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LE ASSOCIAZIONI DI MALATI

medicina



LE ASSOCIAZIONI DI MALATI



I  TERZO SETTORE: UNA CONNESSIONE POSSIBILE?

"Un paese deve sapersi adeguare ai cambiamenti del suo ambiente. Per questo motivo è necessario un punto di osservazione diverso, discontinuo. Non possono servire studi statistici o studi di settore sull'appropriatezza per elevarne e approvarne la sua estensione applicativa. Solo punti di vista generali, che annettono nel loro complesso tutte le scelte di protezione sociale e, non solo quella del servizio sanitario nazionale, devono essere dispiegate per dimostrare, anche empiricamente, che è necessario diffondere politiche di promozione dell'appropriatezza; politiche che possono agire come "norme sociali" per la tenuta e preservazione del welfare"[1]. Per essere appropriate le misure di intervento devono essere considerate alla luce delle più ampie e generali conseguenze e influenze che producono nel sistema. Un approccio di rete, permette di accogliere queste prospettive di lungo raggio, sia in ambito decisionale, che attuativo e valutativo.



Una rete in grado di articolare funzionalmente e rafforzare i rapporti tra i soggetti del settore assistenziale e sanitario - e tra questi e i decisori -, sebbene indicata, è sostanzialmente ancora da realizzare. Il modello di rete pur essendo attualmente quello auspicato in sanità, espone ad una incremento di complessità che non può essere sostenuta senza radicali cambiamenti, innanzitutto di mentalità. Tuttavia riuscire ad ottenere una integrazione ed una continuità territoriale nelle azioni dei servizi socio-sanitari, rappresenta oggi lo scopo primario negli interventi di promozione della salute. In primo luogo esiste infatti una principale frattura tra servizi connotati a livello sanitario e quelli assistenziali: ideologie, paradigmi, culture, riferimenti, modelli d'intervento diversi, che spesso sviluppano un problematico dialogo operativo, tuttavia soventemente orientati agli stessi utenti. Ma fratture di questo tipo esistono anche tra il settore pubblico e quello privato (e tra quello privato inserito nel SSN e quello privato non inserito nel SSN), e tra i circuiti dei soggetti del sistema socio-sanitario formalmente riconosciuti e quelli non. Pensare a modelli sociali per lo sviluppo di integrazione è, in questo senso, diventata una necessità. Del resto, come abbiamo già visto, la salute è definita come uno stato di completo benessere derivante dall'equilibrio tra la dimensione biologica, psicologica e sociale: come nota Francescato, "Con la prima dimensione si intendono le interazioni tra fattori genetici e acquisiti nel processo di adattamento biologico; la seconda è costituita dalle rappresentazioni e dai dati che strutturano la personalità di ognuno attraverso i suoi rapporti con la comunità umana; mentre la terza investe il coinvolgimento del singolo nei sistemi sociali [.], dinamicamente intesi nelle loro continue interazioni"[2]. Queste tre dimensioni non possono essere considerate tra loro in modo separato, poiché rappresentano tre vertici speculari di una medesima realtà: l'esperienza esistenziale di sé e del mondo, e di sé nel mondo.

