques ne ha fatto cenno, suscitando così anche la nostra curiosità; abbiamo pertanto effettuato un controllo a Bruxelles, presso la sede di Agence Europe, per chiedere informazioni circa la segretezza e il silenzio su tale riunione e sugli eventuali poteri decisionali di cui "i cinque grandi" presenti a Bonn sarebbero stati depositari.
Marina Gazzo, editore responsabile di Nouvelles atlantiques, ci ha comunicato di essere stata lei stessa presente a Bonn, il 27 Maggio 1999, smentendo le voci sul carattere "segreto" della riunione. Sulle questioni trattate in tale riunione, la Sig.ra Gazzo ci ha informato di quanto segue: "E' rimasto comunque confidenziale il vero contenuto della riunione, e quanto ne è stato detto in seguito non è che speculazione. All'epoca, non abbiamo scritto niente perché non c'era nessuna informazione di sostanza, e solo parecchio tempo dopo si è sentito dire qua e là che, a Bonn si era effettivamente parlato di un possibile intervento terrestre in Serbia (non per prendere una decisione definitiva, che non potevano certo prendere solo alcuni ministri), e che queste voci avessero persuaso Milosevic a cedere. La riunione, quindi, non si è svolta in una "struttura" della NATO, ed è stata puramente informale."
Trascendendo dalle evidenti semplificazioni - proposteci dagli organi ufficiali di informazione della NATO185 - a proposito del processo decisionale, possiamo senz'altro attribuire un ruolo propositivo molto importante, se non fondamentale, al management committee - secondo quanto indicato da Mrs. Priest -, anche se questo parrebbe non essere il vero vertice di una piramide, che ha la sua cuspide oltreoceano: la documentazione analizzata e le testimonianze raccolte portano concretamente in questa direzione.
3.5. Guerra conclusa o guerra congelata ?
Nel cercare di formulare un giudizio complessivo su fini e risultati, modalità e conseguenze dell'attacco portato dalla NATO alla Serbia, e cercando di mantenere una non facile lucidità di giudizio, ci si trova a dover combinare una serie di fattori ed elementi contrastanti che puntano in direzioni opposte.
Abbiamo più volte accennato alle ragioni di questo attacco, morali ed umanitarie secondo la versione più generalmente accettata. E in effetti, da questo punto di vista, non si può negare la rispettabilità e la legittimità di queste argomentazioni. "E' indubbio che l'ottusa ferocia della repressione serba nei confronti della popolazione albanese del Kosovo, e la spaventosa tragedia umana che ne è conseguita, costituiscono una motivazione più che sufficiente per giustificare la decisione della NATO di intervenire militarmente."186
Tuttavia bisogna rilevare che le ragioni morali/umanitarie in altre regioni caldi non hanno prodotto similari mobilitazioni della comunità internazionale,187 cosa che ha indotto alcuni a parlare di "umanitarismo a geometria variabile."
Questo ci porta così a concludere che - accanto alle nobilissime ragioni sopra enunciate (e pubblicizzate come sufficienti a giustificare una guerra) - sussistessero più impellenti necessità cui attendere, che di fatto hanno trasformato la Serbia in un bersaglio ideale per la NATO. "Coloro che dubitano che la politica estera si faccia in base ai sacri principi, suggerendo banalmente che forse più terreni interessi hanno maggior peso, hanno avanzato il sospetto che ci sia qualcosa dietro, cioè che Washington persegua l'obbiettivo di mantenere l'instabilità nei Balcani per rendere indispensabile la sua presenza e la coesione della NATO, dato che l'Europa è quello che è. Cioè non è."189
Dello stesso avviso sembra Scalfari, sostenendo che "la vera ragione è stata quella di far nascere Determined Force. (....) Gli Stati Uniti sono la sola superpotenza esistente sul pianeta.Una superpotenza solitaria e immensa ha bisogno di avversari e di cimenti. Di qui la vocazione alla gendarmeria planetaria. (....) La nascita di Determined Force conferisce ufficialmente agli Stati Uniti il ruolo di gendarmi, al di fuori delle pastoie e dei veti del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. (....) La motivazione, lo ripeto, è nobilissima: si corre in soccorso d'una gente senza più terra. E anche se la confisca della terra è stata terribilmente accelerata dai bombardamenti, la motivazione resta tuttavia nobilisima."190
Anche (o soprattutto) ragioni politiche, quindi. La Serbia, oltre il suo nazionalismo criminale, continua a rifiutare il modello neoliberale che la mondializzazione esige, costituendo altresì un pessimo esempio per i suoi vicini dell'Est-Europa, egualmente scossi da turbolenze economiche e politiche.
In seno alla stessa NATO, poi, scopi e obiettivi reali di questa guerra assumono sfumature diverse a seconda che a perseguirli sia il blocco dei Paesi dell'Unione Europea oppure gli Stati Uniti.
