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ALTRE FONTI

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ALTRE FONTI



Vi sono fonti diverse, fonti non statali, che non si manifestano mediante atti compiuti da organi statali e per poter operare all'interno dello Stato devono avere il consenso dello Stato stesso.

Fonti non statali sono le leggi regionali, regolamenti comunali, statuti degli enti pubblici, le consuetudini, le norme comunitarie europee e le fonti attivate mediante rinvio.

Gli statuti sono atti in cui sono previste le principali regole sull'organizzazione e funzionamento di società o enti.

Nel diritto privato hann 949i86j o un proprio statuto le associazioni e le società, nel diritto pubblico molti enti pubblici possono creare le proprie regole statuarie.

La legge 8 giugno 1990 n.142 ha attribuito autonomia statuaria alle Provincie e ai Comuni, così analogamente ha disposto per le Camere di commercio  la legge 29 dicembre 1993 n.580.



Autonomia statuaria hanno anche le Comunità montana e le Casse di risparmio.

L'autonomia statuaria non è mai illimitata, ma si svolge nell'ambito delle leggi che la riconoscono; perciò gli statuti sono atti di normazione secondaria avvicinabili ai regolamenti di organizzazione.


Mediante la consuetudine norme giuridiche vengono ad esistenza attraverso il 

Comportamento dei membri della comunità, e non attraverso deliberazioni di appositi organi, intenzionalmente rivolte a produrle.

Il comportamento che dà vita alla norma consuetudinaria non consiste nel compimento di atti giuridici ma si fonda sul venire in essere di fatti giuridici.

La consuetudine è una fonte fatto.

Importante è sapere se i comportamenti tenuti hanno o no le caratteristiche richieste, perché si crei una norma giuridica.

Per dar vita ad una norma consuetudinaria, il comportamento dei membri della comunità deve avere due caratteristiche: un elemento materiale ossia che il comportamento venga tenuto costantemente ed uniformemente dai componenti del gruppo sociale e un elemento psicologico che il comportamento venga tenuto con la convinzione che esso sia obbligatorio.

Senza elemento psicologico un comportamento sarebbe solo un abitudine.

La norma consuetudinaria sorge nel momento in cui si forma una convinzione diffusa e generalizzata che il comportamento sia giuridicamente dovuto; che essa non sia frutto di una scelta libera, ma il rispetto di regole operanti nella collettività.

Queste sono le caratteristiche della consuetudine considerata in astratto. Il suo ruolo rispetto alle altre fonti di un ordinamento non è però sempre uguale.

Nel diritto italiano la consuetudine ha in generale una posizione di non grande importanza e vengono privilegiate le fonti scritte ossi le fonti mediante le quali appositi organi sono in grado di prescrivere, seguendo apposite procedure, le regole di comportamento da rispettare.

L'art.8 delle Disposizioni sulla legge in generale stabilisce che nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quando sono da essi richiamati.

In assenza di disposizioni di legge la consuetudine può liberamente formarsi; al di fuori della legge( praeter legem).

La norma consuetudinaria viene meno se cessa di essere tenuto il comportamento sul quale essa si fondava, parlando così di desuetudine.

Affinché si abbia la desuetudine non basta che una singola persona in un singolo caso non si comporti secondo la norma consuetudinaria, trasgredendola. Occorre invece che a seguito di diffuse e accettate trasgressioni si perdano il comportamento consuetudinario e insieme la convinzione della sua obbligatorietà, con la conseguenza che nessuna sanzione giuridica deriva più dalla trasgressione.

Le consuetudini nascono e vengono meno nei fatti, nei comportamenti della vita sociale.

Anche se non vi sono forme di pubblicità legale, esistono sempre delle raccolte di consuetudini.

Secondo l'art.9 delle Preleggi, gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria.



La legge n.400 del 1988 considerava l'organizzazione del lavoro ed i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti come materia rimessa ai regolamenti del Governo, da emanarsi in base agli accordi sindacali.

Il decreto legislativo n.29 del 1993 ha stabilito non solo che, nel contesto della privatizzazione, i rapporti individuali di lavoro e di impiego del personale pubblico sono disciplinati contrattualmente, ma che la disciplina di tutte le materie relative al rapporto di lavoro, escluse quelle affidate alla legge, è affidata alla contrattazione collettiva sia nazionale che decentrata.

I contratti sono stipulati, attraverso una complessa procedura, comprensiva di una autorizzazione in merito di merito governativa e di un controllo di legittimità della Corte dei conti, dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale per la parte pubblica e dalle organizzazioni sindacali  maggiormente rappresentative dall'altra.

Essi operano direttamente  e la loro disciplina vale per tutti.

Eventuali norme di legge che intervengano in materia dopo la stipula di un determinato contratto prevalgono bensì su di esso, ma in seguito cessano di avere efficacia, a meno che la legge non disponga espressamente in senso contrario, dal momento in cui entra in vigore il successivo contratto collettivo.

I contratti collettivi hanno natura normativa e non puramente negoziale.

Il problema della compatibilità dell'intero sistema con l'art.39 secondo il quale possono avere valore normativo solo accordi stipulati da sindacati registrati.

La Corte costituzionale con la sentenza n.309 del 1997 ha stabilito che i contratti collettivi non hanno di per sé valore normativo né efficacia generale  e che essi vincolano in modo diretto soltanto la pubblica amministrazione.

I contratti collettivi del pubblico impiego, si devono anche considerare come atti fonte, ma come atti negoziali privatistici, per la complessità e delicatezza del loro rapporto con gli atti legislativi e regolamentari rimangono comunque rilevanti per la teoria delle fonti.

I contratti collettivi sono espressione di un'autonomia riconosciuta dalla legge statale, ma sembrano comunque godere di una riserva di materia in relazione alle fonti subordinate alla legge, nel senso queste non possono entrare nella materia propria della contrattazione.


Le norme di ordinamenti giuridici diversi da quello dello Stato italiano non hanno in Italia nessun rilievo, nel senso che non vi sono applicate come norme giuridiche.

Se è un comportamento è permesso dalla legge italiana può essere vietato dalla legge di altri Stati.

Vi sono dei casi nei quali il giudice italiano deve applicare norme di altri ordinamenti giuridici, ai quali il nostro ordinamento opera un rinvio.

L'art.51co.1 delle legge 31 maggio 1995 n.218 stabilisce come regola che il possesso, la proprietà e gli altri diritti reali sui beni mobili e immobili sono regolati dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano.

Se in seguito la legge straniera muta, e si pone in Italia un nuovo simile caso, il giudice dovrà applicare la nuova legge, e non la precedente.

Il rinvio non è fatto a certe precise e determinate disposizioni, ma alla loro fonte: perciò se muta la norma nell'ordinamento straniero, muta anche la norma da applicare in Italia. Il rinvio in questo caso è mobile, e non fisso o recettizio. 





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