Il Terzo Settore in Italia, a seguito della sua ventennale crescita esponenziale, rappresenta oggi una realtà così consistente da assumere una rilevanza delle funzioni a livello sociale (specie nell'assistenz 747b12h a sanitaria e sociale) tale che difficilmente si potrebbe continuarlo a considerare in modo parallelo rispetto agli altri settori. Viene definito Terzo Settore proprio per indicare un'alternativa allo Stato sociale, ma anche alle logiche lucrative del mercato: la caratteristica no-profit e l'erogazione di servizi solidaristici, definiscono in breve questo settore, che propone, seppur con più frammentarietà degli altri due, una specifica prospettiva di società e del rapporto persona-gruppo-società; il no-profit infatti si propone di coagulare tra loro le energie autorealizzative delle persone, attraverso la promozione di iniziative sociali e di interventi di utilità sociale, quindi in risposta a specifici bisogni collettivi lasciati scoperti dal mercato e dallo Stato. Queste iniziative ed interventi sono portati avanti attraverso la costituzione di strutture organizzative private, e promossi attraverso la libera iniziativa dei partecipanti all'organizzazione. Questa spontaneità d'azione, assieme ad altre caratteristiche (come la natura giuridica privata, l'autogoverno, la mancanza di obiettivi di profitto e il perseguimento del bene collettivo), caratterizza il Terzo Settore come un serbatoi vitale dei fermenti delle libertà civili e delle visioni e prospettive di quella società attiva che prova a proporre cambiamenti dal basso (Francescato, Putton, 2000 : non a caso le definizioni più contemporanee rinominano questo settore Privato Sociale. Sembra tuttavia che nonostante la sua significativa presenza, il Terzo Settore, o no-profit, sia trattato a livello legislativo in modo tale da non legittimarne, né riconoscerne ufficialmente una sua articolazione funzionale con il settore dello Stato sociale: il Decreto Legislativo 460 (1997) indicando le funzioni e finalità del settore no-profit[3], lascia però indefinite le aree di rapporto con gli altri due settori del sistema sociale, limitandosi ad avvantaggiarle dal punto di vista fiscale. Non cambia di molto la situazione con la Legge 383 del 2000. La ambiguità sui rapporti tra il no-profit e le atre organizzazioni, e la sua convenienza fiscale, hanno contribuito anche ad una certa proliferazione selvaggia di questa tipologia di organizzazioni, spesso forzandone o abusandone l'adozione. Un altro aspetto debole del no-profit è che essendo così energicamente addensante la sostanza ideologica di cui si nutre, questa può finire per oscurare anche le più basilari esigenze organizzative (Carli, Paniccia, 2005): operare attraverso i buoni sentimenti, le buone intenzioni, per il bene altrui, sono proposte affettive e simbolizzazioni di sé-altro così potenti che, se non adeguatamente investite su livelli di realtà e tradotte con effettive competenze, possono finire coll'invadere violentemente l'altro, il beneficiario, nei suoi aspetti di realtà. Il principio su cui è facile abbagliarsi è che "facendo del bene ad un altro, non si sbaglia mai": il problema invece è che finché si da per scontato di "fare del bene", nessuna verifica sarà possibile, azionando quindi un circolo vizioso d'autereferenzialità; l'ignoramento del presunto beneficiario (in discorsi precedenti l'avremmo chiamato cliente.) è forse il problema più diffuso in queste organizzazioni, ed è facile ravvisarlo quando al loro interno vi cominciano a sorgere focolai di lamentela proprio sulla ingratitudine dimostrata dai beneficiari, o sulla mancanza di un loro riconoscimento circa la generosità e disponibilità degli operatori (del tipo, "avremmo bisogno che loro avessero più bisogno di noi"). La sostanza ideologica rappresenta allo stesso tempo però anche un capitale indispensabile per l'organizzazione, essendo lo strumento più immediato per creare consenso nell'opinione pubblica e tra gli stakeholder[4] (Freeman , Rusconi, Dorigatti, 2007), e rappresentando il riferimento di fondo per l'identificazione dei membri con l'organizzazione e la sua impresa (Dutton, Dukerich, Harquail, 1994 . In queste organizzazioni l'equilibrio è molto precario (Francescato, Tomai, 2005; Morganti, 1998) e va determinato e realizzato dinamicamente. Ci sembra perciò opportuno sottolineare come, anche nel no-profit, la competenza organizzativa rappresenti la risorsa più importante (Cocco, 1995), tanto per i beneficiari, quanto (e visto che moltissimi di loro sono volontari, diremmo soprattutto!) per chi vi partecipa prestandovi lavoro.

