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LO SVILUPPO ECONOMICO IN ITALIA NEL CINQUANTENNIO REPUBBLICANO. PROBLEMI APERTI*

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LO SVILUPPO ECONOMICO IN ITALIA NEL

CINQUANTENNIO REPUBBLICANO. PROBLEMI APERTI*


Nel corso di questi cinquant'anni successivi alla seconda guerra mondiale l'Italia ha conosciuto rilevanti trasformazioni economiche e sociali. Ma numerosi e complessi rimangono tuttora i nodi da sciogliere. E la transizione dalla prima alla seconda Repubblica (di cui non è ancora possibile prevedere l'esito finale né in ordine all'assetto istituzionale né sul terreno degli equilibri politici) moltiplica gli interrogativi sulle prospettive e sulla stessa identità del nostro paese.

Quinta o sesta potenza industriale che sia, sta di fatto che l'Italia rappresenta un caso a se stante, del tutto particolare, nel quadro delle economie occidentali. Tante sono le differenze o le anomalie che hanno caratterizzato l'evoluzione del capitalismo italiano rispetto ad altre esperienze.

Alla vigilia della guerra l'Italia era, fra i paesi dell'area mediterranea, quello che aveva compiuto i maggiori progressi sulla via dell'industrializzazione. Ma si era trattato di un percorso tutt'altro che univoco e rettilineo. Se una parte della penisola, quella nord-occidentale, aveva portato a compimento (fin dai primi due decenni del secolo) il decollo industriale, il resto della penisola (salvo poche eccezioni) era rimasto legato a un'economia tradizionale, per lo piú di sussistenza. E il processo di sviluppo si sarebbe interrotto, probabilmente in modo irreparabile, se lo Stato non fosse intervenuto, durante la grande crisi mondiale degli anni Trenta, a "salvare il salvabile". Ciò che fece assumendo attraverso l'Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale, fondato nel 1933), insieme ai debiti, la gestione e la proprietà delle tre principali banche e di numerose imprese altrimenti destinate al fallimento.



Anche in altri paesi l'azione dei poteri pubblici si rivelò decisiva per scongiurare gli effetti piú devastanti della recessione. Ma da noi assunse dimensioni talmente ampie che l'Italia fascista giunse a collocarsi subito dopo la Russia comunista, per entità e grado di statalizzazione dell'economia. Nello stesso tempo, quel che rimase della "mano privata" andò concentrandosi in pochi gruppi oligopolistici, a capo di ognuno dei quali stava una singola dinastia familiare. Il sistema economico italiano finí cosí per configurarsi come una sorta di centauro, con una parte del corpo costituita dallo "Stato banchiere e imprenditore" (sempre piú vincolato dalle logiche di potere e dalle direttive politiche del regime); e l'altra parte composta da alcune grosse costellazioni d'interessi, che sembravano riprodurre le stesse prerogative degli antichi feudi signorili (in quanto potevano contare tanto su una robusta barriera di dazi protezionistici che sull'impiego della forza lavoro al minimo costo per l'assenza di una reale controparte sindacale).

Per tutti questi motivi, i mutamenti di ordine strutturale avvenuti nell'economia italiana sotto la dittatura fascista soltanto in parte sono riconducibili ad altre esperienze del periodo fra le due guerre. Quel che accomunò l'Italia ad altri paesi dell'Occidente fu la crescita delle dimensioni medie d'impresa e dei livelli d'integrazione verticale, l'espansione dell'industria pesante, e l'incremento del settore terziario. Ma il passaggio dal "laissez faire" al capitalismo organizzato, imperniato su forme piú o meno istituzionalizzate di rappresentanza e di contrattazione degli interessi, quale si manifestò un po' dovunque in seguito alla svolta del 1929, non diede luogo in Italia a un autentico sistema di "economia mista" né pose le premesse di una "rivoluzione manageriale". Si andò delineando piuttosto, all'insegna del corporativismo nazional-statalistico del regime, una consistente crescita dell'apparato burocratico in funzione di un controllo politico del mercato e delle strutture finanziarie.

Quel che l'Italia repubblicana si trovò a ereditare all'indomani della guerra era, insomma, un sistema economico con un maggior grado di industrializzazione e di concentrazione del capitale rispetto al passato, ma sostanzialmente chiuso e cristallizzato, ancora in bilico 111h79b fra arretratezza e sviluppo.

Quindici anni dopo, all'inizio degli anni Sessanta, non soltanto erano state completamente rimarginate le gravi ferite provocate dagli eventi bellici, ma l'economia italiana, al pari di quella tedesca, si distingueva nettamente in Europa per dinamismo e livelli competitivi.

E' evidente dunque che una serie di fattori del tutto o in parte specifici al contesto italiano concorsero alla realizzazione di un simile ~exploit~. Gli aiuti americani, il regime dei cambi fissi, l'intensificazione dei rapporti commerciali, le innovazioni tecnologiche, la sostanziale stabilità dei prezzi delle materie prime, furono infatti altrettanti incentivi pressoché comuni a tutti i paesi europei risorti dalle macerie della guerra.

Quel che differenziò innanzitutto l'Italia da altre nazioni, fu la forte sterzata impressa nell'immediato dopoguerra ai nostri rapporti commerciali e finanziari con l'estero. Dall'autarchia si passò, nel giro di pochi anni, a un'economia aperta, da un ordinamento ultraprotezionistico alla liberalizzazione pressoché completa degli scambi per un gran numero di voci e, per le restanti, a una progressiva riduzione dei dazi ancor prima che ciò avvenisse in altre nazioni.

