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GLI ACCORDI INTERISTITUZIONALI DELL'UNIONE EUROPEA

politica



UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI NAPOLI "FEDERICO II"



FACOLTA' DI SCIENZE POLITICHE





TESI DI LAUREA IN


DIRITTO DELLE COMUNITA' EUROPEE






GLI ACCORDI INTERISTITUZIONALI


DELL'UNIONE EUROPEA








INDICE




CAPITOLO I 

GLI ACCORDI INTERISTITUZIONALI: UN'ANALISI GENERALE


Introduzione.........................1

Il gentleman's agreement.................8

Le dichiarazioni comuni del 1975 e 1982...........10

Il principio di sussidiarietà...................28



CAPITOLO II

LA CLASSIFICAZIONE GIURIDICA


2.1 Introduzione.......................37

2.2 La gerarchia delle norme comunitarie............39

2.3 Gli atti atipici......................45

2.4 Le prospettive politiche degli accordi interistituzionali......49

2.5 Una probabile classificazione.................58

2.6 Gli effetti legali.........................81

2.7 La natura degli accordi interistituzionali............88

2.8 I limiti degli accordi interistituzionali.............98







CAPITOLO III

GLI ACCORDI PIU' IMPORTANTI


3.1 Introduzione.........................118

3.2 Gli accordi al cuore delle finanze pubbliche.............119

3.2.1 Agenda 2000........................122

3.2.2 Il primo caso......................127

3.2.3 Il secondo caso: il miglioramento della procedura annuale...131

3.3 Gli accordi sulla trasparenza in materia legislativa.......136



CAPITOLO IV

LE RAGIONI DEGLI ACCORDI INTERISTITUZIONALI


4.1 Il principio di leale collaborazione...............141

4.2 Il difficile rapporto tra Consiglio e Parlamento Europeo.....152

4.3 Le conquiste del Parlamento Europeo.............162


Conclusioni


Bibliografia















1.1 Introduzione


A partire dal 1950, superando secoli di sfiducia e guerra reciproca, gli Stati europei hanno deciso di dar vita, poco alla volta, ad un grandioso progetto di unione tra loro, la Comunità Europea.

Tutto ciò ha rivelato numerose difficoltà nel corso degli anni, tuttavia prevedibili nonostante l'ambizione dei 'Sognatori' di una grande Europa, quali Jean Monnet e Altiero Spinelli per esempio, dal momento che la "convivenza" ha sempre generato attriti tra gli Stati e tra le stesse Istituzioni comunitarie.

Soprattutto negli ultimi anni, però, questi problemi stanno trovando sempre più spesso soluzione grazie alla rinnovata volontà degli Stati di dare concretezza ai sogni di quei grandi pensatori.

Nel delicato e complesso sistema comunitario, la cooperazione interistituzionale non è un fenomeno nuovo, soprattutto se finalizzata all'esecuzione dei diversi trattati succedutisi nel corso degli anni.

Basti pensare a scambi di lettere, dichiarazioni delle diverse istituzioni, incontri di Capi di Stato, fenomeni che, in realtà, rispecchiano perfettamente il carattere del sistema comunitario che deriva dalla più antica storia delle Relazioni Internazionali e dei rapporti tra Stati.

Può capitare, dunque, che tali strumenti arrivino a possedere, oltre alla intrinseca reiterazione del fatto, anche il carattere di "Opinio iuris ac necessitatis", elementi che concorrono alla formazione della cosiddetta "consuetudine".

Essa, come sappiamo dal diritto internazionale, è una delle più importanti fonti di tale sistema giuridico, ed è dotato di forza normativa pari alle norme di più elevato rango.

A tal riguardo, gli atti di cooperazione di cui sopra, hanno per conseguenza di fissare una linea di condotta obbligatoria, o quasi e possono anche causare effetti giuridici, rientrando nella categoria di atti normativi a tutti gli effetti.

Gli accordi interistituzionali rappresentano l'esempio chiave di questa sempre più rafforzata cooperazione tra le tre Istituzioni portanti del sistema comunitario e nello stesso tempo anche la forma che maggiormente si avvicina alla perfezione, in quanto a meccanismi procedurali e portata giuridica.

Essi consistono in atti prodotti in seguito all'incontro delle volontà congiunte delle tre Istituzioni, pilastro della Comunità europea, Il Parlamento Europeo, il Consiglio e la Commissione.

In tal senso, infatti, essi non solo rispondono ad una precisa esigenza espressa nel Trattato di Maastricht[1], ma contribuiscono a migliorare la sua stessa applicazione, definendo e risistemando questioni lasciate non troppo chiare dagli articoli del testo costitutivo.

Gli accordi tra le tre istituzioni non sono previsti nel Trattato di Roma. In effetti, questo si limita da una parte, a descrivere in maniera esaustiva gli strumenti giuridici di cui dispongono, a livelli diversi, le istituzioni (regolamento, decisione e direttiva), d'altra parte, a fissare in maniera dettagliata le competenze di ciascuna Istituzione.

È cosi che il Parlamento non disponeva inizialmente praticamente di alcun potere di decisione nel quadro della procedura legislativa in cui interveniva solo a titolo di consultazione nell'ambito delle diverse procedure.

Per contro, a partire dal 1975, il Parlamento Europeo ha cominciato a detenere un considerevole diritto autonomo in materia finanziaria: quello di fissare il tetto massimo delle spese non obbligatorie. Questo diritto, che inizialmente si applicava soltanto ad una piccola frazione del budget, copre attualmente quasi tutto il prospetto di spese ad eccezione di quelle agricole. E' codificato in maniera estremamente dettagliata (l'art 203 che contiene queste disposizioni copre lui solo cinque pagine nella versione stampata del Trattato) ed è attorniato da una serie di limiti che vogliono restringere l'uso estensivo da parte di un Parlamento un po' troppo desideroso di estendere i suoi diritti in campi non previsti dal Trattato.

In un tale sistema, in principio non vi era posto per accordi presi tra le tre istituzioni, perché non doveva proprio sussistere come questione. E dunque, appare chiaro subito che sarebbero presto venute alla luce alcune lacune del Trattato. Queste regole sono state spesso fissate con degli accordi tra le tre Istituzioni che si legano mutuamente senza avere, a prima vista, il valore giuridico del Trattato o del diritto derivato.







Il gentleman's agreement


Il primo di questi accordi è stato concluso tra il Consiglio e il Parlamento per evitare che una delle due istituzioni mettesse in discussione e si opponesse al progetto di finanziamento dell'altra. Questo accordo è un po' misterioso dal momento che non esiste traccia scritta e che non si può esattamente risalire alla data in cui è stato concluso.

Ciononostante, esso è stato scrupolosamente rispettato dopo i suoi 20 anni di esistenza, malgrado le velleità passeggere di una o dell'altra istituzione di denunciarne i termini.

Lo scopo di questo accordo è relativamente chiaro.

In effetti esso vuole evitare i conflitti tra i detentori del potere finanziario in un campo (il potere di organizzazione interna) in cui un intervento esterno è visto di cattivo occhio.











1.3 Le dichiarazioni comuni del 1975 e 1982


L'anno 1975 completa l'attuazione del sistema finanziario comunitario, innanzitutto perché la decisione sulle risorse proprie del 1970 sarà d'ora in avanti applicata integralmente, e poi perché il Trattato di Bruxelles (22 luglio 1975) dà un potere in campo finanziario enorme al Parlamento sulle spese non obbligatorie.

E' in questo contesto che interviene la Dichiarazione Comune del 22 aprile 1975[2] tra il Consiglio, il Parlamento e la Commissione con lo scopo di sviluppare il potere finanziario in parallelo con il potere legislativo. Per fare ciò, esso crea una procedura di concertazione tra le tre istituzioni per gli "atti comunitari di portata generale che hanno delle implicazioni finanziarie considerevoli". Malgrado il suo interesse, questo accordo rimane quasi completamente lettera morta per due serie ragioni: innanzitutto perché si limita a degli aspetti procedurali, senza toccare il potere di discrezionalità del Consiglio che ne conserva l'esclusività. E poi perché il Parlamento Europeo ha tentato, soprattutto dopo le elezioni con suffragio diretto del 1979, di estendere il suo potere finanziario accrescendo il campo delle SNO (Spese non obbligatorie), che già erano di sua competenza, da cui sono nate tensioni ancora maggiori con il Consiglio.

Queste tensioni hanno condotto alla seguente situazione:

Nel 1980 ci fu il rifiuto da parte del Parlamento di approvare il budget proposto dal Consiglio, a causa di un disaccordo sulle SNO.

Nel 1981, fu la volta del rifiuto degli Stati membri di pagare il supplemento di spese che risultava da un budget maggiorato.

Nel 1982, il Consiglio convocò la Corte di giustizia delle Comunità Europee per un ricorso contro il Parlamento Europeo che aveva adottato il budget senza un accordo preliminare con le tre Istituzioni sui nuovi tassi di aumento delle SNO come previsto dall'articolo 203 del Trattato.

Questo ultimo litigio ha finalmente condotto alla nuova Dichiarazione Comune[3], unica soluzione trovata dalle Istituzioni per tentare di uscire, di nuovo, dai blocchi successivi che riguardavano la procedura finanziaria.

Questa volta, l'accordo prevedeva una classificazione di tutte le spese SNO e SO, con la possibilità di modificare la ripartizione di comune accordo. Prevedeva ugualmente una procedura che permetteva di fissare un nuovo tasso di aumento delle spese non obbligatorie una volta che il tasso massimo fosse stato insufficiente.

Questo compromesso doveva mettere fine alla guerra 'in nuce' tra Parlamento e Consiglio a vantaggio di uno nuova procedura ordinata di cooperazione. Purtroppo, le cose sono andate diversamente e molto presto, in occasione di diverse modifiche della nomenclatura finanziaria, il Consiglio e il Parlamento hanno sviluppato della liste differenti di SNO, costringendo così la Commissione a dare la sua interpretazione personale. In più, la procedura sulla fissazione del tasso di aumento delle SNO s'è rivelata troppo pesante e complicata (riunione dei tre presidenti) e dunque non è stata rispettata.

Nondimeno, questo fallimento non è stato preso in considerazione, purché altri problemi più immediati e più importanti lo hanno relegato in secondo piano (come l'entrata nell'Unione Europea della Spagna e del Portogallo, per esempio).

Alla fine di questo periodo movimentato, il conflitto tra il Consiglio e il Parlamento è tornato brutalmente in primo piano con l'annullamento del budget da parte della Corte di Giustizia nel 1986 su domanda del Consiglio[4], per un superamento unilaterale del tasso massimo di aumento delle SNO da parte dell'Assemblea Europea.

Per altro, il Presidente del Parlamento ha rinunciato a chiudere il budget 1987 perché era ugualmente in superamento del Tasso massimo di aumento delle SNO.

A questo punto diveniva indispensabile un nuovo chiarimento: si è materializzato sotto la forma dell'Accordo Interistituzionale del 1988[5]. Questa volta l'approccio è stato più ambizioso, dal momento che esso si iscriveva in un grande insieme conosciuto sotto il titolo di "Pacchetto Delors I".

Si proponeva, nell'ottica del raggiungimento del mercato interiore, di assicurare la pace finanziaria e la sicurezza per un lungo periodo.

In questa prospettiva, il quadro generale di cinque anni (1988 - 1992), precisava i limiti nei quali le spese, che erano classificate in 5 categorie indipendenti le una dalle altre, potevano evolversi. D'altra parte, i presupposti di spesa disponibili erano determinati, ogni anno, in funzione di una percentuale del budget comunitario. Inoltre erano previste procedure per adattare e revisionare, se ce ne fosse stato bisogno, queste prospettive f 545i89f inanziarie.

Da parte sua, questo accordo implicito delle tre Istituzioni sull'aumento delle SNO, all'interno del quadro delle prospettive finanziarie, faceva evitare il litigio tradizionale sulle SNO, istituendo poi regole sulla disciplina finanziaria.

Inoltre, questo accordo costituiva il punto cardine di tutto un insieme di disposizioni più classiche che avevano, in se stesse, l'obiettivo di permetterne la realizzazione.

Si tratta come è noto della Decisione relativa alle risorse proprie, della Decisione riguardante la disciplina di finanziamento per l'agricoltura e del regolamento quadro relativo ai fondi strutturali.

Questo accordo è stato un tale successo che è stato rinnovato nel 1993 (per sette anni) su delle basi quasi uguali.

E' vero che i suoi principi base non erano per niente disprezzabili: oltre alla messa in sordina del litigio SO/SNO, aveva permesso finalmente un rispetto più stretto della disciplina relativa al finanziamento.

Certo, la congiuntura era stata particolarmente favorevole in ragione del dinamismo creato dall'obiettivo del mercato comune cosi come per il raddoppio dei crediti pianificati per i fondi strutturali.

Questa buona situazione finanziaria ha ugualmente permesso una serie di revisioni delle prospettive finanziarie permettendo anche sia al Consiglio che al Parlamento di coprire i bisogni finanziari che ognuno considerava come importanti.

Il nuovo accordo del 1993 è stato concluso dopo un anno di esitazione, perché entrambe le Istituzioni avevano per un attimo immaginato che un ritorno puro e semplice all'articolo 203 del Trattato avrebbe potuto essere per loro più favorevole.

In effetti, la Corte di Giustizia, che è stata chiamata in causa dal Consiglio per un ricorso di annullamento contro il budget 1995[7] cosi come proposto dal Presidente del Parlamento, constatò che l'accordo implicito sull'aumento delle SNO (previsto dall'accordo interistituzionale del 1993) era insufficiente e non rispettava l'articolo 203 del Trattato.

