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Appunti di diritto del lavoro sul ruolo del collocamento

giurisprudenza



Appunti di diritto del lavoro sul ruolo del collocamento:



Il collocamento è uno dei temi originari del diritto del lavoro. Storicamente il problema della sua disciplina sorge con la stessa nascita del sindacato: è, infatti, esperienza comune a tutti i Paesi europei il tentativo dei lavoratori organizzati di acquisire in via diretta o indiretta il controllo sulle assunzioni, al fine di limitare la concorrenza all'interno della forza lavoro e di contrastare il monopolio padronale sugli avviamenti. L'interesse per l'istituto, considerato nella prospettiva degli interventi istituzionali sul mercato del lavoro in senso lato, tuttavia cresce o declina secondo la congiuntura economica: è massimo nelle fasi di crisi, mentre raggiunge i livelli più bassi quando sembrano raggiungersi le condizioni di pieno impiego.

Nel disastroso contesto economico e sociale dell'Italia dell'imm 222c28c ediato dopoguerra, quindi, è comprensibile che il tema della disciplina degli avviamenti al lavoro assuma un'importanza centrale. L'art. 4 della nuova Costituzione repubblicana pone il fondamentale problema della funzione del collocamento e dell'organo destinato ad esserne responsabile. A questo proposito, in un periodo in cui le élites governative cavalcano un orientamento liberista nell'economia, appare inevitabile optare per la conservazione - in linea con l'eredità corporativa - del monopolio statale sul collocamento, visto come lo strumento più adeguato a rispondere all'esigenza di correggere le diseguaglianze che solcano il mercato del lavoro.

La disputa sulla funzione del collocamento assume, però, anche un significato politico: l'approvazione della legge n°264/1949 (c.d. legge Fanfani), che qualifica il collocamento "funzione pubblica", segna la sconfitta dell'orientamento favorevole alla sindacalizzazione del collocamento e, soprattutto, l'espropriazione delle Camere del lavoro le quali, in seguito alla caduta del regime fascista, hanno ripreso a gestire gli avviamenti al lavoro in numerose province dell'Italia settentrionale.



Il sistema disegnato dalla legge n°264/1949, fondato sull'accentramento, su un'organizzazione gerarchico-burocratica e su un garantismo di tipo rigido, è in sé formalmente coerente e completo: almeno sulla carta, tali caratteri sembrano coniugarsi perfettamente tra loro. Sul piano della realtà fattuale, tuttavia, la mediazione pubblica nel mercato del lavoro sconta, da subito, un bassissimo grado di penetrazione ed i vincoli concretamente operanti si rivelano assai modesti. Il collocamento italiano, infatti, si caratterizza, almeno per i primi vent'anni, per la sua quasi totale inattuazione: da un lato, gli imprenditori continuano nelle abitudini precedenti, trasgredendo le disposizioni legislative; dall'altro, gli uffici del lavoro si ritrovano a registrare assunzioni di fatto già avvenute.

In definitiva, a dispetto di una normativa formalmente rigida, espressione di un modello accentuatamente interventista, il controllo padronale sulla fase costitutiva dei rapporti di lavoro rimane praticamente inalterato. All'ineffettività del sistema ufficiale corrisponde inevitabilmente la diffusione di mercati paralleli o sommersi di compensazione di fatto della domanda e dell'offerta, i quali agiscono da correttivi o da sistemi di supplenza rispetto alla mancanza di una reale regolazione pubblica. La legge n°264/1949, quindi, non solo è incapace di fungere da strumento di intervento sul mercato del lavoro - concepita com'è in termini prevalentemente assistenziali - ma non si rivela nemmeno in grado di garantire equità ed imparzialità nelle assunzioni.

Negli anni '60 e '70 molteplici fattori spingono diversi Stati europei ad abbandonare le impostazioni tradizionali di tipo burocratico-assistenziale, in cui le erogazioni sociali compensano la rinuncia ad interventi efficaci sul mercato del lavoro: da un lato, l'aumento della disoccupazione e i suoi nuovi caratteri qualitativi; dall'altro, il declino dell'occupazione industriale ed il problema della riconversione di interi settori produttivi. L'emergere di nuovi problemi e l'evolversi della situazione socioeconomica in tutta Europa, quindi, rende sempre più manifesta l'inadeguatezza della visione del collocamento come strumento di semplice garanzia distributiva. Il problema del collocamento - posto inizialmente in ragione della garanzia di un'equa ripartizione delle occasioni di lavoro, attraverso la limitazione della libertà di scelta imprenditoriale nell'avviamento - si pone ora in relazione alla lotta per il lavoro ed all'intervento attivo nella struttura occupazionale.