In parte, questo mutamento di rotta fu dovuto a una reazione istintiva, manifestatasi subito dopo la Liberazione, nei confronti del dirigismo autarchico e corporativo fascista, in quanto considerato uno dei tratti distintivi dello Stato totalitario e uno strumento fondamentale delle sue avventure militariste conclusesi tragicamente per il paese. Per altra parte, esso fu dovuto a ragioni eminentemente politiche, al disegno perseguito da De Gasperi e da Einaudi - quando ancora i comunisti e i socialisti facevano parte della coalizione di governo - di accelerare il piú rapidamente possibile l'inserimento dell'Italia nel nuovo sistema monetario e degli scambi, varato a Bretton Woods sotto l'egida di Washington, al fine sia di creare le condizioni piú propizie all'estromissione dei partiti di sinistra (ciò che poi avvenne nel maggio 1947), sia di evitare il sopravvento di tendenze neutraliste allora presenti anche in alcuni settori della Democrazia cristiana. Secondo Einaudi, l'Italia sarebbe stata "ricostruita e rinnovata nella libertà" quanto maggiori fossero stati anche i suoi legami economici con le democrazie occidentali.

Tanto piú ardua fu la prova che in tal modo venne imposta all'economia italiana, tanto piú indispensabile divenne, per forza di cose, una politica tendente a esaltare gli automatismi di mercato e a privilegiare i meccanismi del processo di accumulazione.Si spiega perciò come siano stati gli esponenti della scuola liberista e i dirigenti della Banca d'Italia (a cui De Gasperi lasciò di fatto carta bianca, convinto che il partito dei cattolici dovesse governare la politica e non l'economia) a gestire l'opera di ricostruzione postbellica. Ed essi lo fecero con una serie di misure rivolte piú a debellare l'inflazione e a creare condizioni favorevoli per il fattore capitale, per le iniziative di concentrazione tecnica e finanziaria, che a bloccare la spirale della disoccupazione. D'altronde, se il riformismo di matrice socialdemocratica o laburista continuava ad essere avversato per pregiudizio ideologico dai partiti di sinistra prigionieri dei canoni dogmatici della III Internazionale, il riformismo d'indirizzo keynesiano contava ancora ben pochi proseliti nella Democrazia cristiana che s'ispirava fondamentalmente ai principi solidaristico-corporativi della dottrina sociale della Chiesa.

La situazione d'emergenza del dopoguerra, la necessità di mobilitare tutte le energie possibili, le carenze dell'amministrazione pubblica, ma anche l'interesse delle forze di governo ad aggregare il maggior numero di consensi tanto nel mondo dell'alta finanza e della grande industria, quanto nell'universo dei piccoli produttori ed esercenti, assicurarono a loro volta una notevole libertà d'azione agli operatori privati, indipendentemente da determinate regole di un'autentica economia di mercato. Questa sorta di "aregulation", che costituí un ulteriore elemento di differenziazione rispetto ad altri paesi europei, concorse, senza dubbio, all'eccezionale espansione dell'economia italiana. Giacché essa si risolse, in pratica, nella possibilità per le aziende di far conto su particolari condizioni di "permissività" sia sul versante fiscale e nei rapporti di lavoro, sia nell'utilizzo delle risorse e delle aree urbane. E in effetti lo sviluppo avvenuto fra gli anni Cinquanta e Sessanta, sia per questi motivi sia anche per la gran voglia di fare e di costruire, per la speranza di tanta gente in una sorte migliore dopo tante sofferenze e privazioni, fu altrettanto repentino quanto disordinato e convulso, a briglia sciolta.

Se le circostanze fin qui esposte contribuirono ad avviare il motore, o a farlo girare piú speditamente, è pur vero tuttavia che il cosiddetto "miracolo economico" fu soprattutto il risultato di un complesso di mutamenti strutturali che mai, o in cosí notevole misura, l'economia italiana aveva conosciuto fino ad allora. Si trattò di un vero e proprio ~big spurt~, di un grande balzo.

Quello che in passato era stato un processo di evoluzione a intermittenza, assunse infine una forza d'urto tale da segnare il definitivo passaggio dell'Italia, pur con tutti i suoi scompensi e squilibri interni, allo stadio di una società industriale. Se ancora all'inizio degli anni Sessanta la popolazione attiva nell'agricoltura era sei volte quella dell'Inghilterra e piú del triplo della Germania occidentale, è pur vero tuttavia che l'industria e i servizi assicuravano oramai oltre l'80% del prodotto interno lordo e che le campagne andavano spopolandosi.

Per spiegare come sia potuto avvenire uno sviluppo cosí consistente e impetuoso, si è fatto riferimento in genere, o piú che ad altre ragioni, alla disponibilità di un vasto serbatoio di manodopera a buon mercato. In effetti, per tutto il decennio 1951-61, nonostante la ripresa di ingenti correnti migratorie verso l'estero, la disoccupazione rimase elevata, pari al 7,3% della forza lavoro rispetto alla media del 2% di altri paesi dell'Europa occidentale. C'è poi da mettere in conto l'imponente afflusso di gente che si riversò dal Sud e da altre zone piú povere della penisola verso il "triangolo industriale" del Nord-Ovest. Questa abbondante offerta di braccia valse a contenere la dinamica salariale. Stando ai calcoli della Banca d'Italia, mentre la produttività crebbe fra il 1953 e il 1961 dell'84%, i salari reali non aumentarono che del 47%.

Non fu tuttavia soltanto il basso costo del lavoro il fattore determinante del "miracolo economico". Ugualmente importanti furono altri fattori come la disponibilità di un notevole volume di risparmi per gli investimenti, l'allargamento della domanda interna in aree geografiche caratterizzate in precedenza da uno scarso potere d'acquisto, l'utilizzazione di nuove fonti energetiche.

I saggi di interesse a lungo termine restarono stabili, intorno al 7%, dal 1951 al 1957 e senza sensibili variazioni negli anni successivi, data la crescente massa di depositi bancari e la stabilità monetaria. L'espansione del sistema economico poté avvenire cosí senza accentuate pressioni inflazionistiche. D'altra parte, rispetto a un incremento del reddito del 78,3%, i consumi crebbero nel 1950-61 in misura sensibilmente inferiore, ossia del 59,8%.

