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I MODELLI ATOMICI
Alla fine del 1800, inizi del 1900 il modello atomico di Dalton, che considerava l'atomo una piccolissima pallina di materia indivisibile, venne sostituito da un nuovo modello, quello di Thomson, detto a panettone o ad anguria in cui (se si prende il caso dell'anguria) la polpa rossa rappresentava la carica positiva, uniformemente distribuita, mentre i semi erano gli e , dispersi all'interno di questa polpa ma perfettamente in grado di controbilanciare la carica positiva rendendo così l'atomo neutro. Nel 1911, però, il fisico australiano Rutherford, in collaborazione con i suoi assistenti Geiger e Marsden, senza volerlo attraverso i suoi studi (esperienza di scattering) dimostrò che l'atomo non era così come lo aveva teorizzato Thomson ma era formato in realtà da un nucleo centrale molto piccolo contenente la carica positiva intorno al quale erano poste le cariche negative, che in proporzione occupavano uno spazio molto più ampio. Egli conduceva degli studi approfonditi sulla radioattività e in particolare sugli effetti dell'impatto di particelle a su sottili lamine d'oro; attraverso un particolare strumento, il contatore Geiger, capace di rilevare la radioattività, Rutherford notò che le particelle a, positive, passavano quasi tutte per la lamina e so 959f51j lo una minima parte veniva deviata o addirittura respinta indietro. In base a questi risultati Rutherford capì che l'atomo non poteva essere come pensava Thomson perché se così fosse stato le radiazioni a si sarebbero dovute comportare tutte allo stesso modo, o procedere tutte avanti o deviare tutte. La diversità del loro comportamento stava invece a dimostrare la non omogeneità delle cariche positive all'interno dell'atomo, atomo che ora si incomincia a pensare formato da cariche positive concentrate in una regione piccolissima, tanto che solo poche radiazioni a la colpiscono, e intorno a questa regione da uno spazio in proporzione molto più grande e vuoto, se non fosse per la presenza di piccolissime particelle di carica negativa, gli e
Accolto con successo il modello di Rutherford, iniziarono a questo
punto varie riflessioni per cercare di migliorare ancora il modello atomico e
la questione che di più interessava gli scienziati era quella relativa al
movimento degli elettroni. Infatti ci si chiedeva: perché questi e che girano intorno al nucleo e sono di carica negativa non vengono
attratti dal nucleo, dai p , con
la conseguente annichilimento (distruzione) dell'atomo? E oltretutto, come
fanno i p ad occupare uno spazio così esiguo?
Per sapere come venne risolto il problema bisogna fare un passo indietro e
pensare alle conoscenze di fisica del passato, in particolare del
quella di Newton (teoria corpuscolata), che sosteneva che la natura della luce fosse corpuscolata, e che quindi la luce fosse fatta di tante particella che si muovono l'una dopo l'altra;
quella di Huygens (teoria ondulatoria), che sosteneva che la luce avesse natura ondulatoria.
Chi aveva ragione? Oggi siamo in grado di dire che l'avevano entrambi,
ma allora l'ipotesi corpuscolare fu accantonata, poiché ben presto ci si
accorse che nella grande maggioranza dei casi la luce si comportava come
un'onda. All'inizio del 1900 tuttavia Max Planck avanzò
un'ipotesi rivoluzionaria, secondo la quale le onde elettromagnetiche avevano
una doppia natura, contemporaneamente ondulatoria e corpuscolata. Egli infatti
teorizzò che su un'onda elettromagnetica viaggiavano delle "particelle", dei
"corpuscoli" che egli chiamò con il nome di "quanti": questi quanti sono
variabili come dose e possono essere pensati come dei veri e propri pacchetti
di energia. In particolare questi pacchetti di energia se riferiti alle
particelle della luce prendono il nome di fotoni. Come arrivò Planck a
questo risultato? Che la luce avesse natura ondulatoria era chiaro da tempo,
dato che vari fenomeni come la rifrazione, la riflessione, la diffrazione
e la dispersione dimostravano tutti la natura ondulatoria della luce.