Rispetto alle malattie rare, all'interno del Terzo Settore troviamo preminenti le Associazioni di malati. Abbiamo già sottolineato come una persona con malattia rara sia altamente esposta al rischio di isolamento e come i suoi compiti adattivi e progettuali diventino a seguito della malattia maggiormente impegnativi. Per sostenere questa realtà, spesso il solo punto di vista della singola persona con malattia rara non è sufficiente: "il gruppo umano reca in sé potenzialità trasformative di grande incidenza grazie alla sua specificità nel soddisfare bisogni sia di appartenenza sia di individuazione e nello sviluppare sia la promozione del sé sia l'attivazione di nuove culture e di nuove narrazioni (Munelli, 1998; Ancona, 1998)"[5]. Il gruppo rappresenta rispetto l'individuo una realtà che non è semplicemente di tipo "sommatorio", ma di natura qualitativamente diversa: in questo caso infatti "1+1+1+1+.=1". La mente gruppale è come un'ampia sacca di prospettive di senso (qui inteso come sinonimo della natura più profonda, emozionale) e attraversamenti (Montesarchio, 2008) che si incontrano costruttivisticamente mediante l'intreccio di narrazioni (ossia integrando logiche e significati), o meglio di co-narrazioni trans-formative (Bion, 1965; Ferro, 1999). Un "buon gruppo" permette all'individuo di radicare lanciando le fronde al cielo, di immergersi nella realtà attraverso una stabilità e allo stesso tempo una flessibilità (Ancona, 1975), permette cioè una costante ri-generazione autopoietica, che nel tempo sviluppa e si discioglie. Tuttavia dire gruppo, e ancora di più "buon gruppo", offre solo una vaghissima indicazione. Considerando il gruppo come un contenitore, dovremmo evidentemente interessarci innanzitutto delle caratteristiche del contenitore, prima di riflettere sul suo contenuto.

II LE ASSOCIAZIONI DI MALATI RARI: CRITICITA' E RISORSE, PER UN MODELLO DI CONVIVENZA A "POTERE MOLTIPLICANTE"

Le associazioni di malati nascono in modo spontaneo, su libera iniziativa di alcuni malati o di loro famigliari, i quali fondando l'associazione e ne decidono in autonomia lo statuto, le finalità e le attività. Solitamente sono associazioni legalmente riconosciute, ma potrebbero anche essere costituite come associazioni di fatto. Questi "aggregati cooperativi finalizzati" di persone, trovano il loro collante principale nella condivisione, diretta o indiretta, di aspetti problematici legati alla presenza della patologia: aspetti che, come abbiamo precedentemente descritto, irrompono in modo forte nella vita di queste persone. Il pericolo, per un gruppo che nasce e si struttura a partire da questi problemi, potrebbe essere quello di spingersi verso lo sviluppo di una forma di unità gruppale emozionalmente simbiotica, "un'appartenenza primigenia" in cui trova ad istituirsi il possesso fagocitante dell'altro (inteso come categoria generica dell'estraneità) e dove il problema si fa mito e condizione consacrante l'appartenenza, cosicché il gruppo è investito e predominando dalla sua stessa mistica (Bion, 1961). I leader di queste associazioni dovrebbero quindi essere particolarmente impegnati a governare per il perseguimento dello scopo associativo, sollecitando e traducendo i moventi individuali dei membri verso gli obiettivi condivisi, così da promuovere contributi e collaborazioni, da una parte, e permettere lo sviluppo delle specifiche soggettività, dall'altra: la adozione di regole negoziate-condivise e orientate agli scopi dovrebbe inoltre rappresentare il comun denominatore tra i partecipanti e l'abito più rappresentativo del loro leader. Pensiamo in questo senso che il primo e più importante prodotto della vita associativa nelle malattie rare, potrebbe proprio essere quello di trasformare la sconfinatezza emozionale legata ai problemi determinati dal vivere la e con la malattia, in una serie utilizzabile di processi cognitivi e di mete operative: il gruppo dei soci e le attività associative dovrebbero in altri termini assumere una fondamentale funzione "digestiva". La condivisione dei problemi all'interno del gruppo inoltre potrebbe permettere di integrare una serie di elementi (emozionali e di pensiero) esperenziali che si troverebbero altrimenti a operare come frammenti isolati e autonomi, oppure come elementi con sì una loro congiunzione, ma ritenuti dagli stessi esperienti così individuali e distanti dalla realtà delle atre persone, da non renderli condivisibili. L'entrata in associazione rappresenta quindi un primo importante momento di socializzazione della propria realtà: con altre affini, o almeno in un contesto in cui la si presuppone comprensibile. L'occasione di connettere la propria realtà ad altre, facendo esperienza di un flusso di continuità e di una coerenza, cognitiva ed emozionale, è (secondo le prospettive di quelle psicologie che superano l'isolamento individuastico) prima ancora di un'esperienza dei contenuti, un'esperienza del contenitore.