In generale, si profila una tendenza a sostituire la tradizionale concezione dell'intervento pubblico di natura compensativa con un'idea diversa: quella intesa a rafforzare gli strumenti di politica attiva del lavoro. In questo periodo, infatti, si verifica la costituzione di nuovi enti preposti alla politica dell'impiego oppure l'attribuzione di compiti ulteriori e diversi ad organismi già presenti. Si tratta, il più delle volte, di organismi autonomi rispetto all'amministrazione centrale, fortemente decentrati, ai quali vengono attribuite attività non solo (e non tanto) di conduzione del collocamento, ma soprattutto di promozione dell'incontro fra domanda e offerta di lavoro, di orientamento professionale, di gestione dei programmi formativi e di amministrazione degli incentivi alla mobilità.

L'Italia rimane isolata rispetto a questo generale processo di ripensamento degli strumenti tradizionali di intervento pubblico: incapaci di guardare alle esperienze pratiche, normative e culturali degli altri Paesi, le forze politiche nonché la stessa cultura giuridica stenta a lungo a riflettere seriamente sull'inadeguatezza dell'impianto normativo ed istituzionale ad affrontare la realtà di un mercato del lavoro in continua evoluzione.

Nel 1970 si verificano tre novità di rilievo: nascono le regioni; è approvato lo Statuto dei lavoratori (l. n°300/1970), provvedimento che segna la fine dell'astensionismo legislativo nel campo delle relazioni industriali; viene varata la riforma del collocamento agricolo (l. n°83/1970). Questi tre eventi - espressione di altrettante spinte in direzione del rinnovamento - se opportunamente coordinati fra loro, potrebbero incidere sensibilmente per un deciso cambiamento di rotta. Viceversa, finiscono per procedere assurdamente ognuno in una direzione diversa, senza alcuna possibilità di interagire. Così, mentre le regioni sono lasciate ai margini del processo innovatore e la legge n°83/1970 sul collocamento agricolo tenta la sperimentazione delle prime politiche del lavoro ispirate ad una concezione attiva, il legislatore dello Statuto - che dedica due articoli della nuova legge al collocamento - si muove in un'ottica ancora legata al passato: irrigidendo gli aspetti garantisti e vincolistici della disciplina dettata dalla legge n°264/1949, ottiene come unico risultato quello di generare un effetto perverso che riduce drasticamente la capacità di penetrazione del controllo amministrativo sulle assunzioni, a favore di una regolazione di fatto fondata sul libero mercato o su reti di relazioni familiari, comunitarie o clientelari.

Nella seconda metà degli anni '70, l'ormai diffusa consapevolezza dell'urgenza di aggiornare e razionalizzare l'intera attività intermediatoria, quale parte essenziale di qualsiasi strategia occupazionale, sfocia nel dibattito sull'Agenzia del lavoro, vista come nuovo organismo unitario di presenza pubblica sul mercato del lavoro, nonché in un disegno di legge per la riforma globale del collocamento (d.d.l. n°760/1981). Sotto l'incalzare della stretta occupazionale, la messa a punto di un sistema efficiente e credibile, attraverso un riforma complessiva della disciplina sul mercato del lavoro, appare sempre più urgente. La strada concretamente percorsa, tuttavia, è un'altra: quella degli interventi settoriali e parziali che, a partire dalle leggi nn°285 e 675 del 1977, inaugurano la cosiddetta legislazione dell'emergenza.

Si tratta di interventi normativi ambiziosamente protesi a risolvere le questioni più urgenti. Da un lato, si realizzano normative promozionali dell'occupazione per componenti deboli della forza lavoro: incentivi all'occupazione giovanile (l. 1° giugno 1977, n°285) e nuove tecniche di promozione del lavoro femminile (l. 9 dicembre 1977, n°903). Dall'altro, si crea un raccordo tra interventi sulle crisi d'impresa, strumenti di garanzia del reddito e disciplina degli avviamenti, attivando circuiti preferenziali di mobilità interaziendale (l. 12 agosto 1977, n°675 e succ. modif.). Il risultato, però, è un quadro istituzionale a dir poco frammentato: formatosi attraverso stratificazioni successive - per cui discipline tradizionali si mescolano ad interventi più recenti, mossi da esigenze emergenziali - esso va a costituire un assetto dotato di esigua razionalità normativa, caratterizzato dalla proliferazione degli "avviamenti privilegiati" e di veri e propri circuiti separati che, di fatto, frantumano l'unità del mercato del lavoro, disarticolandolo in una serie di segmenti fra loro non comunicanti.

