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Storia del diritto italiano

giurisprudenza



Storia del diritto italiano



Il corso è dedicato all'interpretazione: esaminare conoscere e valutare le categorie fondamentali dell'interpretazione. Lo scopo generale è quello di fornire alla meditazione degli uomini sul contesto del domani, le nozioni per avere la conoscenza piena di ciò che accade. Il corso vuole indurre ad una riflessione sui problemi d'oggi. L'interpretazione è la dimensione fondamentale dell'esperienza giuridica, del diritto. Occorre evidenziare alcune categorie: qualificazione dell'attività giuridica come funzione propria e basilare di un soggetto che si definisce giurista. La seconda è costituita dal quadro nel quale tale attività si svolge; quadro che è caratterizzato da quattro elementi: globalizzazione, europizzazione, nazionalità, statualità. Terza categoria: bisognava percepire il ruolo della storia del diritto nella vita del giurista.

Figura del giurista: motivo del contratto diverso dalla causa del contratto.



La causa è l'essere giurista; la causa non dipende da motivi personali ma dall'oggettività. Il contenuto fondamentale è legato ad una condizione ontologica dell'esperienza umana, ossia all'interpretazione. Questa è infatti elemento fondamentale dell'esperienza giuridica. Altro non è che un giudizio che ciascun individuo pone in essere ogni volta che entra in relazione o con un determinato bene o con un determinato soggetto. Questo giudizio stabilisce la regola che definisce il rapporto. Ciascun soggetto fissa la regola che si instaura fra se e un altro soggetto: un giudizio che si basa sulla circostanza ti tempo e luogo che caratterizzano il rapporto. Ciascun soggetto giudica il rapporto che si instaura con i soggetti che gli si pongono davanti: questa regola è una norma giuridica, alla quale il soggetto cerca di attenersi. È norma giuridica perché definisce il comportamento che il soggetto tiene in presenza di una tale situazione. Nel tempo presente l'attività di giudizio implica il riferimento ad un complesso di fonti che costituiscono l'ordinamento/i entro i quali una determinata attività si svolge. Se per esempio una determinata amministrazione pubblica dovesse fare una gara per un appalto, l'individuazione delle regole può essere fatta o seguendo l'ordinamento europeo o quello italiano. Il giurista è colui che definisce la regola propria di un determinato rapporto, iscrivendola nel contesto dell'ordinamento o degli ordinamenti entro i quali tale rapporto si colloca con l'impiego di parametri che l'ordinamento/i gli forniscono e attraverso la specifica attività formale che egli svolge. Quella del giurista è una categoria mentale.

Quadro istituzionale e culturale: bisogna sottolineare come tutto questo sia un'introduzione al diritto in europa, con movimenti che riguardano tutto il nostro continente. Bisognava dare una caratterizzazione unitaria al diritto europeo, dove talune specificazioni localo si sono trasformate in un diritto comune. Quindi l'unificazione del diritto è una cosa artificiale e frutto di errori dogmatici sul diritto vigente. Il taglio principale sul diritto europeo è quello verificatosi fra fine '700 e inizio '800 con il passaggio fra diritto europeo comune basato su un contratto pluralistico, ad una pluralità di diritti sociali fondati sull'indipendenza dei singoli stati europei, caratterizzati dal fatto che ciascuno traeva da sé stesso la legittimazione politica ed istituzionale. Le nuove frontiere della telecomunicazione hanno dato una nuova definizione della frontiera giuridica: il diritto come complesso di regole che hanno come caratteristica comune la giuridicità si presenta come una pluralità di sistemi che si intrecciano fra loro. Tali sistemi appaiono oggi ruotare intorno a 4 differenti aspetti: la globalizzazione intesa come fenomeno che pone l'uomo nel contesto planetario. Il secondo l'Europa, intesa come dimensione che colloca il soggetto nel quadro di un'esperienza comune che prende appunto il nome di Europa. Il terzo, la statualità inserisce il soggetto nello stato con la qualifica di cittadino. Quarto la nazionalità, che mette capo al patrimonio di tradizioni che deve richiamare il soggetto a mantenere vivo il flusso di informazioni, di doti e di caratteristiche proprie di esperienze educative e di comunità attraverso le quali forma la propria personalità.

Concetto di europa e di stato. Sono gli aspetti che nel procedere dell'esperienza logico-giuridica hanno inciso in modo decisivo sulla formazione dei sistemi giuridici contemporanei e sui caratteri propri dell'interpretazione.

Europa: è soprattutto una unità storica incontestabile dalla quale noi tutti siamo parte integrante e attiva. Attività che si è costituita con l'incoronazione di Carlo Magno nel Natale dell'800. Una unità relativamente recente che paradossalmente è fatta di diversità ognuna dotata di propri contorni ma capace di trovare la propria realtà soggettiva nel rapporto dialettico della comune civiltà europea. Su di un piano giuridico una tale dialettica si esprime da un lato nel rapporto fra istituzioni politiche generali e particolari. Questo sistema sul piano politico è stato definito come sistema della pluralità degli ordinamenti giuridici a significare la coesistenza di più ordinamenti ognuno dei quali in grado di proclamare normative. Questa europa è la sede di un mondo, quello europeo; vale a dire di una sistemazione del dovere. L'europa è luogo/sede di una sistemazione culturale/sociale/politica non uniforme. Tanto è vero che l'unità europea è diversa per esempio dall'unità romana: che era unitaria.



Unità europea non è uniformità, è molteplicità, la cui riduzione ad unità deriva da una coscienza comune, cioè da un giudizio dell'esperienza storica che gli uomini europei possiedono sovrastando le frontiere che li separano e che permette loro di identificare come familiare quelle istituzioni, quelle esperienze quella cultura nelle quali l'uomo europeo è in grado di identificare tracce della propria identità. Vi è dunque un solco fra esperienza storica della romanità e dell'europa. L'Europa infatti sorge quando crolla l'impero romano. Preme dire che c'è una differenza enorme tra europa romana e europa. Quella romana era Pax Romana e si basava su un ordine che era unità, che costringeva le differenze, che guardava le differenze. Era uno stato. L'europa raccoglierà taluni elementi basilari per il suo sviluppo, ma non trae la propria unità dalle categorie politiche romane ma da una coscienza comune. (l'area politica e l'area giuridica coincidono e si scindono solo dopo la rivoluzione francese). Identità fra area politica e giuridica. Affrontiamo la questione stato: ha importanza capitale, quale esso si presenti oggi. Lo stato che emerge dalla storia europea si colloca in essa prima come una delle istituzioni che costituiscono l'europa e una delle istituzioni che danno origine all'unità europea. Ciò accade perché lo stato è privo di una sua autonoma giustificazione teorica che attribuisca allo stato la propria esistenza. A partire dalla rivoluzione esso si pone come istituzione che rifiuta una eterolegittimità rispetto all'unità europea; in questo senso esso è antagonista dell'unità europea e dotato di un carattere di assolutezza. Lo stato che si presenta a noi oggi affonda le sue radici storiche ma non dogmatiche nell'unità europea; questa anzi riduce l'orizzonte di imperatività dello stato. Ma lo stato rinuncia alla sua imperatività in quanto ha aderito all'unità europea. Lo stato mantiene una sua ontologia. La pretesa di autolegittimazione dello stato contemporaneo introduce una profonda cesura nella storia precedente che si traduce in una diversa caratterizzazione della storia giuridica. A partire dalla rivoluzione francese il diritto contemporaneo si muove su due coordinate fondamentali: due poli che costituiscono due fonti delle quali il nostro diritto nasce. Questi poli si presentano non come poli estranei alla nostra esperienza ma profondamente incarnati in ossa. Il sistema giuridico definisce il soggetto (vi sono tuttavia aree che non definiscono completamente il soggetto) ed è allo stesso tempo definito da: contratto e legge. L'incontro di ciascuno di noi con il diritto avviene in uno spazio, segnato da queste due coordinate. In quello spazio di diritto non ci appare effetto dell'interpretazione del giurista, cioè del soggetto che pone una regola del rapporto. Su quel terreno la regola ci viene posta dalla legge o dal contratto. È in grado di generare una simile situazione, comportamenti irriflessi in cui la condizione del giurista viene vista come applicazione di uno o dell'altro polo (legge - contratto). Il contratto crea un vincolo fondato sul consenso. Dunque a 616e43g lla base vi è una struttura sul consensuale del rapporto giuridico.la seconda fonte, la legge, ha come presupposto l'esistenza di un soggetto terzo non concreto ma astratto che indica il comportamento che i soggetti concreti sono tenuti a seguire non in virtù un accordo che ciascun soggetto ha con noi, ma in virtù del requisito che caratterizza la norma come regola indipendente dal concreto rapporto che lega i soggetti destinatari della legge. Dunque l'astrattezza è la condizione del vincolo e noi percepiamo la norma tanto più vincolo e noi percepiamo la norma regola indipendentemente dal concreto rapporto che lega i soggetti destinatari della legge. Dunque l'astrattezza è la condizione del vincolo e noi percepiamo la norma tanto più vincolata quanto più è astratta. Se infatti fosse più concreta e rivolta ad uno solo di noi, in virtù della specificità per noi sarebbe meno vincolante di quello rivolto alla generalità. La struttura della norma è invece profondamente diversa, trae la propria imperatività dal costituirsi regola tra coloro che sono tenuti a rispettare la norma e colui che l'ha emanata. Per essere legittima e giusta, dev'essere obbedienza ad un soggetto astratto, ad una norma astratta. La legge fa si che noi tendiamo a collocare la libertà fuori dal vincolo che ci lega all'imperatività della legge, ad un terreno che è ulteriore, esterno da quello definito dalle due coordinate (contratto e legge). Laddove l'uomo medioevale collocava la libertà entro coordinate che definiamo il suo modo giuridico e perciò il suo modo politico. Le coordinate sono prodotti della rivoluzione ma nascono dalla riflessione degli esponenti del giusnaturalismo come mera attività speculativa, che non si pone su un piano di operatività, ma pone i principi secondo i quali quel sistema potrà essere abbattuto. Tale aree non assurgono, non si sviluppano come luoghi istituzionali dell'esperienza giuridica. Il luogo istituzione è solo quello dell'ubbidienza del contratto e alla legge.

Il contratto diventa legge e la legge si fonda sulla volontà di rispetto delle due norme(?). anche la legge quindi ha fondamento contrattuale  si rifà sulla convivenza civile ossia una struttura con sensualistica, ossia l'astrattezza della regola. Questa nasce dalla rivoluzione francese: per comprendere da quali presupposti ci sia stata questa radicale modifica dell'ordinamento giuridico, ossia un passaggio ad un modello con sensualistico prima della rivoluzione c'è un sistema giuridico prodotto da un soggetto, il giurista, attraverso l'interpretazione. Un sistema dove al giurista spettava creare diritto, doveva adeguarle ai tempi. Il giurista deve adattare il diritto alle condizioni sociali. Un sistema pluralistico perché nato per tenere conto di tutti i rapporti sociali che ciascun uomo provava in essere. Ciò significa che una caratteristica del sistema medioevale era la pluralità delle istituzioni. Qualsiasi rapporto definiva l'orizzonte di una struttura istituzionale con una continuità, senza fratture fra istituzioni pubbliche e private. La rivoluzione utilizzando le categorie passò ad un sistema monastico. Ma il prezzo pagato fa una sostituzione del modello di uomo.



Lo stato moderno presenta un'architettura individuata secondo cinque categorie sistematiche; 1) separazione tra società politica e civile (da un lato la polis, lo stato in senso organizzativo e le sue istituzioni munite di imperium dall'altro la società civile, ossia la vita quotidiana, gli accomodamenti privati espressi in una manifestazione contrattuale del potere. 2) Distinzione tra la natura dei poteri a seconda della loro natura, ossia tra poteri di cui è titolare la stato e poteri di cui è titolare il privato. 3) Se vi è distinzione fra pubblico e privato occorre che vi sia un continuo flusso fra i due momenti. L'istituzione di una serie di complessi e di meccanismi continuativi fondati essenzialmente sul concetto di rappresentanza, concepito come rappresentazione della volontà del soggetto. I soggetti del diritto che assumono in questo caso il nome di cittadini vivendo all'interno della società civile, pur tuttavia con la qualifica di cittadini partecipano all'attività politica. 4) La rivoluzione/identificazione del diritto con la legge prodotta da una volontà generale dei cittadini. 5) L'istituzione di una giustizia ufficiale di carattere esclusivo come unica istanza, momento di risoluzione dei conflitti esclusiva dello stato (non vi è altro soggetto che annulli la giustizia).

La storia del diritto costituisce una disciplina formativa: tuttavia si tratta di un sapere formativo diverso da quanto lo sia la maggioranza delle discipline dogmatiche. Infatti mentre queste cercano di creare certezze del diritto vigente, la missione della storia del diritto è quella di rendere problematico il presupposto implicito e acritico delle discipline dogmatiche. Il presupposto è che il diritto attuale sia razionale, necessario, definitivo. La storia del diritto dice che il diritto esiste sempre e che qualunque sia il modello usato per esprimere i suoi rapporti, le soluzioni giuridiche sono sempre contingenti. La configurazione della norma costituisce una rapporto fra soggetti in un tempo e in uno spazio. Da questo punto di vista è inevitabile che vi sia una certa resistenza di fronte all'approccio del diritto: perché attraverso il presupposto di razionalità, necessarietà, definitività, gli studi giuridici tendono a svolgere una funzione apologetica del diritto (il diritto infatti tende ad essere conservativo). Ciò è dovuto alla influenza di una teoria giuridica elaborata alla fine del secolo e che ha pervaso tutto il mondo europeo che la teoria giudica postula l'idea di una separazione fra fatti e norme. Questa fatica ad assumere una visione critica del diritto della visione critica del diritto della visione delle norme staccate dai fatti deriva dalla visione apologetica del diritto. Da questa teoria sono stati definiti i contorni della disciplina storica giuridica. Opposta alla funzione critica c'è una funzione che analizza la storia del diritto dandole un compito di affermazione del diritto attuale. Il diritto tende ad essere un sistema di legittimazione: questa funzione legittimante, tuttavia presuppone che il diritto sia legittimato, cioè richiede che si costruisca un contesto sociale sul fondamento della sua obbligatorietà. Nell'ambito del mondo giuridico i processi di giusta legittimazione del diritto ricevono un contributo determinante da argomentazioni di carattere storico in un duplice modo: dando continuità alle categorie del discorso giuridico, cioè affermando che concetti come stato, diritto pubblico o privato, persona giuridica oppure soluzioni giuridiche come la protezione legale del feto, il principio del rispetto dei contratti, appartengono alla "natura" delle cose, cioè discendono dalle categorie generali ed eterne della giustizia o della ragione giuridica. In questo modo la storia del diritto servirebbe a far cogliere attraverso le singole categorie e istituti la totalità di quelle categorie e perciò la loro derivazione da principi eterni. Su questo punto va sottolineato che sebbene molti principi giuridici siano assolutamente recenti è ben vero che ve ne sono altri che sembrano esistere da molto tempo attraverso la percezione che di essi si ha per mezzo del loro valore di facciata, ossia la concezione nominale del soggetto (persona, famiglia, furto, omicidio, stato); concetti conosciuti come costruzioni giuridiche fin dall'inizio del diritto europeo, ma se si scava al fondo di questi soggetti si può notare che dietro la superficie di una continuità terminologica vi è il contenuto di una discontinuità semantica. Il significato di quel termine è irrimediabilmente diverso a seconda della differente epoca storica del contesto sociale e testuale, cioè è un significato eminentemente relazionale.viene annullata l'atemporaneità dei concetti intrinseci delle parole quand'anche esse esistano ancor oggi. Ma se viene meno la continuità delle categorie giuridiche viene meno il loro carattere naturale, cioè di immodificabile della realtà.

Vi è un secondo profilo di questa utilizzazione in chiave legittimamente della storia del diritto, che consiste nell'impiego della storia del diritto per provare la linearità del progresso giuridico. Questa utilizzazione presuppone l'impiego di un modello storico evoluzionista, che concepisca la storia come accumulazione della sapienza dell'uomo. Il diritto avrebbe quindi avuto una fase di rudezza a fronte di una maturità ormai raggiunta. In questo schema invece di impiegare i concetti di continuità si utilizzano i concetti di discontinuità. In questa storia l'elemento legittimante è contrasto fra diritto storico e diritto dei nostri giorni, frutto di un immenso lavoro di perfezionamento realizzato da un numero enorme di giuristi. Questa lettura presenta il vizio di leggere il passato alla luce del presente. In questo modo la storia del diritto europeo viene letta come epopea del progresso o della società giuridica europea. La storia si converte in una celebrazione. Così la storia promuove una socializzazione del presente visto come unico orizzonte possibile della evoluzione umana. Si viene a proporre come modello universale dell'evoluzione socio-politica lo standard della società occidentale. Questo modello va di pari passo con un'identica politica di sviluppo sul piano economico. A fronte di queste due strategie entrambe hanno la caratteristica di identificare le categorie a partire dai concetti contemporanei. Il presente è imposto al passato e questo fa perdere al passato il suo spessore. Il passato deve essere considerato in chiave autonoma per quanto riguarda le sue istituzioni. Per esempio non si sarebbe in grado di cogliere che le autonomie del passato regime andrebbero verificate alla luce della rappresentanza, bensì devono essere analizzate alla luce della teoria della giustizia e giurisdizione. Allo stesso modo non si possono leggere le norme sul diritto d'asilo come anticipazione delle garanzie di privacy, perché quando parliamo del diritto d'asilo o dell'inviolabilità del domicilio, quello che contava era il potere della sfera domestica rispetto a quella della res pubblica. La pretesa di isolare le categorie del giuridico rispetto alle categorie della morale, della filosofia, della religione.