Le associazioni di malati rari, pur scegliendo in autonomia le loro attività, obiettivi e scopi, assumono alcune funzioni in modo ricorrente, il che potrebbe facilmente suggerire una gamma di problematiche condivise:

si propongono di fornire informazioni sulla malattia rara, sui criteri diagnostici, sulle terapie, sullo stato delle ricerche, ecc;

si propongono di fare uscire dall'isolamento le persone con malattie rara e i loro famigliari, aiutandoli a sviluppare modalità di convivenza, tra le esigenze dovute alla malattia e quelle sociali;

si propongono di orientare i pazienti verso i centri clinici di riferimento, potenziando l'accessibilità ai servizi. Non è ricorrente, ma crediamo comunque opportuno riportare che molte associazioni hanno addirittura messo in piedi veri e propri centri clinici, o convenzioni con centri clinici, per il trattamento di patologie rare;

si propongono di promuovere attività scientifiche e culturali su aspetti inerenti la patologia rara, e di sensibilizzare la popolazione su questi problemi. Alcune fanno esplicitamente attività di raccolta fondi, ad esempio da destinare alla ricerca.

Come si può notare le associazioni di malati rari operano secondo una logica sostitutiva ed una propositiva, volendo da una parte colmare un vuoto e dall'altra stimolare sviluppo: dalla lettura di queste attività, i malati e le loro famiglie sembrano in generale risentire di una insufficiente informazione circa la patologia; hanno bisogno di un aiuto per orientarsi nei percorsi dei servizi socio-sanitari, né gli è facile individuare i centri clinici di riferimento, che a volte sembrano oltretutto anche carenti; la ricerca medica, farmaceutica e sociale, nelle malattie rare, appare insufficiente a trattare e a rappresentare il fenomeno, lasciando scoperti bisogni e necessità dei malati rari e dei loro famigliari; da questa serie di circostanze pare conseguire un certo rischio nei pazienti, e nelle loro famiglie, ad isolarsi, sperimentando vissuti di impotenza, inadeguatezza ed esclusione. L'esigenza originaria di queste associazioni è dunque quella di costituire una rete, organizzata in modo più o meno formalizzato, attraverso la quale darsi reciprocamente sostegno e aiuto rispetto ad una serie di problematiche condivise e ricorrenti (Caplan, 1974); problemi, per i quali non sembrano trovare misure adeguate di sostegno nel sistema sociale: in questo senso quindi l'associazione si muove "in sostituzione", coprendo funzioni necessarie per i suoi soci, altrimenti scoperte. Non è da stupirsi quindi che per alcuni soci l'associazione rappresenti un punto di riferimento talmente importante da prevalere in autorità sugli stessi servizi sanitari. L'aspetto coesivo, rafforzato dal senso di similarità tra i soci, può però anche insidiare dei pericoli: l'autocentratura può diventare talmente esclusiva da far assumere al gruppo associativo connotazioni unicamente difensive rispetto al resto del contesto: i temi della difesa possono sclerotizzare a tal punto da isolare letteralmente l'associazione, chiudendola in un rapporto di diffidenza profonda (o nemicalità) con l'esterno: "I membri del gruppo finiscono per percepire l'isolamento dal resto della società come se esso esistesse oggettivamente, anche al di fuori del gruppo; tuttavia in questo modo si rafforzano i legami e la coesione interna al gruppo. Una volta poi che si sia determinato questo stato di forte aggregazione, i comportamenti dei membri finiscono per essere parzialmente controllati e diretti dal gruppo. [..] Gli atteggiamenti, le credenze e i comportamenti di queste persone si possono modificare, se necessario, per conformarsi sempre più al modo di pensare proprio del gruppo (Yalom, 1976)"[6]: atteggiamenti, credenze e comportamenti, ma anche e soprattutto un'intensa condivisione degli elementi simbolico-emozionali, che altrove abbiamo definito collusivi (Carli, Paniccia, 2003). Nonostante questi pericoli, le associazioni di malati rappresentano solitamente per i loro soci il punto di riferimento più importante ed utile. Nelle associazioni i compiti adattivi del malato