Seppur la crescita dei consumi non seguí gli stessi ritmi di quelli del reddito, va tuttavia rilevato che per la prima volta si venne formando in Italia un autentico mercato nazionale di massa. E ciò grazie agli stanziamenti varati per la riforma agraria, per la Cassa per il Mezzogiorno, e per la realizzazione di infrastrutture e servizi civili in parecchie regioni della penisola fino ad allora appena lambite dal processo di sviluppo. Per iniziativa della sinistra democristiana e dei partiti laici progressisti vennero apportate, dai governi centristi succedutisi negli anni Cinquanta, delle sensibili modifiche sia all'originario indirizzo liberista sia alla severa politica di bilancio dell'immediato dopoguerra. Esse non diedero luogo a una vera e propria linea direttrice di tipo keynesiano né a una politica di piano (che tale non intendeva essere lo Schema Vanoni elaborato nel 1954), ma impressero comunque una forte spinta alla domanda aggregata.

Infine, va tenuto in debito conto il contributo che agli sviluppi della base produttiva venne tanto dalla diffusione di centrali termoelettriche di sempre maggior potenza, quanto dalla sostituzione degli impianti a carbone con altre fonti di energia a base di combustibili liquidi o gassosi grazie alla scoperta di importanti giacimenti di metano in Val Padana.

In sostanza, la domanda interna e la spesa pubblica crearono i presupposti per una crescita di scala della produzione industriale, che era una condizione indispensabile per continuare a essere competitivi, tanto piú dopo l'ingresso dell'Italia dal 1958 nel Mercato comune europeo. In complesso, fra il 1959 e il 1963, le nostre esportazioni crebbero in media ogni anno di oltre il 16%.

L'economia italiana venne cosí caratterizzandosi sulla base di un modello di sviluppo "export led". D'altra parte, per un'economia essenzialmente di trasformazione, non c'era altra via, per finanziare l'importazione di beni primari ed elevare i tassi di sviluppo, che quella di esportare sempre piú valore aggiunto con un ventaglio di beni di consumo durevoli e di beni strumentali intermedi. E ciò poteva avvenire soltanto mediante un inserimento nei mercati dei paesi piú ricchi e avanzati.

Si spiega perciò la configurazione sempre piú dualistica che venne assumendo il sistema economico italiano. Da un lato, a causa della scarsa rilevanza nelle regioni del Sud di un processo di sviluppo autoctono, o comunque in grado di autosostenersi, che non fosse dovuto unicamente o quasi ai rubinetti della spesa pubblica. Dall'altro lato, per via del divario tecnologico e organizzativo fra i settori impegnati nei circuiti esteri, e costretti quindi dalla competizione internazionale ad aggiornare continuamente i loro metodi di lavoro e a rispondere a una domanda piú elastica e differenziata; e i settori rivolti prevalentemente o del tutto verso il mercato interno, con una serie di prodotti tradizionali o piú semplici, meno invogliati perciò a introdurre delle sostanziali innovazioni o tendenti a sfruttare determinate nicchie e rendite di posizione.

Ma soltanto negli anni Settanta questo nuovo genere di divario intersettoriale fu percepito pienamente. Per lungo tempo l'attenzione si concentrò, soprattutto, sull'accrescimento delle disparità fra il Nord e il Sud della penisola che gli interventi straordinari dello Stato in favore del Mezzogiorno non erano riusciti a scongiurare. Cosí che la politica di programmazione, inaugurata dai governi di centrosinistra, ebbe per obiettivo precipuo, non già quello di costruire nuovi generatori di economie esterne, per assicurare una maggiore forza propulsiva ed efficienza generale del sistema (mediante l'ammodernamento dei servizi pubblici, delle infrastrutture integrate al sistema produttivo e dei settori della formazione e della ricerca), quanto piuttosto di correggere le tendenze spontanee del mercato e di modificare perciò il flusso e la destinazione degli investimenti.

Per tante ragioni sia di ordine politico che sociale si trattava di un passo obbligato. E tuttavia un indirizzo del genere, in quanto s'ispirava a un modello di sviluppo orientato verso il conseguimento del massimo possibile di omogeneità economica fra le diverse parti della penisola e mirava perciò a forzare l'industrializzazione del Sud, si basava essenzialmente sul ricorso all'impresa pubblica e aveva per corollario sia l'espansione dei settori di base sia la concentrazione degli investimenti in complessi di grandi dimensioni. Le espressioni piú tangibili di questa linea di condotta furono la nazionalizzazione dell'energia elettrica e i piani di riorganizzazione e sviluppo della siderurgia e della chimica. Senonché i procedimenti adottati per la nazionalizzazione del settore elettrico finirono con l'essere eccessivamente generosi per le vecchie società private e caricarono l'Enel di una massa ingente di indennizzi e obbligazioni. Quanto agli altri due comparti, nonostante i lodevoli intenti originari e i notevoli mezzi profusi, il risultato si rivelò nel corso del tempo doppiamente negativo. Da un lato, venne infatti determinandosi un eccesso di capacità produttiva che finí per mandare in rosso i bilanci aziendali; dall'altro, sorsero al Sud non tanto degli autentici poli di sviluppo a industrializzazione diffusa, ma delle "cattedrali nel deserto", degli insediamenti isolati, che non valsero ad ampliare l'area dell'attività produttiva né a creare un adeguato tessuto connettivo di piccole e medie imprese.

Dalla prima metà degli anni Settanta, gli sconquassi monetari seguiti alla svalutazione del dollaro, l'aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio, e le perturbazioni del mercato internazionale segnarono per l'Italia la fine di quel lungo periodo (durato piú d'un ventennio) in cui lo sviluppo della nostra economia era avvenuto in una situazione caratterizzata dalla stabilità della lira, da crescenti saldi attivi nei conti con l'estero, da un'elevata dinamica dei profitti e degli investimenti.