Ne segue che la paura di alcuni che l'articolo 203 potesse lentamente cadere in disuso a vantaggio delle disposizioni più realiste dell'accordo interistituzionale, non ha fondamento.

L'accordo, almeno nelle disposizioni che vanno al di la o anche al limite dei trattati, non ha valore a meno che non sia rispettato da tutti. In effetti, non sussiste sanzione giudiziaria in questo ultimo caso.

I giuristi di tutte le istituzioni comunitarie hanno cominciato ad inquietarsi davanti al moltiplicarsi di questo tipo di accordi. Essi temevano, in effetti, che con il pretesto di una migliore maneggevolezza, si creassero dei regimi giuridici paralleli che svuotassero certe disposizioni del Trattato della loro sostanza senza che ne fossero state rispettate le forme necessarie alla loro modifica.

Già alla loro prima apparizione, dunque, gli accordi di questo tipo fecero capire che avrebbero avuto davanti a loro ancora un bell'avvenire, tanto in ragione delle loro caratteristiche proprie che per i benefici che apportano alle tre istituzioni. Di fatto:

La loro procedura relativamente leggera e flessibile permette di fissare regole che non passeranno per la procedura legislativa normale a causa della sua rigidità (maggioranza qualificata, giochi politici)

Il loro approccio consensuale permette di trovare delle soluzioni pratiche ai problemi esistenti senza però abbandonare le posizioni di principio inconciliabili.

Le loro disposizioni permettono di colmare le lacune delle regole esistenti.

Inoltre riesce ad accontentare la 'Triade' al completo in quanto:

Il Parlamento vi trova, in particolare, il vantaggio di estendere i suoi poteri al di là dei limiti fissati dal Trattato senza essere esposto a un ricorso del Consiglio;

Il Consiglio può fare prova di una reale apertura verso un sistema più democratico senza per contrario rinunciare alla più piccola particella delle sue prerogative che sono sue in virtù del Trattato;

La Commissione ci vede soprattutto il vantaggio di un sistema ordinato che permette una gestione fondata su delle regole accettate da tutti e dunque suscettibili di evitare i conflitti inutili.

In alcuni casi, è stato lo stesso Trattato a giustificare l'utilizzo di tali strumenti giuridici, come è accaduto nel caso del Mediatore Europeo e delle Commissioni temporanee di inchiesta, organi per la cui attuazione è stata espressamente prevista, nel Trattato di Maastricht, una procedura di collaborazione interistituzionale.

Nel campo finanziario, poi, la stipulazione di tali accordi è apparsa come l'unico sistema per risolvere tensioni e conflitti interni alla stessa procedura prevista dal Trattato. Attraverso gli accordi interistituzionali si è riusciti dunque a compiere quel salto di qualità determinante che ha permesso di superare la ben nota conflittualità in seno alle tre istituzioni, anche se dal punto di vista giuridico ha comunque lasciato alcune incertezze che poi verranno analizzate con cura.

In questo campo la conclusione di accordi interistituzionali è stata particolarmente sostenuta dopo la riforma delle finanze pubbliche comunitarie operate dai trattati di Bruxelles e Lussemburgo (1970). L'iniziale fioritura di accordi in tal senso si dovette allo stesso Trattato, che prevedeva nella ripartizione di competenze per l'esecuzione della procedura finanziaria, un obbligo effettivo per le istituzioni di mettere in pratica un dialogo interistituzionale.

Tuttavia, nella pratica, a causa della complessa procedura prevista dall'articolo 272 del Trattato CE, il rischio di crisi istituzionali profonde è sempre stato molto vicino. In effetti esso dava adito a veri e propri confronti - scontri tra le due branche dell'autorità finanziaria, soprattutto con l'atteggiamento provocatorio del PE, volto ad accrescere il suo peso nel seno della struttura istituzionale comunitaria.

In un tale contesto, gli accordi interistituzionali hanno costituito una modalità ora di regolamento dei conflitti interistituzionali, ora una maniera di evitarli in maniera preventiva. Un esempio fra tutti: la dichiarazione del 30 giugno 1982 che ha voluto mettere fine alla pratica dei ricorsi per annullamento presso la Corte di Giustizia, che certamente non contribuivano ad un corretto funzionamento del meccanismo comunitario.

Col passare degli anni, e soprattutto a partire dagli accordi nati intorno alla Dichiarazione succitata, questi innovativi strumenti giuridici, che non presentano equivalenti a livello nazionale, sono diventati degli elementi base della procedura di finanziamento comunitario.

Tanta è stata la proliferazione di accordi interistituzionali in questa materia, dovuti anche ai continui differenti problemi che si manifestavano nel corso della pratica istituzionale, che nel 1999 le tre istituzioni, dopo una serie di concertazioni, hanno deciso di approvare un nuovo accordo, che in sé riassumesse e rinnovasse quelli precedenti, al fine di rendere oltre che meno conflittuale, anche molto più chiara la legislazione comunitaria.








Il principio di sussidiarietà


Durante le conferenze intergovernamentali il Parlamento Europeo aveva proposto l'inclusione del principio di sussidiarietà nel futuro Trattato di Maastricht. I governi degli Stati membri ripresero questo suggerimento e così questo principio fu inserito esplicitamente nel Trattato, all'articolo 3B, par 2. Non prevedendo questo articolo il meccanismo per lo svolgimento e la messa in opera di questo principio, le tre istituzioni hanno pensato che fosse opportuno farlo attraverso la stipulazione di un accordo interistituzionale, precisamente quello del 1994[8].

Per quanto riguarda la procedura di codecisione tra il Parlamento Europeo e il Consiglio, sempre nel Trattato dell'UE, vi sono fissati i principi generali, nell'articolo 189B

Dal momento che il suo campo di azione era limitato ad una quindicina di campi al PE è sembrato opportuno chiedere la negoziazione interistituzionale per stabilire le modalità di funzionamento di tale meccanismo, soprattutto per quanto riferito al Comitato di conciliazione.

Il Parlamento Europeo, in questo caso, ha preferito scegliere proprio questo strumento giuridico proprio perché era l'unico che sia dal punto di vista procedurale che materiale avrebbe permesso di trovare un accordo soddisfacente tra le tre istituzioni, in una materia che comunque metteva a dura prova l'equilibrio dei poteri tra i tre pilastri della costruzione europea.

A questo punto possiamo dire che, anche se le negoziazioni interistituzionali non costituiscono una innovazione nel sistema comunitario, ciononostante gli accordi interistituzionali adottati attraverso le conferenze interistituzionali a partire dall'adozione del Trattato di Maastricht, costituiscono sicuramente un modello particolare.

Le sue origini risalgono al periodo che precede il debutto delle Conferenze intergovernamentali.

Il Parlamento Europeo ha ripreso, in una risoluzione del 1989, il suggerimento della presidenza spagnola e francese di organizzare delle pre-conferenze interistituzionali all'inizio degli anni 90, per elaborare proposte concrete per la riforma dei trattati.

Alla fine del 1991, Il PE ha chiesto al Consiglio e alla Commissione di riprendere la formula delle conferenze interistituzionali, al fine di esaminare i differenti problemi legati all'esecuzione del Trattato. L'esistenza di queste conferenze costituisce un'innovazione nel sistema comunitario e risponde ai bisogni di dialogo e di negoziazione interistituzionale che prima d'ora non erano mai stati attesi da alcun altra istituzione esistente.

Gli incontri tra le tre istituzioni costituiscono un quadro appropriato che permette di procedere a degli scambi di visioni ma soprattutto rappresentano una pratica all'interno della quale è possibile intavolare negoziazioni destinate a mettere in opera in maniera concertata quelle disposizioni del Trattato che ne abbiano bisogno.

Per il PE questa pratica rappresenta un grande passo avanti, nel gioco di forza all'interno della Triade, dal momento che questa forma di collaborazione con il Consiglio e la Commissione gli assicurano un partecipazione diretta all'elaborazione di norme infra-costituzionali.

A questo punto occorre aprire un'opportuna parentesi, che sarà abbondantemente ripresa in seguito, in merito alla classificazione degli accordi interistituzionali.

Come è stato sopra detto, essi sono definiti come norme infra-costituzionali: con questo termine si vuole definire, per analogia al sistema nazionale nel quale esiste una Costituzione, quella tipologia di atti che discendono da una fonte primaria la quale da loro ragion d'essere. Nel caso del sistema di classificazione di norme, possiamo già anticipare che la dottrina si è manifestamente espressa in merito ad una sostanziale mancanza di una gerarchia di norme europee. Il carattere infra-costituzionale di questi accordi si dimostra importante per la nostra trattazione perché, come è noto, il PE ha ben poco peso nel procedimento di formazione degli atti tipicamente previsti dal Trattato e dunque questo è sicuramente il mezzo migliore per far sentire la propria voce in maniera abbastanza vincolante.

In effetti, le disposizioni previste dal Trattato di Amsterdam non possono essere attuate senza ricorrere ad altre norme che diano loro concretizzazione nell'ambito dell'ordine giuridico comunitario.

Gli accordi interistituzionali dunque rappresentano anche il livello appropriato nella gerarchia delle norme dal momento che permettono di assicurare l'applicazione di particolari norme del Trattato.

E opportuno dunque distinguere, tra gli stessi, quelli per i quali il Trattato prevede espressamente misure di applicazione, come l'articolo 138 C per le commissioni temporanee d'inchiesta e l'articolo 138 E che regola lo statuto e il funzionamento generale del Mediatore.

Al contrario, l'articolo 189B, che regola la procedura di codecisione, non prevede esplicitamente il ricorso ad un accordo interistituzionale - ma nemmeno ad altre modalità specifiche di attuazione.

Si comprende meglio il senso degli accordi interistituzionali proprio in questo caso, nel quale poteva essere scelto sicuramente un regolamento da ciascuna istituzione ed invece si è preferito un altro strumento che garantisse la concertazione, considerando che il campo in questione era proprio riferito ad una procedura codecisionale, che cioè riguardasse le tre istituzioni insieme.

Solo un accordo già di per sé con il carattere della codecisione, avrebbe permesso un'efficace attuazione di questo principio solo teoricamente stabilito nel Trattato.






Introduzione




Dopo aver passato in rassegna i principali Accordi Interistituzionali degli ultimi anni, è necessario procedere ad analizzare la questione più importante sollevata da questi nuovi strumenti giuridici: la loro classificazione.

Il vero problema intorno al quale si è dibattuta la dottrina - e invero assai poco in rapporto alla rilevanza dei suoi effetti nel sistema legislativo comunitario, è quello del posto da dare agli accordi nel sistema degli atti.

E a questo punto si pone immediatamente un altro fondamentale problema e cioè quello della sostanziale mancanza di una gerarchia delle norme comunitarie.

In questo capitolo, dunque, il nostro obiettivo sarà quello di scattare un'istantanea dello stato di gerarchizzazione normativo comunitario, e, in secondo luogo, di dare una collocazione agli Accordi Interistituzionali.









La gerarchia delle norme comunitarie

La riflessione sulla necessità dell'introduzione di una gerarchia delle norme comunitarie è recente.

Solo nel 1990, seguendo un'idea di Spinelli, la delegazione italiana lanciò il tema con successo, al momento della preparazione del Trattato dell'Unione Europea.

In questo modo gli elaboratori del Trattato pensarono di inserire una disposizione legislativa in proposito, sotto forma di Dichiarazione annessa al TUE, precisamente la VII.

In questa però, non si faceva altro che rinviare la questione alla CIG che si sarebbe avuta nel 1996 e che sarebbe stata incaricata di procedere

a) alla razionalizzazione delle varie tipologie di atti normativi esistenti

b) alla loro gerarchizzazione.

E' chiaro che, così facendo, si dimostrò come non si fosse riusciti a mettere in atto il desiderio del grande pensatore italiano.

Ed infatti oggi si parla di fallimento, anche perché nella stessa dichiarazione, oltre a rimandare la soluzione del problema, si utilizzarono anche delle forme verbali al modo condizionale, a sottolineare in carattere puramente ipotetico dell'impegno assunto.

Inoltre la stessa scelta di uno strumento come la "dichiarazione" da' ad essa la chiara impronta di valore più politico che giuridico, considerando che lo strumento maggiormente consolidato, e previsto dal Trattato di Vienna, come Annesso ai Trattati, è il protocollo.

Il problema principale postosi agli occhi di tutti coloro che hanno chiesto e tuttora aspettano un maggiore ordine normativo, è dato dalla enorme proliferazione di atti cosiddetti "atipici".

Questi ultimi, nella cui categoria rientrano ovviamente gli Accordi interistituzionali, hanno trovato una grande utilizzazione negli ultimi anni, creando non pochi problemi ai loro recettori.

In effetti, non essendo specificamente previsti dai trattati costitutivi, hanno una natura giuridica dubbia, che può dar luogo a controversie nel momento dell'applicazione e soprattutto minare il carattere di diritto, proprio della Comunità Europea.

Le ragioni essenziali di questa patologia sono da ricondursi all'essenza stessa della Comunità: infatti, essa, mancando di organi con competenze chiare e delimitate gli uni dagli altri, comporta l'inefficacia del principio organicista di classificazione delle norme e piuttosto la valenza della c.d. "orizzontalità".

Secondo il Trattato, infatti, al momento della produzione normativa, l'organo in questione deve far canalizzare l'azione da regolare in appositi e specifici "veicoli normativi" precostituiti.

Di conseguenza non è possibile associare a determinati campi l'uso di distinti strumenti giuridici (come per esempio leggi e regolamenti).

Il criterio che il legislatore deve seguire, dunque, non è quello della scelta dell'atto in base alla sua forza normativa, ma in funzione del suo effetto, predeterminato.

