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"Gli Stati Uniti guardiani del mondo nell'era post-bipolare"
(relazione sul seminario di studi tenuto da Carlo-Maria Santoro presso l'Università di Pavia in data 29 febbraio 2000).
In occasione del seminario oggetto della presente analisi, sono stati puntualizzati alcuni aspetti interess 212d36c anti dell'ultima crisi balcanica e del modo in cui è stata gestita dalla NATO (e dagli Stati Uniti).
Il relatore si è espresso in termini estremamente chiari e decisi sui rapporti di forza all'interno dell'Alleanza Atlantica e sull' indiscusso dominio mondiale esercitato dagli americani: un dominio che, in virtù della sua estensione e portata -riguardando il campo economico, politico, culturale e tecnologico - rappresenta un caso unico nella storia.
Partendo da queste premesse, Santoro si dichiara estremamente scettico sulle possibilità di crescita di un "polo europeo indipendente" all'interno della NATO, in grado di rivestire un ruolo paritario rispetto a quello del "gigante americano", la cui "vera egemonia a livello mondiale" non verrà intaccata in alcun modo "ancora per 10/20 anni almeno!". La NATO,.dunque, come un sistema piramidale molto più semplice di quanto possa apparire dall'esterno, dove il massimo a cui gli altri Paesi membri possono aspirare consiste nell'entrare a far parte di qull'élite ristretta costituente "il primo cerchio", sottostante la dirigenza statunitense.
Ciò è in parte dimostrato dal fatto che l'architettura istituzionale di grandi organizzazioni quali la SDN, l'ONU, e la stessa NATO non sarebbero altro che il prodotto della cultura e dell'ideologia politica degli Stati Uniti; l'esistenza stessa dell'Unione Europea sarebbe impensabile in assenza di uno stretto legame con la compagine americana. Questa egemonia è la conseguenza diretta del "suicidio del modello comunista" in seguito al quale gli Stati Uniti non hanno più trovato ostacoli ad imporre il proprio, che Santoro definisce "neoimperiale".
L'elemento di novità risiederebbe proprio nell'attitudine americana a "servirsi delle istituzioni come mezzo per celare l'immediatezza del proprio dominio": in primo luogo dell'ONU, che si è però poi rivelata inadatta a gestire le crisi internazionali, a causa sia del complicato gioco dei veti incrociati in seno al Consiglio di Sicurezza, sia del fatto che le truppe armate, dotate soltanto di armamenti leggeri, non rappresentano un vero "esercito di sicurezza", sia della pochissima autonomia decisionale di cui hanno sino ad ora goduto i vari Segretari Generali. Nel 1992 gli Stati Uniti hanno condotto operazioni militari di peace-keeping separate dal Comando ONU, decretandone in pratica l'inutilità ed il fallimento: di qui la necessità americana di trovare un altro "schermo" di protezione per le loro "azioni di polizia", e la NATO si è rivelata utilissima a tale scopo, nonostante il suo raggio d'azione sia limitato all'area europea.
Queste operazioni di peace-keeping contemplano interventi armati di tipo umanitario, legittimati oramai dalle nuove norme di diritto internazionale - "in perenne cambiamento" - e dovrebbero riportare la pace e l'ordine in quelle regioni dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani, nel rispetto del diritto alla sovranità nazionale degli Stati e del principio dell'autodeterminazione dei popoli (inventato dal presidente americano Wilson a Versailles). Santoro ricorda come questo principio sia stato tuttavia utilizzato "a scacchiera", secondo le priorità, cioè, della compagine americana: di qui la definizione data di "sistema politico internazionale unipolare incompleto".
Tramite l'ONU prima e la NATO poi, gli Stati Uniti hanno potuto costituire "una griglia normativo-autoritaria intorno a dei comportamenti che pongono le basi di un regime": anche il modello liberal-democratico, quando imposto a livello globale, diventa un modello autoritario.
