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La Pittura e la Scultura Romana

architettura



La Pittura e la Scultura Romana


Benché sia noto dalle fonti che a Roma si praticava la pittura su tavola, le sole pitture romane che conosciamo sono le figurazioni inserite nelle decorazioni parietali e appartengono, in gran parte, alle due città campane di Pompei ed Ercolano.

Nel I secolo a.C. la pittura romana si distacca dalla tradizione etrusca a cui era collegata e si volge agli esemplari greci: un pittore che si dice "ateniese" firma Le giocatrici di astragali, poche figure finemente disegnate e appena velate da un colore diffuso, ispirate ai vasi attici a fondo bianco. Da più recenti esemplari ellenistici dipendono riquadri di decorazioni parietali, come la figurazione nuziale delle Nozze Aldobrandini: celebrata come un capolavoro quando fu ritrovata, alla fine 717i82h del Cinquecento, è piuttosto l'opera di un corretto imitatore, che traccia le figure con colori fluidi e con tocchi liberi, a macchia, anche se, probabilmente, non afferra l'unità spaziale e compositiva del modello. Per gli antichi, la pittura è rappresentazione d'immagini e, come le immagini, non deve aver corpo, saldezza plastica: è un gioco di macchie colorate, di luce ed ombra. Il fatto stesso che i temi fossero ripetuti da modelli, spesso a memoria e con varianti, favorisce l'andamento corsivo, rapido e appena sommariamente descrittivo del pennello.

Non bisogna confondere, come spesso s'è fatto, questa pittura compendiaria, cioè rapida ed evocativa, con il moderno impressionismo, che tende a rendere con assoluta immediatezza un'emozione visiva. Consideriamo, scegliendo a caso, il gruppo di Ermafrodito e Sileno, nella casa dei Vettii. Il discorso pittorico è rapido, ha una cadenza accentata, vivace; ma scorre su uno schema del tutto convenzionale. È una pittura a macchia; ma il contrasto tra la macchia luminosa del corpo di Ermafrodito e quella scura del corpo di Sileno dipende dalla convenzione di dipingere in toni chiari i corpi delicati delle donneo degli adolescenti e in toni bruno-rossastri i corpi robusti o dei vecchi. Convenzionali sono anche gli atteggiamenti delle figure, il fondo con un accenno sintetico e quasi simbolico di alberi e architetture, perfino le lumeggiature bianche sui massimi risalti dei volti. Il pittore non cerca di inventare, ma di ripetere con vivacità e bravura: come il musicista che esegua una partitura data.



Nella villa dei Misteri a Pompei è perfettamente conservato un grande fregio figurato, che rappresenta con ogni probabilità un rito di iniziazione al culto di Dioniso. Le figure sono viste sullo sfondo vicino di una parete rossa: su di essa risaltano entro contorni sottili e precisi, guidati da una volontà di chiarezza classica. Ma il contorno stesso, più che una linea disegnata, è il limite tra le due zone coloristiche e ne modula sensibilmente il rapporto. La stesura coloristica è leggera, fusa, trasparente: con i contorni fermi il pittore non ha voluto determinare il risalto dei corpi né precisare la loro anatomia, ma fissare, proiettandola sul piano rigido della parete, un'immagine senza corpo, fatta di trascorrenti nubi d'ombra e di luce.