Per legittimare non il diritto ma i giuristi, che svolgono un ruolo centrale. La loro legittimazione viene realizzata attraverso l'occultamento della natura politica di ogni decisione giuridica; cioè presentando ogni giudizio giuridico come un'opzione prettamente tecnica soggiacenti ad essa. Questa diventa più facile dove i giuristi vengono rappresentati come accademici, preoccupati da visioni astratte, erudite. Allora una storia giuridica formalista promuove un'immagine della facoltà di giurisprudenza come sacrario della scienza dove vengono formate creature incorporee, preoccupate di questioni teoriche. Quest'epoca è trascorsa (caratterizza gli anni '50-'60). Noi cerchiamo di trarre una storia critica.



La seconda caratterizzazione del diritto contemporaneo è il metodo progressivo, che utilizza una chiave di discontinuità dei dogmi del diritto. Terzo profilo riguarda il carattere di legittimazione dei giuristi; concepire il giurista come colui che interviene nel conflitto sociale con strumenti scientifici. Tutto questo per rappresentare il diritto, le cui opzioni non hanno nulla a che fare con quelle giuridiche. Nel rispetto della sua alterità, il diritto consente di dare a ciascuna categoria giuridica il contenuto semantico che le è proprio, nel contesto temporale e spaziale in cui si colloca. Ma permette anche di compiere un altro passo che è l'abbandono di quei punti di vista, di quelle prospettive che considerano esclusivamente da un lato il livello statale del potere, dall'altro un livello ufficiale del diritto.

Caratteri di massima dell'esperienza politico giuridica dell'età medioevale e quella moderna e in che cosa sia consentito il passaggio di questi caratteri ai caratteri propri del diritto contemporaneo. L'europa aveva vissuto in un universo politico pluralistico non solo, ma questa vita all'interno di questo universo non era stata incosciente delle proprie caratteristiche, bensì ne era stata cosciente. Una coscienza che è totalmente solidale con questo universo, ma critica nei confronti del suo carattere pluralista. La coscienza di questo concetto è prima solidale e poi critica, tanto da realizzarne poi la distruzione. La società era concepita come un corpo: questa metafora aiutava a comprendere che come i vari organi del corpo umano, così anche i vari organi sociali potevano disporre di una autonomia di funzionamento nella misura qualitativa e quantitativa richiesta dall'esercizio della funzione che era ad essi attribuita nell'economia del tutto.

In questo universo in cui ciascun organo ha un suo autonomo potere, collocato però all'interno di un corpo, un universo di poteri/funzioni, gli stessi si suddividevano in soprannaturali, naturali e umani. Poteri che sono diversi e autonomi e che si esprimono con una normazione che si realizzava anch'essa a vari livelli, cioè su quegli stessi tre livelli. Esisteva un ordine divino, esplicitato nella rivelazione, poi c'era un altro ordine, quello della creazione, che configurava le cose secondo norme che esprimevano uno spessore naturale tale da renderle relativamente indisponibili, ossia il soggetto non aveva a disposizione un potere statale. Terzo, l'ordine umano che presentava una serie di complessi normativi organizzati in una prospettiva gerarchica, che tuttavia non privava quelli inferiori della propria efficacia, che predominava nei rispettivi ambiti di competenza. Tale dualismo giuridico esprimeva il pluralismo proprio della società ed è caratteristico di questo periodo medioevale e moderno. Questo ordine si esprime per due profili: il primo è che esso ha un carattere eminentemente tradizionale (se il diritto non è prodotto dallo stato ed è invece prodotto da una tradizione letteraria ha un orizzonte di operatività fluida, mobile, al pari degli altri saperi normativi, quali l'etica e la teologia). Secondo: quest'ordine si forma su una categoria universale che è la juris dictio, ossia la facoltà di dire (giudizio) diritto. E dire diritto vuol dire assicurare l'ordine nei vari livelli. Questa juris dictio non è accentrata in un soggetto, ma dispersa. Ci sono vari gradi di juris dictio, ma quella massima altro non è se non il potere di rendere armonici i poteri più bassi della giurisdizione. Queste categorie ci permettono di comprendere le fonti, l'esperienza giuridica medievale e moderna.

Una prima considerazione: il diritto viene considerato come un sistema di norme destinate a regolare i rapporti sociali garantendo modelli minimi di comportamento che rendono possibili la convivenza sociale. In questo modo il diritto sarebbe concepito come strumento che si limita a percepire valori sociali e conferirebbe attraverso il suo intervento a questi valori un effetto vincolante. Questa concezione tende a ridurre al minimo la forza creatrice del diritto, che è invece molto maggiore. Da al diritto la possibilità di dare pace e sicurezza. Invece il diritto deve garantire i valori che si basano su pace e sicurezza. Il diritto prima di organizzare la società, contribuisce alla creazione dei modelli di uomo, di cose, di rapporto sociale; poi da corpo a questa immaginazione. L'attività giuridica come attività poetica, creatrice. Questo ordine presuppone l'esistenza di un ordine universale, "cosmos". Il pensiero giuridico medievale definisce cosmos come un universo che abbraccia uomoni e cose e in grado di orientare tutto il creato in direzione di un obiettivo ultimi che il pensiero medievale identificava con il creatore stesso.



Rapporto sul piano politico tra trascendente, natura e uomo era collegato attraverso una concezione aristotelica dell'universo. Era stata finalizzata nella visione del creatore come fine ultimo di tutte le cose (lo scopo è il creatore, a cui tutte tende). Questo scopo trasforma il mondo nell'aspetto visibile di una realtà globale in cui vengono fuse insieme cose naturali e innaturali e il cui riconoscimento era necessario per ogni funzione politica. In questa concezione della polis il diritto (la concezione politica della città) aveva come fondamento l'ordine divino della creazione. Per questo i giuristi indicano la giustizia con la natura e la natura con Dio. "il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli animali" (dal Digesto): i commentatori medioevali lo commentano vedendo la natura come Dio. Se c'è questa identità fra natura e Dio, la giurisprudenza può essere definita come una "scienza del giusto e dell'ingiusto basato sulla conoscenza delle cose umane e divine" (dal Digesto). In questo modo i giuristi acquistavano una funzione sacrale nei confronti del diritto. Se tutta la natura e l'uomo sono indirizzati al creatore lo scopo stabilisce la direzione, ma l'unità che ne scaturisce non compromette ma anzi presuppone la specificità del particolare, degli obiettivi propri di ciascuno: esalta la specificità dell'ordine naturale e umano. Questa specificità è fondamentale. Nella visione del mondo e delle regole, la configurazione umana e naturale possiedono una loro specificità che lascia libera l'autonomia di ciascuna identità, pur mirando entrambe ad un punto unico, il creatore. C'è una conseguenza di questa visione: tutte le componenti del mondo naturale e umano sono indispensabili per l'esistenza del tutto così che non può esistere un potere politico semplice, allo stato puro, cioè non ripartito nei singoli ordini della natura.

Il potere è per sua natura ripartito, frazionato. Questo frazionamento del potere costituisce il perno dell'ordine politico giuridico di età medioevale e moderna, e si chiama juris dictio: ossia il potere di dire diritto sotto qualsiasi forma. Da questo punto di vista si può vedere la creazione dell'ordine politico giuridico come una piramide. In questa visione la testa (pontefice e imperatore) non hanno il compito di distruggere l'autonomia di tutti i corpi sociali, ma invece di rappresentare unità e di mantenere in equilibrio le diverse parti del corpo, attribuendo a ciascuna di esse quello che gli è proprio. Dunque la testa deve mantenere l'armonia fra le varie parti, garantendo a ciascuna parte il suo statuto, cioè di realizzare la giustizia. La realizzazione della giustizia è quindi una realizzazione del potere ed ha un significato diverso dalla giustizia odierna. La giustizia contemporanea è commutativa, del "do ut des"; quella medioevale è distributiva (dare a ciascuno il suo). La giustizia moderna teorica è attributiva, ciò che è tuo diventa tuo per mezzo di un soggetto che liberamente te lo attribuisce. Terzo, la giustizia pratico/teorica contemporanea è commutativa, ha alla base lo scambio. Come si compie il passaggio a questa configurazione? Si compie attraverso l'evoluzione di quello che è il paradigma individualista della nostra società: la sua origine è nei teologi francescani, nella scolastica del '300 (Duus Scoto 1266-1308 Guglielmo D'Ocam 1300-1350). Ci si chiede se sia legittimo, per comprendere la società, partire dall'individuo e non dai gruppi. L'uomo travava la sua configurazione nel gruppo. Ci si chiede se non sia legittimo partire dagli individui e quindi ci si interroga su quelle che erano le categorie universali dell'individuo: questi erano i mezzi per collocare l'individuo  Tutte le qualità che permettono di focalizzare l'individuo come componente di una società. I francescani si chiedono se invece non sia opportuno partire dall'individuo sciolto dalle qualità che lo contraddistinguono (negano quindi gli universali). Si chiedono se le qualità permettono di cogliere l'essenza degli individui (e delle cose) o se invece fossero solo dei nomi esterni all'esistenza della cosa o dell'individuo. Sono soltanto dei nomi, non incorporati nell'essenza del soggetto e possono essere messi da parte per comprendere l'essenza del soggetto. I nominalisti ritengono che per comprendere l'essenza di un corpo è necessario depurarlo di tutte le sue qualità: si ottengono dei corpi nudi, non caratterizzati, modelli generali (esempio: se non avessero vinto i nominalisti io non potrei sedermi su un tavolo, perché non è fatto per questo). Gli uomini sono quindi ridotti ad atomi e la società poteva anche essere dimenticata dalla teoria sociale e politica (frattura fra società civile e politica). È stato creato un individuo sciolto, libero dai suoi vincoli storici. Si realizza un modello culturale che avrebbe costituito il nocciolo dell'attività politico-giuridica degli ultimi 300 anni: quella dell'individuo astratto ed individuale. Vengono scartate le persone concrete, legate da vincoli naturali: i gruppi e ciò che costituivano, la società venivano scartati. Per completare la rivoluzione occorreva interrompere l'altro legame, ossia astrarre la società da ogni realtà metafisica, liberando l'individuo dal trascendente. Anche qui è la teologia francescana che dà un grosso contributo.

Questa liberazione dell'individuo nasce dalla tomistica francescana. Aveva introdotto la causa prima e le cause seconde: un'autonomia del sapere temporale rispetto alla fede. Invece la tomistica afferma l'assoluta indipendenza dell'uomo e del mondo dalla libertà assoluta di Dio che si rifà a S. Agostino. I francescani riprendono qui una concessione storica, che è quella dell'impetus: Dio si muove per impulsi, i suoi disegni sono insondabili così che come conseguenza non vi è altra soluzione per comprendere l'ordine del mondo nelle sue manifestazioni esterne che farlo come se Dio non esistesse, cioè separando la verità della fede dalle acquisizioni dell'intelletto dell'uomo; si compie una laicizzazione della realtà sociale. Dunque due le leggi fondamentali: l'uomo liberato dalla natura e dal legame del trascendente (cioè dalla sfera della rivelazione). Questo comporta lo sviluppo dell'organizzazione del potere e del diritto. Il potere non è più ancorato ad una teorica oggettiva delle cose. In questo modo la teoria del potere trova gli ancoraggi nell'uomo in quanto tale, nell'uomo nudo, reso tale dall'eliminazione delle qualità. Il potere viene ancorato alla volontà che si esprime o nella volontà sovrana di Dio che si manifesta sulla terra attraverso un suo rappresentante (principe, sovrano) secondo una corrente provvidenzialista, oppure secondo la volontà degli uomini, che istituiscono mediante una concordanza di volontà, la società civile: dunque il potere sganciato dall'oggettivo viene agganciato o alla forma provvidenzialista o al contrattualismo. Il potere non si fonda più sull'equilibrio (il potere è diviso fra tutti) e si manifesta nella volontà che così è anche l'origine del diritto. Il diritto trova il proprio fondamento nella voluntas, che può essere quella del sovrano o quella dei consociati.

Quando diciamo che viene tagliato il rapporto fra mondo naturale e umano diciamo che il mondo naturale non conforma più quello umano, ma informa il mondo umano. Questa derivazione del diritto provvidenzialista e del contrattualismo rende il diritto disponibile, nel senso che non vi è più un criterio normativo in grado di legittimare il diritto, la sua volontà. In questo modo le leggi fondamentali saranno disponibili, cioè fattibili ma possono essere alterate dagli uomini e così tutto il diritto positivo come prodotti diretti ed indiretti dei patti sono giusti.



La volontà diventa la fonte del diritto e questo emergere della volontà come fonte dominante, decisiva, aumenterà il proprio peso specifico fino ad annullare le fonti specifiche sulla forma con sensualistica su cui si basa la vita europea. Questa volontà toglie ogni limitazione che derivasse ad essa da ordini esterni alla volontà e quindi oggettivi (ossia ordine naturale e soprannaturale): il diritto diventa disponibile. Non solo il diritto privato (ossia l'insieme dei rapporti che si racchiudono fra soggetti o fra soggetti e oggetti) ma anche il diritto pubblico. Tutto il diritto diventa disponibile, nelle mani dell'uomo. Questa disponibilità implica una disponibilità delle leggi costituzionali e quindi alterabili da parte dell'uomo. Uno dei grandi confronti è quello tra giuristi e sovrani che avviene in Francia: il sovrano è il titolare della legge principesca e pretende di essere colui che gestisce le leggi fondamentali. I giuristi invece pretendono di essere loro i responsabili delle leggi generali/fondamentali (costituzionali). Queste leggi sono quindi indispensabili nei confronti del sovrano. L'emissione di questa fonte, la volontà, rende le leggi fondamentali disponibili e di conseguenza alterabili. Un'ultima conseguenza sta nel fatto che il diritto positivo, così come tutte le convenzioni, in quanto sono il prodotto diretto o indiretto della volontà, sia nella sua forma provvidenzialista che in quella contrattualista sono giusti. Questo è l'assioma fondamentale del diritto positivista, che viene visto come diritto giusto in quanto è positivo. Perché ha alla sua radice l'elemento provvidenziale (il re) o contrattuale (la volontà della nazione). Non è che il contrattualismo faccia la sua comparsa per la presenza del pensiero positivista: il contratto c'è sempre stato ma nella tradizione passata aveva solo giustificato la forma di governo e non il potere e solo con i filosofi moderni il contratto giunge a giustificare la forma di potere, di dove il potere va a finire.

Questa concezione naturalistica del diritto e delle istituzioni da un lato si esprime attraverso il provvidenzialismo, ossia come concezione attraverso la quale il potere è un libero prodotto della volontà di Dio, che viene esercitato dalle dinastie regnanti, sicchè la figura del sovrano viene quasi sacralizzata. Il contrattualismo è invece molto più ramificato: da un lato il contrattualismo assolutista concepisce il patto che sta alla base della società/della collocazione del potere nella società come un trasferimento definitivo nella mani di chi governa tutti i poteri dei cittadini. In questa visione il trasferimento di tutti i poteri al governo sovrano fa si che il governo sovrano resti così assolutamente libero da qualsiasi soggezione tranne per una regola fondamentale, che lo differenzia dal sistema naturalistico, che è quella di garantire l'astrattezza del comando e delle norme. Infatti il contratto ha questo scopo, di rendere impersonale il contratto e di sciogliere gli individui da una soggezione personale verso colui che emana il contratto. Nella visione contrattualistica si elimina l'autorità del dispotismo.

Seconda forma del contrattualismo è il contrattualismo liberale nel quale il contenuto del patto sociale riceve una limitazione nel suo esprimersi dalla natura medesima agli obiettivi propri del contratto sociale (obiettivi: costituire un ordine sociale e politico tale che esso permetteva di raggiungere la felicità degli uomini). In questa visione i diritti naturali non verrebbero annichiliti dal contratto ma manterrebbero la loro efficacia anche dopo ricevendo una conformazione tale da renderli disponibili ai consociati nel modo più efficace possibile. Il contrattualismo fa questa considerazione in partenza: concepisce la natura dell'uomo come un complesso di diritti, ma percepisce come lo strumento contrattuale impedisce la realizzazione dei diritti naturali dell'uomo. Il contratto sociale (la società) deve garantire un minimo di effettività ai limiti naturali degli uomini perché deve garantire il raggiungimento della felicità, che si raggiunge nell'affermazione della propria natura. La forma democratica è una forma di organizzazione del potere particolare.

Analizziamo il sistema giuridico medioevale.

Diritto comune: questo diritto è il sistema giuridico dell'Europa continentale per tutto il periodo che va dal 1100 fino al 1789. E' insieme un sistema giuridico, politico e istituzionale. Se volessimo dare a questi tre ordini una specificazione; quello politico è incarnato nella forma universalismo. Quello istituzionale si esprime nel termine pluralismo. Quello giudiziario si esprime nel termine diritto comune. Diritto comune ci comunica le sue caratteristiche in modo immediato. Possiamo dare cinque caratteristiche: l'unità, nel senso che garantisce l'unità di una pluralità di fonti giuridiche. Queste fonti sono il diritto romano nella sua configurazione giustinianea, il diritto canonico, il diritto locale, raggruppando in quest'ultima categoria anche i diritti dei regni e non solo quelle locali.

Seconda caratteristica è il fatto che il diritto comune si presenta come portatore di un oggetto unico, comune, di tutto il discorso giuridico europeo.

Terzo: perché esso nel trattare questo oggetto impiega metodi e stili di ragionamento comuni in tutta Europa.

Quarto: perché esso cresce e si sviluppa attraverso un insegnamento universitario che è comune in tutta Europa, tanto che la mia laurea è spendibile in tutta Europa.

Quinto: comune anche come lingua, nel senso che il diritto utilizza essenzialmente la lingua latina.