Se il settore industriale accusò una battuta d'arresto dopo l'altra, ancor piú grave fu la crisi che investí quello agricolo.Giacché nell'ambito del Mercato comune europeo, l'Italia era il paese dove le aziende agricole "non produttive", o ai margini di una economia di sussistenza, erano quasi il 65% del totale e le piccole imprese familiari avevano continuato ad ampliare la loro presenza (senza dar luogo peraltro ad adeguate forme associative nella produzione e nel collegamento con i mercati). Tant'è che circa l'80% della superficie coltivata era distribuita fra due milioni e mezzo di unità aziendali, di cui due milioni con dimensioni inferiori ai cinque ettari; e che le terre povere o mediocri rappresentavano un carico variante dal 60 al 65% della popolazione agricola attiva e si dividevano un reddito equivalente a non piú del 33% della produzione nazionale. Quantunque l'ingresso nel Mercato comune avesse reso evidente la necessità di un rinnovamento dell'agricoltura, non si giunse a varare un programma che avesse per obiettivo l'allineamento delle strutture produttive alle esigenze di una società in via di sviluppo. Il "piano verde" elaborato nel 1961, che stanziava 2.500 miliardi per un periodo di cinque anni, non era stato che un "provvedimento ponte" per sanare in qualche modo le sfasature piú vistose rispetto all'evoluzione dei rapporti fra il mercato americano e quello europeo e alle direttive comunitarie sulla progressiva abolizione dei dazi. E per il resto, si era continuato a mantenere in vita - tanto per le resistenze opposte dalla Confagricoltura sul terreno normativo, quanto per le vigorose capacità di pressione sui governi della Coldiretti - un regime di tipo assistenziale, basato sul sostegno dei prezzi e formalmente giustificato dalla difesa della piccola proprietà ma in realtà dettato da interessi elettorali.

Non furono questi, peraltro, gli unici nodi che vennero al pettine. Insieme all'aggravamento del dualismo fra il Nord e il Sud, e alla scarsa capacità della nostra agricoltura di corrispondere a una crescita della domanda interna e internazionale piú differenziata e qualificata, venne emergendo un altro genere di dicotomia: quello fra la modernizzazione del sistema economico, pur parziale ma comunque consistente, e l'arretratezza pressoché generale delle strutture pubbliche. E ciò per via tanto della progressiva abdicazione degli interventi pubblici alle ragioni dell'assistenzialismo e del clientelismo, quanto delle carenze legislative e delle inefficienze operative dell'amministrazione statale in campo fiscale, nella politica urbanistica, nell'organizzazione delle comunicazioni, nella gestione dei servizi d'interesse collettivo.

Il risultato fu che venne manifestandosi un'inflazione strisciante, dovuta non solo al peggioramento del ciclo economico internazionale, ma anche alla scarsità nei grandi centri urbani di adeguati servizi residenziali (case, trasporti, ospedali, scuole), e al crescente disavanzo della bilancia agroalimentare. Il rincaro del costo della vita si tradusse, a sua volta, in una riduzione del potere d'acquisto dei salari.

Furono perciò anche queste circostanze, unitamente all'insofferenza della classe operaia nei confronti del "lavoro a catena", a innescare la vasta e incandescente ondata di conflittualità nelle fabbriche che si prolungò dalla fine degli anni Sessanta per gran parte del decennio successivo. Di fatto, il ribaltamento dei precedenti rapporti di forza, a favore dei sindacati, provocò un notevole aumento dei costi di produzione e rese estremamente rigide le forme d'impiego della manodopera. Tanto piú che cadde la possibilità di definire consensualmente una "politica dei redditi". L'appello di Ugo La Malfa ai sindacati perché garantissero un certo grado di "autodisciplina" della classe lavoratrice, in cambio di un miglioramento dei servizi sociali anziché dei salari, non riscosse il consenso delle organizzazioni operaie né fu sostenuto nei fatti dalla rappresentanza degli imprenditori. Da parte sindacale questa ipotesi fu ritenuta politicamente inaccettabile, perché sarebbe stata una sola classe, quella imprenditoriale, a stabilire il tasso di crescita della produttività, senza tuttavia che venissero formulate delle proposte alternative, se non la teoria altrettanto paradossale quanto inconsistente del "salario come variabile indipendente". Da parte industriale si cercò di attutire le tensioni scaricatesi sulle imprese, e di alleggerire gli oneri imposti da una gran massa di rivendicazioni, mediante una sequenza di miglioramenti salariali a singhiozzo recuperandone i costi attraverso l'aumento dei prezzi reso possibile dall'inflazione (che, del resto, affliggeva sia pur in diversa misura anche i concorrenti stranieri per la sistematica rincorsa fra prezzi e salari).

Di fatto, se la ripresa in forze del sindacato e lo Statuto dei lavoratori  concorsero ad affrancare una gran parte della classe operaia da uno stato di emarginazione o da una condizione di alternanza fra la subordinazione e la ribellione, non valsero tuttavia a porre le premesse di un nuovo sistema di regole istituzionali nei rapporti fra imprese e organizzazioni sindacali piú funzionali e flessibili, tali da orientare i conflitti fra capitale e lavoro nell'ambito di determinate logiche e strategie compatibili tanto con le risorse effettivamente disponibili e le condizioni reali di mercato, quanto con gli obiettivi di riequilibrio fra settori sociali e aree geografiche differenti. D'altro canto, mentre il sindacato mantenne una forte diffidenza nei confronti di qualsiasi forma di cogestione o codeterminazione, preferendo agire all'interno del sistema politico dove poteva contare sulla disponibilità mediatrice del potere pubblico, l'organizzazione imprenditoriale si mostrò restia a dar luogo a un vero e proprio patto sociale basato sull'istituto della partecipazione.

Ma non soltanto per questi motivi il periodo fra il 1970 e il 1980 segnò una netta inversione di tendenza per l'economia italiana. Risalgono infatti a questo stesso decennio anche gli incunaboli di quelle distorsioni nel governo dell'economia che avrebbero finito per caricare di un cumulo di "oneri impropri" le aziende a partecipazione statale e per rendere sempre piú grave il disavanzo della finanza pubblica. Mi riferisco, da un lato, al sopravvento di una logica di governo incline a privilegiare le misure che meglio servissero alle tattiche elettorali e agli interessi di partito delle singole coalizioni ministeriali; dall'altro, alla tendenza del maggior partito di opposizione, quello comunista, a cavalcare ogni genere di richieste e di agitazioni (anche quelle piú massimaliste e demagogiche) e non tanto a formulare dei programmi alternativi coerenti e credibili.