La componente romana, in questa pittura di fondo ellenistico, è generalmente indicata dall'accentuazione realistica; ma, più che in un interessato riferimento al dato oggettivo, la si nota in un appesantimento dell'immagine, non dissimile da quello che osservammo nella pittura etrusca. Nei paesaggi e nei ritratti, specialmente, l'immagine, pur non dipendendo da una sensazione o emozione ricevuta dal vero, viene intensificata per dare l'illusione del vero. Un porto di mare è rappresentato dall'alto, in modo quasi planimetrico; edifici e navi sono distribuiti come su una carta topografica; i brillanti tocchi di luce non hanno alcun riferimento a una luce reale, sono un espediente per ravvivare, illusivamente, le immagini delle cose. Nel giardino della villa di Livia a Roma, si ha un "inventario" di piante, raffigurate a memoria: il pittore conosce la forma di ogni singolo albero o arbusto e la descrive con sicurezza; ma ciò che viene precisato con rapidi tratti di colore non sono le cose che l'artista vede, bensì le nozioni che ha di esse. Non dunque lo spettacolo della natura, ma le immagini della mente prendono forma e si fanno evidenti nell'arte; e la tecnica rapida e per cenni, compendiaria, non è una tecnica creata per rendere con immediatezza le emozioni visive ma per tradurre visivamente quelle immagini. Si spiega così come questa tecnica diventi anche più rapida e intensa nella pittura cristiana delle catacombe, le cui immagini puramente simboliche non hanno alcun rapporto con la realtà oggettiva.

Anche nel ritratto si parte da "tipi" , che vengono poi specificati in modo da evocare le fattezze. Nelle tavolette che, tra il I e il V secolo, si ponevano in Egitto sulla mummia nei sarcofagi (detti ritratti del Fayum), la persona è rappresentata per lo più frontalmente, con grandi occhi spalancati per dare l'idea della vita; ma solo l'accentuazione di qualche tratto fisionomico richiama la figura reale del defunto. È, come si vede, un procedimento che non parte dal "vero" ma, muovendo dall'idea o dal tipo, tende ad accostarsi al vero: un procedimento, cioè, che va dal generale al particolare ma senza implicare una presa diretta dal reale.

Più della pittura è caratterizzata la scultura romana, benché da principio dipenda in gran parte dalla greca, prima attraverso l'influenza etrusca, poi per la presenza a Roma di artefici greci e di un gran numero di copie di statue classiche. Il cosiddetto realismo, col quale si distingue il ritratto romano dall'ellenistico e dall'etrusco, si spiega almeno in parte con l'importanza che avevano, nel rito funerario del periodo repubblicano, le maschere di cera ricavate, per calco, dal volto dei defunti. Ma i busti-ritratti del I secolo a.C. non si limitano a riprodurre fedelmente le fattezze della persona, ne ricostruiscono figurativamente la biografia. Se il ritratto etrusco tende a prolungare idealmente la vita oltre la morte, il ritratto romano è rivolto, per così dire, all'indietro e tende a rivelare nell'immagine presente il tempo vissuto, il passato. Per il romano il valore della persona si identifica con la sua storia, con ciò che ha fatto, con l'esperienza compiuta. Molto più dei caratteri psicologici l'artista cerca nel volto del modello la traccia lasciata dagli eventi vissuti: in questo senso può dirsi che la ritrattistica romana si avvicina alla storiografia o, quanto meno, è un modo di assicurare al personaggio la sopravvivenza in un aldilà che non è Eliso né Erebo, ma la memoria dei famigliari o dei cittadini. È facile ritrovare nell'impianto del ritratto romano la compattezza volumetrica e la saldezza plastica dell'etrusco e perfino la tendenza idealizzante del greco; ma proprio perché il nucleo dell'immagine è unitario e simmetrico, il minimo scarto dalla simmetria, come il lieve inarcarsi di un sopracciglio o una piega appena percettibile all'angolo della bocca, basta a dare alla figura una sicura, sorprendente somiglianza. Questa non viene meno neppure nei ritratti ufficiali, come nel I secolo d.C. quelli di Augusto, anche se destinati a fissare e diffondere un'immagine ideale: la figura dell'imperatore è figura per eccellenza storica, quindi la più adatta ad essere espressa nella statua intesa come celebrazione storica. Lo stesso interesse per la storia, come succedersi di eventi, si nota, già in epoca repubblicana, nei bassorilievi "a narrazione continua" , in cui i successivi momenti di un fatto vengono rappresentati senza interruzione, spesso con la ripetizione delle stesse figure e con effetti di profondità illusoria che derivano verosimilmente dalla pittura ellenistica.