Quindi diverse tipologie di atti occuperanno lo stesso posto, in una eventuale gerarchia di forza, ma si distingueranno per le finalità cui sono preposti.

Ciò comporta problemi in caso di contrasto tra due diversi tipi di atti. Infatti, mentre per l'ordinamento nazionale la questione è facilmente superabile ricorrendo alla differente forza normativa riconosciuta a ciascun atto, nella Comunità Europea ciò non sarà possibile, rendendo necessaria la partecipazione della Corte di Giustizia.

E sarà proprio quest'ultima la possibile fonte di una nuova razionalizzazione, anche se fino ad ora il suo contributo è stato davvero molto scarso nell'ambito della chiarificazione della collocazione giuridica degli atti in questione.









Gli atti atipici


Analizziamo ora il caso degli atti atipici.

Essi rappresentano, come abbiamo già accennato, un'ulteriore problema in merito all'ordine normativo, perché oltre ad essere intrinsecamente carenti di forza normativa riconosciuta, cosa che vale per tutti gli atti di diritto derivato, hanno anche il deficit di difficile delimitazione della loro sfera giuridica.

Il fatto che gli organi comunitari ne abbiano fatto un tale largo uso è indice della mancanza di strumenti adeguati previsti dal Trattato.

Nel corso degli anni il processo di integrazione europea ha portato alla luce situazioni difficili da regolamentare così delicate e complesse tra loro da richiedere strumenti ben più diversificati dei tre standard (direttive, decisione e regolamento).

Alcuni critici della dottrina hanno anche avanzato l'ipotesi che la proliferazione di questi atti, e il suo numeroso impiego da parte delle istituzioni nonostante la sua riconosciuta "natura giuridica imprecisata", sia dovuto proprio al desiderio di lasciare l'atto in una nebbia interpretativa.

Secondo il Consiglio di Stato francese[9], esiste una chiara sottomissione dei cittadini e degli Stati a questi atti atipici. Dunque sono gli utenti le principali vittime di questa scelta, perché essi si troverebbero in balia dell'incertezza normativa, non sapendo quando e a che cosa poter dare con sicurezza forza vincolante.

Secondo Agnes Gautier[10], però, in fin dei conti i timori del Consiglio di Stato sono infondati perché, quand'anche si dovesse ricorrere alla Alta Corte e risolvere questioni di legittimità e valore di questi atti, l'organo giudicante userebbe, come è solito fare, il criterio sostanziale di analisi sistematica.

In base a quest'ultimo, cioè, essa verifica l'esistenza di tre condizioni necessarie per la produzione di effetti di diritto e cioè che:

1) la materia trattata faccia parte delle competenze comunitarie

2) sia manifesta l'intenzione di vincolare

3) l'istituzione autrice dell'atto agisca in tanto quanto organo della Comunità.

Non sussistendo il problema della nomenclatura dell'atto, verrebbe anche a cadere l'allarme della debolezza delle garanzie giuridiche date dalla CE ai cittadini.










2.4 Le prospettive politiche degli Accordi Interistituzionali



La logica del compromesso globale ha portato all'allargamento delle questioni affrontate dagli Accordi Interistituzionali o per lo meno da essi accennate. Gli Accordi Interistituzionali diventano sempre più il "luogo" in cui sono risolte le controversie tra le Istituzioni o per lo meno sono riconosciuti nella loro dimensione interistituzionale.

Gli Accordi Interistituzionali si affermano sempre più come il cuore delle finanze pubbliche. E, d'altra parte, bisogna riconoscere che la formula di questo tipo di accordo si è affermata anche in campi diversi da quello delle finanze pubbliche.

Le prospettive degli Accordi Interistituzionali, inoltre, sono legate alla Conferenza Intergovernamentale del 1996.

Dal momento che gli Stati membri non sono riusciti a mettersi d'accordo sul principio di revisione delle disposizioni finanziarie del trattato, gli Accordi Interistituzionali restano la sola via aperta per il Parlamento Europeo.

In effetti l' Accordo Interistituzionale del 1993 prevedeva che la Commissione presentasse un rapporto sull'alterazione dell'Accordo e sulle modifiche che era opportuno apportarvi alla luce dell'esperienza.

Come nel caso del primo Accordo Interistituzionale in materia finanziaria, questo rapporto ha portato alla conclusione di un nuovo Accordo (quello del 1999-2000) a cui si riferiscono le disposizioni finali dell'Accordo del 1993. Dal momento che con la Conferenza intergovernamentale del 1996 gli Stati membri non hanno previsto una revisione del trattato in questo campo, ancor più evidente è il ruolo fondamentale degli Accordi Interistituzionali.

In effetti il Trattato, così revisionato, avrebbe potuto stabilire il principio della programmazione finanziaria pluriennale e rinviare la sua applicazione ad un accordo scegliendo una soluzione analoga a quella prevista dal Trattato di Maastricht per le Commissioni di inchiesta del Parlamento Europeo.

La dichiarazione riguardante la revisione delle disposizioni finanziarie indica anche lo scopo dell'esercizio: "raggiungere una cooperazione interistituzionale sotto forma di partenariato".

Questa non poteva non essere una modifica dell'Accordo Interistituzionale.

D'altra parte il paragrafo 24 (rigo 3) apre la via a questa possibilità, stabilendo che "in occasione della CIG prevista per il 1996, le istituzioni confermeranno o modificheranno le disposizioni del presente accordo".

Alla luce dei fatti, la Conferenza intergovernamentale del 1996 non ha dimostrato la capacità di risolvere alcun tipo di problema in metro. Essa, destinata ad occuparti di problemi specifici, quali il pc. di codecisione, la PESC (la Politica Europea di Sicurezza Comune) e la gerarchia delle norme, oltre ad andare oltre i propri scopi (occupandosi, ad esempio, del problema della "comitologia"), non è riuscita a creare un ordine vero nel campo giuridico comunitario.

Secondo la 6ª dichiarazione annessa al Trattato di Maastricht, infatti, sarebbe stato opportuno procedere ad una refonte del sistema normativo Comunitario, che si articolasse intorno a due assi. Il primo si riferiva, in un certo senso, anche all'oggetto della nostra indagine: si trattava, infatti, di trovare una razionalizzazione nel campo nomenclatura degli atti, vista l'enorme confusione generata soprattutto dalla proliferazione di atti atipici. Il secondo era relativo alla gerarchia delle norme stricto sensu dal momento che gran parte della dottrina lamenta una carenza di sicurezza per quanto riguarda la "forza normativa" dei vari strumenti giuridici comunitari.

Dal momento che, però, non si è riusciti a dare svolta in tal senso, si rimane ancora nel campo delle ipotesi.

Se l'Accordo Interistituzionale avesse effetti giuridici chiari ed inconfondibili, se ancora la sua conclusione non fosse una libera scelta delle Istituzioni ma fosse prevista dal Trattato e se le sue disposizioni non si limitassero a mettere tra parentesi quelle del Trattato ma le rimpiazzassero o le integrassero, allora un Accordo Interistituzionale non potrebbe più essere denunciato o espirare (in linea di principio).

La razionalizzazione auspicabile delle fonti del diritto comune, che era all'ordine del giorno della Conferenza, avrebbe potuto anche prendere in considerazione il rapporto tra le fonti oggettive e quelle definite come "convenzionali" in materia di diritto delle finanze pubbliche. Se la nozione di legge fondata su una vera e più semplice codecisione è accettata dalle Istituzioni Europee, sarebbe auspicabile di dare forma legislativa alla programmazione finanziaria pluriennale. Questo presuppone un cambiamento dell'equilibrio.

L'Accordo Interistituzionale è stato considerato uno strumento per dare nuovo ordine il sistema delle finanze pubbliche per assicurare l'equilibrio, ma può essere anche mezzo per modificare l'equilibrio. Storicamente il potere finanziario è stato un mezzo per il Parlamento Europeo di conquista del potere legislativo; lo sarà anche, grazie agli Accordi Interistituzionali, un mezzo per conquistare un potere di corevisione costituzionale? Certo, gli Stati membri sono gelosi delle loro prerogative e se hanno promesso l'affermazione del Parlamento Europeo in materia finanziaria, e solo perché si sono riservati la determinazione delle risorse proprie.

Le divergenze d'interpretazione degli Accordi Interistituzionali tra le Istituzioni firmati, non sono che il sintomo della difficoltà di trovare una soluzione al problema della doppia legittimità democratica - nazionale e sopranazionale nell'Unione Europea.

In effetti, malgrado tutti i progressi giurisprudenziali e dottrinali, la distinzione tra funzione legislativa e funzione esecutiva non è ancora perfetta in diritto comunitario. Infatti possiamo notare che tutte le Istituzioni hanno delle attribuzioni ripartite nell'insieme delle grandi funzioni comunitarie. E' il caso, ad esempio, della Commissione che oltre a espletare funzioni naturalmente esecutive (art 145 e 155), gioca anche un ruolo fondamentale in materia legislativa (con il suo monopolio dell'iniziativa).

Allo stesso modo, il Consiglio possiede la doppia natura di un esecutivo e di un legislativo: e tutti i tentativi di trasformarlo in una sorta di Senato della Comunità sono puntualmente falliti. E il Parlamento Europeo non può non cercare di trarre profitto da questa confusione.







2.5 Una probabile classificazione


Per essere capaci di studiare i nostri Accordi da un punto di vista costituzionale - giuridico, è utile classificarli secondo una tipologia coerente.

E' stato detto che questi Accordi "quasi - costituzionali" sono difficilmente classificabili giuridicamente. Non è possibile, infatti, farli rientrare in una singola categoria legale.

Le circostanze specifiche in cui ogni accordo è stato stipulato formano l'unica base sulla quale determinare se gli Stati o, in questo caso, le Istituzioni intendevano realmente dargli valore legale o se essi non avevano altro obiettivo che pubblicare una dichiarazione di intenti politici e tracciarne le linee base.

Oggi, comunque, è tempo di determinare i criteri per classificare questi accordi; questo esercizio non è assolutamente "ad hoc" né futile. Oggi ci sono più Accordi sulla base dei quali arrivare ad uno schema di classificazione. Inoltre, la proliferazione di Accordi Interistituzionali, insieme alla complessità crescente del sistema legale dell'Unione Europea, ha reso la questione del loro status costituzionale e legale ancora più alta.

Tra i possibili criteri per classificare gli accordi vi è:

A)      designazione formale

B)     identità delle istituzioni partecipanti

C)     data di conclusione dell'accordo

D)     oggetto dell'accordo

E)      base legale

F)       intenzione delle istituzioni partecipanti riguardo all'effetto legale, supportato, se necessario, da altri fattori.


Analizziamo brevemente ciascun criterio.


A) La denominazione formale, anche se non irrilevante, è il criterio meno utile.

Gli accordi più recenti spesso non hanno avuto una designazione formale, mentre il termine "dichiarazione comune" e "accordo interistituzionale" sono stati usati seriatim e senza fare caso per esempio al fatto che il termine "Dichiarazione Comune" ha anche coperto un dominio di altri, alquanto differenti, accordi.

Di uguale importanza dal punto di vista costituzionale, la designazione formale di un atto non è determinante della sua natura anche nel caso di atti con piena forza legale della Comunità Europea.

Non a caso sono rimasti inattese le richieste del Consiglio di Stato francese [11] di dare un nome chiaro e definitivo agli atti atipici (chiamati anche "hors nomenclature") al fine di riclassificarli:

La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, infatti, come la sua "giurisprudenza costante" in materia ha dato sempre il suo avallo alle Istituzioni che si ostinavano a produrre atti dai nomi più svariati. Le cause che hanno per oggetto gli atti atipici sono molteplici, così come quelle riguardanti altri atti che rientrano più strettamente nel quadro dei trattati.

Non esiste differenza che permetta di distinguere i primi dai secondi perché la Corte resta inflessibile in quanto all'applicazione dei suoi criteri giurisprudenziali.

Da quando, nel 1963, l'Alta Autorità della CECA giustificò l'uso degli atti atipici[12], la Corte invocò la necessità di poter distinguere chiaramente gli atti destinati a produrre effetti giuridici dagli altri.

Anche in questo caso, però, dimostrò che il criterio di distinzione che avrebbe usato sarebbe stato decisamente sostanziale, senza prestare particolare attenzione al nome o alla forma dell'atto in questione.

E' così la Corte tradusse la sua preferenza per l'analisi del contenuto materiale dell'atto, abbandonando il criterio puramente formale.

Anche in seguito alla sentenza Schlutter C./Hauptzollant Lörach del 24 ottobre 1973 (Aff 9/73), la Corte ha stabilito che qualsiasi atto che non sia adottato in base all'articolo 189, può dunque essere oggetto di ricorso presso la Corte di giustizia delle Comunità Europee, senza fare alcuna menzione, né distinzione agli atti atipici o "senza nomenclatura"

L'importante è che sia tutelata la libertà delle Istituzioni di raggiungere gli obiettivi comunitari, senza porre limiti di ordine puramente formale.


B) L'identificazione delle istituzioni partecipanti è anche di piccola importanza per distinguere tra accordi che appartengono alla categoria di <<soft law>> comunitario che qui stiamo considerando.

Praticamente in tutti gli Accordi Interistituzionali degni di interesse sono coinvolte le tre principali istituzioni legislative, cioè il Parlamento Europeo, il Consiglio e la Commissione. Dunque questo criterio può risultare meno utile anche perché ai fini della nostra indagine è necessario che i protagonisti siano tutte le tre Istituzioni, altrimenti verrebbe meno il carattere di collaborazione interistituzionale che rappresenta il massimo comun denominatore della nostra ricerca.