D'altra parte, il deterioramento sia della situazione economica sia dei rapporti sociali fu dovuto anche allo stato d'~impasse~ in cui si trovava il sistema politico. Dopo il dissolvimento della formula centrista, si stava logorando anche la coalizione di centrosinistra (vittima, in primo luogo, di insanabili dissidi interni), senza tuttavia che esistessero, o potessero delinearsi all'orizzonte, in un contesto politico ancora dominato dagli antagonismi della "guerra fredda" ed esposto per giunta a ricorrenti fermenti eversivi e antidemocratici di estrema destra e sinistra, concrete alternative di ricambio e neppure le condizioni per un'effettiva convergenza fra maggioranza e opposizione, al di là del gioco delle parti, su alcuni obiettivi e indirizzi di politica economica. Tante erano, pur in presenza di diagnosi spesso coincidenti sui mali da sanare, le antinomie ideologiche che impedivano una reciproca convalida e legittimazione fra i due diversi schieramenti.

Di fatto, in una situazione politica del genere (sostanzialmente immobile e al tempo stesso fortemente conflittuale), e per il resto rimasti in larga parte sulla carta i traguardi stabiliti nel quadro della programmazione nazionale, si dovette attendere, da un lato, l'esaurimento degli ultimi sussulti della contestazione operaia nelle grandi industrie, e dall'altro la ripresa della domanda internazionale, perché tornasse il sereno: perché l'economia italiana evitasse di naufragare fra le secche del ristagno e i marosi dell'inflazione (giunta nel frattempo a toccare le due cifre).Sembrò cosí possibile, tra la prima e la seconda metà degli anni Ottanta, rilanciare, con lo stesso successo degli anni Cinquanta, il modello di sviluppo "export led". Facendo leva non piú soltanto (come in passato) sulla grande industria, ma sulle singolari capacità competitive di una moltitudine di piccole imprese spuntate dalle retrovie dell'"economia sommersa".

Per quanto fosse stata resa possibile anche dal "lavoro nero" e dall'evasione fiscale, l'eccezionale espansione della piccola impresa era soprattutto il risultato della progressiva formazione, tra le campagne e i centri minori di provincia (e quindi senza i traumi derivanti da vasti processi di urbanizzazione), di alcune aree produttive specializzate. La principale novità di tale fenomeno non stava soltanto nella comparsa o nel rafforzamento di numerosi distretti a vocazione monoculturale o caratterizzati da un intreccio di attività complementari, ma anche nel fatto che in tal modo s'erano venute industrializzando vaste zone del Nord-Est e dell'Italia centrale. E questo mosaico era poi divenuto ancor piú consistente per via delle operazioni di decentramento produttivo, per determinate fasi di lavorazione, intraprese da alcuni grandi gruppi, in ragione del minor costo e del maggior grado di flessibilità assicurati da una serie di microaziende specializzate e dislocate in zone non eccessivamente congestionate.

Sembrò in tal modo che potesse avverarsi la prospettiva di un secondo "miracolo economico". E di ciò si avvalse la nuova coalizione del "pentapartito" per proporsi anche come presidio e garante di una nuova stagione di stabilità politica, all'insegna di un'alternanza alla guida del governo fra Democrazia cristiana e partito socialista. Ma il miraggio di una fase intensa e prorompente di sviluppo economico, alimentato pure dal "sorpasso" nei confronti dell'Inghilterra, ebbe vita relativamente breve. Essa bastò tuttavia a influenzare la psicologia e i modelli di comportamento di vasti strati sociali ma allentò anche i vincoli della normativa e dell'etica pubblica.

In realtà, la fase espansiva era dovuta fondamentalmente al ribasso del dollaro e al rientro nel precedente alveo dei prezzi petroliferi. E di fatto si risolse piú nella riconquista di determinate quote del mercato interno che in una maggiore internazionalizzazione della nostra economia, in un decisivo ampliamento della nostra presenza nei circuiti commerciali e nell'acquisizione di imprese e partecipazioni all'estero.

Anzi, proprio in questo periodo il fatturato all'esportazione delle maggiori industrie italiane venne riducendosi, sul totale delle loro attività, per la minore competitività nelle produzioni a medio-alto contenuto tecnologico. D'altra parte, la ristrutturazione dei principali complessi era avvenuta, piú che sulla base delle innovazioni di prodotto, mediante innovazioni di processo, sia per recuperare i livelli di produttività persi durante gli anni della conflittualità in fabbrica, sia per disincagliare il funzionamento dell'attività dalle rigidità del mercato del lavoro.

Venne nello stesso tempo alla luce il rovescio della medaglia di quella multiforme galassia di micro-imprese, di impianto per lo piú familiare, che pur continuava a rappresentare l'asse portante di una cospicua quota della nostra industria e del nostro commercio d'esportazione, del cosiddetto "made in Italy": dall'eccessiva frammentazione delle dimensioni aziendali, ai bassi livelli di capitalizzazione, alla carenza di quadri e competenze manageriali. In ogni caso, il modello dell'"industrializzazione dal basso", per sistemi territoriali di piccole aziende, non s'era riprodotto (salvo poche eccezioni) nelle regioni del Mezzogiorno sia per la scarsità di autonome potenzialità imprenditoriali, sia per la mancanza di condizioni ambientali e sociali propulsive.

Sempre piú pesante era divenuto, nel frattempo, il costo delle diseconomie esterne. Non c'era attività di servizio che non registrasse disfunzioni piú o meno gravi (dalle poste alle dogane, dalle telecomunicazioni alle banche, al trasporto ferroviario). E ciò proprio quando sarebbe stato necessario, per non perdere terreno nella competizione internazionale, far conto sempre piú sullo sviluppo del terziario avanzato e su fattori di efficienza ambientale esterni al sistema delle imprese.