e dei loro famigliari, possono trovare importanti risorse. Ascolto, confronto, comunicabilità dei problemi, comprensione, sostegno, prospettive esistenziali, ambiti di investimento, azioni (che a volte sono così cariche emozionalmente da mettere in gioco l'energia vitalistica delle imprese), esperienze positive di autoefficacia, di autostima (che può essere rafforzata in maniera sorprendente attraverso l'altruismo[7]), la riscoperta di rapporti tra pari e di uno spaccato di società accogliente in cui poter "prendere posto": sono alcuni aspetti che connotano significativamente l'esperienza associativa; "Non sentendosi più <<compatiti>> per una <<diversità>> che non hanno in alcun modo contribuito a determinare, i loro membri tendono ad abbassare le abituali difese e resistenze psicologiche e riescono quindi a esprimere liberamente non solo i sentimenti negativi di rabbia e rancore per essere stati <<sfortunati>>, ma anche quelli positivi di fierezza e orgoglio per essere stati in grado di dare un senso alla loro vita, in una situazione più difficile della norma"[8]. Queste esperienze possono essere per i soci molto efficaci perché: "essi vengono a sapere che altre persone hanno sentimenti analoghi e che quindi i loro sentimenti possono essere <<normali>> nelle loro circostanze; essi sono incoraggiati nel rendersi conto che anch'essi, a loro volta, possono diventare <<aiutanti>> anziché essere semplici utenti o ricettori di aiuto"[9]. Quest'ultimo fattore lo riteniamo particolarmente importante, in quanto consente alle persone di accrescere quella fiducia nella reversibilità delle identità e dei ruoli sociali, tale da permettergli di sviluppare in maniera integrata più copioni esistenziali, il che vuol dire più scenari d'azione e soprattutto più capacità d'azione. Questa condizione è quella che Spaltro (1995) ha definito con "potere a somma diversa da zero", ossia quella dove il rapporto con l'altro e il potere che ne deriva, non è definito dalla concorrenza e dall'accaparramento delle risorse, soprattutto di quelle scarse. Spaltro ci aiuta a comprendere come culturalmente sia densa la relazione tra potere e scarsità: il carattere esclusivo ed escludente del potere, sembra connaturare il senso stesso del potere verso il vertice assolutistico, poiché tanto più sono limitate le risorse, tanto meno è condiviso il potere, tanto più questo è alto per chi lo possiede. L'approccio di rete, incluso l'associazionismo, offre invece un paradigma di potere innovativo, basato sull'abbondanza e non più sulla scarsità. Probabilmente, rispetto alle forme e ai territori istituzionalizzati del potere, questa proposta potrebbe suonare come provocatoria (se non addirittura minacciosa); ma non solo: essendo, questo rapporto tra potere e scarsità, un modello culturale, le resistenze verso un potere a quantità abbondante potrebbero ravvisarsi non solo in chi il potere lo detiene, ma pure in chi non lo detiene (e potrebbe detenerlo)[10]. In altri termini, pur avendo un problema e bisogno d'aiuto, rendersi conto di possedere anche il potere di essere in grado a propria volta aiutare, non dovrebbe considerarsi solo come un pensiero felice, o qualcosa di ideologicamente attraente da assumere come atto di fede, bensì una scoperta pratica, perdippiù non scontata, fatta di esplorazioni, comprensioni, incontro di vissuti: bisogna, in una parola, farne esperienza; le associazioni, in questo, possono essere considerate importanti fucine. Fucine in cui si rende possibile l'esplorazione di una realtà che altrimenti risulterebbe intollerabile, consentendo una certa continuità di spazi progettuali: questi possono ritenersi interventi "ecologici" (Bateson, 1979), per rafforzare la consapevolezza e il sentimento di presenza delle persone nella propria vita. Dal punto di vista delle Associazioni queste possiedono inoltre un osservatorio privilegiato e un prezioso vertice di conoscenza rispetto alle realtà dei propri soci: quelle stesse realtà che, a livello dei decisori politici, dovrebbero considerarsi i principali oggetti di interesse, essendo le mete degli interventi.