Il diritto comune è quindi l'espressione di una unitaria entità giuridica europea. Questa formula esprime dunque un sistema che ha le proprie radici nella ricostruzione dell'impero (romano d'occidente - Carlo Magno - gli Ottoni). Questa produce una tendenziale unità dei sistemi giuridici europei. Questa tradizionale tendenza all'unità dei sistemi giuridici europei si presenta agli occhi degli individui del medioevo come un complesso di ordinamenti giuridici ramificati e dominati da tre caratteristiche. Una religio, unum imperium, unum ius. Questa formula tendeva a presentare agli uomini del medioevo un ordine che era connaturato all'uomo, dava all'organizzazione del genere umano un carattere naturale che si traduceva in una uniformità di istituzioni in grado di caratterizzare l'organizzazione degli uomini europei come una comunità unitaria di origine cristiana e dall'altro lato lo ius comune, una certa unità del diritto. A questo complesso danno un contributo fondamentale i giuristi. Questo sono degli universitari dotati di una disposizione intellettuale comune che si erano formati sui grandi manuali di logica e retorica e che avevano avviato una studio del diritto romano basato sulla riscoperta del corpus iuris civilis.



Da un lato un ordine comune dell'altro una classe di giuristi che avvia lo studio del diritto basandosi su quello romano: da ultimo una concezione che postula/afferma la natura trascendentale degli ordinamenti temporali. Nessun ordinamento giuridico ha un autonomo fondamento etico ma ha invece un fondamento religioso legato a valori trascendentali. Il nocciolo di partenza del diritto comune è il diritto romano che viene individuato come polo giuridico unitario delle istituzioni giuridiche. Questa proposta viene avanzata da un nucleo sempre più vasto di giuristi che operano a Bologna a partire dalla metà del 1100. Questi giuristi compirono questa operazione: l'attribuzione del diritto romano all'impero come polo unitario di riferimento di tutte le norme proprie dei diversi popoli che vivevano entro i suoi confini (non è il diritto in uso a Roma, quello viene preso come spunto).

Da un punto di vista teorico questa operazione non presentava difficoltà, perché l'impero romano d'occidente si affermava come diretto continuatore dell'impero romano, perciò fu facile stabilire il diritto che fu proprio dell'impero.

Primo, questo diritto romano è essenzialmente il diritto contenuto nel corpus iuris.

Secondo: il diritto romano non escludeva come unico diritto che ciascun popolo avesse un suo proprio diritto da rispettare. Il diritto romano tenderà a porsi come trama del sistema giuridico, che sorregge i diversi popoli che racchiude.

Terzo: il diritto romano è legato al diritto della Chiesa (diritto canonico  costituzioni conciliari e decreti dei pontefici). Come si presentava ai giuristi del 1100? Come si presentava il diritto romano?

Le differenza tra diritto pretorio e leges actiones rappresenta un aspetto importante: perché nel passaggio fra diritto classico, pretorio e imperiale si compie il passaggio, l'evoluzione del diritto romano da un diritto strutturalmente rigido ad un diritto che sotto i pretori assume un carattere casistica e perciò propone una verifica raffinata dalla giustizia di ogni caso concreto; infine ad un diritto che si amministrativizza. Nel senso che la crisi dell'impero verso il III secolo dopo Cristo è la crisi di una cultura giuridica della giurisprudenza romana, mentre ciò che acquista rilievo è il complesso delle leggi imperiali che produce e si manifesta come una teoria burocratica di applicazione meccanica di ordini del potere. In questo modo nell'avvicinarci all'epoca giustinianea il diritto romano diventa un'attività meno esigente, meno raffinata, accessibile anche ai profani. Quindi il diritto perde vigore, dall'altro profondità di analisi e si forma il diritto romano volgare. I diritto subisce l'influenza della cultura greca: in questo contesto si inserisce l'intervento di giustiniano con la formazione del Digesto (riassunto/ quello che è rimasto), una sintesi, selezione dei testi giuridici della tradizione romana. Oppure detto Pandette  opera enciclopedica, secondo il codice (libro), le istituzioni, le novelle (costituzione giustinianea promulagate dopo il codice). Il corpus iuris è la nostra memoria del diritto romano nella configurazione attuale (diversa da quella medioevale perché ricostruita nel 1800). Questo patrimonio interessa a noi solo come esperienza storica, culturalmente localizzata. Non ci interessa il diritto giustinianeo di giustiniano: solo il diritto impiegato dai giuristi medioevali fino alla fine del 1700. E' questo che costituisce il perno della giurisprudenza europea.



Il diritto romano interessa come esperienza storica, come riferimento legato ad un'ulteriore forma giuridica. Il diritto romano è letto e reinterpretato attraverso un'altra esperienza giuridica. Ciò che viene impiegato non saranno più i passi del digesto, ma le interpretazioni di questi passi: il diritto romano resta una trama invisibile su cui viene costruito l'abito del diritto successivo. Una certa cultura dell'umanesimo cercherà di spogliare l'esperienza giuridica moderna per scoprire il diritto romano nella sua originalità.

Per studiare l'uomo tende a distaccarsi dall'oggetto dello studio. Il diritto romano non ha valenza dogmatica: la valenza dogmatica del diritto romano negli studi di giurisprudenza contemporanea nasce da una visione del diritto romano come diritto perfetto e decisivo nella percezione di quello moderno. La perfezione viene usata per sottolineare la sensibilità dei giuristi romani nei confronti del diritto, ma la sensibilità che li aveva indotti a creare oggetti e soluzioni talmente perfezionati da imporli all'usura del tempo. L'importanza del diritto romano deriva invece dal fatto che esso sarebbe un elemento fondamentale nell'interpretazione del diritto attuale. Naturalmente queste due caratteristiche del diritto romano hanno a loro volta una sottostante percezione del concetto di diritto e di giustizia, presentano una certa condizione di giustizia. Il diritto romano tratta della giustizia basandosi su modelli universali astratti ai quali le varie epoche storiche avrebbero offerto varie soluzioni positive che si sarebbero avvicinate a questi modelli universali senza realizzarli completamente. Si tratta anche di modelli di ragionamento, di organizzazione della giustizia, di ripartizioni fra i vari membri della giustizia. Con la conseguenza di rendere autonoma la razionalità del giurista rispetto alla volontà del legislatore. Questa concezione in realtà è molto tarda, ha origine nella scuola del diritto naturale che crea un modello astratto di giustizia delle soluzioni complete. Questa prospettiva a-storica, come mezzo di giustizia sulla storia, altro non è che un'espressione di quella costruzione astratta razionale e assoluta del diritto contemporaneo. Tanto è vero che il modello di giustizia attuale, propostoci dalla scuola del moderno diritto naturale, che è la medesima che ci offre l'idea di una speciale perfezione del diritto romano si basa sulla reciprocità delle azioni, secondo una caratterizzazione della giustizia in senso commutativo, che è totalmente differente da quella della giustizia dell'epoca medioevale che pure aveva impiegato il diritto romano e che si basava su principio distributivo, ossia su un principio di totale gratuità della giustizia. Questo modello del diritto romano come perfetto è un modello che rende il diritto romano a-storico. Lo studio storico del diritto romano tende invece a cogliere gli "abiti" del diritto. Colloca gli oggetti nel loro ambiente ideale. L'altro profilo, quello dell'interpretazione del diritto ha alla base anch'esso un altro equivoco ossia quello secondo cui sia possibile individuare singoli istituti, singoli concetti, singole soluzioni giuridiche proprie del diritto romano che senza frattura si ricongiungono ad istituti, concetti, soluzioni, del diritto contemporaneo. In realtà invece il diritto romano si è storicamente alterato nel corso del tempo, conservando magari il medesimo nomen juris per un istituto, concetto, soluzione giuridica (il termine equità ha per i romani un significato connesso alla filosofia storica che è totalmente differente dal concetto di equitas di età medioevale o dal concetto di equità dei nostri giorni). Ciò che trasmette significato ad un istituto giuridico è il contesto. Il contesto permette di dare completezza a concetti, istituti e soluzioni altrimenti astratti. Dunque anche l'astrazione in fondo è un prodotto del contesto. A noi interessa rileggere il diritto romano ma contestualizzato: cioè eliminare questa presunzione di astrattezza e presunzione del diritto attuale. Riprendendo la congiunzione fra sacro romano impero e impero romano, questo ripiego concettuale sorge anche il ripiego pratico del diritto romano. Infatti con il suo sacro romano impero (962 d.C) si afferma l'idea che fosse tornato a vivere l'impero romano e che quindi quell'impero fosse stato stabilito ai nuovi imperatori (traslatio imperi). Ciò che importa sottolineare p che in questo modo si trasferiva all'impero quella universalità dell'impero politico che sotto altra specie era stata propria dell'impero romano. Sotto altra forma, perché qui l'impero viene visto come una creazione che deriva da Dio e perciò in modo tale da consentire l'unificazione fra l'universalità del potere politico imperiale e la cattolicità della Chiesa. Il diritto romano fino alla metà del secolo XII resta in ombra, perché per quante tracce rimangano di esso nei paesi occidentali, esso scompare fino alla riscoperta che ne viene fatta ad opera dei giuristi bolognesi i quali compiono l'operazione politica di attribuirlo all'impero. Quindi quella vocazione universale tipica dell'impero si trasferisce sul diritto romano. Questo non avviene in uno spazio politico unitario e in uno spazio giuridico vuoto. Questo periodo non è amorfo, ma rappresenta un elemento di costituzione di grandi istituzioni politiche, la prima delle quali p il feudo e conseguentemente di sviluppo di diritti propri di queste istituzioni giuridiche basati su fonti romano-volgari, su fonti canoniche, su fonti barbariche/germaniche o da ultimo su stili locali di normazione e di risoluzione e/o composizione delle controversie. Sicchè il panorama europeo, la situazione europea presenta il richiamo all'universalismo, sia come carattere dell'impero sia come carattere proprio della Chiesa ma dall'altro presenta una concreta struttura politico sociale dello stesso impero caratterizzato da una pluralità di ordinamenti giuridici (micro-ordinamenti giuridici) territoriali e personali. E questo non avviene solo per gli istituti, ma anche a livello canonico. Dunque un ordine universale ma una concreta struttura pluralistica (una pluralità di ordinamenti giuridici locali). L'esistenza di questi ordini locali presenta la necessità di un collegamento teorico ma anche pratico con gli ordini universali (ad un ordine giuridico corrisponde sempre un potere politico, diffuso nella società).

Problema della congiunzione: si pone con l'affermazione chi il vigore di questi diritti locali fosse fondato o sia di un tacito consenso dell'imperatore. L'esplicita autorizzazione viene tratta da un testo che era un passo della pace di Costanza che diceva "noi, l'imperatore Federico e suo figlio, concediamo a voi città, luoghi, i nostri costumi in modo che in queste città voi possiate continuare a condurre tutto come avete avuto finora e continuate ad essere quali siete stati fino ad oggi". Questo passaggio imputava all'imperatore la legittimazione dei diritti locali: ma altro è continuare a godere delle proprie consuetudini altro metter su l'istituzione dei comuni, che aveva organi preposti all'ideazione di leggi, con un organo per l'amministrazione della giustizia. Vi erano poi alti profili teorici, fra cui quello secondo cui questi organi locali (le città, i comuni) non erano sorti su base feudale e cioè non avevano la loro origine in una concessione che magari per via mediata (ossia per una serie di passaggi) fosse riconducibile all'imperatore: ma erano invece sorti spontaneamente. Dunque a questa ricostruzione teorica se ne riforma un'altra, costituita da Bartolo di Sassoferrato che afferma che il titolare del diritto locale (iuris dictio) è come l'imperatore nel suo territorio, non riconoscendo alcuna autorità superiore all'interno di questo territorio (rex non superiorem ricognoscit, in regnum suum est imperatum). Dunque esenzione del potere politico dell'impero e dell'obbligatorietà politica dell'impero.

Legge omnes populi  riconosce che i popoli hanno naturalmente la capacità di stabilire per loro natura il loro diritto. Questa teoria viene elaborata da Ubaldo degli Ubaldi e si esprime in questo passo in cui dice che i popoli esistono per diritto delle genti e il loro governo ha origine nel diritto delle genti; ma siccome il governo non può esistere senza leggi né istituti, la circostanza che un popolo esista ha per conseguenza l'esigenza di un governo, così come un animale si governa col suo spirito e la sua anima. Ma allora il vigore del diritto romano, ricollegato all'impero, questo diritto deve integrarsi con il vigore di tutti gli altri ordini giuridici che possiedono identica realtà di esistenza. Il diritto romano deve rendersi compatibile con i diritti reali principeschi e anche familiari: con tutti i diritti. Questo processo di compenetrazione fra il diritto romano come diritto dell'impero e il diritto particolare proprio di ciascun ordinamento singolare non può avere luogo se non attraverso una procedura che dà forma appropriata all'integrazione tra il diritto romano e i singoli diritti locali. Questa procedura è l'interpretazione, che crea il diritto comune come sistema. Il nodo basilare dell'interpretazione giuridica medioevale volta a creare il diritto comune come sistema è questo. Che il diritto comune è tale non tanto in senso assoluto quanto in senso relativo. Il diritto comune è tale in relazione ad un altro diritto che non è comune. La realizzazione del diritto comune come sistema in grado di compenetrare una molteplicità di diritti diversi locali con il diritto romano presupponeva la distinzione tra una molteplicità di parti e la unità che ne costituiva il fondamento. Il diritto romano dunque è il diritto comune a tutti i popoli europei ma in modo tale da escludere tutti i singoli e diversi diritti delle differenti organizzazioni politiche che vivono, esistono, nel territorio europeo, nel territorio dell'impero, sono non da escludersi ma da porsi come elemento comune in contrapposizione a ciò che comune non è. Il gioco è dunque fra unità e particolarità.



Diritto comune come sistema nel quale viene messo in luce non tanto il valore assoluto, quanto il carattere relativo. Contrapposizione fra molteplicità ed elemento unitario. In questo modo il diritto comune è comune ad altri diritti.

Questa relazione pone un problema di compatibilità in quanto appunto ciò che è comune deve essere compatibile con ciò che non è comune, quindi particolare, locale. Questa compatibilità fra diritto comune (romano) come espressione dei poteri universali (impero/papato) e in diritti locali come espressione degli ordinamenti appunto municipali, familiari; questa compatibilità si realizza attraverso una forma di integrazione fra gli uni e gli altri. Questo forma di integrazione si realizza attraverso la penetrazione del diritto romano nei singoli ordinamenti: tanto in quelli principeschi quanto negli altri (familiari, gentilizi,.). Questa compenetrazione prende il nome di ricezione del diritto romano. La cultura giuridica tradizionale, che utilizza la storia del diritto in chiave progressista o naturalista, questi metodi leggono questo fenomeno della recezione come una conseguenza dello sviluppo economico sociale che la vita europea segue tra il XII e XIV secolo. Il diritto romano è il modello su cui si basa la sviluppo economico di questi secoli. Per il tipo di sviluppi di questa epoca sarebbe stato necessario un diritto stabile, che cioè garantisse una sicurezza giuridica e istituzionale adeguata allo sviluppo dei traffici e alla complessità della società. Secondo un diritto che contemporaneamente fosse unitario, cioè garantisse un comune linguaggio giuridico fra gli operatori economici e sociali dei diversi territori europei.

Terzo un diritto individualista, cioè che fornisse una base giuridica adeguata per l'attività dell'imprenditore liberandola dalle tendenze/costruzioni cumunitariste passate negli ordinamenti giuridici medioevali portate dal diritto germanico. Questa lettura si basa su una caratterizzazione del diritto romano che non è vera. Il diritto romano non era un diritto astratto: non garantiva comunicazione fra le diverse piazze europee che invece sul piano economico utilizzavano un diritto (lex mercatoria) costruito sulle consuetudini, usi commerciali di alcune piazze europee (Barcellona, Borgogna, Germania, Italia).

Il diritto romano era si caratterizzato in senso individualista ma la lettura che di esso era fatta dai giuristi medioevali aveva consentito di invertire in senso anti-individualista il diritto romano. Le ragioni della recezione vanno ricercate su un altro piano: il primo è un piano concettuale, il secondo è un piano operativo.

Quello concettuale trova espressione prima in una formula del secolo IX di un vescovo di Lione che dice: "siccome i sudditi vivono tutti sotto l'autorità di un re piissimo, essi devono mettersi tutti su una medesima regia". Dunque sul piano teorico all'unità politico/religiosa deve corrispondere l'unità giuridica che non può non essere ricondotta al diritto romano, diritto dell'impero. Ma vi è un profilo pratico che è la circostanza che coloro che utilizzavano il diritto lo creavano, gli operatori giuridici (giuristi) si sono formati laureandosi in un diritto (canonico e romano) presso quelle università il cui modello di studi era dato dal diritto romano e canonico. Avevano dunque appreso le basi del diritto sviluppando una tecnica di ragionamento che era ancorata al diritto romano: in questo modo esse avevano appreso a ragionare giuridicamente sulla ricca e raffinata casistica del diritto romano che copriva un numero di situazioni di fatto enorme, sicchè le soluzioni giuridiche che il diritto romano offriva agli studenti sembravano a costoro appropiate, spiegate in modo evidente, ineccepibile quindi. In modo tale da poter essere poi traslate. Per risolvere problemi simili conciliando la soluzione giuridica proposta dal diritto romano con le norme, leggi locali. Oppure quando mancassero, applicando direttamente la soluzione romanistica. Meccanismo che utilizzano anche alcune categorie fondamentali del bagaglio del giurista medioevale, come i criteri basilari, che sono fondamentalmente tre: l'impiego della ratio juris, della ragione della regola giuridica. Il secondo l'equitas (principio fondamentale con cui il giurista cerca di adeguare il diritto storico alla giustizia di Dio). Terzo l'utilitas, cioè l'utilità, che è essenzialmente la necessità che il diritto consenta una soluzione del problema adeguata al contesto, che faccia mantenere l'uomo, il soggetto, ancorato alle condizioni storiche di tempo e di luogo in cui quel problema deve essere risolto. E l'utilitas qui si avvicina di più al concetto di equità moderna.