Si spiega pertanto come la questione del disservizio pubblico, di un apparato sempre piú caotico e disastrato, abbia finito per suscitare crescenti ondate di insofferenza nel ceto imprenditoriale. Al punto che vennero incrinandosi progressivamente quei rapporti di sintonia politica e di mutua convenienza fra potere economico e classe di governo che, sebbene avessero subíto non poche scosse (come al tempo dell'istituzione dell'Eni e del ministero delle Partecipazioni statali e, successivamente, nel periodo del centrosinistra), avevano continuato tuttavia a sopravvivere o a riprodursi in nome del "fattore K" e, quindi, del comune intendimento di sbarrare la strada a un'eventuale avanzata del partito comunista o di ridurne comunque gli spazi d'azione. E' pur vero che nel frattempo stavano dissolvendosi alcuni tabú ideologici della sinistra nei confronti del profitto e delle regole del mercato, anche in coincidenza con la crisi ormai irreversibile delle economie collettiviste dell'Est. E ciò spiega come certi legami di un tempo potessero essere, se non sciolti del tutto, quantomeno allentati.

Sta di fatto che la mancanza di un'efficace politica industriale e l'incertezza nelle scelte di fondo, l'instabilità dell'azione di governo, nonché l'invadenza dei partiti nell'amministrazione, apparvero sempre piú alla Confindustria e alle grandi famiglie del capitalismo italiano come delle tare intollerabili. Tanto piú che nel frattempo s'era andato estendendo e istituzionalizzando, per via della crescente ingerenza delle forze di governo nelle istituzioni pubbliche, un vero e proprio sistema parallelo di "imposte occulte" a carico delle imprese (e da queste tacitamente accettato o propiziato per rendere possibili utili soluzioni di comodo o di compromesso), che avrebbe finito per dar luogo a un intreccio di illecite connessioni fra economia e politica.

I contraccolpi della recessione, sopraggiunta all'inizio degli anni Novanta in seguito alla "guerra del Golfo", resero sempre piú fragile il piedistallo del regime partitocratico e tornarono a proiettare sull'economia italiana le ombre della crisi, la piú grave di tutto il dopoguerra, tanto da determinare una cesura nel sistema produttivo. Per la prima volta si venne manifestando un vasto fenomeno di deindustrializzazione nelle regioni nord-occidentali della penisola. E nello stesso tempo vennero esaurendosi nelle aree di seconda e terza industrializzazione alcuni tradizionali fattori di sviluppo della piccola impresa: come la loro maggiore elasticità in termini di livelli occupazionali (per via dell'introduzione di impianti automatizzati, a controllo elettronico, ~labour saving~); la loro particolare flessibilità in termini commerciali (in quanto non bastava piú il tempestivo adeguamento della produzione alle mutevoli caratteristiche della domanda ma occorrevano preventive strategie di ~marketing~); e certe condizioni di "tolleranza", sindacale e istituzionale, sul terreno fiscale e dei rapporti di lavoro.

Ma non soltanto per questi motivi si può affermare che con la fine degli anni Ottanta fosse venuto concludendosi un intero ciclo dell'economia italiana le cui premesse risalivano all'immediato dopoguerra. Giacché altri elementi significativi del mutamento di scenario, avvenuto durante gli ultimi anni nella fisionomia economica e sociale italiana, consistevano nella riconversione della grande e media impresa, non piú cosí strettamente organizzata, come in passato, sulla base di un ciclo produttivo verticale e di criteri di matrice taylorista; nella forte diminuzione delle "tute blu" e di figure impiegatizie tradizionali; in una progressiva espansione del lavoro autonomo, nella crescita del settore terziario e nello sviluppo di nuove attività e funzioni professionali. Un paese, quindi, non piú polarizzato, come un tempo, da rigide delimitazioni di classe e di censo, ai due estremi della scala sociale, ma composto per lo piú di ceti intermedi. E questo dato rappresentava uno degli indici piú significativi della sempre piú intensa mobilità che aveva caratterizzato la società italiana.

Venne meno in tal modo sia la centralità del sistema di fabbrica, sia la preminenza del lavoro dipendente. E, unitamente a questi cambiamenti di carattere strutturale, si era delineata una rapida evoluzione di modi e stili di vita, caratterizzata da aspettative crescenti e sempre piú personalizzate. Si era venuta cosí affermando una certa omogeneità fra i diversi strati sociali nei modelli di comportamento e nelle forme di vita. Espressione, questa, di una società tendenzialmente egualitaria nei costumi esteriori e nei consumi, ma frantumata da interessi differenti e solcata (come altre società consimili dell'Occidente) da nuove linee di demarcazione. Ai conflitti di classe (che avevano avuto per tanto tempo il loro epicentro nelle campagne e poi nelle fabbriche) e alle contese ideologiche (che avevano dato luogo a contrapposizioni radicali, nel vivo stesso della società civile, assai piú accentuate che in altri paesi dell'Occidente) erano venute sostituendosi aspettative e tensioni sociali motivate soprattutto da esigenze di maggior equità,  dalla garanzia di determinati diritti civili e di cittadinanza, dalla richiesta di migliori servizi e di tutela dell'ambiente, di forme di solidarietà piú adeguate ai livelli di ricchezza raggiunti dal paese. Nello stesso tempo, i mutamenti avvenuti nell'economia, nelle istituzioni e nei gruppi sociali avevano reso piú policentrica la società italiana. La vastissima galassia di borghi e centri minori che costella la penisola era cosí tornata di scena, dopo che negli anni Cinquanta e Sessanta, il ~boom~ economico aveva trasferito migliaia di persone dalla provincia alle metropoli, verso le principali città. Tant'è che piccole e medie città un tempo in letargo o piú appartate, erano venute man mano concentrando i maggiori livelli di reddito per abitante o i piú elevati tassi di occupazione.

Ma questi progressi non avevano sanato antichi squilibri. Tanto che rimane tuttora aperta la questione meridionale, e anzi essa si presenta oggi, per tanti aspetti, assai piú grave che in passato. Uno dei principali indirizzi della politica economica, quello dell'intervento straordinario dello Stato, prolungatosi per quasi mezzo secolo, s'è dissolto definitivamente. E le regioni del Mezzogiorno, equivalenti a un terzo del nostro paese, non sono ancora riuscite ad affrancarsi completamente da una situazione di sostanziale ristagno, né a creare una concreta alternativa a quel modello di sviluppo distorto, finora prevalso nel Sud, che ha visto un'imponente mole di trasferimenti finanziari pubblici orientati assai piú verso il sostegno dei redditi e dei consumi che verso quello degli investimenti e delle attività produttive. C'è anzi il pericolo che il Mezzogiorno subisca ora un arretramento irreversibile rispetto al resto del paese (a giudicare dalla forte caduta dei livelli occupazionali, dall'abbassamento degli indici del valore aggiunto sia nella produzione industriale sia nel settore delle costruzioni e delle opere pubbliche, nonché dal declino degli investimenti globali).