E' vero che ci sono Accordi recentissimi (come il nuovo "Accordo quadro" tra Parlamento Europeo e Commissione del 5 luglio 2000) che coinvolgono solo due istituzioni e che rivestono comunque la loro importanza in materia di cooperazione tra istituzioni.

Ciononostante, la presenza della "Triade" storicamente più dimostrata e dunque concorre maggiormente a dare basi legali più forti a questo tipo di accordi.


C) Il criterio di quando un accordo è stato concluso enfatizza la relazione tra testo e differenti fasi di sviluppo di Comunità Europea/Unione Europea.

Ciò porta ad importanti categorie, se non determinanti, di contesti storici specifici. Comunque ciò non basta a fornire una base convincente per distinguere tra gli Accordi che possa aiutarci a stabilire le loro implicazioni costituzionali al giorno d'oggi.

E' certo che ci sarà una differenza sostanziale tra un "Modus Vivendi" del 1994 in materia di codecisione e tra l'Accordo Interistituzionale del 06/05/2000 in materia di bilancio. Il fatto che questo ultimo sia stato stipulato 6 anni dopo, quando l'Europa è sempre una realtà, quando il Parlamento Europeo ha dalla sua numerose vittorie sul campo della democrazia, e quando ormai la pratica della conclusione di questo tipo di Accordi è diventata abituale, ne rende la sua posizione, nella scala di "forza legale", molto superiore rispetto al primo.

Insomma, non è discutibile il fatto che il tempo stesso ha concorso a dare legittimità agli Accordi Interistituzionali, e con esso il nuovo contesto di sviluppo del sistema comunitario e, oggi come oggi, anche di allargamento verso i paesi dell'Europa dell'est, tutte misure che vanno nell'unica direzione di progresso nel settore della leale collaborazione.


D) Se utilizzassimo la "materia" come un criterio, allora quasi metà della totalità di Accordi Interistituzionali conclusi o proposti tratta di procedura legislativa. La seconda più grande categoria riguarda la procedura di bilancio (ce ne sono 5) tanto che può essere visto come un sottoinsieme della prima categoria.

Ciononostante, anche questo criterio rivela delle lacune nel sistema dell'Unione Europea, come già percepito dal Parlamento Europeo.

Esso infatti, in qualità di principale artefice e promotore di questi Accordi, ha usato questo tipo di <<soft law>> per incrementare una posizione istituzionale che dal suo punto di vista del diritto denominato <<hard law>> era debole e poco vincolante.

Infatti il Parlamentare Europeo Alman Metten così disse in un dibattito nella seduta dell'11/03/1993[13] ".Dobbiamo ammettere che quando parliamo di Accordi Interistituzionali noi parliamo di cose che avremmo preferito vedere trattare negli stessi trattati istitutivi della CE. Per quanto ci riguarda, inoltre, questi Accordi sono un tentativo di ottenere ciò che sfortunatamente non siamo mai stati capaci di rendere legalmente vincolante perché non siamo mai stati un partner originario nelle negoziazioni al momento della stesura dei trattati.".

E dunque, il criterio per materia è troppo vago per raggruppare gli Accordi in categorie coerenti. E inoltre la sua rilevanza costituzionale è limitata a meno che la materia non faccia riferimento, esplicito o implicito, ad un altro criterio, come la base legale o se l'oggetto dell'accordo è di natura sostanziale o procedurale.



E) La base globale è un criterio che può essere inteso in entrambi i sensi. Da una parte, gli accordi possono essere classificati in differenti gruppi se sono basati su differenti articoli del trattato; questo è la base legale nel senso del potere delle ragioni di stato come richiesto dall'Articolo 190 CE. D'altra parte, gli Accordi possono essere classificati in differenti gruppi a seconda se essi derivano direttamente da una previsione del trattato oppure no; questo si riferisce al caso in cui il trattato preveda oppure no, più o meno esplicitamente, il ricorso alla conclusione di un Accordo Interistituzionale per raggiungere un determinato proposito.

Ai fini della nostra indagine, il primo senso non è utile perché la maggior parte degli Accordi ricadrebbe al di fuori di uno schema di classificazione basato su di esso. Riguardo al secondo senso, comunque, ci troveremmo d'accordo con la tesi di Monar che lo ha proposto come interessante criterio per classificare gli Accordi Interistituzionali.

Infatti egli suggerisce che vi sono due gruppi di accordi: quelli previsti esplicitamente nel trattato, e quelli a cui manca una base espressa nel trattato. Secondo il suo punto di vista, gli Accordi del primo gruppo costituiscono "hard law", in quanto essi sono "legally binding" oppure "fully binding under Community law". Quelli del secondo gruppo hanno status legale che si colloca tra («in between») una semplice concertazione politica ed una chiara obbligazione legale.

Anche se un'analisi politica può essere estremamente fruttuosa, si può obiettare che queste conclusioni abbozzate potrebbero essere riviste con successo dal punto di vista legale.

E' stato anche suggerito che ciò che sta dietro ad espressioni come "legally binding" o "fully binding under Community law" è un concetto altamente complesso, anche per quegli atti che sono espressamente previsti dall'articolo 189 CE.

Non è il caso di citare, per esempio, il caso giurisprudenziale della Corte di Giustizia della Comunità Europea riguardo all'effettività del diritto comunitario[14], oppure i diversi tipi di atti che possono essere adottati nell'ambito del trattato CE per quanto riguarda l'Unione Economica e Monetaria.

E' stato anche proposto che l'esempio delle regole interne della procedura delle istituzioni CE/UE offre un analogia utile per propositi di comparazione.

Nello specifico è stato argomentato che la legalità degli Accordi Interistituzionali "può derivare dal potere di ogni istituzione di adottare regolamenti procedurali" [15].

Queste regole interne sono basate espressamente sul trattato, ,a non hanno sempre forza legale nel senso di imporre obblighi legali erga omnes. E nemmeno esse possono fare oggetto sempre di un ricorso presso la corte di giustizia della CE e tanto meno sempre possono essere soggette all'articolo 173 CE che riguarda le azioni di annullamento.

Invece, così si è espressa la Corte Europea di Prima istanza: "E' necessario distinguere tra quelle previsioni dei regolamenti procedurali di un Istituzione la cui violazione non può essere invocata da persone (soggetti) naturali e legali perché riguardano unicamente il regolamento dei lavori interno dell'istituzione e non possono intaccare la loro sfera legale e quelli la cui violazione può essere invocata dinanzi alla Corte perché.creano diritti e sono un fattore che contribuisce alla sicurezza giuridica per alcune persone[16].

Detto ciò, è chiaro che la base legale, nel senso di considerare l'uso di un accordo è prevista più o meno espressamente dal Trattato oppure no, è un criterio che non soddisfa interamente per classificare gli Accordi Interistituzionali.


F) Un altro possibile criterio che può essere proposto consiste nell'intenzione dei negoziatori, supportati, se necessario, in casi specifici dalla richiesta di una revisione giudiziale. "L'intenzione dei firmatari" si riferisce all'intenzione delle istituzioni firmatarie con riguardo alla forza legale (se c'è) dell'accordo, e all'estensione e alla natura dei suoi effetti legali. Il fattore supplementare comprende la possibilità che, senza guardare le intenzione dei firmatari, l'Accordo può in circostanze specifiche creare diritti, imporre obblighi oppure avere altri effetti legali, per esempio verso terzi; queste circostanze non devono essere limitate all'intenzione dei firmatari ma devono essere delimitate come necessario da una revisione giudiziale.


Questi Accordi Interistituzionali possono avere (o mancare di) effetti legali che è opportuno determinare in ogni circostanza considerando l'intenzione delle istituzioni signatarie, guardate alla luce della sentenza delle Corti Europee.

Questo criterio è attraente per svariate ragioni.

Primo, nel diritto internazionale pubblico riveste grande importanza l'intenzione dei negoziatori o dei firmatari nell'analisi dei trattati internazionali o le altre forme di accordo. E ovviamente, il diritto internazionale pubblico forma parte del substrato legale del diritto comunitario, specialmente per quanto riguarda il "soft law".

Secondo, esso adatta il diritto pubblico internazionale classico alle categorie specifiche del sistema dell'Unione Europea, in particolare il ruolo dello status unico ed individuale delle Corti Europee. Questi fattori aiutano a distinguere il sistema legale dell'Unione Europea da molti altri sistemi (se non tutti) basati su un trattato.

Terzo, questo criterio permette che l'analisi sia fatta in ogni caso specifico che riguarda questi soggetti facendo particolare attenzione a che si verifichino le seguenti condizioni:

a)       un accordo è vincolante nel senso che ha forza legale tra le istituzioni firmatarie;

b)       speciali previsioni dell'accordo creano effetti legali anche verso terzi e quali effetti sono interessati

c)   l'inadempienza da parte di una delle istituzioni firmatarie può essere invocata da un terzo

d)       sia parti dell'accordo, sia tutto possono essere il soggetto di un azione di annullamento da parte di un terzo

e)   l'accordo in se può servire come base per revisionare la legalità di altri atti CE o UE.


A proposito di quest'ultimo punto, possiamo infatti citare il caso ormai noto della causa "C-106/96 Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord / Commissione delle Comunità Europee" in cui viene citata la "dichiarazione interistituzionale" come precedente per motivare la sentenza.

Infatti nella causa in questione, i due Stati su citati ricorsero alla Corte contro la Commissione Europea per una sua presunta incompetenza ad adottare una decisione (11/96/97) con cui si annunciava la concessione di finanziamenti in favore di progetti europei contro l'esclusione sociale.

La Corte dichiarò l'incompetenza della Commissione ad emanare quell'atto, e l'annullamento relativo portando a modello «la giurisprudenza della Corte, il regolamento finanziario nonché le dichiarazioni interistituzionali» dalle quali «emerge che l'esecuzione delle spese comunitarie relativa ad ogni azione comunitaria significativa presuppone non solo l'iscrizione del corrispondente stanziamento nel bilancio della Comunità, ., ma anche la previa adozione di un atto di base che autorizzi le dette spese.»

Ed ancora nel più recente Regolamento (CE) n° 1655/1999 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 19 luglio 1999[17] recante modifica del Regolamento (CE) n°2236/95 che stabilisce i principi generali per la concessione di un contributo finanziario della Comunità nel settore delle reti transeuropee al punto 11 delle basi giuridiche troviamo la seguente dicitura: "considerando che le procedure fissate nel presente regolamento devono tenere conto di eventuali modifiche delle disposizioni esistenti definite in base ad Accordi Interistituzionali.

E dunque ancora una volta un Accordo Interistituzionale costituisce la base legale nell'adozione di un altro atto, anche con maggiore forza normativa

I 5 casi succitati sono distinti dal punto di vista analitico e dunque è opportuno analizzarli separatamente.











Gli effetti legali


Avere effetti legali non significa necessariamente essere legalmente vincolanti erga omnes, nel senso di un Regolamento Comunitario o di una legge nel senso popolare delle parole. I due poli dello spettro possono essere illustrati facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. E' importante tenere in mente che non tutti gli Accordi sono stati discussi da un avvocato generale o dalla stessa Corte. Anche quando un accordo trova la sua menzione, la questione dei suoi effetti legali, qualora ne abbia, è spesso non posta in maniera diretta.

Al polo estremo si colloca la Dichiarazione Comune sui diritti fondamentali del 1977[18].

La Corte Europea di giustizia l'ha trattata essenzialmente come una riaffermazione ed un rafforzamento di principi la cui forza legale deriva da altre fonti e senza che possedessero in se stessi una reale forza legale indipendente.

Questa dichiarazione, più che altro, serve come fonte di informazione e aiuto per interpretare altri atti giuridicamente vincolanti.

All'altro polo ci sono gli accordi che trattano della procedura di bilancio, che sono quelli più notoriamente discussi nella giurisprudenza recente. Per esempio, riguardo alla Dichiarazione comune del 1982, la Corte di Giustizia CE ha sentenziato così:

"I problemi che riguardano la delimitazione delle SNO in relazione alle SO sono la materia di una procedura di conciliazione interistituzionale portata avanti attraverso la Dichiarazione Comune. e sono risolvibili in quel conteso".

Nel più recente caso l'Avvocato Generale Mancini ha concluso che « documenti di questo tipo: .

b) esprimono il generale principio secondo cui le istituzioni comunitarie sono legate da un obbligo di lealtà e di collaborazione mutua;

c) possono, se le obbligazioni che risultano da essi sono sufficientemente precise e incondizionate, ottenere lo status di misure finalizzate ad eseguire il Trattato e possono rendere soggetto ad annullamento qualsiasi altro atto derivato, che sia in conflitto con loro».[19]

In contrasto, l'Accordo Interistituzionale del 1988 sulla procedura di bilancio stabilisce inter alia che "la disciplina di bilancio contenuta negli Accordi Interistituzionali è vincolante per tutte le istituzione coinvolte fino a che l'accordo è in vigore"[20].

Un esperto di finanza, non un avvocato [21], descrive questo accordo come in grado di aver "dato una base contrattuale all'esecuzione del diritto finanziario europeo, esso costituisce il vero quadro dell'esercizio del potere finanziario in seno alla Comunità". Egli conclude, ciò nonostante, che l'Accordo "non ha vera e propria portata giuridica", non può rimpiazzare gli articoli del trattato, che danno il campo nel quale gli Accordi Interistituzionali operano e senza il quale mancherebbero di effetti reali.

E' stato suggerito, comunque, che un accordo ed in particolare quest'ultimo, può operare sulla base e nelle materie previste dal Trattato e nello stesso tempo gli si deve riconoscere forza legale nel senso di essere legalmente vincolante per le istituzioni firmatarie, tra le quali ha la sua parte giuridica.