Planck attraverso i suoi studi tuttavia cominciò a pensare che la natura delle
onde elettromagnetiche non fosse puramente energetica e che sulle onde
viaggiavano dei pacchetti di energia a ciascuno dei quali attribuì un'energia
pari a E = hf , direttamente proporzionale quindi a h (costante
di Planck o quanto d'azione, pari a 6,625 J s) e alla frequenza dell'onda. Pertanto i quanti che viaggiano sulle
onde radio sono più piccoli mentre quelli che viaggiano sulle radiazioni x e g sono più grandi. Queste teorie al tempo furono veramente
rivoluzionarie, tanto che contribuirono a stabilire la nascita della fisica
moderna, a tracciare i limiti tra questa e la fisica classica. Planck
dimostrò quindi che l'energia non si propagava sempre in modo continuo, come si
credeva in quegli anni, ma che si propagava per piccolissime quantità finite
(discontinue), che erano appunto i quanti. È questa la teoria della
discontinuità dell'energia, che sarà molto importante perché consentirà ai
fisici di esaminare in maniera nuova fenomeni interpretati ma non chiariti,
come ad esempio l'effetto fotoelettrico, studiato e chiarito da Einstein.
Il fenomeno fotoelettrico è quel fenomeno per cui certi metalli, quando
vengono colpiti da radiazioni luminose (o anche raggi X e UV), emettono e e quindi si caricano positivamente. Si era osservato che gli e sono emessi solo quando la frequenza della radiazione incidente supera
un certo valore f0, detto soglia fotoelettrica,
caratteristico del metallo considerato. Per frequenze inferiori a f0
non viene espulso alcun e ,
comunque venga aumentata l'intensità della radiazione. Ragionando in termini di
quanti, Einstein suppose che e potesse essere espulso solo quando venisse colpito da un quanto di
radiazione dotato dell'energia minima sufficiente ad estrarlo dal metallo e ad
impartigli una certa velocità v. In questo caso l'e assorbe l'energia hf0 del quanto e acquista energia
cinetica. Impiegando radiazioni con f superiore al valore di soglia, si
osservava un aumento lineare dell'energia degli e espulsi. Mantenendo fissa la frequenza ad un dato valore superiore al
valore di soglia e aumentando l'intensità della radiazione, l'energia degli
elettroni emessi si manteneva invece costante, a ulteriore conferma non solo
che la velocità di questi e in
uscita (e quindi anche l'energia del quanto) dipende dalla frequenza della
radiazione usata e non dall'intensità del fascio luminoso che ha investito
Il primo fisico a sfruttare la teoria di Planck per definire un nuovo modello atomico fu nel 1913 Niels Bohr. Egli infatti, partendo dallo studio dello spettro d'emissione dell'idrogeno e dalla teoria quantistica riuscì ad elaborare un nuovo modello di atomo avente una distribuzione quantizzata dell'energia.
Bohr affermò innanzi tutto che gli e non hanno un moto casuale, così come aveva detto Rutherford, ma si muovono secondo dei precisi percorsi circolari cui egli diede il nome di orbite. Ogni orbita è posta all'interno di una precisa regione di spazio, la quale fa sì che l'e non venga attratto dal nucleo, che prende il nome di livello. In condizioni stazionarie (in assenza di eccitazione) gli e non irraggiano energia perché possono muoversi solo su orbite circolari ben determinate, dette orbite stazionarie, a ciascuna delle quali corrisponde un ben definito livello energetico. Le orbite, così come i livelli hanno un'energia quantizzata: un e si muove su una data orbita solo se il suo contenuto energetico corrisponde a quello dell'orbita stessa. Le orbite stazionarie sono le uniche permesse all'e perché sono le uniche in cui si rispetta la cosiddetta condizione quantistica di Bohr:
(m = massa e ; v = velocità e ; r = raggio orbita ; h = costante di Planck; n =
numero intero, è detto numero quantico principale, va da
Basandosi sullo studio dello spettro d'emissione a righe dell'idrogeno, Bohr disse poi che quando un elettrone viene sottoposto ad eccitamento, assorbe una ben precisa quantità d'energia che gli permette il salto, o meglio la transizione di livello, dalla propria orbita ad un'altra più esterna a maggior contenuto energetico. A questo punto tuttavia, dato che l'e non si trova nel suo stato stazionario, non viene più rispettata la condizione quantistica, l'e non è più stabile e quindi decade immediatamente sulla sua orbita stazionaria a minor contenuto energetico. In questa transizione di ritorno, l'e restituisce l'energia assorbita sotto forma di quanti di luce di frequenza determinata, strettamente legata all'ampiezza del salto compiuto: è proprio questa emissione di energia a dare origine sullo spettro a una riga luminosa, di frequenza e lunghezza d'onda corrispondente.
