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Gli xenotrapianti - La storia dello xenotrapianto

medicina



Gli xenotrapianti


Introduzione

Il termine trapianto si riferisce alle procedure dell'espianto di cellule, tessuti o organi da un individuo, e al loro innesto, solitamente in un soggetto diverso. L'individuo che fornisce il tessuto da trapiantare viene indicato come "donatore", mentre il destinatario del trapianto è chiamato "ricevente o ospite".

Gli studiosi che si occupano di immunologia dei trapianti hanno creato una loro terminologia per descrivere le cellule ed i tessuti con cui hanno a che fare nella propria attività. Un trapianto da un individuo allo stesso individuo è denominato trapianto autologo (per brevità autotrapianto) o isotrapianto; un trapianto tra due individui geneticamente identici (o singenici) viene denominato trapianto singenico; un trapianto tra due individui geneticamente diversi, ma appartenenti alla stessa specie è chiamato trapianto omologo o allogenico (omotrapianto o allotrapianto); un trapianto tra individui di specie diverse viene infine chiamato trapianto eterologo o xenogenico (eterotrapianto o xenotrapianto).



Dopo decenni di difficoltà nel 858g69i reperimento di organi umani, per i chirurghi specializzati in trapianti si prospettano nuove fonti alle quali attingere. I loro tentativi sono guidati dalla consapevolezza che la disponibilità di organi umani sarà sempre insufficiente a soddisfare la domanda. Solo negli Stati Uniti migliaia di pazienti attendono il trapianto di cuore, fegato, rene, polmone o pancreas, e milioni sono affetti da malattie che un giorno potrebbero essere curate con altri tipi di donazioni. Pertanto gli scienziati sono sempre più ansiosi di trovare metodi per trapiantare cellule o organi animali in pazienti umani (xenotrapianto).


La storia dello xenotrapianto

L'idea di combinare parti provenienti da diverse specie non è affatto nuova: già nella tradizione mitologica greca si incontrano centauri e chimere, composti rispettivamente da uomo e cavallo e da leone, capra e serpente.

Sembra, inoltre, che nel 1682 un medico russo avesse riparato il cranio di un aristocratico ferito usando l'osso di un cane.

Ma fu solo all'inizio del XX secolo che si tentò con una certa costanza di trapiantare tessuti animali in organismi umani.

Nel 1905, per esempio, un chirurgo francese inserì porzioni di rene di coniglio in un bambino affetto da insufficienza renale. I primi risultati dopo l'operazione furono eccellenti ma dopo due settimane il bambino morì.

Nei due decenni successivi numerosi altri medici cercarono di trapiantare organi di maiali, capre, agnelli e scimmie in vari pazienti; tuttavia per ragioni che allora parevano incomprensibili, tutti questi trapianti si rivelarono rapidamente un fallimento. Gli insuccessi chiaramente erano dovuti alle idee molto vaghe che i vari scienziati avevano sulle basi immunologiche del rigetto. Così avendo solo insuccessi gran parte degli studiosi perse interesse nei trapianti.

Alcuni però perseverarono tanto che nel 1954 fu eseguito da Joseph Murray a Boston il primo trapianto di rene veramente riuscito. Questo ricercatore evitò il rigetto immunologico trapiantando un rene tra gemelli monovulari identici. Successivamente Murray e altri riuscirono a trapiantare reni espiantati da fratelli non identici e, infine, da donatori estranei, somministrando ai riceventi farmaci che sopprimevano la risposta immunitaria.

Fortunatamente anche quando iniziarono i trapianti di organi umani gli scienziati non abbandonarono la possibilità di utilizzare tessuti di origine animale. Si continuarono a cercare le ragioni precise per cui gli organi trapiantati tra specie molto diverse cessavano rapidamente di funzionare finché nel 1960 fu scoperta una tra le cause più importanti. Il sangue del ricevente contiene molecole di anticorpi che si legano al tessuto del donatore (gli anticorpi sono normalmente diretti contro i microrganismi patogeni, ma possono anche reagire a componenti degli organi trapiantati). Il legame degli anticorpi attiva specifiche proteine del sangue, dette «complemento» le quali a loro volta producono la distruzione del trapianto. Un simile rigetto iperacuto del tessuto estraneo (che ha inizio pochi minuti o al massimo qualche ora dopo l'operazione) distrugge i capillari dell'organo trapiantato causando una massiccia emorragia. Sebbene questa reazione rappresenti una barriera formidabile alla riuscita dello xenotrapianto, esperimenti recenti sembrano indicare come superare questa difficoltà.