E' stato anche suggerito che avere effetti legali implica qualcuna o tutte le seguenti condizioni:

a)       Deve esprimere principi generali di diritto comunitario

b)       Deve dare un punto di vista normativo per l'argomento ed il conflitto

c)   Deve dare un contesto normativo (ed eventualmente politico) per le negoziazioni

d)       Deve creare aspettative di condotta che possono obbligare e limitare la discrezionalità istituzionale e in qualche caso deve creare aspettative legittime nel senso legale per parte delle altre istituzioni signatarie

e)   Deve concretizzare la capacità (il potere) di cooperazione interistituzionale come derivato dall'articolo 4 CEE

f)      Deve avere la funzione di regole che sono « legally binding» per e tra le istituzioni signatarie

g)   Deve poter essere oggetto di un'azione per annullamento sotto l'articolo 173 CE

h)      Deve poter essere usato come base giuridica in un contenzioso

i)      Deve servire come fonte di informazione e di aiuto in una interpretazione giudiziale

j)      Deve essere parte dell' acquis communautaire oppure deve creare diritti legali ed obblighi per terzi non facenti parte dell'Accordo.

In ogni caso, come nel caso della Dichiarazione Comune del 1975 sulla procedura di conciliazione, l'atto può fungere adeguatamente da tema di una pratica politica mentre nello stesso tempo i suoi effetti legali sono oggetto di un disaccordo .





La natura degli accordi interistituzionali


Possiamo domandarci se gli incidenti che hanno avuto luogo nel corso dell'applicazione dell'accordo interistituzionale avrebbero potuto essere evitate ponendo la fiducia della sua interpretazione in una terza istituzione: la Corte di Giustizia. A questo riguardo, le opinioni divergono su due punti fondamentali:

il carattere vincolante degli accordi interistituzionali;

l'eventuale loro posizione nel sistema delle fonti giuridiche comunitarie.

La tesi che è stata avanzata è che si tratti di un gentlemen's agreement: 'L'accordo interistituzionale è un gentlemen's agreements tra Parlamento, Consiglio e Commissione.

La sua apparente forza legale è tuttavia meno vincolante di una decisione formale del Consiglio ratificata se necessario dai parlamenti nazionali. Comunque, sia nel diritto internazionale che in quello privato, gli accordi reciprochi sono stati spesso accettati e a volte sono stati accettati di più di regole e leggi"[23]. L'autore sembra dunque escludere che l'accordo possa essere considerato come facente parte stricto sensu del diritto comunitario.

Questa tesi è stata anche invocata a proposito di un nuovo accordo: l'Accordo Interistituzionale costituisce un semplice "acuerdo entre caballeros"[24] che non chiama in causa formalmente le disposizioni del trattato, ma che si accontenta di metterle tra parentesi, tanto che le tre Istituzioni vi acconsentono, cosi da precisarvi le modalità di applicazione.

Altri, soprattutto da parte del Parlamento, insistono sul carattere giuridicamente vincolante dell'accordo, che troverebbe il suo posto nell'ordine giuridico comunitario.

La natura degli Accordi Interistituzionali deve essere interpretata anche alla luce della Dichiarazione Comuni che l'hanno preceduto.

A questo riguardo, la giurisprudenza della Corte è stata interessante.

La Corte, che aveva messo in evidenza il carattere essenziale del dialogo interistituzionale in materia finanziaria (affare 34/86), fu immediatamente chiamata a prendere posizione sulla Dichiarazione Comune del 1982.

Essa affermò che questo dialogo, che si fonda sull'obbligo di cooperazione leale previsto all'art. 5 del Trattato, può essere inquadrato negli accordi tra le istituzioni a cui si fa riferimento. A tal merito, essa lascia un margine di discrezionalità abbastanza ampio alle istituzioni riservandosi la possibilità di censurare degli errori manifesti e dei comportamenti arbitrari.

Altri autori inquadrano la questione della natura degli Accordi Interistituzionali in una teoria delle fonti del diritto finanziario comunitario, procedendo ad una distinzione tra le fonti del diritto oggettive e le fonti convenzionali: le prime sono vincolanti e sottomesse al controllo della corte, le seconde, tra cui vi sono i nostri accordi, hanno un carattere più politico che giuridico e la loro eventuale violazione potrebbe essere difficilmente sanzionata dalla corte.

Forse la natura degli Accordi Interistituzionali è stata resa più chiara ricorrendo alla nozione di soft law che designa quella zona grigia tra le regole della politica e quelle del diritto: la norma di soft law non è giuridica ma ha comunque degli effetti giuridici.

Secondo un'eccellente dottrina[26] gli Accordi Interistituzionali in materia finanziaria devono essere inseriti nella più vasta categoria di quelli che a loro volta si dividono in due sotto categorie: gli accordi che derivano direttamente dal trattato e gli altri.

I primi sarebbero giuridicamente vincolanti, mentre i secondi rientrerebbero nel concetto di soft law, a proposito della quale l'autore precisa che esiste una scala di valore in ragione della quale gli Accordi Interistituzionali possono avvicinarsi al concetto di hard law.

E poi, in particolare, nel momento in cui certe circostanze e soprattutto quando il contesto degli accordi e il frasario utilizzato indicano l'intenzione delle Istituzioni di legarsi e vincolarsi tra loro, la Corte di Giustizia può accordare effetto legale pieno anche agli Accordi Interistituzionali cosiddetti di soft law.

Possiamo affermare che per i casi più noti le istituzioni hanno voluto legarsi tra loro, cosa dimostrata dalla scelta del termine accordo e, per quanto riguarda il Parlamento, per la qualificazione di 'ratificazione' data alla risoluzione di approvazione del primo Accordo Interistituzionale. Non è altrettanto chiaro che esso intendesse produrre un atto giuridico sottomesso al controllo della Corte.

Qualsiasi cosa pensino le Istituzioni, è in ogni caso la Corte di Giustizia a decidere in merito alla natura dell'Accordo Interistituzionale in rapporto al Diritto Comunitario, nel caso in cui si sollevasse questa questione in seno alla Corte.

In effetti, le Istituzioni non sono veramente interessate ad una soluzione giurisprudenziale, perché esse vogliono conservare un margine di manovra che trovano, appunto, nell'ambiguità attorno alla natura degli Accordi. La Corte, d'altra parte, potrebbe attenersi alla giurisprudenza riguardante la dichiarazione del 1982; in altri termini, essa potrebbe non voler sanzionare un mancato rispetto delle disposizioni dell'Accordo Interistituzionale e potrebbe limitarsi a rinviare il dossier alle Istituzioni contrattanti.

Fatto un compromesso tra queste parti, la conseguenza di una violazione sancirebbe la fine dell'accordo. Questo non provocherebbe un vuoto normativo, rimanendo le disposizioni del Trattato riguardanti l'applicazione delle norme sempre sotto il controllo della Corte.

Dal momento che il Trattato è come una Carta Costituzionale, bisogna porsi due domande:

L'Accordo di cui stiamo trattando può essere definito come infracostituzionale.

E' possibile valutare il suo 'grado di costituzionalità'.


Quanto al primo punto, volendosi ispirare alla distinzione tra diritto 'soft' (infralegale) e diritto 'hard' (prelegale) potremmo dire che il valore delle norme degli Accordi Interistituzionali non è semplicemente infracostituzionale ma anche, almeno tendenzialmente, precostituzionale.

Quanto al secondo punto, la Corte potrebbe essere chiamata a controllare che il contenuto degli accordi interistituzionali non sia contra costitutionem, ma non potrebbe far arrivare il suo controllo oltre.

Sembra dunque giuridicamente corretto e politicamente opportuno che l'interpretazione degli Accordi sia affidata alle parti firmatarie e che esse si incarichino di trovare un accordo per risolvere le possibili divergenze d'interpretazione, e che l'accordo possa essere sottomesso al principio inadimplenti non est adimplendum.




I limiti degli Accordi Interistituzionali


La complessità che caratterizza le società avanzate si riflette nella legge, come mezzo di organizzazione sociale. Le società moderne sono non omogenee, conflittuali, costantemente influenzate da profondi fattori di trasformazione, di ordine economico tecnologico e ambientale.

Tali società, nel loro funzionamento democratico, sono alla ricerca perenne di nuovi equilibri. Parallelamente, le forme tradizionali di organizzazione sociale si allentano e in mancanza di soluzioni spontanee dei conflitti la norma giuridica diviene il regolatore sociale predominante, infinitamente moltiplicabile e multiforme.

Un rapporto dell' OCSE sulla riforma della regolamentazione del giugno 1997 sottolinea i rischi dell'inflazione legislativa e di una regolamentazione troppo complessa, poco chiara, difficilmente comprensibile per i cittadini e gli ambienti economici. Del resto, una legislazione poco chiara e mal redatta può causare una perdita di fiducia del corpo sociale nelle istituzioni politiche.

Per questi problemi generali, il sistema giuridico comunitario si distingue per il suo carattere relativamente nuovo e per la struttura, ancora largamente intergovernativa, del processo decisionale in seno al Consiglio.

La Comunità è un nuovo sistema di diritto caratterizzato da prestiti dai sistemi nazionali ("pick and choose").

La norma giuridica a livello comunitario può apparire composita e quindi meno comprensibile per il cittadino.

Talvolta il legislatore comunitario usa deliberatamente nozioni giuridiche vaghe; al tempo stesso ciò che rileva maggiormente da modificare è "la cultura della decisione", cioè il Consiglio ed il Parlamento devono agire in veste di co-legislatori.

L'uso crescente di Accordi Interistituzionali è dovuto in parte ai fattori strutturali del sistema CE così come alla mancanza di divisione chiara di potere o di regole dettagliate che governino le relazioni tra le istituzioni.

Esso deriva anche da fattori congiunturali, come la confusione parziale dei concetti di sussidiarietà e proporzionalità nell'interpretazione data al concetto di sussidiarietà dalle istituzioni EU dopo la firma del Trattato costitutivo dell'UE.

Tutti questi fattori comportano seri problemi costituzionali.

Essi includono non solo il "paradosso della sussidiarietà", ma anche la ricerca di quali Accordi Interistituzionali sono soggetti a chiari criteri e limiti costituzionali.

Le istituzioni firmatarie di Accordi Interistituzionali sono soggette a principi di base espressi nei trattati e derivati da esso. Inoltre, gli accordi stessi devono essere d'accordo con i seguenti principi.

I. Nella conclusione di accordi e nel renderli operativi, in pratica, le istituzioni signatarie sono soggette al principio di leale cooperazione espresso nell'Articolo 5 CE

II. Conseguentemente, gli Accordi Interistituzionali non possono modificare i Trattati di Base o la legislazione secondaria. Come argomentato dall'Avvocato Generale Mancini: ".rimane fuori discussione che le dichiarazioni comuni e misure simili costituiscono un mero "droit de complément" che non può derogare la legge primaria a meno che di non inficiarsi in invalidità.

III. Gli Accordi Interistituzionali devono rispettare il principio di certezza del diritto. In particolare, qualsiasi diritto od obbligazione garantito o imposto da un accordo, sia verso le istituzioni signatarie, che verso terzi, deve essere espresso in maniera chiara e non ambigua. In altre parole possiamo dire che, in assenza di un linguaggio chiaro, un accordo dovrebbe essere interpretato come se non avesse forza legale, e poi solo in un secondo momento come capace di creare obblighi legali tra le istituzioni signatarie. Solo successivamente come capace di creare diritti ed obbligazioni verso terzi.

IV. Partendo dall'assunto che le istituzioni firmatarie abbiano espresso la loro volontà in maniera chiara, essi devono tenere in considerazione il principio di aspettativa legale. In alcuni casi anche questo principio può applicarsi verso terzi, in particolare gli Stati membri. A questo rispetto è importante che gli Accordi Interistituzionali siano basati, direttamente o indirettamente, sull'Articolo 4 CE.

V. Il potere discrezionale delle istituzioni europee di concludere Accordi Interistituzionali è limitata dalla separazione dei poteri tra le Istituzioni. La corte di Giustizia deve dunque assicurarsi che in un certo contesto di cooperazione interistituzionale le istituzioni non ignorino le regole legislativa e non esercitino il loro potere discrezionale in un modo manifestatamene sbagliato o arbitrario (causa 204/86).

L'importanza strategica degli accordi interistituzionali è messa in evidenza dai termini che sono utilizzati per descriverlo. Basti ricordare che l'accordo interistituzionale del 1988 che finalmente ha messo fine alle ostilità in campo finanziario negli anni 80 fu salutato come un vero e proprio Trattato di pace[27] e che l'accordo del 1993 è stato definito come la "la pace finanziaria in scambio di territori politici" .

Per questo motivo, il valore di tali accordi deve essere verificato alla luce della loro applicazione.

Il cammino della Comunità Europea è stato talmente marcato dalle questioni finanziarie che queste rappresentano un filo rosso attraverso tutta la sua storia. Le cause del conflitto finanziario devono essere ricercate nella struttura bicefala dell'autorità finanziaria tale come risulta dai due trattati relativi del 1970 e del 1975.

In occasione del passaggio da un sistema di finanziamento basato sui contributi degli Stati Membri ad uno fondato sulle risorse proprio della Comunità, il Parlamento Europeo ha rivendicato la partecipazione al potere finanziario che era stato detenuto fino ad allora solo ed esclusivamente dal Consiglio.

In due tappe, gli Stati Membri concessero al Parlamento un potere finanziario sottoposto ad uno doppia limitazione grazie alla limitazione delle spese e al tasso massimo di aumento (TMA). Le due branche dell'autorità finanziaria sono in realtà due teste che pensano in maniera differente e che non esitano a mordersi a vicenda. In questa disputa, le due istituzioni hanno sviluppato strategie ben definite.