Questi tre grandi criteri costituiscono le linee del sapere giuridico medioevale e davano consapevolezza alle varie soluzioni casistiche e di trovarne altre nuove che non fossero nei testi giuridici utilizzati. Cioè calavano le soluzioni nel contesto degli interessi in gioco nel luogo e nel tempo in cui quelle situazioni trovavano soluzione.

In questo modo il diritto romano dà una risposta, che appariva convincente. Dunque questo aspetto si può riassumere dicendo che il diritto romano:

1) il diritto romano trovava applicazione (ratione imperii) in ragione dell'impero. Era il diritto unitario dell'impero.

2) Trovava applicazione (inspectio rationis) in ragione della sua ragionevolezza, cioè per imperativo della ragione.

Da qui l'influenza del diritto romano nello sviluppo della legislazione locale. Questa situazione poneva però problemi sull'origine delle fonti nel senso che una determinata vicenda poteva presentare un ventaglio di norme, che davano una soluzione per quella questione, ognuno delle quali poteva essere una soluzione diverso. Elemento canonico: fattore di unificazione dei diritti europei; il diritto canonico è quello della Chiesa cristiana. La chiesa ha sempre avuto un diritto. In epoca apostolica era dato dalle sacre scritture: quindi i cristiani ritennero possibile la soluzione di problemi di disciplina intera della Chiesa come anche fra credenti e non credenti esclusivamente sulla base delle scritture, degli insegnamenti di Cristo e sulla base della libertà dell'uomo. È evidente che il carattere clandestino del cristianesimo dei primi secoli rendeva inevitabile la mancanza di apparati giuridici e giudiziari. La modifica si ha nel 313 d.C con l'editto di Costantino. Dopo questo editto la giurisdizione del Papa e dei vescovi sui fedeli viene utilizzata apertamente con il consenso e il contributo positivo del potere imperiale che dà valore di giudizio alle decisioni episcopali sulle controversie che venivano sottoposte al vescovo e garantisce alla giurisdizione ecclesiastica la competenza esclusiva sulle infrazioni puramente religiose. A partire dal V secolo la Chiesa ha una giurisdizione esclusiva sui classici, a partire dal X secolo ha giurisdizione in materia di ciò che riguarda sacramenti e matrimonio. Questa espansione della giurisdizione della Chiesa è un effetto della crisi delle strutture politiche e istituzionali dell'occidente dopo il crollo dell'impero romano. La Chiesa esercita funzione egemonizzante sul sistema politico giuridico. Questa espansione della Chiesa la costringe a realizzare un corpo normativo assai più ampio e complesso di quello dei primi tempi.

Le fonti sono due: in un primo tempo fonte esclusiva di produzione normativa dell'ordinamento ecclesiastico è l'insieme dei decreti emanati dai concili (che possono essere ecumenici o locali).

Questi concili danno luogo a decreti che hanno valore a seconda del tipo di concilio. Seconda fonte è invece le decisioni papali. In questo il papato utilizza frequentemente l'immagine parallela dell'imperatore e delle prerogative dell'imperatore in modo da aumentare il suo potere di emanare diritto attraverso le decretali, ovvero le costituzioni pontifice. Le costituzioni possono a loro volta essere encicliche, bolle o brevi. Questo aumento del potere verrà poi utilizzato dai monarchi medioevali per rivendicare una propria autonomia normativa nei loro regni.



Il corpus iuris è una serie di opere delle quali soltanto la prima prende in considerazione tutte le fonti canonistiche. C'è questa opera che racchiude anche i decreti conciliari: le altre opere sono raccolte nei decretari; ci interessa sottolineare il contributo del diritto canonico nel diritto comune. Diritto comune fu infatti un sistema di diritto romano canonico: l'influenza del diritto canonico è decisiva perché in qualche modo questo getta un ponte fra diritto romano e diritti locali. I diritti locali erano di origine germanica e quello canonico funge da collegamento, senza il quale forse non si sarebbe realizzato il diritto comune. In particolare ha otto temi il diritto canonico di importanza:

1) rapporti personali fra coniugi

2) valorizzazione dell'elemento della volontà nei diritti dei contratti

3) una deformalizzazione del diritto sulle cose, valorizzando l'elemento del possesso rispetto alla proprietà, in ciò il diritto canonico è più vicino a quello germanico

4) una valorizzazione della successione testamentaria rispetto alla legittimità (più vicino al diritto romano) e deformalizzazione del testamento (maggior rilievo dato alla volontà).

5) il grande rilievo attribuito al principio della buonafede, in materia di prescrizioni di diritti

6) la predilezione per l'equitas piuttosto che per quello dello stretto diritto

7) l'arbitraggio e l'arbitrato in materia processuale

8) in materia di procedura penale, il raffinamento dei processi istruttori con una forte preoccupazione alla verifica della verità materiale.

Il diritto canonico si fa promotore del processo inquisitorio per scoprire la verità oggettiva. Come è noto il diritto canonico prevedeva una subordinazione dei diritti umani, secolare ed ecclesiastica, al diritto divino, che corrispondeva a quell'ordine del momento soprannaturale, naturale e umano.

Il diritto comune è dunque un sistema caratterizzato in senso dialettico da fonti diverse e le fonti sono il diritto romano, canonico, locale. Questa dialettica opera tanto in chiave sincronica quanto in chiave diacronica: questo vuol dire che vi è una molteplicità di fonti normative, che si intersecano tanto all'interno del medesimo arco temporale (1310-1420-.) quanto diacronicamente, cioè all'interno di un arco temporale sfasato, in ragione del fatto che nel sistema di diritto comune non operava in pratica benché fosse affermata in teoria il principio secondo il quale la legge posteriore poteva abrogare la legge anteriore. Dunque questa contrapposizione di norme in un sistema collegato tanto sincronicamente quanto diacronicamente, presentava alcuni problemi di unificazione, anzi di armonizzazione, vale a dire questa pluralità di fonti può diventare un sistema in quanto costituisca un sistema armonico. Questa operazione è operazione chiave dell'esperienza giuridica medioevale e moderna ed è affidata all'interpretazione del giurista: costui come aveva iniziato ad interpretare il diritto romano, così con gli stessi metodi interpreta anche le altre e diverse fonti del diritto. A mano a mano l'interpretazione del giurista sostituisce integralmente le fonti del diritto, nel senso che ciò che viene applicato non è più il diritto romano, non è più lo statuto (diritto delle singole comunità) non è più il diritto del principe, ma l'interpretazione che di quei diritti danno i giuristi, con la medesima caratterizzazione sincronica e diacronica propria del sistema. Questa attività di interpretazione mette capo alla creazione di una scienza che è:

a) scienza profana (i giuristi sono un ceto profano di intellettuali)

b) scienza caratterizzata come dogmatica, scienza cioè il cui obiettivo è quello di individuare, svolgere, un procedimento conoscitivo i cui termini e i cui elementi fondamentali fossero autoritativamente predeterminati (che è un carattere tipico della teologia e della giurisprudenza).

Questa interpretazione compie l'armonizzazione delle fonti del diritto: armonizzazione resa eminentemente necessaria anche dal fatto che l'incontro fra diritto romano e diritti locali (iura propria) è un incontro nel quale erano palpabili contrasti anche proficui fra l'una e l'altra fonte. L'incontro fra queste due fonti non è un incontro semplice, perché esse presentavano contrasti a volte profondi; questi contrasti si trovano su tre terreni: terreno dei diritti delle persone, dei diritti patrimoniali, dei diritti politici.

Dunque usiamo delle categorie del diritto contemporaneo. La caratteristica basilare del diritto delle persone è quella di una moltiplicazione differenziata degli statuti giuridici personali. La società è una società di ceti, le persone sono cioè divise in gruppi. Taluni hanno come discriminante la dignità, altri la religione, le professioni, sesso, età, rapporti di dipendenza (signore/vassallo marito/moglie/figlio) che sono stati dialetticamente definiti e non assolutamente definiti. Questa è la struttura della società che deriva dal feudo e nella quale si instaura un diritto romano tendenzialmente ugualitario.

Secondo terreno quello dei diritti patrimoniali: qui gli iura propri europei erano caratterizzati da forti restrizioni sulla disponibilità del patrimonio e specialmente di quello immobiliare. Era fortemente legato ad una famiglia ed era vincolato per atto inter-vivos senza ricorrere a talune condizioni. Questo limite veniva attuato anche in sede di successione attraverso due grandi istituti (fede commesso e magior ascato). In questo modo il proprietario diventava un po' l'amministratore dei beni, che egli era tenuto a mantenere integro e a devolvere alla morte in modo pre-determinato. Dunque vi è una restrizione diacronica. Ma vi era anche una naturale restrizione sincronica, conseguente alla prevalenza del possesso rispetto alla proprietà formale. Infatti un medesimo bene poteva essere in realtà soggetto a diritti esercitati da persone diverse in modo concorrente. Tali persone che esercitavano questi diritti usufruivano del bene ciascuna traendo da esso una propria utilità, una rendita o un'utilità materiale. Tutti dunque avevano un proprio potere sulla cosa, autonomo rispetto al potere dell'altra persona, così che il bene si trovava sotto il dominio di più persone; la cosa serviva a più persone in un dominio di regime diviso. Nessuno poteva alienare completamente il bene, al più poteva alienare il suo diritto. Il diritto romano vice-versa presentava una proprietà non caratterizzata in senso astratto, ma era definito come diritto di usare e abusare del bene. Un diritto quindi sufficientemente libero, che subisce una forte restrizione da parte dei diritti barbarici con il consenso del diritto canonico. Collegata a questa struttura vi è la struttura dei diritti politici: infatti il diritto medioevale conosce, presenta un rapporto strettissimo tra il dominio sulle cose e il dominio sulle persone. Sia come patrimonializzazione del diritto politico sia come politicizzazione del diritto patrimoniale: infatti sul primo versante i diritti politici, cioè i diritti giurisdizionali, fiscali, dell'esercizio della iuris dictio sono tutti concepiti come attribuzioni patrimoniali dei signori: fanno parte del loro patrimonio e perciò sono suscettibili di transazione economica, di un'attività giuridica (possono essere ceduti, donati, dati in pegno, in garanzia, pignorati da un terzo.). Dall'altra parte, politicizzazione: il bene ingloba infatti i diritti politici (la proprietà di un terreno ti fa diventare signore di quella terra). Dunque tutti i beni vengono distribuiti attribuendo a ciascun bene un signore e ad ogni signore un bene. Questi contrasti sono il terreno su cui opera l'interpretazione del giurista, che utilizza i principi di interpretazione del diritto romano per conciliare le diverse fonti nella soluzione del caso concreto e nella questione del diritto. Naturalmente l'applicazione del diritto romano non traeva dal diritto romano una sorta di "sistema globale", un complesso di organismi ordinati; il diritto romano dava al giurista una collezione di soluzioni in cui il collegamento fra esse era assai debole e che dunque postulava una incorporazione della questione del diritti caso per caso, atomizzata.



Il quadro presenta dunque una situazione in cui l'europa, la società europea coinvolge anche il mondo anglosassone (anche se lì il diritto comune è invece diritto regio). Il diritto in questione è impregnato sul feudalesimo mentre l'arco storico che compie il diritto continentale è un itinerario di progressivo abbandono della matrice feudale, che avviene ufficialmente con la rivoluzione francese. Da un lato nella società medioevale abbiamo il diritto romano, dall'altro quello canonico, infine i diritti propri. Nella dialettica fra diritto romano e canonico il diritto romano assume la funzione di disciplina dei diritti temporali, mentre il diritto canonico assume la funzione di disciplina generale dei diritti spirituali. Anche nel diritto canonico c'è la diatriba fra diritto locale e comune. L'esistenza di più diritti diversi, sincronica e diacronica, costituisce il tratto caratteristico del sistema diritto comune definibile come pluralismo giuridico. Definiamo cosa sia il pluralismo giuridico: è il carattere proprio di una situazione in cui distinti complessi normativi dotati di legittimità e contenuti differenti coesistono nel medesimo spazio sociale: occorre cioè che vi sia uno spazio/società omogenea, che sia un confine dove ordini giuridici abbiano vigore. È evidente che questa non è la situazione odierna, dove un ordine giuridico, quello dello stato, ha la pretesa di definire in forma monopolistica tutto il diritto. Oggi l'unico ordine giuridico assoluto è quello dello stato (quando noi avessimo una cittadinanza europea cambierebbe il nostro ordinamento giuridico, che diverrebbe quello europeo). La situazione europea medioevale presentava invece la coesistenza di differenti elementi autonomi tanto nel senso "del titolo legittimante l'ordinamento, nel senso che la vigenza di ciascuno non deriva da un altro, quanto nel senso della differenza di contenuto". Questa situazione pone dei problemi di applicazione del diritto, la macchina costituita dal diritto per muoversi ha bisogno di un motore. Il motore è il legislatore. Questa macchina funziona dunque attraverso l'interpretazione, attraverso il lavoro del giurista. La prima considerazione da fare è che il diritto comune costituisce il diritto generale: il diritto generale rappresentato da un enorme complesso di norme che si consideravano provenire dalla ragione naturale. Non è un caso che il corpus iuris fosse considerato dai giuristi medioevali un libro caduto dal cielo, qualcosa che è stato donato all'uomo per regolare i suoi rapporti sociali. La costituzione fondamentale a cui riferirsi è un passo del digesto che è una costituzione famosa che prende il nome di "omnes populi", tutti i popoli che si governano attraverso leggi ed usi utilizzano un diritto che per aprte è loro proprio e per parte è matrice comune di tutti gli uomini. Ciò che ogni popolo stabilisce in comune per se come diritto è proprio di quella città e si chiama diritto civile, come a significare che esso è appunto diritto proprio di quella città. Invece ciò che la ragione fissa fra gli uomini è osservato dappertutto ed è chiamato ius gentii, a significare ciò che tutte le nazioni usano. È evidente che il contenuto della sovranità per un uomo del medioevo e perciò per un giurista del medioevo è differente dal concetto di sovranità dei nostri giorni. La nostra sovranità postula che all'unità e all'esclusività del diritto ufficiale corrisponda l'indivisibilità del potere politico. La sovranità medioevale invece afferma l'esatto contrario ossia che la pluralità dell'ordine giuridico si fonda sulla divisione del potere politico.



La ragione naturale che stabilisce il diritto fra tutte le genti non identifica un diritto astratto pre-sociale, e non è la ragione dell'uomo depurato dal contingente ma viceversa identifica un diritto comune come diritto concretamente osservato da tutti gli uomini. Tanto è vero che dalla esistenza di un diritto comune (ius gentium) non scaturiva automaticamente l'attribuzione a quel diritto del requisito della superiorità. Il diritto comune non è un diritto gerarchicamente superiore, che escluda in caso di conflitto il vigore del diritto inferiore (locale) e ciò perché dalla ragione naturale discendeva anche il principio, la regola stabilita in generale dalla ragione per adeguarla alla propria situazione compelta. E ciò perché la realtà è così multiforme, così piena di diversi casi che si può legittimamente concepire come il conseguimento, il seguire la sequela di talune particolari utilità richieda la correzione della norma generale. I giuristi trovano questa regola fondamentale in due passi del digesto: il punto è "plures sunt casus quam leges" dove si dice "né le leggi né le norme emanate dalle assemblee possono essere redatte in modo da comprendere tutti i casi che una volta o l'altra possono verificarsi. Basta dunque che contengano quelle che contengono quelli necessari alla maggior parte dei casi". Nel codice Napoleone invece questa pluralità dei casi della vita rispetto alla legge costituisce un vincolo negativo, tradizionalmente insuperabile senza l'intervento dell'interpretazione. Dunque la pluralità dei casi giustifica una legge che non sia esaurita e che perciò sia deregata tutte le volte che intervengono delle particolarità. Il digesto dice: il diritto singolare è quello introdotto per lo scopo di servire a qualche utilità particolare anche contro (il tenore della) ragione. Questo meccanismo consentiva di attribuire al diritto come una funzione integrativa, sussidiaria, interveniva solo dove il diritto particolare non lo avesse messo in secondo piano. Tuttavia essendo diritto generale esso aveva una potenziale applicabilità generale. Ciò significava che si applicava a tutte le situazioni non coperte da diritti propri. Da questo rapporto dialettico di sussidiarietà scaturiscono conseguenze per i diritti locali che derivavano dalla loro natura di diritti propri: infatti non ammettevano l'applicazione per analogia da un ordinamento all'altro, ma potevo trarre dal diritto proprio regole giuridiche generali, doveva essere interpretata in forma ristretta. Viceversa nonostante la funzione esclusivamente sussidiaria che il diritto comune possedeva e nonostante vi fosse un passo del digesto che diceva che le regole del diritto non possono essere applicate/seguite in quei domini là dove, attraverso un diritto particolare fosse stata posta una norma contradditoria della regione del diritto, i giuristi formatisi nell'ambito della riflessione dogmatica del diritto comune tendevano ad applicare al diritto particolare i canoni interpretativi e concettuali propri del diritto comune. Naturalmente l'equilibrio tra diritti propri e comune non era semplice: si pensi che la definizione dell'ambito di applicazione dei diritti propri, la decisione sull'esistenza o non esistenza di lacune, spettava nell'ambito del diritto comune, così come la elaborazione delle teorie generali. Ciò significava che il diritto comune, i giuristi di diritto comune possedevano il potere di definire, costituire i fondamenti del dispositivo dogmatico del diritto. In ogni sistema c'è il soggetto che definisce la costituzione dei fondamenti del dispositivo dogmatico del diritto e si tratta di un potere che si esprime a livello giuridico e che ha un elevato interesse politico. I diritti propri che dialettizzavano al diritto generale comprendevano un ventaglio di situazioni diverse tante quanti erano gli ordini politici: e perciò gli ordini dei regni, i diritti della città, gli usi locali, i privilegi territoriali corporativi familiari e personali. I diritti dei regni possedevano un valore proporzionale alla qualità reale della giurisdizione posseduta dal rex, dal sovrano. Fondamento del diritto è "Il re che non riconosce alcun superiore, nel suo regno è come l'imperatore". La assolutezza della giurisdizione regia aveva un profondo significato politico perché affermava, dava alla sovranità un contenuto che in embrione è quello proprio del nostro ordinamento politico/giuridico ma tuttavia non aveva almeno inizialmente grandi applicazioni pratiche per la rivelazione tra diritto del regno e ius comune. Tuttavia su questo piano produceva una riduzione fondamentale della ragione, dei presupposti della validità del diritto comune nel regno. L'assolutezza del diritto sovrano produceva l'elisione del primo dei due fondamenti. Postulava che il diritto romano e comune fosse applicato nel regno in virtù del suo potere. Trovava applicazione in rapporto ai diritti dei regni per la sua razionalità e ragionevolezza. Ma questo poneva un problema dovuto alla possibilità di distinguere nelle fonti del diritto comune le norme delle regole conformi totalmente alla buona ragione e altre che invece non lo erano totalmente. Da qui il potere dunque di ripudiare anche l'applicazione di una parte del diritto comune, cioè di quella parte che non veniva considerata conforme alle regole della buona ragione. Ciò era possibile anche perché la forma di giustificazione della juris dictio del sovrano implicava che anche il diritto del sovrano avesse un requisito di diritto comune, fosse anch'esso diritto comune e quindi possedesse una intrinseca razionalità e ragionevolezza. Sicché un tale diritto poteva porsi in modo antagonista rispetto al diritto comune imperiale.