Nel 1992 J. White e colleghi dell'Università di Cambridge riuscirono ad ottenere dei maiali «transgenici» che sulla parete interna dei vasi sanguigni portavano proteine in grado di prevenire i danni arrecati dal complemento umano. Cioè essi introdussero negli embrioni di maiali un gene che codifica per una proteina inibitrice del complemento. Tessuti di questi maiali furono trapiantati in scimmie e riuscirono a respingere la prima ondata di attacchi.


Le strategie per prevenire il rigetto iperacuto

Oggi l'evoluzione della pratica medica ha reso relativamente comune e semplice il trapianto di cuore, di fegato e di pancreas. L'aspetto tragico della situazione è però causato dalla scarsità delle donazioni di organi: solo negli Stati Uniti ogni anno vi sono decine di migliaia di pazienti candidati a un trapianto, meno della metà dei quali riceve un organo donato. Questi sono i motivi per cui gli studiosi hanno continuato le ricerche in materia. Nel 1991 Cooper un medico londinese e suoi collaboratori identificarono gli specifici frammenti molecolari o antigene, che si trovano sui tessuti di maiali e sono bersaglio degli anticorpi umani. Probabilmente le cellule che rivestono le strutture vascolari dei maiali presentano in superficie antigeni caratterizzati da un particolare gruppo glucidico. Questa scoperta ha dato inizio ad una serie di ricerche che continuano ancora oggi.

Varie sono le strategie per prevenire il rigetto iperacuto su cui si sta indagando.

Si potrebbe allevare o clonare una linea di maiali manipolati geneticamente che non presentano questa particolare struttura antigenica.

Una possibilità sarebbe quella di eliminare in partenza l'enzima che addiziona gli zuccheri.

In alternativa si potrebbe dotare i maiali di un gene che codifica per un enzima in grado di sostituire lo zucchero antigenico con un'altra struttura di carboidrati per esempio con l'antigene del gruppo sanguigno umano zero, il quale non dà luogo ad alcuna risposta immunitaria.

Si potrebbe anche introdurre un gene per un enzima che degrada lo zucchero indesiderato.

Un'ulteriore strategia sarebbe quella di alterare il sistema immunitario del ricevente in modo da rendere impossibile la distruzione del tessuto trapiantato. Per esempio, con l'uso di apparecchiature relativamente semplici, si possono rimuovere dal sangue del ricevente tutti gli anticorpi diretti contro i tessuti di maiale, eliminare le proteine del complemento o interferire con la loro attivazione.


Metodi per creare la Tolleranza

Un problema ulteriore su cui si devono soffermare i ricercatori che si occupano dello xenotrapianto è quello di risposte più tardive da parte del sistema immunitario di pazienti in cui sono stati trapiantati tessuti animali.

Pare che la risposta immunitaria cellula - mediata ai trapianti animali possa essere altrettanto violenta degli attacchi che i globuli bianchi sferrano contro gli organi trapiantati da una persona a un'altra.

Sebbene sia ancora un obiettivo lontano, l'induzione della tolleranza immunologica è un'area molto attiva della ricerca, che senza dubbio darà frutti. Stranamente, in ultima analisi potrebbe dimostrarsi più facile ottenere tolleranza negli xenotrapianti che non nei trapianti convenzionali: mentre gli organi umani donati devono essere procurati rapidamente in condizioni di emergenza, gli organi animali sarebbero sempre disponibili e, quindi, i medici avrebbero il tempo di riprogrammare il sistema immunitario del ricevente.

Un metodo per creare tolleranza comporta l'alterazione del sistema immunitario del ricevente con cellule del midollo osseo dell'animale donatore. Una volta introdotte, le cellule donate si diffondono e maturano, creando un sistema immunitario «chimerico» derivato in parte dal donatore, in parte dal ricevente. Lo scopo è quello di far sì che il sistema immunitario del paziente non riconosca più come estranee né le cellule donate, né i tessuti successivamente trapiantati dallo stesso animale.