Sulla scia delle leggi n°285 e 675 del 1977, rivelatesi da subito scarsamente efficaci, si innesta un'ulteriore sequenza legislativa costituita, per lo più, da decretazione d'urgenza, sempre più frammentaria. A chiudere la fase della "legislazione dell'emergenza", interviene poi la legge 16 aprile 1981, n°140, emanata in seguito al terremoto nel Meridione, la quale, limitatamente a Campania e Basilicata, introduce modificazioni sperimentali alla disciplina del collocamento.

A tale fase succede quella del "diritto della crisi e della flessibilità", caratterizzata dal riacutizzarsi della problematica occupazionale e dall'introduzione di misure volte a ridurre i vincoli esistenti in tema di assunzioni. Nelle forze politiche e sindacali cresce la consapevolezza dell'impossibilità, in un clima di disoccupazione crescente, di continuare ad affidare la regolazione del mercato del lavoro al tamponamento congiunturale del reddito perduto. Occorre, al contrario, riorientare complessivamente la strategia di politica del lavoro: per realizzare un simile obiettivo è nondimeno necessario il consenso dei principali gruppi d'interesse, nell'ambito di nuove regole di scambio fra Stato e società.

Le nuove regole si concretizzano in occasione del c.d. protocollo Scotti del 22 gennaio 1983, il quale inaugura la politica della concertazione triangolare sull'esempio delle principali democrazie nordeuropee. Nell'ambito del protocollo d'intesa, trova spazio un pacchetto di nuove disposizioni - da trasformare subito in un decreto legge - a favore di una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, nonché l'impegno del governo a sostenere un rapido varo del progetto di riforma del collocamento pendente in Parlamento. Se la riforma complessiva del mercato del lavoro continua a non vedere luce, comincia, dapprima timidamente (l. n°79/1983), poi in maniera più decisa (l. n°863/1984), il processo di deregolamentazione della disciplina sulle assunzioni. L'introduzione di numerose deroghe a favore della discrezionalità delle imprese o dell'accordo fra le parti sociali conduce allo smantellamento progressivo, anche sul piano formale, del rigido ed universalistico controllo amministrativo da parte della burocrazia pubblica.

Più in generale, le finalità passive delle misure di politica del lavoro introdotte continuano a prevalere su quelle attive, in una situazione complessiva di grande incertezza e confusione. In questo quadro, la legge n°56/1987, che ridisegna la presenza pubblica in materia di collocamento dopo un lungo dibattito trascinatosi sin dagli anni '70, è dichiaratamente diretta a potenziare i servizi per la politica attiva del lavoro e, nello stesso tempo, a delineare un nuovo equilibrio nel rapporto Stato-regioni. L'impianto della legge, tuttavia, è notevolmente ridimensionato rispetto ai progetti originari e, sul piano dei contenuti, scarsamente innovativo. L'assetto organizzativo del collocamento, infatti, continua a fare capo ad una struttura ministeriale accentrata ed orientata ad una gestione burocratica degli avviamenti, secondo un modello invecchiato che sempre più allontana l'Italia dal quadro europeo. La "grande riforma" del mercato del lavoro è, ancora una volta, rinviata.

Con l'emanazione della legge n°223/1991 vede la luce uno dei provvedimenti più innovativi nel campo delle politiche della flessibilità, atteso da lungo tempo dalle parti sociali. In relazione alle modalità di collocamento, la legge introduce una profonda revisione del sistema di garanzie pubbliche inaugurate nel 1949: adeguandosi il dato formale alla sostanziale evasione della chiamata obbligatoria verificatasi nella prassi quotidiana, è definitivamente sancito il principio della libertà di scelta del lavoratore da assumere. Con ciò il legislatore viene a decretare la morte a termine della struttura del collocamento, così come tramandata dalla legge n°264/1949: una volta privata della sua originaria funzione di distribuzione impersonale delle occasioni di lavoro, tale struttura non può non entrare in una profonda crisi d'identità. L'alternativa che si profila, perciò, è tra il ripensamento globale dell'intervento pubblico del mercato del lavoro in Italia, in sintonia con quanto da tempo avvenuto nel resto d'Europa, e la rinuncia ad un ruolo pubblico in tale materia, con il conseguente ritorno al "libero mercato" degli anni '50.