Un e che passa da un livello energetico iniziale Ei ad un livello energetico finale Ef di energia minore emette quindi la differenza di energia ΔE come quanto di luce secondo l'equazione:
Ef - Ei = ΔE = hf
Stabilito ciò, Bohr si preoccupò di calcolare il raggio delle orbite e lo fece attraverso questo procedimento:
K è la costante dielettrica e nell'aria, che è l'ambiente in cui si trovano generalmente tutti gli atomi, è uguale a 1; q1 e q2, anche se hanno cariche di segno opposto (q1 = p+ ; q2 = e ), sono quantitativamente uguali; r è il raggio che separa il nucleo dagli e ; quindi la formula diventa:
In base a questa formula l'e dovrebbe essere attratto e dovrebbe andare verso il nucleo, ma in realtà non è così perché l'e esercita una forza centrifuga che si contrappone alla forza colombiana e che è uguale a F = mv2 / r. Queste due forze sono uguali e quindi si scrive:
,
; ma
, quindi
,
Il termine h2 / 4π2me2 è una costante ed è uguale a 53 pm (1 pm = 10-12 m), quindi r = 53 pm n2. Il raggio della prima orbita è immediato, perché n = 1, ma ciò equivale a dire che il raggio dell'orbita dove viaggia l'e dell'atomo di idrogeno è uguale a 53 pm. Per quanto riguarda l'energia all'interno dei livelli invece la formula è:
B è un prodotto di costanti, quindi tutto il valore B / h2 è
una costante (ed è uguale a: 2,18 10-18 J ; 13,6 e.v. ; 313,6 Kcal / mol). Questa energia
aumenta dall'interno del nucleo verso i livelli più esterni dell'atomo; infatti,
all'aumentare di n (i livelli) aumenta il valore del denominatore e
quindi E dovrebbe diminuire, ma in realtà c'è il - che capovolge la situazione
e che quindi mi dice non solo che l'energia è quantizzata ma che anche aumenta
dall'interno verso l'esterno. Il modello di Bohr aveva senza dubbio molti
aspetti positivi (e
disposti in livelli quantizzati) ma anche delle cose piuttosto errate (e concepiti come corpuscoli con dei percorsi molto precisi, delle vere e
proprie orbite delle quali egli calcolò anche il raggio); inoltre, bisogna
aggiungere che è praticamente perfetto per un solo atomo, quello di idrogeno,
mentre a mano a mano che si esaminano atomi più complessi si allontana sempre
più dalla realtà. Il modello di Bohr fu qualche anno dopo affinato da Sommerfeld,
che affermò che in un livello non vi era una sola orbita ma vi erano più
orbite, alcune delle quali di forma ellittica; ciò richiese l'introduzione di
una altro numero quantico detto numero quantico secondario, l , che determinava la forma dell'orbita descritta
dall'elettrone. Successivamente fu introdotto un terzo numero quantico
magnetico, m
, per tenere conto che le orbite potevano avere diversi
orientamenti, mentre nel 1924 il tedesco Pauli introdusse un quarto
numero quantico, detto numero quantico di spin, ms
, per tenere conto della rotazione dell'e intorno al proprio asse.
Il modello atomico cui facciamo riferimento noi al giorno d'oggi è il modello ad orbitali. A preparare il terreno per l'elaborazione di questo modello furono due fisici verso la fine degli anni '20, De Broglie e Heisenberg. De Broglie, partendo dalla teoria dei quanti e dalla teoria della relatività di Einstein (e quindi dalla convertibilità di energia e materia l'una nell'altra), teorizzò, tramite il concetto di simmetria, la natura dualistica dell'elettrone. Egli infatti affermò che, come le radiazioni evidenziano in certi casi caratteristiche corpuscolari, come esse hanno natura ondulatoria e corpuscolata, così anche i corpuscoli materiali dovevano presentare proprietà ondulatorie; quindi gli e , oltre ad una componente materiale, dovevano avere una componente ondulatoria. La teoria di De Broglie associa ad ogni corpuscolo un'onda, la cui lunghezza d'onda λ, è data dalla relazione:
,
,
,
, ma la formula vale
non solo per c ma per qualsiasi valore della velocità , quindi
dove h è la costante di Planck, m la massa e v la
velocità del corpuscolo. Quindi, secondo De Broglie, ogni corpo emetteva delle
onde associate al suo movimento e qualunque fosse la sua velocità, onde delle
quali si poteva anche calcolare
2πr = nλ
,
,
(dove n è il numero quantico principale), formula questa, che ci dice che le orbite quantizzate di Bohr devono contenere un numero intero di lunghezze d'onda (l'e quando percorre la sua orbita circolare lo fa sviluppando un n intero di volte quella che è la sua λ): un'onda nella prima orbita (n=1), due onde nella seconda (n=2) ecc. Quando si trova nel suo stato stazionario l'e , ogni volta che completa una giro della sua orbita, crea un'interferenza costruttiva con cui rafforza l'onda che emette. Quando invece l'e passa nello stato eccitato, non è più vero che nλ = 2πr, non si crea più un'interferenza costruttiva, quindi l'e non è più stabile e ritorna nel suo stato stazionario emettendo energia.