Alla fine del I secolo a.C. un monumento ben conservato ed ora ricomposto rivela chiaramente i caratteri e le tendenze della scultura augustea. La Ara Pacis Augustae, dedicata nel 9 a.C., è un recinto quadrato intorno all'altare del sacrificio: sulle pareti esterne sono esposti (e verrebbe fatto di dire affissi) rilievi rappresentanti il conventus della famiglia imperiale e dei grandi dignitari alla cerimonia della consacrazione. Viene spontaneo il confronto di questa teoria di personaggi con il fregio fidiaco del Partenone: non tanto ci sorprenderà che togate personalità ufficiali abbiano preso il posto della fiorente gioventù ateniese, quanto il fatto che le figure sono ordinatamente disposte su piani paralleli in profondità. La prospettiva è in funzione di una gerarchia simbolica, che porta in primo piano i personaggi più importanti, spesso determinandoli come ritratti, e allontana le figure minori, che appaiono, appena delineate dal rilievo bassissimo, sul piano del fondo. Le figure sono rappresentate immobili, quasi senza gesto, una accanto all'altra: non c'è ritmo, ma soltanto cadenza. Il chiaroscuro è leggero, uniformemente graduato, favorito dalla blanda frequenza delle pieghe ricadenti dei panni.

Non è diversa la ritrattistica ufficiale augustea, a cominciare da uno dei suoi prototipi, la statua di Prima Porta, accuratamente studiata per la "ragion di stato" . È palese il richiamo al canone greco, ma l'ideale del decoro s'intreccia palesemente a quello del bello. La figura, che ha gli attributi del condottiero e quelli dell'oratore, è in atteggiamento di calmo e sicuro dominio; nel volto la resa fisionomica è ad un tempo precisa e generalizzata, quasi a indicare che proprio quella particolare persona assume, per la grandezza storica delle sue gesta, valore universale.

I rilievi del fornice dell'arco di Tito, alla fine del I secolo, sono già molto lontani dall'austero classicismo augusteo. Le cornici sfondano illusivamente la parete aprendo al movimento concitato delle figure uno spazio profondo e pittorico. Nel trionfo i cavalli della quadriga formano una successione di volumi in profondità; gli esili fasci dei littori, solcando il piano del fondo, suggeriscono una profondità atmosferica. Nel trasporto del bottino da Gerusalemme lo spazio è definito dalla porta di città in scorcio e l'illusione di profondità è accentuata dal vuoto sopra le figure; e ques te formano gruppi in movimento, separati da profonde pause d'ombra.

Confrontando all'ordinata processione dell'Ara Pacis queste agitate sequenze plastiche fatte di aspri risalti e di vuoti profondi, di pause e di riprese improvvise, pronte a rompere il limite dell'inquadratura e del piano, vediamo subito che questa scultura, nella struttura formale simile all'ellenistica, ha in sé un nuovo contenuto drammatico. Il mito è ormai lontano, e col mito la sembianza varia e colorita della natura. Domina il pensiero della storia, quale appare nei grandi scrittori romani: non distaccato e neppure edificante racconto di eventi, ma interpretazione drammatica del loro significato.

La colonna di Traiano, dedicata nel 113 d.C. e collocata nel fòro traianeo, è un lungo, preciso memoriale delle imprese militari dell'imperatore. In una fascia a basso rilievo, avvolta a spirale intorno al fusto della grande colonna celebrativa, sono raccontate momento per momento le vicende delle due campagne per la conquista della Dacia. Il nastro, sviluppato, è lungo più di duecento metri, contiene più di duemilacinquecento figure. Sola cesura nella narrazione continua, tra i fatti della prima e della seconda guerra, una figura di Vittoria alata, che incide su uno scudo il nome del vincitore. È lo stesso tema della Vittoria di Brescia, di poco anteriore. La Nike greca era un genio volante che portava dal cielo il favore degli dèi; la Vittoria romana è una figura che medita e scrive, è la Storia che annota l'evento e ne tramanda la memoria.