Per giunta c'è da fare i conti con una recrudescenza della criminalità organizzata che ha assunto dimensioni patologiche. Contro questo grave fenomeno, che ha soffocato lo sviluppo del Mezzogiorno e aggredito la società civile, lo Stato è intervenuto, negli ultimi tempi, con nuovi provvedimenti volti a rendere piú efficace l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, in ciò sorretto anche dalle reazioni della parte sana del corpo sociale, dal moto di rivolta e di denuncia contro la malavita che è andato crescendo fra la gente del Sud, stanca di essere vittima e ostaggio di un sistema di potere criminale. Tuttavia, il ripristino della legalità e dell'autorità dello Stato dipenderà soprattutto dalla capacità o meno di estirpare la mala pianta dell'affarismo politico-mafioso.

E' un paese dunque che presenta una duplice facciata, un fitto intreccio di luci e di ombre, l'Italia di questi anni Novanta, alla vigilia di un nuovo secolo che si preannuncia denso di incognite. La svolta determinata dal ciclone di Tangentopoli, dal ripristino delle regole della giustizia e dall'opera di bonifica e di moralizzazione della vita pubblica, le consultazioni del 1992 e il passaggio da un ordinamento elettorale a base proporzionale a un altro prevalentemente maggioritario, hanno sconvolto il vecchio assetto politico e istituzionale, ma non hanno dato luogo a una compiuta democrazia dell'alternanza. Lo stesso si può dire per quanto riguarda il sistema economico, ancora sostanzialmente contrassegnato da vecchi retaggi, da un complesso di abitudini e di modelli di comportamento imperniati sul rinvio delle riforme, sulla prassi delle mediazioni "bizantine", sulla ricerca di accomodamenti e compromessi, i cui costi continuano a scaricarsi inevitabilmente sulla finanza pubblica. E tutto ciò pone interrogativi gravi e inquietanti sulle prospettive e sull'avvenire economico del nostro paese.

In linea generale, il modello "export-led" rimane tuttora, e non potrebbe essere diversamente, il vettore e il referente fondamentale dell'economia italiana. Perciò il nostro futuro si trova pur sempre a dipendere, per tanti versi, dall'efficacia e dalla tempestività con cui il sistema industriale saprà rispondere o meno ai nuovi e piú complessi problemi imposti dalle nuove frontiere dello sviluppo e della concorrenza internazionale.

Ma sono nel frattempo venute meno certe condizioni che in passato hanno favorito il successo di un modello basato tanto sulla funzione trainante delle esportazioni quanto su quelle propulsive della spesa pubblica.

L'Italia non può piú contare, infatti, né su un minor costo del lavoro e del danaro, né su una larga disponibilità di risparmi e di capitali per gli investimenti, e neppure (per via delle attuali direttive della Comunità europea) su determinate forme di protezione interna (come prezzi di sostegno all'agricoltura, agevolazioni fiscali, incentivi pubblici alle imprese).

E' soprattutto la condizione disastrosa della finanza pubblica l'ipoteca piú micidiale che incombe sull'economia italiana e sulle stesse sorti del nostro paese. Il debito pubblico sta ormai sorpassando la cifra smisurata di 2 milioni di miliardi e il carico di interessi comporta un fabbisogno annuale superiore al 10% del reddito nazionale.Mai, se non negli anni piú drammatici e oscuri della nostra storia nazionale, si era giunti a tal punto. Ancora a metà degli anni Sessanta il rapporto fra lo ~stock~ del debito pubblico e il prodotto interno lordo s'aggirava su non piú del 20%; oggi, nel 1994, è di sei volte tanto.

Per tanti aspetti la crescita abnorme del disavanzo pubblico è lo specchio delle contraddizioni della società italiana, della sua incompiuta modernizzazione. Il nostro paese si è trovato infatti a scontare, oltre alle conseguenze di un'illusione piuttosto diffusa che si potesse continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi, sia la povertà propositiva della classe politica, sia l'assenza di una valida cultura di governo tale da consentire un rinnovamento dei modelli di organizzazione sociale e un'efficiente e limpida gestione della cosa pubblica.

Si è continuato cosí a concepire lo Stato, da un lato, come una sorta di sportello pagatore, sempre piú disponibile ad allentare i cordoni della borsa; dall'altro, come un produttore e un esercente in proprio, partecipe sempre piú diretto e invadente della vita economica. Non si è giunti, perciò, a promuovere il passaggio da uno Stato proprietario-gestore di risorse (quale era stato edificato a suo tempo per rimuovere le macerie della "grande crisi" degli anni Trenta) a uno Stato regolatore, che stabilisse alcune linee direttive essenziali e fornisse adeguati servizi pubblici. Né, tantomeno, è avvenuta la transizione da un sistema di intermediazione partitica e populista delle rivendicazioni piú particolari ed eterogenee a un sistema di governo operante in base a determinati criteri di priorità e di equità rispondenti a finalità d'interesse collettivo.

E' vero che l'accrescimento della spesa pubblica non è stato solo il risultato di un esercizio clientelare del potere e di un rapporto consociativo fra i partiti di governo e quelli dell'opposizione. Una parte rilevante ha avuto anche l'esigenza di proteggere o di integrare i ceti piú marginali e le aree piú deboli, e, quindi, la preoccupazione di garantire la stabilità delle istituzioni e la pace sociale mediante una batteria di ammortizzatori finanziati dallo Stato.