Queste ricerche potranno forse consentire di evitare il rigetto di organi trapiantati da animali ma per disporre di metodi veramente efficaci bisognerà probabilmente attendere ancora qualche anno.

Attualmente è invece in fase di sperimentazione clinica un altro protocollo per evitare il rigetto chiamato immunoisolamento. Esso prevede la separazione fisica del tessuto trapiantato, il quale viene racchiuso entro una membrana che permette a piccole molecole (come le sostanze nutritive, l'ossigeno e certi agenti terapeutici) di attraversarla, ma nello stesso tempo impedisce a molecole di dimensioni maggiori (come gli anticorpi) e ai globuli bianchi di raggiungere il trapianto. Questa strada è praticabile solo per proteggere cellule isolate o piccoli agglomerati di tessuto, ma non organi interi; potrebbe però dimostrarsi utile nel trattamento di molte malattie, e offre alcuni vantaggi pratici, come la possibilità di manipolare con relativa facilità cellule o piccole masse di tessuto, potendole mantenere all'esterno dell'organismo per un tempo più lungo di quanto sia possibile quando si lavora con organi interi.

Recenti tentativi di usare cellule così incapsulate di origine animale per trattare l'insufficienza epatica, alcuni dolori cronici e la sclerosi laterale amiotrofica si sono tutti rivelati promettenti nelle sperimentazioni cliniche. Fra breve tempo si potrebbe cercare di impiantare cellule animali immunoisolate che forniscano agli emofilici i fattori di coagulazione del sangue, o che producano fattori di crescita neuronale in grado di invertire il decorso di alcune patologie neurodegenerative.

Alcuni studiosi si stanno particolarmente impegnando nel trattamento del diabete con cellule di isole pancreatiche di maiale isolate. Lanza e Chick, insieme con alcuni colleghi della BioHybrid Technologies, hanno messo a punto metodi per inglobare le cellule in piccole capsule biodegradabili che possano essere iniettate sotto cute o introdotte nella cavità addominale per mezzo di una siringa. Meno di un grammo di isole pancreatiche di maiale incapsulate dovrebbe fornire a un paziente diabetico quantità normali di insulina. Benché sia necessario un elevato numero di cellule, il volume totale di questi impianti sarebbe solo di qualche decina di centimetri cubi.

In sperimentazioni recenti, cellule di isole pancreatiche bovine incapsulate e impiantate in cani sono rimaste vive per circa sei settimane (ossia fino al momento in cui è terminato l'esperimento). Questi risultati, insieme con altri ottenuti su topi, ratti e conigli, indicano che molto probabilmente le cellule di maiale incapsulate potrebbero sopravvivere nei pazienti per un tempo variabile da alcuni mesi a più di un anno. Alla fine il sottile involucro si degraderebbe, senza richiedere un ulteriore intervento chirurgico per rimuovere le vecchie capsule e inserirne di nuove. La sperimentazione clinica di questa tecnica dovrebbe avere inizio entro un anno.


Vantaggi e svantaggi dello Xenotrapianto

La crescente convinzione che lo xenotrapianto potrebbe essere a portata di mano fa insorgere svariati dubbi. In particolare, molti esperti temono che i donatori animali possano albergare microrganismi patogeni potenzialmente dannosi per la specie umana, come il virus Ebola o i prioni responsabili della sindrome della «mucca pazza». Una volta infettato un paziente sottoposto a trapianto, questi agenti potrebbero diffondersi nella popolazione generale e dare inizio a un'epidemia. Alcuni scienziati ritengono, a questo proposito, che l'HIV abbia avuto origine nelle scimmie e abbia poi in qualche modo superato la barriera interspecifica, andando a infettare l'uomo.

Pertanto, il trapianto generalizzato di tessuti dalle scimmie all'uomo potrebbero mettere a rischio la salute della popolazione generale. Fortunatamente, la minaccia di tali catastrofi è molto inferiore nel caso dei maiali: la specie umana vive infatti da migliaia di anni a stretto contatto con essi, senza che alcuna grave malattia di origine suina (con l'eccezione di qualche ceppo influenzale) abbia mai fatto la sua comparsa nell'uomo.