Lo scultore stende la narrazione figurata senza dividerla in episodi, senza alzare il tono della voce nei momenti culminanti. Forse non ha un progetto preciso, si lascia guidare dalla successione dei fatti. Sull'alta mole cilindrica della colonna, simbolo della stabilità e della grandezza dell'impero, suscitano un animato ma sommesso movimento di luce e di ombra: gli eventi increspano appena la superficie di una realtà storica data per eterna. Un'attenzione troppo minuta concessa alle singole figure avrebbe fermato la corsa della narrazione; si vuole invece che l'attenzione dello spettatore trascorra senza pause, afferri il senso reale di questo diario di guerra: non tanto la gloria dell'impresa, quanto il seguito interminabile dei giorni, ciascuno con il suo tormento e la sua speranza. La fattura rapida, incurante dei particolari è un'esigenza, prima che visiva, psicologica; una questione di tempo. L'orlo del nastro non è regolare ed esatto come una cornice; col suo andamento ondulato segue il succedersi concatenato degli episodi, facendo da terreno a quelli che stanno sopra, da cielo a quelli che stanno sotto. Con una sensibilità sempre desta, lo scultore modula questo segno continuo, che definisce insieme una situazione di spazio e una condizione di luce. Anche l'andamento del racconto è, per così dire, ondulato: accelera e rallenta, senza fermarsi mai. Malgrado il fine celebrativo, è spregiudicato: registra i successi e i rovesci, le atrocità dei barbari e quelle dei romani.

L'artista non si propone di rappresentare quello che ha veduto o vede, ma quello che sa o ha sentito dire: lo spazio non è mai un paesaggio veduto nella sua estensione, ma un luogo dove accadono certi fatti. È importante sapere che qui c'è un torrente in piena da guadare, là un bastione da espugnare, più avanti un bosco da tagliare per fare le palizzate del campo: del torrente non vediamo il corso e le sponde, ma soltanto l'onda che travolge i cavalieri; del bastione, un tratto di muro con gli assalitori in basso e i difensori affacciati. Non valgono più le proporzioni normali: per la verosimiglianza, l'assalto al bastione si sarebbe dovuto rappresentare come un alto muro, con tante piccole, indistinte figurine ai piedi e in cima; invece, alterando le proporzioni, si fa il bastione poco più alto di un parapetto in confronto alla dimensione delle figure. I combattenti sono, in proporzione, più grandi del bastione perché la loro importanza nel racconto è maggiore.

Anche la luce è in funzione del racconto; si sposta qua e là come il raggio di una lanterna, battente o radente, cruda o attenuata. In una scultura (specialmente se, come questa, destinata a stare all'aria aperta) la qualità della luce è determinata dall'emergenza, dall'inclinazione, dalla qualità delle superfici: modellando, l'artista espone variamente i piani della forma all'incidenza della luce; determinando la qualità della superficie - liscia, scabra, punteggiata, tratteggiata etc. - determina il modo con cui la superficie riceve, assorbe, incanala, riflette, rifrange la luce, esattamente come farebbe un pittore con i colori. Un elemento coloristico, anche se non espresso con la varietà delle tinte, è ormai implicito nella struttura plastica della forma. Questa evidenza anche coloristica dell'immagine è tanto più necessaria in quanto l'artista non rappresenta una realtà visibile, ma visualizza un racconto tramandato. Utilizza tutta la ricca esperienza visiva dell'arte ellenistica, non perché gli serva a vedere ma perché gli serve a rendere visibile, a comunicare. La utilizza, cioè, come si impiegano le parole di un linguaggio, che rimangono le stesse quale che sia il contesto in cui vengono inserite. Qui il contesto è storico e l'intenzione morale; nell'arte ellenistica il contesto era naturalistico e l'intenzione conoscitiva. Può accadere che il contesto e l'intenzione diversi modifichino a poco a poco il significato originario delle parole, e le deformino. È quello che accade ai modi formali ellenistici nell'interpretazione romana, ma attraverso l'intervento di fattori non propriamente romani.