Un altro principio fondamentale nella formulazione del modello atomico ad orbitale fu il "principio di indeterminazione", formulato nel 1927 dal fisico tedesco Heisenberg. Questi, che conosceva e riteneva esatte le teorie di de Broglie, propose questa idea: se ci troviamo a dover misurare due grandezze estremamente piccole, la precisione nella misurazione dell'uno mi porta altrettanta imprecisione nella determinazione del valore dell'altra. Egli aveva infatti compreso che per l'e sarebbe stato possibile determinare un percorso solo se si fossero avuti in ogni momento il valore preciso della sua posizione e della sua quantità di moto, ma ciò non era possibile perché tanto più precisa era la determinazione della sua posizione, tanto più imprecisa era la determinazione della sua quantità di moto. Ciò è dovuto al fatto che, quando si osservano dei fenomeni particolari, noi, per determinarne le caratteristiche, adoperiamo dei mezzi con cui alteriamo la natura delle realtà osservate, le quali quindi non sono più viste nelle loro condizioni di normalità, ma in condizioni particolari, per esempio di eccitamento. Quando per esempio si va ad osservare un e , si deve far arrivare su di esso un fascio di fotoni, che con la loro energia scalzano gli e dal loro stato stazionario portandoli nel loro stato eccitato. Come detto, più precisamente si riesce a valutare la posizione dell'e , più altrettanto sprecisamente si riesce a valutare la sua quantità di moto; e il prodotto delle incertezze è costante, più aumenta l'uno, più diminuisce l'altro.
Δp Δq =
(Δp = posizione ; Δq =
quantità di moto)
Questo principio è stato rivoluzionario anche dal punto di vista filosofico, in quanto ha contribuito a determinare la fine del determinismo e ad aprire l'era del probabilismo. Infatti Heisenberg aveva capito che in certi casi, quando si trattano dei fenomeni particolari, sconosciuti, è molto meglio avere una risposta probabilistica (anche se questa non ci dà certezza) piuttosto che una risposta deterministica sicuramente sbagliata.
Tenendo conto di tutte queste scoperte, il fisico austriaco Schrödinger formulò delle equazioni matematiche che descrivessero il moto degli elettroni, delle vere e proprie equazioni d'onda che mettevano chiaramente in evidenza la natura ondulatoria degli elettroni. Queste equazioni, molto complesse, presentavano 4 numeri quantici più una grandezza, ψ, detta funzione d'onda, di cui non si conosce molto bene il significato, in quanto secondo Schrödinger doveva avere un significato che non corrisponde alla realtà. Dopo di lui un altro fisico tedesco, Max Born, attribuì alla grandezza ψ2 il significato di densità di probabilità, cioè densità di probabilità di trovare l'e , in base all'energia che esso possiede, in una certa regione dello spazio intorno al nucleo. L'utilizzo di questo ψ2 ha portato a teorizzare il modello ad orbitali. Con il termine orbitale si intende la regione di spazio in cui si ha la massima probabilità (almeno 85-90 %) di trovare un e stato introdotto, l'orbitale, perché è assolutamente vietato cercare di tracciare il percorso di un e e la sua posizione istante per istante, perché così facendo si rifiuterebbero tutte le teorie di De Broglie e di Heisenberg. Tuttavia il modello ad orbitali è puramente matematico, non è facile immaginarlo in maniera concreta, e quindi per averne un idea bisogna trasformare le equazioni d'onda in dei modelli concreti attraverso l'ausilio di un calcolatore. Il calcolatore crea due tipi di modelli: lo sfumo e il punteggiato. Il primo si basa sul colore: aumentando l'intensità del colore si alza la probabilità di trovare l'e e viceversa; il secondo si basa sulla punteggiatura ma il discorso rimane lo stesso: dove i punti sono più fitti si ha maggior probabilità di trovare l'e . La regione che mi racchiude la zona dove la punteggiatura è più fitta mi delimita l'orbitale. Ci sono vari tipi di orbitali e con varie forme: gli orbitali s, che hanno forma sferica, gli orbitali p, che hanno forma bilobate e gli orbitali d e f, che hanno forma trilobate e toroidale (a ciambella).
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