Il Parlamento tenta con i suoi attacchi di erodere il potere del Consiglio cosi da aumentare in termini assoluti e relativi la "massa finanziaria é sotto il suo controllo.

Il Consiglio è in posizione di difesa: non cede su tutti i fronti e tenta di contrattaccare.

Questa lotta per il potere finanziario che non ha eguali nella storia degli Stati contemporanei, è stata giustamente paragonata a quella che caratterizzava i rapporti tra la Corona e i rappresentanti dei contribuenti all'alba dei sistemi parlamentari.


Le ragioni dell'accordo


L'esperienza degli anni '80 dimostra che una situazione di conflitto esasperato può danneggiare il compimento delle missioni della Comunità cosi che i successi riportati dall'una o dall'altra Istituzione rischino di essere soltanto delle 'vittorie di Pirro'.

L'Accordo Interistituzionale ha voluto superare questa situazione.

Non si tratta di un'innovazione (completamente) rivoluzionaria ma piuttosto del completamento di un lungo processo di tentativi parziali o incompiuti. L'accordo interistituzionale riprende infatti molti elementi che si erano già manifestati nel corso degli anni, pero in maniera del tutto originale.















La posizione delle istituzioni


Commissione, Consiglio e Parlamento avevano ciascuno una concezione differente della portata di un tale accordo in funzione dei loro interessi specifici.

La Commissione, che si sentiva frustrata nei suoi compiti di elaborazione di un quadro finanziario e di esecuzione a causa delle incessanti dispute tra le due branche dell'autorità finanziaria, invitava queste ultime a concludere un accordo tra loro per cui la decisione sui tassi di maggiorazione fosse presa all'inizio della procedura finanziaria e non alla fine. Per dare a questo accordo un quadro stabile, la Commissione si incaricò di presentare ogni anno delle previsioni finanziarie quinquennali.

In risposta a questa iniziativa politica della Commissione, il Parlamento, desideroso di assicurare un riequilibrio tra SO e SNO, propose di adottare una Dichiarazione Comune delle Istituzioni sul potere finanziario, che riguardava tutto l'insieme delle spese che prevedeva, tra l'altro, un livello minimo garantito per ogni categoria di spesa, cosi come un sistema di aggiornamento delle prospettive finanziarie che rispettasse le competenze del Parlamento.

Il Consiglio voleva assicurare una matrice effettiva alla crescita delle spese, per evitare dei problemi che danneggiassero il sistema di risorse proprie. Per questo era piuttosto reticente a concludere un accordo perché, dopo aver tentato di imporre i propri punti di vista al Parlamento attraverso la prima disciplina finanziaria (nel 1979), si rese conto che una disciplina decisa di comune accordo sarebbe stata di gran lunga più effettiva, ma che avrebbe comportato necessariamente delle concessioni al Parlamento.

Il confronto tra questi tre differenti approcci trova il suo quadro istituzionale nel "Trilogue" che fu convocato dal Presidente della Commissione su domanda del Parlamento sulla base delle disposizioni della Dichiarazione Comune del 1982.

Questa negoziazione formale fu intavolata nell'aprile 1988 e dovette svolgersi in un lasso di tempo relativamente breve, perché, in vista del Consiglio Europeo che si sarebbe tenuto nel seguente mese di giugno, si sentiva l'esigenza di arrivare ad un compromesso globale, che includesse anche una decisione sulla 'disciplina' finanziaria ed un'altra sulle risorse proprie.

Dopo il 1988, si dimostrò chiaramente, analizzando l'Accordo Interistituzionale, che l'opposizione tra il Consiglio e il Parlamento non era stata eliminata completamente.

Come è stato universalmente riconosciuto, l'accordo ha condotto ad uno spostamento di contenziosi che si basa ora meno sulla procedura finanziaria che sull'applicazione dello stesso accordo interistituzionale.

Questi conflitti si sono spesso presentati come dei problemi di interpretazione. Ogni istituzione ha cercato di trarre vantaggio da questo atto indubbiamente atipico interpretandolo nella maniera che più rispondesse ai suoi interessi. Dunque l'accordo non ha modificato le strategie di fondo del Parlamento Europeo né del Consiglio. Non sembra corretto dunque definire questo accordo come un trattato di pace, in cui le clausole, d'altra parte, sono generalmente imposte dal vincitore.

Nella guerra finanziaria degli anni '80, nessuna Istituzione voleva uscire perdente, ma l'esigenza di assicurare una certa stabilità all'orizzonte 1992 poteva giustificare la conclusione di un trattato.

Ora ci resta da vedere se l'obiettivo dell'accordo, cioè la disciplina di bilancio e il miglioramento della procedura per lo stesso, è stato raggiunto.

Secondo una parte della dottrina, la risposta è positiva: l'Accordo Interistituzionale è stato un successo perché le revisioni del Parlamento Europeo non hanno sovvertito la programmazione, cosa che ha rafforzato la credibilità della Commissione.

Secondo altri "le vere ragioni dell'Accordo Interistituzionale risiedono nei vantaggi rispettivi che ne traggono tutte le tre istituzioni. Permette di superare la doppia dualità del trattato da una parte tra le entrate e le uscite e per un altra parte, tra le SO e le SNO.

Le due branche dell'autorità finanziaria acquisiscono cosi una codecisione sulle grandi linee guida della proposta finanziaria nel rispetto delle rispettive competenze. Questa crescita della fiducia reciproca appare come un preavviso alla realizzazione di obiettivi a medio termine"[29].

Questo giudizio positivo deve essere lievemente modificato, a mio parere.

Se è evidente che tutte le Istituzioni hanno potuto avere dei vantaggi rispettivi, è ugualmente vero che spesso si è tergiversato: da un lato, il legame tra entrate e uscite è stato stabilito senza riconoscere alcun potere al Parlamento in materia di entrate e dall'altro lato, la tradizionale disputa sulla qualificazione delle spese è stata messa a tacere senza però risolverla definitivamente.

In maniera più generale, la tensione tra l'ortodossia del Trattato e quella dell'Accordo Interistituzionale persiste.

Di conseguenza, la crescita della fiducia reciproca che sicuramente questo tipo di accordo incoraggia, non è lineare. Questa fiducia è stata addirittura messa in crisi e minata dai malpensanti.

Certo, l'esecuzione dell'Accordo Interistituzionale dimostra che è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi. Tutte le parti si sono dimostrate soddisfatte del funzionamento dell'accordo nel suo insieme. Ciononostante, la lunghezza della negoziazione dimostra la difficoltà di giungere ad un nuovo accordo. Nel corso di questa negoziazione, molti nodi si sono dovuti sciogliere per tentare di andare al di là dei limiti che caratterizzavano i primi Accordi Interistituzionali. La Dichiarazione riguardante il sistema delle risorse proprie lasciava intravedere il tentativo del Parlamento di fare pressione in vista della Conferenza Intergovernamentale del 1996. L'annesso relativo alla collaborazione interistituzionale in materia di bilancio prova, alla luce della dichiarazione che riguarda le disposizioni di procedura finanziaria contenute nel trattato, il tentativo del Parlamento Europeo di seguire la sua strategia che vuole farle vincere la battaglia della classificazione delle spese; il secondo accordo interistituzionale è dunque una nuova tregua in cui le parti possono approfittare per prepararsi meglio a delle nuove battaglie.







Introduzione


Ai fini di una trattazione più completa ed esauriente, è opportuno delineare una breve panoramica degli accordi interistituzionali maggiormente degni di nota degli ultimi anni.

Essi si raggruppano in tre grandi categorie:

Quelli, sicuramente più importanti, relativi alla procedura di bilancio, del 1988, 1993 e 1999.

Quelli che traggono origine dalla Dichiarazione Comune del 1994 sulla trasparenza e la sussidiarietà

Il recentissimo accordo per l'istituzione dell'organismo per la lotta contro la frode.

Gli accordi al cuore delle finanze pubbliche europee


Evocati in termini molto generali dall'articolo 15 del trattato "di fusione" dell'8 aprile 1965[30], i ricorsi agli accordi interistituzionali sono stati espressamente previsti in un certo numero di situazioni dal Trattato dell'Unione Europea del 7 febbraio 1992.

E così le Istituzioni comunitarie sono invitate a fare uso di questa pratica, innanzitutto in ciò che riguarda le modalità di esercizio del diritto d'inchiesta parlamentare e poi per lo stabilimento dello statuto del Mediatore Europeo e delle condizioni generali d'esercizio delle sue funzioni, che sono fissate dal Parlamento Europeo[31].

Nati più o meno da una ventina d'anni in un contesto di crisi economica, dalla volontà comune del Consiglio, della Commissione de del PE di dare una base formale alla loro collaborazione, per scartare ogni rischio di conflitto, questi accordi si sono progressivamente moltiplicati dagli inizi degli anni 80, di fatto dalla crescita delle attribuzioni del Parlamento di Strasburgo.

Essi costituiscono senza dubbio un eccellente mezzo di miglioramento del sistema comunitario iniziale, facilitandone anche l'evoluzione.

La principale caratteristica della procedura per il bilancio di questi anni è stata l'eccezionale qualità delle relazioni interistituzionali nel campo finanziario. Le negoziazioni tra Commissione, Parlamento e Consiglio si sono in effetti svolte in un clima particolarmente disteso e costruttivo.

La procedura di bilancio è stata caratterizzata dalla moltiplicazione di scambi tra le Istituzioni: sette triloghi, convocati ogni volta che appariva un aspetto importante delle negoziazione finanziaria, e numerosi incontri informali, tanto a livello tecnico che a livello politico, hanno permesso di prevenire ogni eventuale litigio.

Esaminiamo adesso il caso del più recente accordo interistituzionale, in vigore, sulla procedura di bilancio.





3.2.1 Agenda 2000


Ogni Istituzione si può dire soddisfatta del nuovo accordo interistituzionale. La Commissione ha ottenuto la codecisione negativa in materia di riserva monetaria e di garanzia.

Il Parlamento Europeo ha ottenuto varie concessioni tra cui la procedura di concertazione in materia di spese obbligatorie e la possibilità di intervenire nel dibattito sulla revisione del sistema di risorse proprie in vista della CIG 1996.

Il Consiglio si può dire soddisfatto, perché è riuscito a fare accettare al PE le prospettive finanziarie rigorose decise unilateralmente dal Consiglio Europeo.

Inoltre può dire di non aver fatto delle concessioni di fondo al PE: né la procedura di concertazione né le dichiarazioni riguardanti la finanziarizzazione del FED, né l'evoluzione del sistema di risorse proprie e nemmeno la revisione delle disposizioni finanziarie del Trattato che non imponevano un obbligo di risultato.

Tuttavia non possiamo dimenticare che il compromesso è stato possibile unicamente grazie ad alcune ambiguità che non hanno mancato di essere fonti d'interpretazione divergente e dunque, di conflitti.

L'accordo interistituzionale del 6 maggio 1999 e le prospettive finanziarie 2000-2006 sostituiscono i testi simili che erano stati adottati all'epoca della programmazione finanziaria precedente che espirava il 31 dicembre 1999. Sulla base delle proposte elaborate dalla commissione Santer nel suo documento "Agenda 2000", il Consiglio Europeo di Berlino (marzo 1999), dopo difficili negoziazioni, è riuscito ad adottare un nuovo quadro finanziario per l'UE in cui la priorità è, ovviamente, l'allargamento dell'Unione ai nuovi stati.

L'apporto di questi due nuovi testi è essenziale nell'ambito del diritto e della procedura di bilancio. Sembra, al contrario, che le difficoltà economiche e finanziarie trovate dagli Stati Membri cosi come le esigenze di bilancio del processo di allargamento abbiano finito per vincolare seriamente le iniziative prese in occasione del Consiglio Europeo di Berlino. Molte risposte, e forse anche troppo, sono state rimandate ad una data ulteriore, risposte riguardanti i cardini essenziali del sistema finanziario europeo, creando cosi un fastidioso clima di attesa.

Ma al di la delle considerazioni puramente tecniche che può suscitare un tale soggetto, la vera problematica che giace al di sotto di questo nuovo quadro finanziario è la questione sensibile del ritmo e dell'orientamento che conviene dare alla costruzione europea.

L'apporto dell'Accordo Interistituzionale del 1999 non può essere considerato se non facendo un raffronto con gli altri due accordi precedenti.

In questa prospettiva, il nuovo quadro finanziario offre un doppio interesse a seconda se si guardi il sistema finanziario europeo dal punto di vista della previsione pluriannuale o della procedura di bilancio stricto sensu.

Nel primo caso, l'Accordo Interistituzionale del 1999 partecipa al rafforzamento della disciplina di bilancio pluriannuale, per mezzo di delle nuove prospettive finanziarie. Nel secondo caso, contribuisce al miglioramento dello svolgimento della procedura di bilancio annuale.











3.2.2 Il primo caso


Come i testi che l'hanno preceduto, l'Accordo del 1999 integra una programmazione finanziaria pluriannuale che ne costituisce l'elemento essenziale.

La prima parte dell'accordo è d'altra parte interamente dedicato all'analisi della loro definizione e delle loro modalità di applicazione.

Ma le prospettive finanziarie 2000-2006 si collocano in un contesto economico e finanziario molto differente da quello dei due accordi precedenti.

Quello del 1988 e del 1993 portavano il marchio di un certo "keynesianismo" in campo finanziario, anche considerando il periodo in cui sono stati presi, in cui era questa la filosofia ancora dominante in campo economico.

Non si era infatti detto che le prospettive finanziarie 1988-1992 erano una specie di "Piano Marshall" a vantaggio della Comunità Europea?