Chi è, di dove viene questo primo grande maestro della scultura romana? Non è certamente un romano né proviene, come molti artefici attivi a Roma, dalla Grecia o dall'Asia Minore. R. Bianchi Bandinelli, che ne ha ricostruito la personalità, ha analizzato il sentimento che pervade questa storia figurata traianea: "elemento nuovo, e altamente poetico, una umana, popolaresca direi, compassione e comprensione per le figure dei vinti, che sono quelle nelle quali la simpatia del maestro si fa più sentita... e proprio in alcune scene di trasporto e di compianto di capi barbari uccisi o feriti, oppure di esodo di popolazioni scacciate dalle loro antiche e agresti sedi, si compongono le sue più felici e più nuove espressioni" . Vi sono precedenti che aiutano a capire la formazione del MAESTRO DI TRAIANO: non a Roma ma in "terra di barbari" , nel mausoleo dei Giulii a Saint-Rémy, nella Gallia Narbonense. È un monumento del tempo di Augusto, un tipico esempio di arte "provinciale" e non per questo incolta, ma immune dal classicismo ufficiale e dall'eloquenza celebrativa. "Al tempo di Traiano - scrive ancora Bianchi Bandinelli - un grande artista, erede della ininterrotta tradizione ellenistica, maturatosi però nell'ambiente artistico romano, riassume in sé, rivivendoli e fondendoli in un'espressione figurativa superiore, alcuni modi particolari dell'arte italico-provinciale, creando un linguaggio artistico nuovo, che s'identifica addirittura per noi con la più tipica arte romana e che dovrà rappresentare, per il suo tempo, da un lato il coronamento di oltre un secolo di travaglio, dall'altro l'inizio di un periodo nuovo. Questo nuovo periodo che si distacca dal precedente viene chiamato col nome di tarda romanità. Con questo nome, in genere, si è intesa l'arte che va dalla fine del II secolo fino a Costantino e oltre: monumento iniziatore di questo stile tardo la colonna Antonina. Ma la colonna Antonina deriva in linea diretta dalla colonna Traiana, e questa può effettivamente dirsi il monumento che per noi annunzia l'inizio della tarda romanità" .

Il classicismo seguita tuttavia ad essere lo stile di corte ed ha, al tempo di Adriano (117-138), una ripresa guidata dal gusto personale dell'imperatore; ma l'involuzione classicistica finisce per provocare, per reazione, un più vigoroso slancio anticlassico. L'arte adrianea è metropolitana e aristocratica, quanto l'arte del Maestro di Traiano è provinciale e popolare; anzi proprio da questo momento si delinea la distinzione, che andrà facendosi sempre più netta specialmente nel mondo bizantino, tra un'arte aulica e ufficiale, canonica, e un'arte periferica, dissidente, satura di fermenti, anche se germinata dallo stesso tronco culturale.

La stessa antitesi che passa tra l'architettura del Colosseo, con la sua massa poderosa aperta allo spazio, e quella del Pantheon, chiusa a contenere uno spazio rarefatto e geometrico, passa tra la scultura traianea e l'adrianea. Mira quest'ultima a rianimare intellettualisticamente, con raffinatezza neoclassica, le qualità più rare dell'arte ellenistica, di cui tuttavia le sfugge la concreta sostanza figurativa. La statua di Antinoo-Dioniso ha proporzioni ricercate, superfici seriche, mollemente cedevoli al contatto della luce. I medaglioni con scene di caccia, poi riportati nell'arco di Costantino, hanno finezze manieristiche, di gemme incise; sono mitografie ambigue, erotiche e malinconiche insieme, con una cadenza intenzionalmente lirica. Ma, parallelamente a questa corrente aulica, v'è l'altra, robustamente prosastica e anticlassica. Nella base della colonna di Antonino Pio, in una giostra funebre, lo scultore si pone chiaramente il problema di una nuova struttura della rappresentazione spaziale. Non ricorre alle sapienti dissolvenze luminose, elaborate dalla scultura ellenistica per creare un'illusione visiva: per realizzare uno spazio in cui ogni cosa abbia un peso di cosa reale, dispone le figure a ghirlanda sul piano, le isola, le collega tra loro con il movimento ripetuto delle zampe dei cavalli. Non v'è più una profondità illusoria, che fonda tutto in un'atmosfera luminosa; il fondo è liscio, le figure a forte rilievo, con un duro rapporto di cosa a vuoto, essere a non-essere.