Il titolo di re dava contenuto particolare tra governante e governati, tanto che il digesto attribuiva al re il fatto che ciò che era gradito al re aveva valore di legge. La legge regia ha attribuito al sovrano l'imperium sui sudditi. Il re si trovava a metà fra dipendenza dell'imperatore e il consenso dei sudditi. Questo era uno degli elementi per i quali c'era un diritto di resistenza verso il sovrano, nel caso in cui il sovrano emanasse norme ingiuste, i sudditi potevano trasgredirle. Questa relazione fra diritto dei regni e potere reale creava dei meccanismi sul primo dei rapporti fra diritto regio e diritti locali inferiori, meccanismo per cui la relazione funzionava secondo modalità diverse da quelli che regolavano il diritto comune generale e diritti locali. In particolare dalla supremazia del potere reale sui sudditi discendeva una regola che non si applicava ai rapporti tra ius comune e diritti locali, secondo la quale la legge superiore deroga alla legge inferiore e perciò la legge inferiore non può derogare alla legge superiore. In questo modo il diritto del regno era politicamente sovraordinato ai diritti emanati dai poteri inferiori del regno. Il che non avveniva nel rapporto fra diritti locali e diritto comune generale. Quindi il diritto regio deve prevalere sui diritti locali. Questa affermazione è vera purchè circostanziata. Questo è il principio politico bilanciato con il principio di specialità, per cui questa supremazia non escludeva che potesse valere all'interno del regno nei propri ambiti rispettivi diritti speciali di corpi politici di natura territoriale o personale (purché questi corpi non mettessero in discussione la supremazia politica del sovrano). Ciò nasceva anche dalla dimensione feudale della società che, consentendo una struttura cetuale dell'organizzazione sociale, automaticamente richiedeva la moltiplicazione di ordini giuridici particolari, tutti protetti dalla regola della preferenza del particolare sul generale. Questa concezione derivava dal tomismo, cioè dal fatto che l'uomo non era un atomo, aveva portata reale. Allora nel rapporto fra diritti locali e diritto del regno le norme particolari soggiacevano alle norme del regno (diritto comune del regno) in quanto ad esso sovraordinate sul piano politico, tuttavia potevano adesso derogare in quanto manifestazione di un diritto speciale, valido nell'ambito della giurisdizione dei corpi dai quali questi diritti provenivano. In questo modo esse erano difficilmente penetrabili, quasi intoccabili, perché traevano la loro forza da gruppi, strutture politiche dotate di una capacità di auto-governo che traeva la propria origine dal diritto naturale (perché era naturale la struttura dei soggetti che componevano questi gruppi. Se le circostanze della vita di un individuo non erano meri accidenti ma definivano la sostanza del diritto, questi effetti sul piano politico del soggetto rispecchiano l'identità delle circostanze medesime). Questo sistema pluralistico non era soltanto sincronico ma anche diacronico: le nuove norme dovevano mantenersi pertinenti alle norme precedenti. Dunque diritto nuovo e vecchio anche se divergenti si accumulavano e potevano essere chiamati a risolvere una determinata questione. Il sistema si presenta dunque a geometria variabile, nel senso che l'ordinamento giuridico è un agglomerato di norme, che possiedono una provenienza diversa, che possono anche essere incompatibili e che sono prive di norme di conflitto, cioè di norme che decidono quali norme applicare in un determinato caso concreto. Esistono invece dei principi che in qualche modo aiutano l'interprete a sciogliere il conflitto: il diritto comune generale sussidiario al diritto proprio, ma ci sono principi che contraddicono questi principi. Questa assenza di norme, di criteri che in modo ordinato siano in grado di sciogliere i conflitti è l'effetto e la conseguenza di un carattere basilare dell'esistenza di un diritto comune che è il seguente: carattere secondo il quale lo scopo del sistema giuridico non consiste nel ridurre ad unità la pluralità delle diverse fonti e norme che lo alimentano. Lo scopo del sistema è invece quello di mantenere una sistematica armonia fra le diverse norme e fra le diverse fonti in modo tale che nessuna di esse debba mai essere assolutamente sacrificata, ma lo sia al massimo in modo relativo, cioè circostanziato. La regola dunque era la seguente: l'interpretazione deve essere fatta in modo da evitare la correzione, la contraddizione, il ripudio di talune norme da parte di altre. L'armonizzazione secondo la quale tutte le nozioni devono valere integralmente e magari una norma che in una certa regola verrà in quel caso, non avrà valore in un'altra regola. In questo modo ogni norma finisce per costituire piuttosto che una soluzione del caso una prospettiva di soluzione del caso, prospettiva che contribuirà a risolvere il caso in modo maggiore o minore non soltanto a seconda del posto che quella norma occupa nel sistema delle fonti, ma anche in dipendenza della valutazione che l'interprete compie di quanto quella norma si adatti a risolvere il caso. Dunque la norme non sono dei comandi, ma piuttosto sono segni di argomentazione, sono sostegni provvisori alla soluzione, i quali nel procedimento volto ad individuare la soluzione saranno accolti o non accolti a seconda della prospettiva di soluzione che dischiudono. Tutto ciò ci dice che la regola sistematica che definisce preventivamente il quadro delle norme e delle fonti fissando una volta per tutte la relazione gerarchica fra di esse. La regola di conflitto è invece ciò che viene definito arbitrio iudicis, l'arbitrio del giudice, che viene utilizzato nella valutazione del caso concreto. Che non significa arbitrarietà, ma individuazione caso per caso della soluzione più adeguata individuata attraverso il bilanciamento delle varie norme disponibili nella prospettiva costante dell'armonizzazione delle norme di cui abbiamo parlato. Questa architettura è fatta dai giuristi che sono divisi in due scuole: la scuola della glossa e la scuola del commento. Ci saranno quindi due metodi e ciascuna porta un certo contenuto. La scuola dei glossatori nasce intorno al 1150 per opera di un certo Irmerio che comincia ad insegnare il diritto universitario a Bologna. Il più famoso esponente è Accursio che vive nel XIII secolo (1180-1260) a cui si deve l'opera fondamentale di questa scuola che è la magna glossa (o glossa ordinaria). Le caratteristiche principali sono la fedeltà al testo giustinianeo, il carattere analitico e il carattere non sistematico. La metodologia è quella di una lettura da cui scaturisce una spiegazione del significato delle parole e del senso che esse racchiudono (non quindi della ratio, perché è un'attività tutta accademica, non ha preoccupazioni pratiche). Un'analisi perciò in cui ogni testo giuridico è visto in modo indipendente da altri testi, non vi è in linea di massima la preoccupazione di collegare fra loro testi diversi. Lo strumento principale è la glossa, breve spiegazione di un passaggio del corpu iuris. Altri strumenti sono la summa, le regole, i casi, gli argomenti,.Il contributo fondamentale è quello di aver riproposto prima di tutto un linguaggio tecnico del diritto, ossia l'individuazione di una terminologia tecnica e di un complesso di concetti e categorie proprie di un nuovo sapere, la giurisprudenza. Sapere che dunque presenta una sua autonomia e una sua configurazione razionale. L'impatto pratico di questa scuola è inferiore a quello della scuola dei commentatori, nel senso che forse questa scuola tende a creare dei dotti sul diritto, piuttosto che degli operatori del diritto. Del diritto non viene colta la strumentalità ai fini della vita pratica, ma il valore di un complesso di dati da utilizzare in senso scientifico. Questo passaggio sul piano pratico si compie con la scuola dei commentatori e si compie per necessità, perché alla fine del '200 vi è un rifiorire della vita economica e sociale che gravita interno alla strutture feudali della città. Questa esplosione della vita cittadina e della dimensione economica si esprime attraverso una valorizzazione dei diritti locali che rappresentano la dinamicità dell'esperienza rispetto ad un diritto romano che era stato coltivato fino ad allora prevalentemente sul terreno dell'accademia e che più aveva influito sulle attività delle cancellerie imperiali o reali. Se una qualche conseguenza pratica dell'attività di glossatori vi era stata, questa era avvenuta nell'ambito delle diverse curie.. lì gli eruditi avevano avuto modo di utilizzare la loro conoscenza. Ma questa non è ancora un'attività in senso pratico propria. Questo passaggio si compie con la scuola dei commentatori.


La scuola dei commentatori è un passaggio necessario della storia giuridica medioevale. Dimensione feudale dell'esistenza permane ma come dimensione nei rapporti. Nuova metodologia induce un processo di aggiornamento e di semplificazione del sistema del diritto comune. Questo processo, che si sviluppa ruotando attorno a due fattori principali fra di loro collegati, rappresentati dall'assorbimento della visione agostiniana del rapporto tra natura uomo e divinità a favore di una visione scolastica delle medesime relazioni e l'impiego dei testi del metodo aristotelico: la logica fu sviluppata da una scuola del commento, denominazione data dagli storici. Gli esponenti principali di questa scuola sono Cino da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato e Baldo degli Ubaldi; anche Ockam appartiene a questa scuola. Il massimo splendore di questa scuola non supera la meta del 400 (pace di Lodi). Alla base dell'esperienza giuridica dei commentatori vi è innanzitutto un'equiparazione fra diritto vissuto e diritto contenuto nelle fonti della tradizione romanistica. In secondo luogo c'è un nuovo e diverso atteggiamento di fronte alla relazione che s'instaura fra verità e realtà, diversa percezione del rapporto fra verità e realtà che è una reazione di fronte alle correnti agostiniane; correnti che sono più integraliste nel senso che le correnti agostiniane tendevano a porre la risoluzione di tutti i problemi attraverso un'attenzione, una focalizzazione della verità rivelata e quindi con l'impiego diretto ed immediato delle sacre scritture. Questo atteggiamento, già con i glossatori, viene messo in discussione ma è con i commentatori che viene superato attraverso una conciliazione tra fede e ragione. Questo significa che nelle discipline mondane (diritto, morale, filosofia) si può procedere anche con strumenti che integrino quelli forniti dalle sacre scritture e dunque che consentano un libero impiego della ragione. Da qui un atteggiamento che è ad un tempo realistico e razionale; realistico perché non si tratta di investigare ciò che i testi sacri ci dicono sulle cose, sulla realtà e quindi sulla natura della realtà, ma piuttosto di indagare ciò che la realtà direttamente ci dice; d'indagare cioè quanto della sua natura la realtà ci comunica.

Da questo, una maggior libertà non nei confronti dell'oggettività delle cose ma nell'utilizzo degli strumenti d'investigazione e infatti è ben chiaro che tanto per i glossatori quanto per i commentatori, l'ordine giuridico rappresenta un dato fondamentalmente indiscutibile che però, per i commentatori, occorrerà investigare con l'impiego di mezzi logico dogmatici nuovi tratti dalla scienza profana, dalla filosofia aristotelica (che è una scienza profana) e che consente di creare nuove soluzioni dogmatiche che dilatano l'ordine giuridico. Un metodo nuovo impiegato dalla scienza giuridica, produce nuove norme. La diversa interpretazione che il giurista da di una norma costituisce una norma nuova; modificano le circostanze di tempo e di luogo e in questo modo modificano anche la norma.

Questa svolta dei commentatori permette ai giuristi medioevali di penetrare tutto il tessuto sociale con l'impiego delle categorie giuridiche tratte dallo studio dei testi del corpus iuris. Questo modo di procedere, con l'applicazione del metodo scolastico all'ordine giuridico, consente di creare innovazioni dogmatiche che, venendo incontro, rispondendo all'aspirazione di normatività, divengono dati permanenti e consolidati della dottrina giuridica dell'età medioevale e moderna. Queste innovazioni dogmatiche sono:

1) teoria del dominio diviso, della pluralità delle situazioni reali. La dottrina medioevale concepiva il dominium (come diritto su una cosa) come diritto non esclusivo, come diritto cioè in grado di contenere integralmente la propria identità di dominio pur coesistendo con altri diritti, di altri titolari su una medesima cosa. Questa soluzione è possibile perché il giurista del medioevo vede in ogni cosa una sentenza unica, ma diverse e molteplici utilità; anche per noi da un certo punto di vista è così ma l'utilità delle cose per il giurista medievale avevano un valore assoluto, cioè vivevano di vita propria; dunque su una medesima cosa vi erano più utilità e quindi più diritti. Questa costruzione dogmatica che consente l'esercizio di più diritti su un medesimo bene in modo contemporaneo veniva chiamata teoria del dominio diviso, che prevedeva basilarmente due grandi categorie: a) i titolari del dominio diretto, cioè coloro che vantavano un diritto sulla sostanza della cosa (magari un diritto solo formale). b) i titolari di un dominio utile, cioè titolari di utilità, i cosiddetti utilisti. I titolari del dominio diretto erano titolari di un'azione diretta; gli altri erano titolari di un'azione utile che scaturiva dal rapporto diretto di utilizzazione e impiego della cosa.

2) Coniugazione tra applicazione spaziale e applicazione personale degli ordinamenti giuridici. Tra XI e XII secolo si assiste ad una tendenza a considerare il diritto come emanazione del potere politico che lo emana. In questo modo vi è una coincidenza fra gerarchia politica e gerarchia giuridica. Si assiste così ad una compresenza di entrambe le figure, di entrambi i principi: quello dell'applicazione personale e quello dell'applicazione territoriale. I giuristi, dunque, si trovano a dover conciliare il criterio della pertinenza nazionale con quello della soggezione politica. Questa conciliazione pone capo all'affermazione di un principio basilare che è il seguente: "la portata dell'applicazione delle norme è legata alla portata del potere che le emana". Da qui una moltiplicazione di regole, che sono quelle proprie del nostro diritto contemporaneo; ad esempio i contratti e i testamenti sono retti dalla legge di luogo della loro celebrazione secondo il principio della rex actus, il processo è retto dalla legge del foro, lo statuto personale di un individuo è disciplinato dalla legge nazional edell'interessato, la situazione giuridica degli immobili della legge del luogo in cui essi si trovano, gli atti propri del potere politico della legislazione del territorio. Dunque nella conciliazione tra criterio della pertinenza nazionale e criterio della soggezione politica, i giuristi mettono capo all'adozione di soluzioni casistiche prive di criteri predefiniti, rigidi, astratti, immobilistici. Noi oggi abbiamo dato a questi schemi un significato prettamente dogmatico.

3) Teoria della naturalità del potere politico; fa riferimento alla giustificazione, cioè all'individuazione dell'origine e dei caratteri di legittimità del potere politico, il che equivale a dire, individuare l'origine e i caratteri di legittimità della facoltà di emanare norme giuridiche e di dichiarare diritto. I commentatori ereditano dall'altomedioevo una concezione autoritaria dello ius dicere, secondo la quale questo potere era considerato come un attributo del principe in quanto successore dell'imperatore e vicario di Cristo secondo la formula "nulla potestas nisi a deo" (non esiste nessun potere se non quello di Dio); dunque vi è una sorta di delega giurisdizionale. Questa formulazione presenta un forte accento pubblicistico dello ius dicere. Coi commentatori questa concezione si sviluppa grazie alla riflessione aristotelica e all'indagine sul mondo della natura sviluppata considerando la natura, le cose capaci di una autonoma comunicazione del loro significato. Dunque attraverso l'impiego di questo metodo, il potere normativo e giurisdizionale viene concepito come dotato di un'origine naturale indipendente da qualsiasi concessione superiore. Si tratta allora per i commentatori non di affermare questa teoria in modo assoluto a scapito di quella precedente, ma di conciliare l'una con l'altra.