Senza dubbio, il Consiglio Europeo di Edinburgo (11-12 dicembre 1992) aveva seriamente levigato le velleità interventiste del "Pacchetto Delors II" a causa di una congiuntura economica e sociale molto sfavorevole negli anni 92-93.

Dunque, le prospettive finanziarie 2000-2006 segnano "una rottura con le precedenti prospettive finanziarie"[32].

Le difficoltà economiche e finanziarie incontrate dagli Stati membri, combinate con i vincoli finanziari composti dai criteri di convergenza previsti dal TUE hanno posto il nuovo quadro finanziario sotto l'egida di una disciplina e di un rigore nel campo del bilancio rinforzato.

Questa vera e propria inversione di tendenza trova la sua conferma tanto a livello del controllo globale dell'insieme delle spese comunitarie quanto a quello del controllo categoriale di alcune di esse.

Ma i due aspetti più originali della programmazione finanziaria 2000-2006 risiedono nella specificità che è riconosciuta a vantaggio dell'allargamento cosi come del rafforzamento della flessibilità delle prospettive finanziarie.

L'elemento più innovatore dell'accordo interistituzionale del 1999 consiste, certamente, nella creazione di un nuovo "strumento di flessibilità". Istaurato dall'articolo 24 dell'accordo, questo dispositivo riprende una proposta della Commissione sostenuta fermamente dal Parlamento Europeo.










3.2.3 Il secondo caso: il miglioramento della procedura finanziaria annuale


L'interesse maggiore della pratica degli Accordi Interistituzionali è di aver permesso alle tre istituzioni dell'Unione Europea di forgiare, in maniera progressiva e consensuale, una sorta di codice di buona condotta nella gestione delle finanze pubbliche europee, superando la rigidità dei testi dei trattati.

L'Accordo Interistituzionale del 1999 prolunga cosi le iniziative già adottate nei due accordi del 1998 e del 1993 nella prospettiva di un perfezionamento constante della procedura di bilancio annuale, per evitare gli effetti devastanti dei conflitti interistituzionali sul funzionamento finanziario dell'Unione Europeo.

L'Accordo in questione riprende e approfondisce questo obiettivo delle tre Istituzioni di migliorare la loro reciproca collaborazione, per assicurare un migliore svolgimento della procedura finanziaria.

L'annesso III "che fa parte integrante del presente accordo" (articolo 17) è d'altra parte interamente consacrata alle modalità di tale collaborazione interistituzionale in materia finanziaria. L'apporto dell'Accordo Interistituzionale si basa su due punti:

Innanzitutto, in quello che riguarda lo stabilimento del bilancio. Il lavoro di preparazione del APB da parte della Commissione deve rispondere a delle esigenze tecniche molto più vincolanti di prima.

Stando ai termini dell'articolo 28 dell'Accordo Interistituzionale, la Commissione prende in considerazione:

"La capacità d'esecuzione dei crediti, mirando ad assicurare una relazione stretta tra debiti per assunzioni e crediti per pagamenti".

Le possibilità d'intraprendere nuove politiche attraverso i progetti pilota e/o azioni preparatorie nuove o di perseguire azioni pluriannuali dopo aver valutato le condizioni d'ottenimento di un atto di base ai sensi del punto 36;

La necessità di assicurare un'evoluzione delle spese in rapporto all'esercizio precedente, conforme agli imperativi della disciplina finanziaria;


Tutte queste disposizioni hanno come obiettivo ridurre il carattere fino ad allora abbastanza aleatorio delle previsioni del APB e dunque di limitare i rischi ulteriori di errori o di approssimazione nell'utilizzo dei crediti del bilancio generale.

Esse, inoltre, forniscono la prova, ancora una volta, dell'estensione particolarmente significativa della procedura cosiddetta di 'codecisione' in materia di bilancio, cosa che conferma una vittoria supplementare del Parlamento Europeo nella sua impresa di erosione progressiva delle competenze finanziarie appartenenti originariamente al Consiglio.

Nel suo rapporto del 1998, la Commissione aveva stimato che la dinamica di concertazione iniziata attraverso l'accordo interistituzionale del 1988 e del 1993, aveva condotto ad una pratica 'molto incoraggiante' di collaborazione tra le Istituzioni.

Ma fa ugualmente osservare che questa dinamica può essere allargata a nuovi campi come, per esempio, i tetti massimi da ascrivere al bilancio generale a titolo degli accordi di pesca e di PESC. La Commissione suggerisce, infine, che in questa concertazione possa intervenire prima della prima lettura e a margine della seconda, il Consiglio.






Gli accordi sulla trasparenza in materia legislativa


Il diritto comunitario purtroppo rivela l'inconveniente spesso di non essere abbastanza chiaro e fruibile da parte dei cittadini.

In effetti troppo spesso le disposizioni normative vengono modificate in continuazione, come del resto gli stessi Trattati costitutivi, creando solo confusione per riuscire a comprendere il vero imperativo sorgente dall'atto comunitario.

Queste preoccupazioni sono sempre state chiare e il Consiglio d'Edimburgo del dicembre 1992 finalmente ha constatato la volontà da parte delle Istituzioni, di proporre delle soluzioni che vadano nel senso di alleggerire le procedure di codificazione.

Il punto di partenza è il rifiuto di qualsiasi progetto che crei delle nuove procedure:" La codificazione officiale non può essere operata se non seguendo le procedure legislative applicabili e secondo le procedure decisionali normali della Comunità". Al contrario, è affermata l'esigenza di un " metodo di lavoro accelerato", deciso tra le tre Istituzioni implicate nel processo legislativo, per superare l'ostacolo principale al momento della codificazione e cioè il rischio di riapertura del dibattito in merito ai testi codificati.

Il mandato del Consiglio di Edimburgo è stato rispettato in quanto alla creazione di questo dispositivo, attraverso un progetto di metodo di lavoro accelerato che è stato oggetto di un accordo interistituzionale concluso all'epoca della Conferenza Interistituzionale del 20 dicembre 1994.

Sulla base del postulato del rispetto integrale del procedimento legislativo normale, l'accordo identifica alcune soluzioni, che hanno per scopo sia di pianificare la codificazione e, soprattutto, di alleggerire e accelerare le procedure.

In quanto al primo aspetto, le tre istituzioni devono decidere ogni anno i settori prioritari oggetto della codificazione proposta dalla Commissione, da inserire nel suo programma di lavoro annuale nella lista degli atti da codificare.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, tutto riposa in primo luogo sulla nozione di codificazione ufficiale oggetto dell'accordo.

Al punto 1, essa è definita come "la procedura che vuole abrogare gli atti che sono oggetto della codificazione e rimpiazzarli attraverso un solo atto che non comporta alcuna modificazione della sostanza di tali atti".

Il Parlamento Europeo, ciononostante, sembrava cosciente del fatto che la codificazione comunitaria, tale quale risultava dagli atti fino ad allora adottati, non costituiva uno strumento sufficiente per rispondere pienamente allo scopo di migliorare l'accessibilità del diritto comunitario.

Nella Risoluzione del 1995 sull'undicesimo rapporto della Commissione sul controllo dell'applicazione del diritto comunitario[34], esso considera che " la codificazione ufficiale.non sarà più sufficiente per raggiungere l'obiettivo seguito e che bisogna trovare una refonte opportuna del diritto comunitario".

E' stato poi il Consiglio, in una Risoluzione relativa alla qualità della redazione della legislazione comunitaria del 1993 ad adottare delle linee direttrici in tal senso, a cui poi si è aggiunto un secondo accordo interistituzionale del dicembre 1998[35]. Esse possono essere riassunte così:

redazione semplice, concisa, senza ambiguità

definire con chiarezza gli obblighi e i diritti

definire chiaramente l'entrata in vigore e le modifiche e le deroghe di altri atti

evitare frasi molto lunghe e le abbreviazioni

evitare i riferimenti incrociati o imprecisi ad altri testi e disposizioni che non siano di carattere normativo (ad esempio le dichiarazioni, etc.)


4.1 Il principio di leale collaborazione


L'articolo 10[36] del Trattato di Amsterdam sancisce uno dei principi fondamentali della Comunità Europea e cioè la leale cooperazioni tra Stati membri.

La disposizione del Trattato, anche in virtù della sua posizione iniziale, lo presenta come un obbligo imprescindibile e soprattutto formante parte dei principi base dell'Unione Europea.

Nell'ambito della nostra trattazione abbiamo già avuto modo di vedere come questo principio sia forse la meno discutibile origine giuridica degli Accordi Interistituzionali, che rappresentano in se stessi l'esempio principale di collaborazione tra le tre Istituzioni.

In questo capitolo ci occuperemo di fare un'analisi più approfondita della portata di questo pilastro dell'Unione Europea.

Il principio di leale cooperazione trova il suo senso primario di esistenza nella costituzione di Stati a carattere decentrato.

Esso nasce dall'esigenza di conciliare i diversi e necessari interessi che si vengono a creare nel momento in cui non esiste un unico centro decisionale a livello statale ma un pluralismo dello stesso.

Nel contesto europeo esso trova la sua massima espressione nello Stato federale tedesco, in cui viene sancito addirittura nella Carta Costituzionale, la cosiddetta Legge fondamentale, con il termine, noto ai giuristi e politologi, di Bundestrue.

Esso è stato ed è di primaria importanza nello svolgimento della vita costituzionale di questo Stato dal momento che rappresenta anche il criterio di base di risoluzione dei eventuale controversi che possono nascere tra i diversi landers.

Il fatto di sancirlo nella stessa Costituzione ha significato mettere per iscritto il fatto che tra i vari Stati diciamo federati della Repubblica Tedesca esisteva non più un generico impegno a collaborare ma un vero e proprio obbligo a basare i propri atti sul rispetto leale degli interessi altrui.

In un contesto difficile e complesso come quello comunitario, in cui si tratta di dover conciliare nello stesso tempo esigenze di Stati ancora profondamente diversi nella cultura e nei modi di gestire la propria cosa pubblica, si è reso necessario importare questo concetto e cristallizzarlo attraverso il Trattato.

Nel caso comunitario la leale cooperazione si esige anche e soprattutto a livello istituzionale, tra Parlamento, Consiglio e commissione che, per loro natura, devono rappresentare esigenze differenti e spesso contrapposte.

Nel corso dello sviluppo e della crescita della Comunità europea spesso ci si è trovati di fronte a gravi problemi causati proprio dal mancato rispetto di questo principio.

La tanto criticata lentezza e immobilità della CE nel passato spesso è stata dovuta ad ostruzionismi a livello istituzionale generati da profondi contrasti tra i punti nevralgici del potere europeo.

E, primo fra tutti, il banco di prova è stata la questione economica. Infatti, al momento dell'approvazione del bilancio annuale e pluriannuale comunitario si erano sempre, come abbiamo visto, manifestati problemi generati da differenti modi di vedere e, soprattutto, dal mancato desiderio di trovare un punto d'accordo.

Col passare degli anni, invece, l'art. 10 sta entrando sempre più nella pratica degli agenti europei che lo hanno applicato notevolmente grazie allo sviluppo ed al moltiplicarsi del ricorso agli Accordi Interistituzionali.

Essi, in quanto momento di incontro delle tre volontà, rappresentano il modo migliore per cooperare e per dimostrare a tutti i cittadini europei che sicuramente si stanno facendo passi avanti verso la coesione e il raggiungimento di una maggiore armonia.

Al giorno d'oggi, poi, la concertazione e la consultazione a livello delle tre istituzioni, sta per diventare una pratica costante. Basti pensare al nuovo accordo quadro tra Commissione e Parlamento del 2000 attraverso il quale i due principali organi rappresentativi della democraticità europea hanno compiuto altra strada verso il riavvicinamento reciproco, contribuendo ancora di più a rafforzare l'idea di un'Europa maggiormente unita.

A livello europeo ci sono altri casi interessanti di cooperazione che si possono prendere in esame, se non altro per fare un'utile comparazione con il diritto europeo.

Oltre al già citato caso tedesco, non si può trascurare lo stesso carattere del decentramento politico in Italia, messo in pratica attraverso la costituzione delle regioni.

In Italia, a differenza della Germania, il principio non trova posto nella Carta Fondamentale ma a maggior ragione si è dimostrato valido nei fatti proprio perché nato dall'esigenza pratica di creare un sistema politico in equilibrio.

Il fatto in sé che esistessero le Regioni, ad esempio, nasce proprio dalla volontà del Costituente di garantire il rispetto di particolari situazioni culturali, storiche, economiche, rappresentate a livelli geografici distinti all'interno della stessa Repubblica Italiana.

Altro caso da citare è quello spagnolo in cui le Autonomie locali vedono nella giovane Costituzione una grande tutela.

Questi tre casi dimostrano come il principio qui esposto rappresenti la volontà esplicita di Stati, organi, regioni di unire le proprie forze, rinunciando anche a spazi d'indipendenza e autonomia, per diventare un unico insieme.

Ovviamente la sola volontà di fondersi non potrebbe bastare ed ecco che, dunque, appare chiaro come questa collaborazione non semplice ma addirittura leale, diventi la forza di coesione, quasi l'energia, che riesce a far stare insieme realtà diverse.

La Comunità Europea è l'emblema di questa situazione, resa ancor più complicata dal fatto che gli Stati, ancor più delle singole comunità o regioni, poggiavano su secoli di indipendenza e 'sovranità', concetti che hanno dovuto rivisitare non poco in normale della costituzione di un'Europa unita'.

La possibilità di andare oltre i singoli interessi statali, e le posizioni di forza intorno al proprio spazio di sovranità ritenuto 'intoccabile' è data dall'energia della volontà di fidarsi gli uni degli altri, di fare concessioni persino al prossimo sapendo che poi i benefici finali, soprattutto in termini di collettività, saranno di gran lunga maggiori.