La contraddizione è duplice: da un lato, la funzione notarile e di passiva registrazione delle assunzioni che residua in capo agli uffici di collocamento contrasta fortemente con l'imponenza della struttura burocratica preposta all'assolvimento di tale compito; dall'altro, la pretesa del servizio pubblico di vietare a qualunque altro soggetto, pubblico o privato, con o senza scopo di lucro, lo svolgimento di attività di mediazione fra domanda e offerta di lavoro stride con il diffondersi sempre maggiore di iniziative private in questo campo, completamente sottratte a qualsiasi tipo di controllo pubblico. D'altra parte, fra il 1991 e il 1994, tutti i Paesi europei (eccettuata la Grecia) che ancora non hanno optato per un mercato del lavoro aperto alla concorrenza dei soggetti privati - conformemente ai nuovi indirizzi manifestati in sede O.I.L. con la revisione dei principi tradizionali concernenti le attività delle agenzie private per l'impiego - scelgono di abbandonare il principio del monopolio pubblico sul collocamento.

Gli anni '90 conoscono un'acuta recessione economica e una profonda crisi del sistema politico italiano. In un simile contesto di transizione e di grandi trasformazioni, si rianima il dibattito sulla "grande riforma" del mercato del lavoro, portato avanti dai governi tecnici dell'undicesima e della dodicesima legislatura e sfociato nel Patto per il lavoro del settembre del 1996. Quest'ultimo, riprendendo il nucleo essenziale del disegno di legge n°1895/1995 (presentato dal Governo nel corso della XII legislatura e poi abbandonato per lo scioglimento anticipato delle Camere), delinea la nuova struttura dei servizi per l'impiego: decentramento, apertura ai privati e conservazione in capo al Ministero di un ruolo di indirizzo e coordinamento sono i punti più significativi del progetto di riforma.

Le indicazioni del Patto si intrecciano poi a quelle contenute nella riforma sul decentramento amministrativo contemplata dalla legge n°59/1997, la quale prevede la delega al Governo per il conferimento a regioni ed enti locali della gran parte delle funzioni amministrative attualmente esercitate dallo Stato. Finalmente si delineano i tratti della riforma tanto lungamente attesa: il collocamento viene concepito quale parte integrante delle politiche attive, volte a promuovere l'occupazione, e non più come struttura di regolazione dell'incontro fra domanda e offerta di lavoro.

Nella c.d. legge Treu (n°196/1997), che recepisce una parte significativa dell'accordo (fra l'altro, anche la regolamentazione del lavoro in affitto), non compaiono gli articoli relativi alla riforma del collocamento, visto che, al momento della sua formazione, si attende l'approvazione della legge "Bassanini". Anche i disegni di legge sulla delega alle regioni e alle province autonome di funzioni amministrative in materia di collocamento, pertanto, perdono gran parte della loro importanza; così, da essi, vengono stralciati gli articoli relativi alla riforma dei servizi per l'impiego. Nel frattempo, il ritardo italiano in materia viene riconosciuto anche a livello di istituzioni comunitarie: con sentenza emessa in data 11 dicembre 1997, la Corte di Giustizia di Lussemburgo dichiara l'incompatibilità con il diritto comunitario della pretesa di operare in regime di rigido monopolio da parte di un servizio pubblico di collocamento tanto inefficiente.

Il 23 dicembre 1997, dopo decenni di ripetuti rinvii, interventi frammentari e settoriali e riforme mancate, nasce il "nuovo collocamento" e l'interminabile storia della riscrittura della presenza pubblica sul mercato del lavoro sembra giungere finalmente a conclusione: in attuazione della delega contenuta nella legge n°59/1997, il Governo emana il decreto legislativo n°469/1997, che disegna un nuovo quadro di riferimento in materia di intervento pubblico sul mercato del lavoro.





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