Il basso medioevo introduce una configurazione che ha una componente naturalistica. Questa concezione teorica, che trova il proprio migliore esponente in Baldo, riflette invece una concezione scolastica, tomistica del cosmo e fa si che il potere politico sia concepito come un dato che attiene alla natura delle cose, all'ordine proprio delle cose sicchè come la natura ha un suo ordine, anche l'ordine umano ha un suo ordine. Un ordine che fa si che i popoli esistano come insieme organizzato in virtù del diritto naturale, che noi sappiamo essere in quest'epoca diritto delle genti, e fa si che le comunità degli uomini possano autoorganizzarsi. Dice Baldo commentando quella costituzione, la legge omnes populi del Digesto 1,2,1 "i popoli esistono in virtù del diritto delle leggi e il governo non può esistere senza leggi e statuti, perciò il fatto stesso che i popoli esistano produce la conseguenza che essi abbiano un governo estrinseco alla propria esistenza come gli animali hanno il loro". La comunità esiste come diritto delle genti; questa comunità per il solo fatto di esistere come insieme organizzato di uomini, esprime un governo; il governo emana norme, leggi e statuti che devono essere conformi alla natura della comunità, cioè al diritto delle genti. La forma provvidenziale conduce al risultato di ammettere il governo tirannico. Si ha una visione cosmologica diversa. In questo modo, il potere non è gerarchizzato ma diffuso. Il potere dunque è polverizzato in una società organizzata, occorrerà distinguere vare ambiti del potere; e qui si inserisce la scuola del commento nell'affermare che l'identificazione dei diversi ambiti del potere implica una gerarchia del potere stesso, dunque così conciliando agostinianesimo e tomismo scolastico. Dunque conciliazione delle due tesi attraverso una gerarchizzazione del potere politico diffuso nella società e perciò definizione gerarchica dello ius dicere, cioè del potere normativo e giurisdizionale.

I commentatori quindi distinguono vari livelli di iuris dictio e dunque per entrare in una certa casistica distinguono tra iuris dictio ordinaria che è quella stabilita dalla legge o dalla consuetudine e che perciò è generale dalla iuris dictio delegata che è quella concessa, contenuta in un provvedimento concessionario (la iuris dictio del vassallo è una tipica iuris dictio delegata).

Un secondo livello di distinzione della iuris dictio è costruito è individuato con riferimento ai tipi di potere politico da cui la iuris dictio deriva o a cui la iuris dictio è intimamente collegata. Il primo e principale di questi livelli è l'imperium, che è l'insieme dei poteri che il titolare del potere politico esercita per iniziativa propria. L'imperium si distingue a sua volta in merum, che è la giurisdizione che si esercita per iniziativa propria o mediante imputazione e che ha come scopo la pubblica utilità; questa ingloba tutte le facoltà politiche di livello superiore che mirano l'utilità della comunità considerata nella sua totalità e mixtum imperium, cioè la iuris dictio che si esercita esclusivamente per iniziativa propria e che ha lo scopo di una qualche privata utilità. Dunque il mixtum imperium è quell'imperium che si esprime in facoltà di azione autonoma da parte del titolare del potere politico che ha come scopo la realizzazione di un interesse non comune ma particolare. Non vi è separazione fra pubblico e privato; la iuris dictio era fra pubblico e privato e così non vi è neppure divisione tra titolare di un potere politico e titolare di un potere giurisdizionale ma ciascun soggetto ha una sua iurisdictio. Il primo profilo, cioè la non separazione tra pubblico e privato trova una sua ragione d'essere nella configurazione agostiniana della cosmologia, perché questa catena ininterrotta di passaggi evita la struttura fra pubblico e privato. L'altro profilo è invece tipicamente tomistica, cioè ha una sua intima ragione nel tomismo scolastico perché è una diffusione del potere (in età moderna il potere è diffuso). Questa è la costruzione della iuris dictio. Questa composizione nella configurazione dell'albero della giurisdizione che porta ad una dimensione del potere normativo, giurisdizionale, insieme naturalistico e gerarchizzato è frutto della scuola del commento e consente ai giuristi medievali di giustificare la pluralità e la coesistenza armonica di poteri all'interno della società che ha quindi una consistenza corporativa; la consistenza corporativa però non attiene alla dimensione economica, è un profilo sociale che esprime la conciliazione tra due aspetti, pluralismo e gerarchizzazione del potere, che a noi di per se parrebbero inconciliabili perchè, infatti, se il potere è gerarchizzato di per se non può essere pluralista ma monista. Questa costruzione, di cui abbiamo le principali categorie dogmatiche, produce sul piano sociale l'elevazione a corpo determinante i processi di evoluzione della società dei giuristi a corpo determinante l'evoluzione dello sviluppo della società; i giuristi cioè svolgono in questo contesto un ruolo centrale nell'equilibrio politico e sociale europeo, prima con i glossatori nell'amministrazione centrale dei regni, dell'impero, del papato; poi nelle amministrazioni locali e nell'applicazione della giustizia, penetrano fin negli aspetti più specifici della vita quotidiana della società europea.



L'ultimo passaggio è l'individuazione del modello discorsivo del diritto europeo. In qualche modo questo modello è applicabile anche, in parte, al diritto inglese, a condizione che alla dialettica tra diritto romano e i diritti locali propria dell'area di civil law, si sostituisca la dialettica del diritto normanno, diritto sassone, che è propria del sistema common law. La funzione di organizzazione concettuale del discorso giuridico che nel sistema di civil law viene svolta dal diritto canonico, viene svolta invece nel sistema di common law dall'equity imperatrice dell'organizzazione concettuale del discorso giuridico propria del diritto romano canonico. Da questo punto di vista, questa marginalità del diritto romano canonico nell'ambito della common law contribuisce a caratterizzare la giurisprudenza, il sapere giuridico di common law come giurisprudenza, il sapere giuridico di common law come giurisprudenza totalmente giurisdizionale contrapposta invece alla giurisprudenza dottrina che è tipica dei sistemi di civil law. Dunque nella giurisprudenza anglosassone avremo un incidere del diritto per casi, mentre nel mondo di civil law avremo un procedere del diritto per questioni. Ciò spiega perché il diritto anglosassone sia tendenzialmente più povero del diritto continentale. Gli interpreti della civil law sono i giuristi. È la loro categoria dei giuristi che assolve il compito di risolvere le controversie sociali con il ricorso ad una tecnica sufficientemente complessa per non essere impiegata dall'uomo comune. Abbiamo detto che i due grandi filoni che si contendono la cultura giuridica e non giuridica medievale sono agostinianesimo e tomismo. Questi due filoni presentano un'idea dell'origine di ciò che sia giusto e perciò della natura del giusto, e dell'origine del diritto profondamente differenti. In verità possiamo dire che origine del diritto e natura del giusto sono i temi di ogni epoca e di ogni uomo. Agostinianesimo e tomismo danno due risposte differenti che rendano conciliate nella cultura giuridica medievale e che presentano due canoni di risposta che, nel tempo, si incrociano, s'intrecciano, si rincorrono l'uno contro l'altro. Queste due linee di pensiero sono il volontarismo e il razionalismo. Il volontarismo ci presenta il diritto, risponde alla domanda dove stia l'origine del diritto, affermando che esso è il prodotto di una volontà. Poco importa quale sia e di chi sia questa volontà; dunque se è una volontà, al di là di tutte le modalità di ammorbamento di questa volontà, l'origine del diritto è arbitrario perché la volontà fa sempre riferimento ad un arbitrium; quindi, il contenuto di questa volontà è arbitraria.

Il giurista dunque, in questo caso, svilupperà un'attività, un modo per scoprire ciò che è giusto consiste nell'interpretazione, con un atteggiamento il più umile possibile, della volontà del soggetto che ha voluto il diritto. In questo contesto il diritto dunque diventa un dato tendenzialmente indispensabile a cui l'interprete, altrettanto tendenzialmente deve ubbidire. Per il razionalismo, invece, il diritto si presenta come un ordine prestabilito collocato, la cui origine dunque sta nella natura che potrà essere, anche qui, umana o nella natura delle cose. Investigare il giusto sarà un compito che l'interprete svolgerà con un uso adeguato della ragione. Laddove il termine adeguato implica un uso della ragione funzionale al punto in cui sta l'origine del diritto. Questi due grandi filoni producono conseguenze opposte. Quando nelle epoche in cui predomini l'atteggiamento volontarista, più che pensare il diritto, di per sé di sviluppa un atteggiamento di obbedienza al diritto in quanto esiste un margine molto ridotto per l'esercizio di un'attività dottrinale autonoma sul diritto. Infatti un'attività dottrinale autonoma sul diritto è una via raziocinante d'accesso a ciò che è giusto. Viceversa, nelle epoche in cui predomina il razionalismo, si dovrebbe individuare una tecnica più o meno rigorosa per trovare la via raziocinante al giusto. In quest'epoca il giurista è preoccupato di trovare le regole appropriate dello svolgimento del pensiero giuridico. In concreto, se andiamo a vedere storicamente le epoche di più grande sviluppo della dogmatica giuridica, noi verifichiamo che esse sono quelle in cui paradossalmente domina una concezione volontarista e positivista del diritto, cioè epoche in cui le norme poste dalla volontà di un ente sono in genere dotate di una forza tale che impedirebbe di derogare ad esse.

Questo capita perché in realtà la soluzione normativa posta dalla volontà dell'ente non sempre è in condizioni di corrispondere alle condizioni concrete storiche; in questo caso, allora, la giurisprudenza risponde a questa frizione tra norma pur autorevole e contesto, attraverso un'interpretazione particolarmente elaborata, cioè con l'impiego di strumenti concettuali più complessi di quanto sarebbe richiesto in un contesto che non soffra questa lontananza tra norma posta dall'ente e domanda normativa richiesta dal contesto, dalla società. Strumenti concettuali che conducono non ad applicare la norma ma ad ottenere la norma indesiderata, simulando o meglio di dissimulata da un'altra affermata applicazione. Possiamo dunque dire che la nascita della dogmatica giuridica è da un lato sicuramente legata ad una valorizzazione, ad una fede nella capacità di applicare (rettamente) la ragione; dall'altro lato è legata da una necessità, imposta dalla pratica, di usare lo strumento razionale per aggiornare, derogando ad esse norme che di per se sarebbero considerate inderogabili. Questo è quanto si compie anche in epoca medievale.

La formazione della dottrina medievale, da un lato è collegata, trova origine nella scolastica e perciò nell'affrancamento della ragione del volontarismo agostiniano, ma dall'altro trova la propria origine anche nell'atteggiamento dei giuristi diretto a rispettare l'autorità dei testi normativi della tradizione giuridica; un atteggiamento questo che li obbligava a sviluppare un'imponente armamentario logico dogmatico per interpretare, cioè per adeguare alle circostanze dell'epoca in cui viviamo, le fonti della tradizione romana. La dogmatica giuridica medievale è il frutto di questi due diversi atteggiamenti: da un lato il rispetto della volontà del legislatore, quale esso sia; ma dall'altro liberazione della ragione; è la miscela di questi due atteggiamenti che consente di applicare, nel 1500, testi normativi di 1000 anni prima; naturalmente in modo fittizio, tanto è vero che si finge di applicare una norma del digesto, ad esempio, ma in realtà si applica l'interpretazione che il giurista dà di quella legge. Dunque convergono nella costituzione della dottrina giuridica medievale tre tipi di fattori:

1) fattore filosofico, che contribuisce allo sviluppo della ragione, all'affrancamento della ragione della volontà e perciò dell'arbitrarietà

2) carattere proprio delle fonti del diritto, che obbliga i giuristi a servirsi di quella ragione

3) un ambiente istituzionale favorevole alla ragione giuridica

Fattore filosofico: l'alto medioevo vive la propria esperienza culturale intorno al pensiero di Sant'Agostino. Per S.Agostino l'unica fonte del diritto è la volontà di diO. Volontà in generale considerata imperscrutabile, insondabile, però rivelata parzialmente dalle Sacre Scritture e percepibile nella storia dell'ordinamento provvidenziale che essa rivela. Da qui discendono tre conseguenze:

1) inesistenza di un ordinamento giuridico oggettivo naturale nel quale determinati atti fossero inevitabilmente e sempre condannati e altri, invece, sempre e necessariamente permessi. In questa prospettiva le cose non volute da Dio perché giuste, ma sono giuste perché sono volute da Dio.

2) La ragione non è in grado di comprendere quale sia il criterio della giustizia. Questo criterio, infatti, consiste nella pura volontà arbitraria di Dio, che non può essere compresa con i mezzi umani ma ci è comunicata con la rivelazione.

3) Dell'esistenza del diritto nella volontà di Dio, scaturisce un'accettazione dei poteri costituiti e perciò, conseguentemente un'accettazione dei diritti positivi terreni. Per quanto ingiusti o morali essi possano apparire in quanto essi avrebbero ragione d'essere nascosta, una parte decisiva nella storia della salvezza e perciò un senso occulto (esempio; Promessi Sposi dove c'è una forte componente di questo genere).

Dunque un volontarismo, un entirazionalismo un positivismo; sono questi i contributi che il pensiero agostiniano dà alla cultura medievale. Sono tutti contributi contrari alla costruzione di una scienza di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Allora, in questo quadro, il giurista può solo compiere una lettura modesta, può mantenere un ruolo di sottomissione, tanto nei confronti del diritto rivelato quanto verso il diritto positivo. Scrive S. Agostino "con l'ordine a Dio noi vivremo con giustizia". Questo panorama si modifica con il Basso medioevo, cioè con l'ingresso del XII secolo, con la rinascita dell'insegnamento laico, della filosofia e con lo sviluppo del sapere moderno, cioè con la scolastica. La scolastica parte per certi aspetti proprio da un profilo che scaturisce dal pensiero agostiniano, ossia dall'idea che non si potesse avvicinarsi alla verità. Da questa affermazione, la scolastica trae la conseguenza che a priori non si può escludere alcun punto di vista teorico su un certo problema. Dunque lo sviluppo del sapere, da questo punto di vista, avviene mediante il confronto delle diverse opinioni con il quale, più che individuare una soluzione definitiva, interessa porre la questione. Esemplari di questo metodo sono il "sic et non" di Abelardo, dove Abelardo non dà la soluzione. Vengono quindi messi sul tavolo i diversi punti di vista. Altro grande esemplare è la "summa teologica"di S.Tommaso in cui l'autore non rimane neutrale ma pone le diverse opinioni e poi dà la soluzione; in questo modo la verità non è un obiettivo che venga raggiunto attraverso l'indagine individuale; la ragione individuale non serve, la verità si può raggiungere solo attraverso un'opera collettiva a cui tutti collaborano con la discussione e il confronto di opinioni. Sicchè lo scienziato si pone in un atteggiamento umile mettendo in discussione la sua opinione con tutte le altre opinioni e la verità scaturirà dal confronto di queste opinioni. Dunque il sapere medievale non è un sapere sistematico ma un sapere problematico. Il sapere medievale non si preoccupa di collocare in un sistema tutte le soluzioni date ai problemi sorti; ciò che invece interessa è adeguare le soluzioni proposte ai dati concreti del problema al quale le soluzioni intendono rispondere; da ciò le conseguenze anche formulate dei testi del sapere medievale, che non sono costruiti secondo un'architettura armonica, logica; a noi appaiono come fondamentalmente disordinati perché sono una raccolta di soluzioni o situazioni controverse. Questo ha una profonda conseguenza sul piano del pensiero giuridico.





Nel medioevo c'è una forte presenza dei dogmi, dell'esperienza del dogma: il che è l'opposto di oggi. Il pensiero medioevale non è sistematico, perché non si preoccupa di creare un sistema, ma ciò che interessa è instaurare un rapporto adeguato fra dato concreto e soluzione. Questo meccanismo si riflette sul pensiero giuridico. La teoria agostiniana prevedeva una netta prevalenza delle norme da chi le poteva emanare. A questa si contrappone la concezione scolastica secondo la quale il diritto delle sacre scritture da una parte, e il diritto positivo (emanato dal re), questi due non costituiscono gli elementi decisivi per individuare lo iustum. Questo diritto "iustum", secondo la concezione scolastica è anteriore al diritto positivo ed è iscritto in un ordine naturale che è stabilito da Dio ma al quale egli stesso, Dio, obbedisce. L'ordine divino è in grado di stravolgere quello umano: secondo la teoria tomistica invece questi sono autonomi. Il diritto può essere individuato, studiato attraverso un uso corretto della ragione, cioè una recta-ratio, cioè un uso della ragione che obbedisce a regole determinate di ragionamento. Ma allora la conseguenza è che il diritto non è più tutto pronto nella fonte, il diritto che realizza la giustizia deve essere trovato in ogni momento attraverso un'appropriata tecnica investigativa, che si chiama "ars inveniendi" che dava spazio alla discussione e all'investigazione casistica. Una dottrina giuridica che abbandona la dipendenza dalla legge per costruire un complesso di strumenti adeguati ad individuare la soluzione giusta al singolo caso concreto, con un uso corretto della ragione applicata ai casi e ai fatti che si avvicinano al caso che deve ricevere soluzione. Devono individuare per il caso concreto la soluzione che più media fra la legge e il problema che deve trovare soluzione. Paradossalmente questa opera di mediazione è compiuta da giuristi che affermavano come dato inalienabile la fedeltà al testo normativo; ma da questa intangibilità del testo normativo scaturiva un metodo di indagine giuridica di carattere esclusivamente analitico. Il lavoro del glossatore si sviluppava con un'analisi indipendente di ogni testo giuridico senza che vi fosse la preoccupazione di mettere in relazione l'uno o l'altro dei testi analizzati. Che cosa allora consente di mantenere da un lato questo rispetto per il corpus iuris e per tutti gli altri testi normativi? Perché solo con il superamento della norma scritta è possibile individuare la soluzione per il caso concreto, attraverso una tecnica di investigazione piuttosto che attraverso il riferimento alla singola norma. Questo passaggio, da analitico a quello dei commentatori si compie con l'impiego della metodologia filosofica aristotelica. Anche per i commentatori l'ordinamento legale, il testo rappresentava un dato pressoché indiscutibile, tanto che i commentatori ritenevano che il compito di aggiornamento del diritto, cioè il compito di individuazione della soluzione giusta per il caso concreto dovesse essere realizzata all'interno di un ordinamento prefissato apparendo formalmente solo come un compito di semplice interpretazione. I meccanismi della logica aristotelica e perciò tomistica serviranno ai commentatori proprio per questo scopo, cioè di realizzare formalmente un'interpretazione della norma scritta, ma in realtà di sostituire ad essa le argomentazioni che la "recta ratio" consentiva di svolgere per individuare la soluzione per il caso concreto. Questo metodo porta a costruire una struttura del discorso giuridico del tutto particolare, la struttura discorsiva. Dal punto di vista formale l'opera di aggiornamento del diritto compiuta dai commentatori con l'ausilio dei nuovi strumenti logici del tomismo e dell'aristotelismo doveva svolgersi come interpretazione del diritto romano giustinianeo in vigore. Ciò significa che il giurista doveva partire dal testo normativo, di fronte cioè alla realtà di un sistema giuridico, di un sistema di norme caratterizzanti per trovare origine in una tradizione dotata di grande autorità il giurista nel compiere la sua attività di regolamentazione giuridica della nuova realtà sociale doveva partire dalle norme scritte. Questo vincolo però se correttamente mantenuto avrebbe dovuto condurre i giuristi ad utilizzare esclusivamente un metodo di indagine delle norme scritte di carattere esclusivamente un metodo di indagine delle norme scritte di carattere esclusivamente storico. Qualsiasi altro metodo produce un distacco delle soluzioni del testo normativo, perciò i giuristi svolgono l'attività di interpretazione del testo accertando non il significato astratto delle norme ma il suo significato proprio. L'interpretazione è tesa a scoprire nelle parole della legge i principi giuridici dominanti nella pratica ne nella cultura del tempo. Questo scopo viene realizzato sotto forma di interpretazione aderente al testo con una serie di strumenti logico-concettuali. Questi strumenti possono essere divisi in tre categorie:

1) l'opposizione tra spirito e lettera della legge. Questa opposizione tra spirito e lettera della legge costituisce una forma di procedere alla interpretazione innovatrice richiesta dalla necessità di applicare le norme del corpus iuris alle questioni, ai casi del tempo. Opposizione in cui il giurista fa prevalere lo spirito. Questa interpretazione si basa sulla filosofia del linguaggio. Medioevale che dice che le parole sono state create per dare conoscenza dei proprio pensieri. "Le parole sono i segni dell'anima". Se questa è la funzione allora sarà necessario andare a vedere ciò che le parole della legge prescrivono, cioè i contenuti che quelle parole intendono comunicare al lettore. Da qui la prevalenza del valore dello spirito piuttosto che della sua forma estrinseca. Infatti nel digesto noi troviamo il precetto "conoscere le leggi non è dominare la lettera ma il significato e l'intenzione". Se questa è la giustificazione teorica per la quale il giurista deve trapassare la lettera della legge, questo era l'unico modo per superare le difficoltà di alcuni testi del corpus, che gli interpreti volevano superare.

2) L'interpretazione logica: questa fu un procedimento conoscitivo del significato del testo applicato prima che dai giuristi dai teologi. L'interpretazione era un procedimento intermedio fra interpretazione letterale dei testi e la interpretazione spirituale, che disprezzava il testo, nel quale vedeva un simbolo, che rinviava ad un significato esterno alla configurazione testuale. L'altra analizzava il testo come "ratio", espressione di un'idea generale dell'autore che doveva necessariamente essere presente anche in altri passi della sua opera. In questo modo il singolo testo poteva essere compreso soltanto se colto nel contesto complessivo nel quale era inserito. Dunque l'interpretazione logica analizzava il testo integrandolo nell'opera complessiva. Solo questa integrazione permette all'interprete di astrarre i concetti che danno forma ad ogni contesto normativo, cioè i caratteri basilari, indiscutibili, che danno forma al contesto normativo, l'istituito. Concetti che soli consentono di procedere all'interpretazione del passo. "La scienza del diritto consiste non nella corteccia delle parole scritte, ma nel midollo della ratio di esse".



Quando entra in crisi per eccesso di argomentazioni il sistema del diritto comune, il sistema tomista, coloro che si sarebbero ricollegati alla tradizione cattolica si ricollegano alla matrice filosofica della corrente agostiniana. La struttura discorsiva che viene elaborata dai commentatori, la logica aristotelica, presenta diversi strumenti, categorie di riflessione giuridica, la prima la contrapposizione tra lettera e spirito della legge, la seconda l'interpretazione logica (tratta dalla teologia). La partenza dal testo per individuare la ratio, il contesto nel quale il testo si scrive. La ratio del testo non può che essere la ratio legis: anche per noi è così oggi. L'investigazione della ratio legis viene compiuta con i precedenti della dialettica aristotelica-scolastica. I mezzi sono tre: sono la definizione, la divisione l'analogia. Il procedimento teorico/scientifico corretto di procedere è triplo, ossia definisce, divide, progredisce per esempi. Con questo mezzo (che poteva portare alla disapplicazione della singola norma), questi strumenti consentono di cogliere diversi aspetti della fattispecie giuridica investigativa. L'assenza dell'istituto (substantia). Le figure giuridiche più ampie entro cui l'istituto si inquadra (genera); terzo i caratteri propri/specifici che quelle figure giuridiche, quegli istituti, in relazione agli altri istituti inquadrati negli stessi generi (differentiae); quarto non le differenze ma le analogie formali o materiali che sussistono fra i diversi istituti appartenenti al medesimo genere (similitudines). Tutto questo viene realizzato nei limiti dell'interpretazione logica e con il ricorso alle regole proprie della logica aristotelica. Queste ultime trovano la loro più adeguata espressione nel discorso giuridico medioevale, nell'individuazione dei "topica" (luoghi). L'armamentario specifico usato dai giuristi è quello della dialettica aristotelica: questa è l'arte di discutere. La discussione ha caratteristiche sue proprie sia formali che materiali. Formali perché nella forma che essa assume essa si distingue da altri tipi di discorso, cioè dall'orazione (oggetto della retorica) e dalla dimostrazione (oggetto dell'analogia). Ha caratteristiche materiali perché si realizza su soggetti discutibili, cioè su temi intorno ai quali non esistono affermazioni certe. Questo aspetto è fondamentale per caratterizzare la dialettica, la funzione del giurista. Questo non vuol dire che il metodo della dialettica è in dubbio, è fondamentale la discutibilità delle affermazioni, perché se non ci sono nei soggetti dialettici né nei temi della dialettica affermazioni vere che liquidino la questione, allora è sempre possibile affrontare la questione partendo da punti di vista differenti, incamminarsi verso la soluzione partendo dai punti diversi, utilizzava argomenti distinti, a volte opposti. La soluzione è obiettivo che io raggiungo partendo da punti diversi. La discussione dunque può essere visivamente configurata come un complesso di strade che consentono di essere percorse per vedere se partono alla soluzione, necessaria, che esprime al meglio la verità in questione, partendo da considerazioni differenti le une dalle altre.

Il compito del giurista è individuare gli argomenti con i quali è possibile affrontare la situazione, "ars inveniendi", cioè l'arte di trovare gli argomenti per l'argomentazione. Questa è chiamata anche "topica", perché i modi da cui partire sono detti luoghi, o "topoi".

Il pensiero giuridico medioevale è in questo meccanismo, la topica, l'ars inveniendi, è il complesso dei mezzi che mi permette di trovare i luoghi del discorso. Questa metodologia si integra con un sistema giuridico caratterizzato dal sistema pluralista. Il giurista assume quindi una veste fondamentale; il giurista è colui che si incarica dell'armonizzazione e lo fa tramite la discussione. Questa operazione è ovviamente destinata a organizzare il consenso tra i diversi argomenti. E' ovvio che il consenso fra gli argomenti implica generalizzazione, perché al fine di porre in rapporto dialettico un argomento con l'altro, la discussione organizza progressivamente principi consensuali di ambito progressivamente più generico. Se salgo nella generalizzazione il consenso diventa più superficiale, meno approfondito. L'accordo in questo caso riguarda formule generali e svuotate di riferimenti concreti. (la cultura illuminista ha compiuto questa suddivisione fra teoria e prassi, separando l'accordo fra contenuti concreti e le formule generali). La metodologia del discorso giuridico propria dei commentatori aveva coscienza della debolezza delle affermazioni generiche e per questo a differenza di ciò che avviene per noi questi prediligono metodo induttivo e non deduttivo, perché dalla regola generica non si può estrarre una soluzione giuridica concreta, la quale regola invece deve essere riferita alla soluzione giuridica concreta. La dialettica è la scienza che mi consente di individuare attraverso i "topoi" la soluzione per cogliere la ratio e quindi la soluzione del caso. I giuristi medioevali non tengono a realizzare una riduzione assiomatica del sapere giuridico, cioè una equiparazione del procedimento di individuazione della soluzione giuridica ad una deduzione assiomatica di tipo geometrico. I giuristi non vogliono costruire una assiomatizzazione del sapere giuridico, un'equiparazione ad una deduzione assiomatica di tipo geometrico. Questo verrà raggiunto dal giusnaturalismo. I giuristi del '300-'400 formano un sistema giuridico con procedimento induttivo. L'ordine medioevale è dunque costruito attraverso la costruzione degli istituti la cui realizzazione è compiuta attraverso la definizione di essi, ossia attraverso l'individuazione dell'essenza dell'istituto, è cioè la qualificazione del genere entro cui si colloca la categoria generale o delle caratteristiche che lo distinguono dalle altre realtà appartenenti al medesimo genere. Ad esempio la donazione è un contratto (genere) attraverso il quale una persona trasferisce ad altri un bene (differentiae) attraverso altre species contrattuali. Questa si chiamava procedimento di definizione ex genere et differentia e implicava la formazione di concetti generici, sconosciuti alla dogmatica romanistica. Concetti ai quali, per mezzo dei quali vengono poste in relazione figure giuridiche fino a quel momento isolate. La definizione dunque per genere e differenza risulta essenziale per portare un compito di organizzazione dell'esperienza giuridica e perciò di gerarchicizzazione di concetti giuridici differenti (ex: dichiarazione di volontà sconosciuta in età romanistica e conosciuta per mezzo dei generi differenti). L'impiego delle auctoritas: queste sono, costituiscono in modo di organizzare il discorso giuridico, di affrontate gli istituti, le figure giuridiche, i topoi, attraverso ciò che i singoli autori avevano detto di essi: infatti in un sapere nel quale la verità non era certa ma probabile l'opinione della maggioranza era quella che almeno su un piano statistico avevano la maggior probabilità di essere esatte. Questo spiega perché i giuristi alla fine per compiere l'opera di aggiornamento del diritto non partirono più dai testi scritti, ma si basino sui commenti. Il ricorso all'argomento dell'autorità è fondamentale e caratteristico del periodo medioevale. Nasco così l'opinio comunis doctorum, che non è espressione di un dogmatismo soffocante, ma è espressione di un atteggiamento mentale aperto nel quale non si riconoscevano verità definitive e si rendeva necessario il confronto delle proprie opinioni. Il ricorso alle autorità è espressione dell'importanza del metodo dialettico. Una volta che vi applica le caratteristiche della discussione diventa importante rafforzare la soluzione più probabile con la dimostrazione che quella soluzione era quella messa dalla maggior parte degli autori.



Il carattere pluralistico medioevale, che connota per sua natura una società instabile che ha bisogno di essere resa armonica. L'interpretazione dei giuristi è strumento di armonizzazione. Dobbiamo esaminare i secoli XVI fino al XVIII per cogliere i caratteri diversi da quelli precedenti. Il diritto continua a restare il diritto comune, il corpus iuris e tuttavia si introducono tali e profonde modifiche tanto nel tessuto della società quanto nel discorso giuridico, che spiegano il passaggio all'età contemporanea a cui si accede con le rivoluzioni di fine '700. D'altra parte vi sono eventi epocali nel secolo XVI e in particolare ricordiamo la scoperta dell'america e la riforma luterana, calvinista e anglicana. Questi avvenimenti si ripercuotono sul piano giuridico sotto più aspetti. Il primo è il rafforzamento di aggregazioni nazionali sempre più solide che fanno scendere in campo nel campo europeo forme iniziali di stato moderno, cioè forme di un potere politico caratterizzato in senso monocentrico ed assolutistico. Ogni potestà cerca di togliere potere agli altri centri di potere. Lo stato introduce un'alterazioni di questo equilibrio, un'alterazioni che si ripercuote sul piano del diritto appunto, con la contrapposizione ad un diritto inteso come diritto comune in un diritto invece inteso come legge dello stato o del sovrano, l'assolutizzazione. Dunque si presenta a partire dal '500 l'immagine di uno stato che non contribuisce più a conservare un diritto molteplice ed eterogeneo ma si presenta come produttore esclusivo della norma giuridica. Questo accade a partire da quei rami del diritto in cui minore era l'influsso del diritto romano, minore l'influsso del delle categorie dell'interpretazione giuridica e cioè a partire soprattutto dal diritto pubblico e commerciale. Questo due poco sviluppati nei testi giustinianei. Questa progressiva prepotenza degli stati nazionali produce lentamente una sottomissione del diritto comune ai nuovi diritti nazionali che venivano crescendo e la codifica dei quali progrediva incessantemente traducendo sul piano giuridico, sul terreno del diritto il fenomeno della centralizzazione del potere reale. Questo mutamento della realtà normativa in virtù di un maggior peso della legislazione nazionale, finisce con l'influire sul modo di essere del sapere giuridico, nel senso che lentamente l'oggetto dell'indagine giuridica si trasferisce/diviene la legislazione statale e perciò l'intepretazione, i canoni interpretativi del diritto comune, fino a quel momento ancorati all'architettura del corpus iuris vengono a distaccarsi da esso e lentamente assumono il ruolo di un sistema giuridico sempre più astratto in grado di confrontarsi apertamente con le legislazioni nazionali. Questo passaggio segna il distacco fra interpretazione (intesa come scienza dell'interpretazione) dalla preoccupazione di garantire l'armonia della società pluralista medioevale. Ogni sistema giuridico ha una sua strategia che era quella di conservare l'armonia della società pluralista. Dunque gli argomenti dell'interpretazione dovevano restare ancorati a questo obiettivo: a partire invece dal '500 la prepotenza degli stati nazionali disorienta la scienza giuridica, la perverte (la volge ad un altro scopo), scopo che è quello di costruire un sistema giuridico sempre più astratto, che possono essere posti al servizio della preponderante legislazione nazionale. A questo spostamento dell'asse su cui ruota la scienza giuridica contribuiscono alcuni fattori interni dell'ordine giuridico medioevale: il primo è la percezione del diritto comune come un diritto sovrabbondante e controverso, cui la disposizione contenuta in ogni norma passando necessariamente attraverso l'interpretazione del giurista si decompone in un fascio di opinioni dottrinali diverse. Secondo fattore la magistratura che fino al XVI secolo era espressione del sapere del giurista chiamato a dare la sentenza in forza della superiore autorevolezza del diritto che egli conosceva, ora diviene corpo burocratizzato, statuale che pone si in essere una giustizia di qualità ma che è espressione della volontà del sovrano di accentrare la giurisdizione, condizione essenziale per la statalizzazione delle forme normative. La magistratura subisce un processo di burocratizzazione che ne fa strumento essenziale di unificazione nazionale e di separazione dello stato dal sistema universalistico. Terzo fattore la moltiplicazione della legislazione sovrana (l'interpretazione è tanto più efficiente quanto più il sistema normativo pone leggi stabili e inalterate nel tempo). La spazio di adeguamento della norma scritta alle mutate realtà del tempo viene riempito dal giurista. Se viceversa il titolare del potere legislativo vuole ridimensionare il ruolo del giurista deve farlo con due strumenti: con la burocratizzazione della magistratura, che sia in grado di perseguire con il compimento della propria attività i principi che sono del principe. Dall'altro deve sostituirsi ai giuristi, alla giurisprudenza, nella formazione di regole giuridiche destinate a risolvere i casi quotidiani. Da qui, a partire dal '500, una produzione legislativa dei sovrani enorme strumento che il sovrano usa per risolvere al posto del giurista i casi della vita pratica. Questo processo si può sistematicamente esprimere affermando che la cultura giuridica pluralistica perde a partire dal '500 lucidità e chiarezza dei suoi caratteri così che ciò che in precedenza era avvertito come pluralistico a partire dal '500 fu lentamente ma sempre più avvertito come particolaristico, particolarismo che si esprimeva tanto sul piano oggettivo che soggettivo. Sul piano oggettivo come molteplicità delle fonti, di cui non viene più percepita la capacità di rendere un'unità armonica la società pluralistica, ma di cui viene percepita la forza dirompente l'unità della società. Sul piano soggettivo come moltiplicazione degli status giuridici personali. Il diritto cioè non è diritto uguale per tutti, perché la società medioevale prima e moderna poi presenta una sistematica e capillare diffusione di particolari posizioni privilegiate di ceto nelle quali il diritto soggettivo si presentava come una speciale facoltà personale o di gruppo garantita da un titolo di acquisto particolare denominato privilegio (il diritto si acquista attraverso il privilegio, concepito non più come espressione di un ordine giuridico oggettivo ma come un sistema discriminatorio ed oppressivo che poneva in risalto l'elemento della disuguaglianza piuttosto che quella della gerarchia). A questo diverso modo di percepire l'architettura della società del '500 un significativo contributo viene dal fatto che nell'Europa del '500 si verifica l'evento della riforma luterana. Questa provoca una forte modifica tanto della figura discorsiva del diritto quanto della strategia del diritto. Il fine era quello dell'armonia pluralista che si traduceva in una concezione di giustizia distributiva. La riforma luterana invece propone una giustizia che è attributiva. Un'identica modifica si realizza sul piano del discorso giuridico: le novità introdotte sono preannunciate dall'umanesimo. L'umanesimo rappresentato da un atteggiamento di deciso distacco dal sapere medioevale che si esprime in un ripudio radicale della tradizione scientifico italiana generatosi a Bologna. L'umanesimo sviluppa e fa sue le teorie di Duscoto e di Guglielmo d'Hocam, nel senso che presenta un modello di uomo che costruisce il proprio rapporto con la realtà naturale partendo da una posizione di assoluta libertà del soggetto: l'umanesimo rappresenta il primo momento in cui è chiara l'affermazione dell'idea moderna secondo la quale la scienza presuppone, per essere svolta, l'assoluta libertà del soggetto sull'oggetto. Per i giuristi medioevali non era così; e non lo era per due ragioni; era vincolato all'autorità del testo giustinianeo e perché l'interprete non era libero dal lato oggettivo, che gli indicava i topoi da cui prendeva le mosse la realtà giuridica. Ciò che distingueva i giuristi umanisti dai non umanisti non è l'oggetto dello studio quanto piuttosto il metodo impiegato, metodo che è essenzialmente storicistico. Questo deve essere considerato con un interesse puramente storico/filologico, negando perciò implicitamente e esplicitamente il suo carattere di diritto vigente e nello stesso tempo liberandolo da tutte le interpretazioni di aggiornamento del tempo. Ciò che importa è riportare il diritto alla sua purezza classica. Occorre accantonare tutti gli argomenti del discorso giuridico logico/aristotelico per individuare invece quali fossero i criteri interpretativi più adeguati allo studio dei testi romani. Nel rispondere a questa domanda i giuristi umanisti compiono un passaggio fondamentale nell'individuazione dei fondamenti del sistema giuridico contemporaneo. Infatti individuano nella filosofia stoica, e non più aristotelica, lo strumento più adeguato allo studio del diritto romano. Infatti poiché il diritto deriva dalla filosofia morale, secondo la concezione ciceroniana del diritto esso deve essere de strutturato, deve cioè essere reso accessibile all'uomo comune sottratto ai tecnici e diventare non l'oggetto di una scienza specializzata ed autonoma ma piuttosto il prodotto di un generico atteggiamento filosofico morale. In questo modo il diritto romano perde nella prospettiva degli umanisti il carattere di un complesso di norme da applicare immediatamente, per diventare un complesso di principi in grado di orientare colui che produce la norme oggi, nell'opera di elaborazione e di redazione dei testi legislativi vigenti.