Grazie agli Accordi Interistituzionali si è riusciti ad averla vinta sulla storica avversione del Consiglio per qualsiasi tipo di concessione al Parlamento Europeo; e questo, a sua volta, è riuscito finalmente a non guardare il Consiglio come il 'dittatore' della capacità decisionale in seno europeo, che non lasciava spazio alla democrazia nemmeno di esprimere la propria opinione.

Per concludere questa riflessione sul principio motore di questo nuovo tipo di atto comunitario, oggetto della nostra indagine, è opportuno ricordare come può notare la cooperazione e la volontà di trovare un accordo nel fatto che questo tipo di atti non sono sanciti da nessun articolo dei trattati, ma sono nati dalla pratica quotidiana. Una pratica che ha dimostrato che senza la fiducia reciproca non si sarebbe andati da nessuna parte e che dunque ha condotto alla creazione di un atto sui generis che ormai sta cominciando a dimostrare una fondata opinio iuris ac necessitatis che probabilmente nei prossimi anni gli farà trovare una definitiva collocazione tra il diritto derivato classico della Comunità Europea.

Insomma, come insegna il Diritto internazionale Pubblico, nelle relazioni tra Stati una norma consuetudinaria ha probabilmente maggior valore di una derivata da altra fonte, perché manifesta l'intenzione prolungata e costante di seguire quella determinata pratica.








4.2 Il difficile rapporto tra Consiglio e Parlamento Europeo


Usare figure geometriche che si riferiscono a concetti razionali per descrivere il funzionamento delle Istituzioni comunitarie può essere un esercizio difficile.

E' ormai da anni che, ciononostante, è stato un modello bilanciato, organizzato attorno ad una relazione triangolare tra il Consiglio, la Commissione e il Parlamento Europeo, a caratterizzare il sistema comunitario. Sarebbe opportuno indagare per sapere cosa rimane di questo set-up costituzionale.

Il "Triangolo istituzionale" rimane vitale per il processo di integrazione, ma le istituzioni che lo compongono dovranno sottoporsi ad un doppio processo di riforma: riforma delle loro funzioni interne e riforma della loro interazione all'interno del triangolo.

Ci sono vari modi in cui il sistema potrebbe essere fatto funzionare, anche in un'Europa allargata e le due cose non sono necessariamente in conflitto l'una con l'altra.

Ma lo schema di base deve rimanere e si deve sviluppare, piuttosto che essere sostituito con metodi innovativi che nona assicurano la continuità del processo di integrazione, dal momento che essi non potrebbero offrire i meccanismi di mediazione richiesti per indurre gli stati membri a superare la loro istintiva e reciproca sfiducia.

Il problema è identificare le soluzioni politiche e istituzionali che possono essere adottate per mantenere il triangolo istituzionale in funzione in un'Europa dalla geometria sempre più variabile.

Nell'Unione Europea, le decisioni non possono essere prese se non in seno al triangolo in questione.

Ciascuna istituzione deve stabilire, per essere efficace, delle relazioni costruttive assieme alle altre.

Il problema più difficile che il Parlamento Europeo deve affrontare, che di fatto si pone a tutti quelli che sono implicati nella costruzione di un modello istituzionale per l'Unione Europea, riguarda il fatto che non esiste consenso intorno a ciò che è e che dovrà essere il Parlamento Europeo.

Non esiste, in altri termini, un modello chiaro di "parlamentarismo europeo": esso dovrà tentare di annoverarsi tra gli antichi e nobili parlamenti nazionali e poi entrare potenzialmente in concorrenza con loro, o riconoscere che essi appartengono alla categoria desueta delle assemblee del XIX secolo, alle quali si pongono seri problemi di adattamento e che d'altra parte non si presentano esse stesse come modelli idonei al XXI secolo, a fortiori al livello europeo, e cercare un sua propria strada, diversa e meglio adattata alla realtà contemporanea europea?

Non c'è risposta univoca a questa domanda. Forse il Parlamento europeo si deve ispirare a quello che Helmut Kohl chiama, in un contesto molto differente, "Die Gnade des Spaten geburts" per evitare di imitare questi modelli ormai fuori moda.

Queste ambiguità ed incertezze erano già presenti al momento della nascita del Parlamento Europeo nel 1952.

Il primo "Plan Schuman" non comportava alcuna disposizione che prevedesse l'istituzione di un Parlamento.

Ovviamente nel corso degli anni le cose sono molto cambiate, a partire dai punti di vista delle varie istituzioni comunitarie nei confronti del parlamento.

Nel caso del Consiglio dei ministri, nei primi anni esso aveva avuto pochi contatti diretti con il Parlamento, ma a differenza della commissione.

Le relazioni del consiglio con l'Assemblea erano ridotte al minimo e tenute su un tono quanto più formale possibile, nonostante che simultaneamente numerose pratiche si fossero sviluppate tali da implicare sia il parlamento che il consiglio in relazioni dirette, come ad esempio le Question Time, oppure i rapporti del presidente del consiglio durante i dibattiti e, dopo il 1983, i rapporti sulle attività del Consiglio Europeo.

Ma in queste attività il Parlamento non esercitava alcun potere reale di decisione. Il primo cambiamento vero in termini di forza ci fu in occasione della concessione al Parlamento dei poteri in materia di bilancio 81973 e 1975).

In questo campo limitato e francamente esoterico, anche se importante, si è assistiti allo sviluppo di tutta una serie di contatti formali ed informali tra le due istituzioni allo scopo di far funzionare le disposizioni complesse dell'art.203 del Trattato.

La procedura di cooperazione ha profondamente modificato le attitudini e i comportamenti, innanzitutto in seno allo stesso parlamento e poi, di conseguenza, all'interno del Consiglio.

Prima del 1987 il ruolo legislativo del Parlamento era rimasto sporadico e marginale ed era limitato al potere di dare un Avviso, il quale costituiva un obbligo giuridico solo se il suo contenuto non fosse vincolante per il Consiglio.

Adesso il Parlamento Europeo si è dimostrato in grado di assumere i rischi della complicata procedura di cooperazione, superando gli ostacoli derivanti dal carattere miscellaneo che lo caratterizza, dimostrando di essere pronto e più che disposto ad assumersi nuovi e più larghi poteri sotto la procedura di codecisione.

Il Consiglio, forse perché ancora marcato dalla sua percezione iniziale dei rapporti di forza, che giocano ancora un ruolo essenziale in suo favore, sembrava considerare che la situazione rimanesse stabile. Per molto tempo ha dato l'impressione di aver creduto che, per esempio, la procedura di cooperazione darebbe stata condotta quasi esclusivamente attraverso scambi scritti. Ma si è dovuto ricredere, dal momento che già prima che fosse introdotta la procedura formale di conciliazione nel quadro del meccanismo di codecisione, le Presidenze del consiglio furono frequentemente coinvolte in relazioni informali con il Parlamento.

A dispetto di questi pregiudizi iniziali, aggravati dalla sfiducia mutuale che emerge inevitabilmente tra un Parlamento che si considera come il guardiano dell'ortodossia istituzionale e come il motore dell'integrazione politica, ed un Consiglio dei ministri ed un Consiglio europeo che continuano da parte loro ad essere animati da riflessi intergovernamentali, le relazioni si sono considerevolmente sviluppate, altresì in un clima largamente positivo.

Il Consiglio vede ormai il Parlamento come un partner, anche se a volte questo stesso partner gli sembra difficile e poco comprensivo, nel quadro delle procedura finanziarie o del lavoro legislativo per esempio, dove il suo avviso conforme e la sua approvazione delle spese sono spesso necessari.

Questo partenariato è più fondato sul realismo che sull'affetto. Si tratta di riconoscere che, da una parte e dall'altra, nel sistema istituzionale attuale che può essere considerato come un triangolo interistituzionale, gli uni hanno bisogno degli altri.















4.3 Le conquiste del Parlamento Europeo


Dalle origini, il Parlamento Europeo si è sforzato di sviluppare i suoi poteri e le sue responsabilità dando vita, partendo dal quadro istituzionale posto dai trattati, a nuove pratiche che poi sono state in seguito inserite nei Trattati stessi.

Ha utilizzato questa strategia in maniera permanente, anche prima di ottenere il suffragio diretto nel 1979, seguendo due vie parallele:

Da un lato ha lavorato all'adozione di accordi con le altre Istituzioni;

Dall'altro ha modificato unilateralmente le proprie procedure e i regolamenti, cosi da fare pressione sulle altre istituzioni.

Il Parlamento ha potuto cosi sviluppare, in maniera informale, delle nuove pratiche che non sono state codificate.

L'Assemblea Europea ha sempre dovuto tener conto del quadro istituzionale posto dal trattato. Ma, a dispetto di questo vincolo, esso poteva condurre una doppia strategia: la prima consisteva nell'esigere che il Trattato fosse emendato, nel seguire la quale si è dimostrato piuttosto incostante; la seconda, per la quale ha dimostrato più costanza, invece, consisteva nel tentare di aumentare le potenzialità dei testi fondatori.

In effetti i Trattati possono essere visti come la Costituzione dell'Unione Europea, anche se questa Costituzione è un po' confusa e complessa, dal momento che essi definiscono i suoi campi di competenza, stabiliscono i poteri delle Istituzioni e le procedure legislative o finanziarie.

Questo quadro costituzionale permette di ritagliarsi certi margini di manovra e il Parlamento si è sempre sforzato, secondo l'espressione di uno dei suoi antichi Presidenti, di "étendre l'élastique" il più lontano possibile, sapendo che non lo si può tirare all'infinito senza romperlo.

Il periodo che ha seguito il Trattato di Maastricht ha visto lo svolgimento di processi simili.

Innanzitutto attraverso l'interpretazione della nuova procedura di codecisione che ha permesso al Parlamento di ottenere l'abolizione della cosiddetta "terza lettura", giudicata da quest'ultima un procedimento che favoriva il Consiglio rompendo l'equilibrio istituzionale.

L'epoca del dopo-Amsterdam, poi, ha visto ugualmente moltiplicarsi, nello stesso spirito, le dichiarazioni interistituzionali, che si riferivano alla sussidiarietà, le Commissioni d'inchiesta, il ruolo del Mediatore Europeo, la procedura di codecisione. Queste dichiarazioni vogliono interpretare le disposizioni del Trattato, in maniera tale da ricavare una visione comune alle Istituzioni. E una volta ancora questi accordi intermediari sono stati immediatamente integrati nel trattato di Amsterdam. Un accordo interistituzionale riguardante la qualità della legislazione comunitaria è previsto nel Trattato si Amsterdam e forse la sua interpretazione permetterà di precisare la materia complessa della comitologia, una questione che dovrà essere riesaminata e di cui il Parlamento desidera ardentemente modificare le procedure.

Senza dubbio il Parlamento proverà, attraverso degli accordi interistituzionali, di trarre il maggior vantaggio possibile dalle disposizioni che riguardano la sua partecipazione all'investitura della Commissione.

L'applicazione della nuova versione delle procedura di codecisione darà luogo ugualmente a nuovi sviluppi, nella misura in cui questa dovrebbe permettere di trovare più facilmente un accordo tra il Parlamento e il Consiglio già dalla prima lettura, stadio in cui il PE può adottare la sua posizione a maggioranza semplice piuttosto che alla difficilmente raggiungibile maggioranza assoluta.











Conclusioni



Attraverso questa analisi condotta sia dal punto di vista storico - politico che da quello più strettamente giuridico, abbiamo visto come la pratica degli accordi interistituzionali sia ormai sempre più diffusa tra le istituzioni comunitarie.

L'excursus storico ha dimostrato che attraverso gli anni si è consolidata la convinzione che questo tipo di atti, tuttora rientranti nella categoria degli "atipici", produca effetti giuridici dalla portata vincolante per le Istituzioni che decidono di siglarli ed eventualmente anche verso terzi.

Certo, sarebbe opportuno, a questo stadio di opinio iuris ac necessitatis da parte della Comunità giuridica Europea, far rientrare questo tipo di atti in una categoria più definita, semmai attraverso il loro inserimento in qualche specifica disposizione del Trattato.

Ciononostante, si è dimostrato anche, nel corso della trattazione che le istituzioni possono avere ancora interesse a mantenere un'aura di incertezza attorno alla definizione degli accordi interistituzionali. Solo così, infatti, essi possono ancora rispondere al loro carattere unico di mediazione tra le diverse volontà delle Istituzioni Europee che hanno trovato in essi il mezzo per venirsi incontro senza rinunciare in maniera troppo esplicita ciascuna alle proprie posizioni.

Probabilmente il grande successo che hanno riscontrato fino ad oggi queste "convenzioni" a livello interistituzionale è stato dovuto proprio al fatto che la costruzione dell'Europa giorno per giorno ha portato alla luce nuovi problemi, anche a causa delle lacune generate da Trattati troppo spesso mancanti di omogeneità, e solo uno strumento di natura informale e prettamente pratica avrebbe potuto superarli senza mancare di rispettare le volontà congiunte dei tre pilastri della Comunità Europea.

A mio parere in essi è possibile ravvisare il desiderio di eliminare gli ostacoli al corretto funzionamento del sistema europeo, desiderio più forte degli egoismi dannosi di ciascuna Istituzione o delle tendenze centrifughe degli Stati membri.

Un pieno rispetto del principio di leale collaborazione, la Bundestrue di cui si è parlato sopra[37] in cui non c'è bisogno di una norma scritta per esigere che tra le varie Istituzioni (e tra Comunità e Stati) ci sia rispetto e lealtà reciproca in ogni azione.









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