Per ciò che concerne l'Unione Europea, si può parlare di considerazioni strategiche, intese però non più nel senso tradizionale del termine (accesso al mare, ad una frontiera naturale, ad un fiume navigabile o controllo di ricchezze primarie quali petrolio, carbone, acqua, ferro), quanto piuttosto secondo le esigenze della mondializzazione, della "nuova economia", basata sulle tecnologie d'informazione. In effetti nessuno ha mai sostenuto che un Kosovo autonomo avrebbe rappresentato un vantaggio militare o l'accesso ad una ricchezza primaria o ad una via commerciale vitale. Tuttavia sono ormai risaputi i problemi legati all'emigrazione clandestina, alla delinquenza, alla mafia legata alla droga ed al cronico caos politico che proprio nei Balcani trovano la loro origine. Di qui la necessità di arginarli, per una entità opulenta come l'Unione Europea.
D'altra parte gli Stati non hanno alcun interesse strategico nei Balcani. Per loro, dunque, la crisi del Kosovo ha rappresentato il pretesto ideale per ridare linfa vitale alla NATO (ed al proprio peso al suo interno), un'organizzazione che avendo ormai perso il proprio nemico storico - l'Unione Sovietica - aveva necessità di essere rilegittimata. Abbiamo visto come, secondo Scalfari, questa legittimazione sia stata perseguita tecnicamente creando Determined Force.
Ciò detto, resta da sottolineare come i bombardamenti, alla lunga, abbiano piegato Milosevic, ma non abbiano abbattuto il muro delle ambiguità che si frappongono al raggiungimento dello scopo di una effettiva pacificazione del Kosovo e della democratizzazione della Serbia. A tutt'oggi, non è ancora chiaro se la guerra si sia davvero conclusa o sia soltanto sospesa sine die.
Cfr. Rusconi, Gian Enrico, Obiettivi e risultati della guerra del Kosovo, "Il Mulino", n° 3, maggio-giugno 1999, 407-414.
Morozzo della Rocca, Roberto, La via verso la guerra, "Limes - Rivista Italiana di Geopolitica", supplemento al n° 1, Primavera 1999, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma, 11 - 26.
Cfr. Zandee, Dick, Interazione tra civili e militari nelle operazioni di pace, "Rivista della NATO", n° 1, Primavera 1999, 12.
Drozdiak , William, NATO approves strikes in
Cfr. De la Gorce, Paul-Marie, Historie secrète des négociations de Rambouillet, "Le Monde Diplomatique", maggio 1999.
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Cfr. Nouvelles atlantiques, Bruxelles, n° 3086, 3 marzo 1999. Per ciò che riguarda più da vicino il NAC, bisogna ricordare le nuove adesioni di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, festeggiate con una cerimonia ufficiale il 16 marzo 1999, che portano così il numero dei Paesi membri della NATO da 16 a 19.
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Fubini, Federico (a cura di), Ma Milosevic ci sa fare (conversazione con Wesley Clark, comandante supremo delle forze alleate in Europa), "Limes - Rivista Italiana di Geopolitica", n°4, Inverno 1999, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma, 165-167.
Priest, Dana, A decisive battle that never was, "The Washington Post", 19 settembre 1999, primo di tre articoli.
Da un ulteriore controllo fatto presso il "COMITATO ATLANTICO ITALIANO" a Roma, nell'ottobre 1999 - in seguito, quindi, alla conclusione del conflitto - ci è stato ancora una volta confermato che "è il Consiglio dell'Atlantico del Nord (NAC) il supremo organo politico e decisionale. Tale organo (.) delibera per consensus (.) ciò che assicura il massimo grado di democraticità, di unità di intenti e di coesione. Il Comitato Militare, difatti, elabora le strategie e le risposte militari richieste o da approvarsi da parte del NAC. Pertanto qualsivoglia riunione eventualmente ipotizzata dalla stampa, qualora avesse avuto luogo (sic), non può sortire alcun effetto, dovendo ogni decisione effettuare il proprio completo iter che trova nell'organo politico il suo momento decisionale."
Ricordiamo, ad esempio, il caso del Kurdistan, dove le autorità di Ankara conducono dal 1984 una feroce "guerra" contro la popolazione kurda, alla quale rifiutano di concedere uno statuto di autonomia e persino il diritto di insegnare la lingua kurda. Ricordiamo ancora l'ingiustizia fatta ai ciprioti greci, 160000 dei quali restarono vittime nel 1974 della pulizia etnica turca. A tutt'oggi i turchi occupano ancora illegalmente la parte nord dell'isola. Kurdi, ciprioti e anche palestinesi potrebbero presentare ugualmente ottime motivazioni morali ed umanitarie.
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