Sta di fatto che questo sistema di governo e di mediazione sociale, congeniale a una sorta di democrazia consensuale-spartitoria, non ha dato luogo né all'avvento di un autentico ~Welfare State~, né a un reale miglioramento dei servizi d'interesse generale, ma piuttosto a una sorta di "partito unico del debito pubblico". Anche per tale ragione, era divenuta sempre piú fitta la ragnatela della corruzione che ha finito via via per inquinare vasti settori della vita pubblica ed economica.

Il risanamento del bilancio dello Stato è dunque il principale nodo da sciogliere. Non basta infatti cercare di contenere (come pur si è fatto, per la prima volta, negli ultimi due anni) la massa straripante del disavanzo; occorre imprimere un'inversione di tendenza, rimuovere le cause strutturali della voragine che s'è aperta nei conti pubblici. Ma il problema è complicato dal fatto che, da qualsiasi parte si voglia intervenire (sia nel caso che si decida di far ricorso a un incremento del prelievo fiscale, sia nel caso che si ponga mano a una drastica riduzione delle spese pubbliche), c'è da mettere in conto una massiccia ondata di impopolarità. Senonché, qualora non si attuasse una seria manovra di aggiustamento, si determinerebbe alla fine una situazione di insolvenza.

Se il risanamento del bilancio dello Stato è oggi il principale nodo da sciogliere, rimane pur sempre il fatto che ciò sarà possibile soltanto se, insieme a una rigorosa politica finanziaria, l'economia reale (quella che produce beni e servizi) riuscirà a innestare una marcia piú alta e ad abbassare i costi. In un mercato di dimensioni sempre piú ampie e interdipendenti, la partita decisiva si gioca ormai in un confronto globale fra sistemi-paese, fra sistemi nazionali nel loro complesso, in cui non contano piú certi proverbiali virtuosismi (come l'intraprendenza, l'improvvisazione, l'arte d'arrangiarsi) con cui gli italiani hanno cercato finora di superare determinate carenze organizzative e istituzionali.

Oggi, dopo la fine del bipolarismo, è destinato inevitabilmente a inasprirsi l'antagonismo fra i principali paesi del mondo occidentale. E dall'aprile del 1994, con la firma dell'"Uruguay Round", si è chiuso l'ultimo capitolo del vecchio ordinamento del commercio mondiale basato su sistemi regionali di preferenze tariffarie. Si è aperta cosí una nuova fase assai piú impegnativa, in quanto segnata dal progressivo passaggio al multilateralismo. La novità principale sta nella fine di quella sorta di club esclusivo, costituito dai paesi piú ricchi e industrializzati, che teneva banco e dettava le regole del gioco. Con l'imminente inclusione fra i suoi membri della Russia e della Cina e di vari paesi in via di sviluppo, nuovi attori si affacceranno a pieno titolo sulla scena e si procederà sempre piú speditamente verso la meta finale dell'unicità del mercato mondiale.

Affinché l'Italia possa continuare a competere con successo in uno scenario del genere, è necessaria una capacità d'innovazione e di organizzazione ben superiore a quella dispiegata negli ultimi decenni, giacché la nostra industria è andata perdendo costantemente terreno nei settori d'avanguardia e a piú alto contenuto tecnologico. Né è un dato certamente confortante il fatto che il settore della formazione superiore e della ricerca (tanto piú indispensabile per un grande paese industrializzato ma privo di materie prime, e con un alto costo del lavoro, come è l'Italia) abbia subíto nel frattempo una grave diminuzione di risorse e di investimenti.

Se il volume delle spese destinate alla ricerca applicata e al perfezionamento della formazione professionale risulta assolutamente inadeguato rispetto alle esigenze del nostro sistema produttivo e ai livelli di ricchezza del paese, altrettanto si deve dire per quanto riguarda le dimensioni operative e finanziarie di una parte consistente dell'industria italiana. Nella competizione mondiale possiamo infatti contare su qualche grande bastione (ma non su autentici colossi) e su un grappolo di medie-grandi imprese.

Il "vincolo esterno", quale parametro sia per scongiurare il ripetersi di comportamenti inflazionistici o di ulteriori trasgressioni alle compatibilità economiche, sia per assicurare una maggior produttività generale del sistema, torna perciò, a maggior ragione, ad essere un requisito fondamentale per l'economia italiana.

Se cinquant'anni fa l'aggancio all'Europa ha posto le basi della nostra espansione economica, oggi esso risulta altrettanto indispensabile per scongiurare l'emarginazione dell'Italia dalle nuove frontiere dello sviluppo. Sarà certamente difficile, se non improbabile, che il nostro paese riesca, entro le scadenze fissate dal trattato di Maastricht, a tenere il passo dei principali ~partner~ della Comunità europea. Ciò non toglie tuttavia che, sia pur a distanza, la prospettiva di una maggiore e sempre piú stretta integrazione economica e monetaria (ma anche politica) rimanga per l'Italia l'unica alternativa se vuol sanare i suoi squilibri e progredire. D'altra parte, non è piú possibile, come è avvenuto negli ultimi due decenni, continuare a scaricare sul cambio e sul debito pubblico le numerose "eccentricità" del nostro paese in fatto di inflazione, evasione fiscale, dualismo territoriale, conflittualità sociale, sprechi e inefficienze nell'amministrazione.

Le previsioni formulate dalla Banca mondiale non sono affatto incoraggianti. Nel prossimo futuro l'Italia pare destinata a scendere, dal gruppo di testa, al dodicesimo posto della graduatoria, surclassata da paesi come la Corea del Sud, la Thailandia, Taiwan. E ciò perché le nostre capacità competitive, qualora non avvenisse un sostanziale mutamento di rotta, risultano nettamente inferiori a quelle delle altre cinque piú grandi economie dell'attuale mondo industrializzato, per un minor grado sia di flessibilità del mercato del lavoro, sia di formazione professionale, sia di esportazione di alte tecnologie.

L'avvenire del nostro paese dipenderà perciò, da un lato, dal risanamento della finanza pubblica; dall'altro, dalla capacità di risposta del  sistema economico nel suo complesso alle nuove sfide della competizione internazionale. Siamo ormai giunti a un bivio, giacché sul primo versante abbiamo ormai raschiato il fondo del barile, e sul secondo non è piú possibile giocare semplicemente di rimessa.




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