È quasi polemico l'anticlassicismo della colonna di Marco Aurelio, eretta nell'ultimo quarto del II secolo in Campo Marzio (ora piazza Colonna). Il modello è la colonna traianea: una narrazione a nastro, in cui gli episodi si succedono senza tregua e la figura del protagonista, l'imperatore, è ripetuta molte volte (ma sempre in atto di moderare, mai di combattere). Le immagini di lotta e di strage sono più crude, più manifesta la coscienza della bruta violenza attraverso la quale il dramma della storia si compie; ma al più aspro realismo fa riscontro un senso nuovo del soprannaturale. Anche nel racconto di Traiano intervenivano, di quando in quando, figure mitologiche: un dio fluviale, per esempio, assisteva al guado delle truppe, secondo l'uso romano di personificare i luoghi. Nella colonna di Marco Aurelio, invece, l'immagine di Giove Pluvio scende dal cielo, rovesciando dalle braccia aperte torrenti d'acqua a ristoro delle legioni assetate. Non è più un'arcana presenza mitica, ma un miracolo invocato e ottenuto, un intervento soprannaturale nel dramma degli uomini. Questi sono in balia di una forza che li trascende, non rispondono più della loro storia; e un mondo come questo, che vive in un'alternativa di tormento e di speranza, è ormai pronto a ricevere il messaggio cristiano. Anche la storia figurata, come la vera, è fatta di luci e di ombre: la composizione è discontinua, lacerata con improvvise accensioni drammatiche. Non è seguito neppure il filo della narrazione; episodi di una campagna sono intercalati come per un'associazione di ricordi, a quelli dell'altra. Le figure sono modellate sommariamente, ma v'è sempre qualche tratto che le rende vive, presenti: può essere la smorfia di un volto, un gesto, anche soltanto un viluppo di pieghe o la nota coloristica di una superficie punteggiata dai buchi neri del trapano. È l'opposto della diffusione luminosa ellenistica, della melodica modulazione adrianea: tanto che non più di "impressionismo" s'è parlato per questa scultura, ma di "espressionismo" , per indicare che non rappresenta più qualcosa di visto o di visibile, ma visualizza qualcosa che si sente nel profondo dell'animo. Neppure quando il tema è aulico e celebrativo si riesce a dominare l'impulso anticlassico: non mancavano modelli per la statua bronzea di Marco Aurelio (ora nella piazza del Campidoglio), eppure ciò che interessa l'artista è il contrasto tra il massiccio volume del corpo e lo scatto nervoso delle zampe del cavallo o le masse intensamente pittoriche dei capelli e del mantello.

Ancora un fiacco, sempre più manieristico tentativo di ridar vita alla corrente aulica si ha con il figlio di Marco Aurelio, Commodo; e, con più nostalgico richiamo al severo classicismo augusteo, come all'arte di un tempo perduto e rimpianto, con Gallieno (253-268). Ma la corrente aulica, anche se sostenuta dalla cultura di corte, si fa sempre più fioca nell'intersecarsi delle correnti provinciali che confluiscono a Roma, e molto meglio rispondono alle richieste di una società composita, differenziata, agitata da ideologie contraddittorie, com'è quella della capitale dell'immenso ma ormai crollante impero romano.