L'umanesimo presuppone la libertà del soggetto rispetto all'oggetto. Questo metodo crea una distanza storica fra soggetto ed oggetto, ossia il diritto appare come il prodotto di una certa epoca storica, il cui unico metodo di studio scientifico è quello filologico-storico. Non vi è altro approccio al diritto se non quello storico. Se io studio il diritto nel contesto in cui si è formato devo ricostruirlo nella sua originalità, devo toglierli le incrostazioni che il percorso del tempo ha portato su di lui. Mentre il giurista bolognese si accontentava di vedere la sua edizione senza notare possibili interpolazioni, il giurista umanista si pone questi problemi. Se non è coerente non mi interessa. La conseguenza è da un lato una confusione della scienza giuridica con la filosofia, per via della ripresa dello stoicismo ciceroniano, una diluzione della scienza giuridica nella filosofia stoica. La stoicismo è la massima espressione filosofica della romanità. Dall'altro lato l'attenzione verso i testi giuridici collocata su un piano storico filologico fa compiere al diritto romano un passaggio che da complesso di regole concrete diviene un complesso di regole precise, che porterà alla definizione di un diritto positivo. Se io tolgo il carattere di norma imperativa al diritto romano e lo rendo un insieme di principi astratti allora io comincio a porre condizioni per deprimere le forze della giurisprudenza ed allora il ruolo politico di chi emana legge, a scapito del ruolo politico dei giuristi. La riforma luterana è un evento epocale. La prima conseguenza è quella di rompere l'unità ecclesiale e sul piano politico-giuridico rompe uno dei pilastri fondamentali del sistema giuridico.politico europeo, la Chiesa. Lutero dedica al diritto un'attenzione non estesa e dà verso il diritto un atteggiamento estremamente critico: la struttura giuridica della Chiesa era molto elaborata e Lutero quindi non può avere stima del diritto. Giudizio parzialmente negativo: il punto di partenza è dato dalla netta separazione tra momento naturale e spirituale. Solo dal punto di vista della salvezza il cristiano è totalmente libero da ogni legge: se tutto il mondo fosse composto da veri cristiani non ci sarebbe bisogno del diritto. Questo esiste solo perché nessun uomo può dirsi vero cristiano. C'è una trasformazione del tomismo, perché da un lato non viene rispettata l'autonomia del diritto. Questa prospettiva diversa introdotta da Lutero toglie autonomia scientifica al diritto: il diritto aveva una sua autonoma ragione d'essere secondo il tomismo. Ora la cosa è stravolta. Il diritto appare uno strumento funzionale alla salvezza. Perdita di autonomia dell'ordine giuridico, in quanto vincolato allo scopo di salvare l'uomo. Secondo mutamento di prospettiva, in questo modo il diritto diviene uno strumento attraverso cui deve essere affermata la verità dell'uomo. Si approssimava alla verità. Qui invece la riduzione del diritto a strumento di salvezza verso l'uomo implica la costante presenza della verità nelle norme. Ma l'assolutizzazione della verità fa perdere al soggetto la libertà che egli mantiene sempre nei confronti della soluzione giuridica che è stata proposta, assolutezza cioè la soluzione giuridica, perché se è vera la soluzione è vera sempre. Assolutizzano cioè il valore di ogni soluzione giuridica, tanto che così come l'umanesimo conduce ad un certo metodo di trattare il diritto romano, metodo sviluppato prevalentemente in Francia, anche l'atteggiamento dei riformisti luterani verso il diritto conduce ad un nuovo metodo verso il diritto romano, metodo che si afferma soprattutto in Germania. Metodo che prende il nome di "usus modernus pandectarum". C'è un altro modo di trattare il diritto romano quindi che consiste nell'inserire le realtà normative nazionali (per la Germania parlare di realtà normativa nazionale significa parlare di lender) nella cornice concettuale elaborata dai commentatori, in modo tale che costoro venivano impiegati nei casi un cui essi erano adeguati alla nuova materia, mentre venivano sostituiti con figure tecniche nuove. In questo modo in Germania il diritto comune venne sostanzialmente informato e reso un complesso coerente, un sistema di principi che però avevano una loro immediata efficacia operativa. Dunque la riforma luterana produce un diverso orientamento del sistema giuridico. Il suo obiettivo è quello di preservare l'ordine. È attraverso un ordine che l'uomo può raggiungere la salvezza. Il diritto deve garantire l'ordine sociale. Allora risulta chiaro che la concezione del diritto afferma una giustizia diversa da quella tomistica del diritto comune, che era una giustizia distributiva. Questa è attributiva, perché vi è qualcuno che attraverso la costruzione del processo giuridico dà a ciascuno ciò che gli spetta ma non secondo la sua natura, ma nell'ordine sociale in cui egli possa raggiungere la salvezza. È evidente qui che il diritto si pone come strumento di repressione al servizio dell'ordine sociale. Si afferma qui un primo abbozzo di quella dialettica tra norma come comando e sanzione che costituisce il tratto caratteristico del diritto contemporaneo. Il sistema giuridico deve preservare l'ordine sociale, che gli permetta di raggiungere la salvezza. La norma deve avere imperatività. Questa configurazione del diritto insieme a quella umanistica sfoceranno in quella grande storia del diritto naturale. C'è un ultimo punto che porta al diritto naturale, che è dato dai caratteri assunti dalla tradizionale scuola di diritto comune. L'Italia e la penisola iberica rimangono in questo quadro europeo saldamente ancorati alla tradizione del diritto comune ma anche questa tradizione si trasforma orientandosi verso l'elaborazione di un sistema giuridico in cui le soluzioni giuridiche di volta in volta individuate alle singole questioni e con l'impiego di diversi argomenti dialettici tendono ad una progressiva astrazione e alla creazione di grandi principi a forte carattere dogmatico che informano di se ogni istituto giuridico. Si compie cioè anche nei paese come la Spagna, Portogallo e Italia, il passaggio allo costruzione di sistemi giuridici generali strutturati a partire dai principi ottenuti, quel passaggio che ha impronta ben marcata nei paesi tedeschi. Questo vuol dire ruotare il metodo da induttivo a deduttivo.



La scuola del diritto naturale in realtà è una simbologia impropria, perché si tratta di molte scuole, tutte però sono caratterizzate dal concetto di "ratio", di cosa sia la ragione. La ragione dei giusnaturalisti che ruotano intorno alla scuola del diritto normale è diversa dalla ragione che aveva dominato il diritto medioevale. La ragione medioevale scaturisce da una concezione del diritto naturale che è quella di S.Tommaso, che accettava l'ordine naturale delle cose fisiche e umane (entia moralia). Ordine che era stato determinato da un Dio intelligente, buono, creatore del mondo. Questa concezione viene formulata con la teoria della causa prima e seconda. Questa legge naturale è valida sempre salvo che nel caso del miracolo. Tutte le cause seconde (che regolano le singole specie) si armonizzerebbero in funzione del bene supremo. Tutte le specie nel loro movimento obbediscono ad una regolamentazione cosmica. L'idea di un diritto naturale partiva da questo punto, perché l'obbedienza dell'uomo all'ordine naturale della sia specie non è un'obbedienza forzata, istintiva, ma libera. In questo modo l'uomo nell'adesione all'ordine creda dando il suo contributo alla creazione, un complesso di regole adeguate alle cause seconde, che si congiungono a quelle di origine divina, volute da Dio e disciplinano nel loro complesso il contesto entro cui l'uomo esprime la propria personalità. Queste regole che sono dunque prodotte dall'uomo sono comprensibili dalla ragione se tuttavia ben ordinate e costituiscono il diritto naturale. Recta ratio perché l'intelletto non si componeva soltanto della ragione ma anche di virtù: in ragionamento all'ordine delle cose dipende dalla capacità morale di comprendere il senso globale dell'ordine, cioè per distinguere il giusto dall'ingiusto. Una conseguenza importante è questa: che la mobilità delle cose umane, movimento che è prodotto della libertà dell'uomo. Questa continua dinamica dell'uomo ha come effetto l'impossibilità di individuare principi invariabili di giustizia. Dunque era impossibile stabilire una scienza del diritto naturale che producesse una formulazione di un codice di regole permanenti. Tutto quello che si poteva affermare era l'esistenza di un generale orientamento delle attività umane verso il bene piuttosto che verso il male. Dunque piuttosto che sviluppare una scienza del diritto naturale bisognerà sviluppare la capacità di individuare il giusto di quella circostanza. I giusnaturalisti hanno un'altra concezione del diritto naturale; questa si basa su un'affermazione della ragione che ha contenuto differente da quella tomista e che è insieme strumento di indagine di ciò che sia il diritto naturale e fonte di diritto naturale. Un contributo decisivo a questa scuola che si sviluppa particolarmente in ambito protestante viene dato da una scuola spagnola, quella di Salamanca. Questa non a caso viene chiamata seconda scolastica, o scuola di teologi giuristi, in quanto vi insegnano dei gesuiti. I giuristi spagnoli che operano fra '500 e '600 partono con l'intenzione di affermare una decisa e fondamentale fedeltà al tomismo. In realtà nella scuola controriformista di Salamanca c'è una larga penetrazione di principi riformisti. La scuola di Salamanca dà contributo decisivo a spostare l'accento del diritto naturale del recta ragione alla pura ragione intellettuale e resa razionalità soggettiva. Questo contributo si può sintetizzare in tre aspetti:

1) Laicizzazione del diritto. I giuristi spagnoli portano alle ultime conseguenze la teoria delle cause seconde, secondo le quali la natura viene a tal punto autorevolata che tale argomentazione sussiste anche se per ipotesi Dio non esistesse. E si dice così come Dio non può niente contro il fatto che 2+2=4 egli non può neppure cambiare la scienza del diritto, che è autonomo rispetto alla causa prima.

2) Radicamento del diritto nella ragione individuale. I giuristi spagnoli sostengono che le leggi naturali sono sufficientemente chiare per essere conosciute dalla ragione umana. Questa diviene dunque lo strumento della conoscenza delle regole del diritto, ma se la ragione è lo strumento di conoscenza vuol dire che nella pura ragione è possibile individuare le regole del diritto. In questo modo la ragione diviene fonte del diritto, sicchè essa diviene il primo testo in cui sono scritti i principi giuridici.

3) Il momento è la laicizzazione del diritto. La fiducia nella ragione e nei meccanismi logici che questi giuristi traggono da Ocam conduce ad affermare la possibilità di individuare le regole esclusivamente per via deduttiva.

Dice uno di questi giuristi "la legge naturale è generale e abbraccia soltanto determinati principi". Questo vuol dire che a partire dai principi razionali è possibile dedurre regole precise con un contenuto generale. La scuola del diritto naturale trova il primo esponente in Grozio. L'opera principale di Grozio e il de iure belli at pacis. In realtà la sua preoccupazione è quella di pacificare. Da questo punto di vista Grozio interpreta gli interessi della borghesia. Esaminiamo la concezione del diritto naturale da lui realizzata; la formula del diritto di guerra e di pace non è un diritto che si rivolge a livello internazionale: lui tratta a tutto campo l'intero sistema giuridico, perché secondo Grozio si possono distinguere diverse guerre: pubbliche (tra stati) ma vi sono anche quelle private (tra privati) e guerre miste, che sono conflitti fra privati e lo stato. Grozio nel fare ciò attinge a due grandi filoni, della scuola spagnola e stoica del giuristi/umanisti. Ciò che è importante è che giunge a proporre un sistema giuridico tutto contenuto nella ragione umana, che non ha più alcun confronto con il contesto, la realtà, perché la norma giuridica scaturiva dal contesto: invece Grozio elabora un sistema giuridico che non dipende più dalla realtà, sono prodotte dalla razionalità. Questo è il meccanismo del giusnaturalismo moderno. L'obiettivo di Grozio è creare ad ogni livello del diritto (da internazionale a privato) un sistema di diritto comune nuovo da sostituire al precedente che infatti è ancorato all'interpretazione italiana del diritto romano, ma che non è più utilizzabile perché non è più comune a tutti i paese europei. Quest'ultimo è infatti legato alla cosmologia tomistica e ai due grandi filoni dell'impero e del papato. Dunque ciò che discende dal esso non è più comune. Qui vengono bene le affermazioni fatte dai giuristi spagnoli. Qualsiasi contenuto del diritto comune, un presupposto dovrà restare, che discenda dal credo religioso dei singoli uomini. Non è un sistema contro la religione ma deve prescindere da essa. Non è sufficiente disancorare il sistema giuridico dal diritto divino, devo disancorarlo anche dalla realtà. Infatti la realtà naturale mi rimanda alla divinità. Il sistema giuridico sarà dunque collocato nell'ordine dell'umano. La fonte del diritto è nell'uomo e la fonte del diritto è nella ragione, perché nella ragione è stata posta una legge inimitabile e fondamentale che indirizza l'uomo verso il diritto, lo guida a compiere azioni moralmente corrette e gli vieta quelle deplorevoli. Questa frase ricongiunge il diritto morale e siamo nel campo della pura ragione. Questa legge fondamentale che caratterizza l'uomo viene chiamata appetitus societatis. Grozio cioè afferma che l'uomo possiede una legge fondamentale che lo distingue e lo spinge verso una vita associata. Qui Grozio suppone l'esistenza di un originale stato di natura nel quale tutti gli uomini vivono in comunione di beni e in pace tra loro. Tuttavia l'impossibilità di soddisfare la richiesta di beni rompe l'equilibrio e questa situazione viene risolto dall'uomo con l'impiego dell'appetitus societatis.



Laicità dell'ordine giuridico ripreso dalla scuola spagnola di Salamanca. Il diritto risiede nella ragione, eliminazione del diritto divino e di quella naturale assorbite dal diritto da quello umano. Il diritto trova un proprio principio basilare nell'istintività, nell'appetitus societatis. È con il '500 che si separa istinto da ragione nel senso che precedentemente l'uomo era guidato dalla retta ragione. Bisogna ristabilire l'equilibrio passando dallo stato di natura allo stato sociale, passaggio che si rende necessario quando il rapporto fra uomo e beni diventa inadeguato a soddisfare bisogni che sono andati progressivamente aumentando. La modifica del rapporto fra soggetti e beni che è necessaria riduce alla modifica del rapporto anche con gli altri uomini. L'appetitus societatis è desiderio che l'uomo si porta dentro secondo cui l'uomo è finalizzato per sua natura non ad una vita quale che sia, ma tranquilla ed ordinata secondo il suo intelletto. È organizzata ad una convivenza che si svolga in una tranquillità sociale. Ciò è quello cui l'uomo è indirizzato. Quindi è indifferente che l'uomo vi abbia o meno coscienza: questa esigenza dell'uomo di vivere seconda questa convivenza tranquilla trova risposta adeguata nel contratto sociale. Il contratto regola la vita associata e gli consente di conservare il legame sociale. La regolazione della vita associata implica l'osservazione a determinate regole, quali il diritto naturale. È ovvio dunque che il diritto naturale miri alla conservazione della società. In concreto attraverso il contratto gli uomini trasferiscono ad un corpo sovrano il potere di fare rispettare in modo coercitivo la tranquillità e la pace dei consociati e quindi trasferiscono al sovrano il potere di mantenere le condizioni perché sia preservata e garantita la realizzazione degli interessi di ciascuno. Il contratto garantisce i diritto del singolo e i poteri del sovrano ai quali l'individuo si sottomette perché si realizzi la pace sociale. Attraverso il contratto si giustifica lo stato e neppure la comunità dei consociati ma è l'espressione del contratto sociale. Potere dello stato che si esercita in due sfere







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