L'osservazione che i maiali, nonostante secoli di «convivenza», hanno trasmesso un numero trascurabile di patogeni alla specie umana rassicura molti sul fatto che il trapianto di organi provenienti da questi animali non dovrebbe dare origine a nuove malattie pericolose. Ciononostante, vi sono motivi per essere cauti.

Alcuni retrovirus - virus che incorporano il proprio materiale genetico direttamente nel DNA dell'ospite - rappresentano una possibile minaccia. I maiali, come tutti gli altri mammiferi, contengono nel proprio genoma i cosiddetti provirus: sequenze di DNA potenzialmente in grado di dirigere la produzione di particelle virali infettive. (Fino all'1 per cento del DNA umano è costituito da simili geni virali). Queste sequenze devono la propria esistenza a passate infezioni retrovirali, durante le quali i virus inserirono il proprio materiale genetico in spermatozoi o cellule uovo dei progenitori degli animali attuali. La progenie degli animali infettati conservò i geni virali, che vennero quindi trasmessi di generazione in generazione. Sebbene, nel tempo, la maggior parte di questi virus residui si sia evoluta in forme innocue per i propri ospiti, alcuni potrebbero essere ancora capaci di causare malattie in altre specie.

È quindi ovvio che gli scienziati si preoccupino di quali effetti potrebbero avere i provirus dei maiali, una volta inseriti in un paziente insieme ai tessuti trapiantati. Questo trasferimento non solo permette al virus di accedere direttamente alle cellule umane, ma potrebbe anche presentargli una vittima particolarmente sensibile, a causa del sistema immunitario indebolito dai trattamenti antirigetto. In queste condizioni i provirus suini potrebbero trasformarsi in retrovirus attivi, in grado di causare malattie. È anche concepibile che i retrovirus di maiale possano mutare nei pazienti, o combinarsi con retrovirus umani, dando origine a nuovi patogeni. Il risultato potrebbe essere molto pericoloso poiché, diversamente dai virus suini che causano una breve sindrome influenzale, alcuni retrovirus sono potenzialmente cancerogeni e producono infezioni di lunga durata.

I biologi molecolari stanno lavorando intensamente per identificare i provirus pericolosi che si nascondono all'interno del DNA di maiale e per eliminarli dagli animali di allevamento. Sebbene le relative manipolazioni genetiche possano richiedere ancora molto lavoro, i risultati dovrebbero contribuire a placare ogni timore sulla possibilità che lo xenotrapianto causi nuove malattie umane.

Vi sono anche altre ragioni per cui i maiali potrebbero essere ottimi donatori. Essi sono relativamente facili da allevare e hanno organi di dimensioni e fisiologia simili a quelli umani. Inoltre, esistono già razze di maiali prive di certi patogeni ben noti. E per molti l'impiego di questi animali come donatori solleva meno problemi etici che non quello di primati.

Ciononostante, devono essere risolti ancora molti problemi prima che il trapianto dei tessuti di maiale in pazienti umani possa diventare realtà. Oltre a impedire il rigetto immunitario, gli scienziati devono anche essere certi che gli organi di maiale trapiantati funzionino in modo adeguato nei nuovi ospiti. Il cuore e i reni di maiale hanno svolto correttamente i loro compiti per qualche settimana in alcuni primati, e potrebbero verosimilmente funzionare anche nell'uomo. Un fegato di maiale, invece, non sarebbe probabilmente in grado di compiere la miriade di funzioni del fegato umano; esso potrebbe, tuttavia, sostituire per breve tempo il fegato del paziente, permettendogli di riprendersi da una temporanea défaillance.

Per «mettere nel sacco l'evoluzione» - come alcuni hanno definito l'obiettivo dello xenotrapianto - e riuscire a sostituire ciascun organo malfunzionante con un'alternativa animale potrebbero occorrere anni.

Ciò che, invece, sembra essere sul punto di entrare nella moderna pratica medica è il trapianto di cellule isolate: ci attendiamo di leggere entro breve tempo il resoconto di qualche autentico successo.





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