La moda dei sarcofagi scolpiti aveva cominciato a prender piede al tempo di Adriano; ora si diffonde, con diversi livelli di qualità, con l'opera di artisti e maestranze artigiane di varia provenienza. Le figurazioni storiche, mitologiche, allegoriche sono tratte da quello ch'è ormai un traboccante ma confuso repertorio di temi classici ripetuti a memoria, con varianti occasionali dovute al gusto degli scultori o al capriccio dei clienti: e sono tutti temi vagamente elegiaci, allusivi alla caducità della vita e all'ineluttabilità della morte, e proprio questa vaga poeticità finisce di dissolvere la severa costruzione classica. La composizione è continua o suddivisa, orizzontalmente in fasce o verticalmente in nicchie o edicole; più che costruito, lo spazio è riempito da molte figure, che scandono una facile cadenza di pieni e di vuoti. La tecnica rapida, a intaglio, per una produzione quasi di serie, favorisce gli effetti di illusionismo pittorico; ma, più che a creare suggestioni visive, tende a comunicare in modo direttamente, facilmente emozionale il motivo poetico. Questa scorrevolezza del discorso plastico, non meno che la varietà tematica e il frequente ricorso ad allegorie e simboli d'uso corrente, spiegano come la scultura dei sarcofagi prontamente si presti ad accogliere, magari sotto il velo di favole mitologiche, i primi temi cristiani, e costituisca così uno dei tramiti più efficaci tra l'arte tardo-antica e quella del primo medioevo.

La scultura del tempo di Costantino e, in generale, del periodo tetrarchico documenta, nell'arte, il culmine della crisi finale della cultura classica. I rilievi dell'arco di Costantino, che pure rappresentano imprese militari e fanno parte di un "monumento" ufficiale hanno un carattere nettamente provinciale e popolaresco, ma la tendenza a trasformare l'articolata sintassi della composizione classica nella presentazione frontale, paratattica, di figur e isolate e schematizzate, allineate per ranghi gerarchici come in una tribuna cerimoniale, ha la sua origine nell'arte provinciale romana e una larga diffusione in Oriente e specialmente in Siria, cioè in regioni precocemente raggiunte dal Cristianesimo, o, almeno, dai fermenti spiritualistici che lo preparano. Prima ancora di designare una verità spirituale al di là dell'esperienza mondana, queste correnti svalutano il valore in sé della forma naturale e dell'azione umana, della storia, che diventano semplici segni o simboli.

L'ideologia che divinizza l'imperatore e lo stato riduce il significato della persona alla carica che riveste nella gerarchia dello stato, forma terrena dell'ordine divino; è soltanto l'insegna di un grado e, se il grado si riconosce dalla veste, la veste interessa più del corpo o del volto. Più precisamente, anche il corpo ed il volto valgono solo in quanto rivelano la dignità o il grado: per quei caratteri, tratti o attributi che si considerano tipicamente espressivi o, piuttosto, dichiarativi della dignità o del grado. Nelle statue colossali, come il Colosso di Barletta o il Costanzo II, di cui rimane la testa (palazzo dei Conservatori a Roma), la dimensione è tanto più grande del vero e il corpo e il volto sono ridotti a quelli che si considerano i tratti distintivi di una dignità più che umana: non si vuole dire che l'imperatore è così, ma che così appare agli occhi o alla fantasia del suddito. Quest'arte diventa presto aulica od ufficiale perché l'autorità stessa vuole manifestarsi nei modi con cui è concepita e venerata dai sudditi, e perché, quanto più si esaurisce la sua reale forza di governo, tanto più tiene alle forme esteriori dell'ossequio. Incapace di sviluppo storico, immobilizza il potere in una gerarchia che proclama di origine divina, eterna. Ma, intanto, il punto di vista che si afferma e prevale, e tanto più con il diffondersi del pensiero cristiano, è quello del "suddito" , di colui che nella storia è piuttosto paziente che agente, piuttosto la vittima che l'eroe. L'arte "provinciale" tardo-antica è appunto l'arte dei "sudditi" che ammirano e riveriscono i simboli di un potere, che in realtà non esiste più che per il prestigio di quei simboli. Sarà il Cristianesimo a dimostrare che i sudditi e le vittime sono, più che i potenti e i dominatori, i veri protagonisti di una storia che ha, come ultimo fine, la salvezza spirituale del genere umano.




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