In Kosovo la NATO è intervenuta ufficialmente a difesa dei diritti umani e in soccorso di un popolo martoriato da crimini efferati: principio anch'esso applicato "a scacchiera", alla luce dei mancati interventi per motivi analoghi nel Congo-Zaire, nella zona dei Grandi Laghi dell'Africa Nera, così come in Cecenia pochi mesi dopo il dramma del Kosovo. Secondo Santoro, l'intervento della NATO andrebbe meglio inquadrato tenendo presente i tre principi che attualmente ispirano "la nuova politica espansionistica americana": command of the sea (loro completo appannaggio sin dalla fine della guerra fredda), sea control (inteso come libertà di navigazione) e forward from the sea, ovvero la proiezione sui litorali, il cui controllo sarebbe un modo sicuro per consolidare il loro primato. In tal senso, il controllo dei litorali balcanici rientrerebbe in un progetto strategico più generale.
Chiarito ciò, il relatore porta una serie di testimonianze dirette a proposito dei rapporti tra le alte sfere decisionali dell'Alleanza Atlantica. Ricorda in particolare come alle riunioni per la discussione di obiettivi e bersagli da colpire nei Balcani - tra i rappresentanti, politici e/o ministri degli Stati membri - facessero seguito ben più lunghe e importanti teleconferenze tra il SACEUR Clark ed esponenti politici e/o militari della Casa Bianca e/o del Pentagono, i quali rilasciavano gli obiettivi finali selezionati.
Il ruolo effettivo che i ministri degli Stati membri possono giocare risulterebbe così molto limitato, posto che una volta entrati nelle "fasi calde" di una crisi come quella in esame, i vari comandi militari nazionali passano automaticamente alle dirette dipendenze del principale responsabile militare della NATO (attualmente il gen. Clark), a sua volta esecutore delle direttive politiche e militari satunitensi.
Santoro cita due episodi: il primo concerne il rifiuto ad impegnarsi ad un intervento militare in Bosnia nel 1995, espresso dall'allora ministro degli Esteri italiano, Dini (opposizione subito rientrata in seguito all'ordine dato dagli americani); il secondo riguarda la proposta presentata da D'Alema in occasione della crisi in Kosovo, che prevedeva una sospensione dei bombardamenti per riprendere le trattative con Milosevic. Tempestato da domande di carattere tecnico - da giornalisti ansiosi di comprendere quanto la sua proposta fosse realmente il prodotto di un'analisi accurata di tutti gli aspetti e dei particolari -, D'Alema, in un incontro con la stampa a Bruxelles, si è dimostrato dubbioso e confuso dal loro incalzare: ciò dimostra quanto poco valore possa avere in realtà una qualsiasi iniziativa che non sia stata accuratamente programmata nelle sedi apposite della NATO (e soprattutto con la supervisione statunitense).
E' difficile - spiega il relatore - che si possa pensare di negoziare con gli americani su un piano paritario. La Francia di De Gaulle, che ha tentato di opporsi a questa realtà, nel 1966 è uscita dalla struttura militare integrata della NATO. Ma nulla più. Trenta anni più tardi Chirac e Jospin, ansiosi di rientrare a pieno titolo nell'Alleanza, hanno chiesto espressamente il comando del fianco sud della NATO nel Mediterraneo (attualmente sito a Napoli, sotto il comando di un generale americano), come condizione non negoziabile. Il rifiuto americano ha mostrato ancora una volta chi è che realmente detta "le regole del gioco".
Santoro ha poi chiuso il seminario con due possibili ipotesi di cambiamento futuro. L'unica possibilità di una valida alternativa al modello attualmente egemone viene individuata nella crescita di un ipotetico competitore regionale: la Cina e l'influenza che questa potrebbe rivestire in tutta l'area dell'est-Pacifico (nelle due Coree, di cui una ancora stalinista, su un Vietnam e su un Laos ancora comunisti e sull'Indonesia, dove vige ancora una situazione incerta): questo non sembra tuttavia realizzabile in tempi brevi (Santoro indica un periodo di almeno 10/20 anni). Per la seconda ipotesi si dovrebbe verificare un arresto naturale del ciclo economico che da anni sta facendo la fortuna degli Stati Uniti: possibilità molto remota in presenza di validi "meccanismi di compensazione", che assicurano una completa "copertura", anche in previsione di un improvviso tracollo dell'economia; ma soprattutto a causa degli imponenti investimenti fatti nel settore R.D. (research and development), che hanno portato molti illustri economisti a considerare definitivamente conclusa "l'era dei cicli economici", pronosticando invece per il futuro uno sviluppo continuo.
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