III   LE ASSOCIAZIONI DI MALATI RARI: UN'INDISPENSABILE CROCEVIA PER LO SVILUPPO

Le associazioni di malati rari grazie alla loro posizione nel sistema, posseggono un potenziale molto alto di sviluppo, specialmente se le consideriamo attraverso un assetto di rete.

La nascita di queste associazioni ha trovato gran parte del suo terreno ideologico nel "principio sussidiario" dei servizi (Signorini, 2007), secondo il quale la solidarietà sociale non può che giovare e quindi non va ostacolata, essendo il di più sempre buono e conveniente. Una volta assunto questo principio tuttavia emerge chiaramente come il "di più", in realtà, non possiede caratteristiche puramente sommatorie, ma apre a scenari, funzioni, problemi e domande del tutto nuove: la presenza o la non-presenza di una associazione di malati rari definisce a livello sociale due condizioni radicalmente diverse, cosicché ci parrebbe perlomeno ingenuo trattare il "principio sussidiario" come un invito alla addizione cieca di funzioni "fai da te". Quindi si prospetta la necessità di come pensare ed integrare funzionalmente (con modelli di rapporto chiari) la presenza e le attività delle associazioni all'interno della rete.

Le reticenze nell'assegnare alle associazioni di malati funzioni forti e riconoscibili all'interno delle reti di servizi socio-sanitari, sono da imputare: alla generale mancanza o inconsistenza di queste reti; alla resistenza di alcuni soggetti, soprattutto quelli con ruoli già istituiti socialmente in modo forte, ad introdurre funzionalmente le associazioni all'interno di una loro rete (ad esempio non è quasi mai il medico ad indirizzare il paziente verso l'associazione di malati di riferimento); alla resistenza di alcuni fornitori di servizi contro l'eventualità della perdita del loro monopolio su determinati ambiti di intervento (qualificate da Signorini come rendite di posizione), dando ascolto a domande che loro non potrebbero trattare e che andrebbero per natura ad essere assorbite da nuovi fornitori di servizi; al pericolo che in assenza di criteri di gestione chiari, nonché di modelli di valutazione che ne accertino l'operato, le associazioni si dimostrino in pratica poco funzionali e inidonee a sostenere la complessità del lavoro di rete, finendo con autoreferenziare le loro azioni. Dubbi, potremmo anche dire, del tutto leciti. Tuttavia, come nota Signorini (2007), dove i servizi sono più efficaci e lavorano in rete, le associazioni spontanee riescono a integrare in modo funzionale i loro contributi, mentre "al contrario, dove lo <<Stato>> è storicamente più carente, non riescono ad affermarsi, in maniera adeguata, nemmeno le organizzazioni volontarie di cittadini"[11]. Sembra ritornare la predominanza logica del contenitore, rispetto al contenuto. Resta inoltre inequivocabile che la posizione delle associazioni di malati è privilegiata nella conoscenza dei malati e del loro campo esistenziale: una conoscenza privilegiata quindi di un oggetto sociale che è meta di numerosi interventi da parte di una pluralità (eterogenea a livello di forma organizzativa e funzioni, spaziando dall'ambito assistenziale a quello sanitario) di soggetti sociali. Questa realtà assume addirittura una rilevante centralità, se poi si arriva a considerare l'intervento sociale non solo uno sparpagliamento di intenti, ma una continuità necessaria di servizi, appunto un sistema di servizi. Questa realtà, in altri termini, può essere ritenuta nodale per la connessione tra i problemi sociali e i servizi sociali, ossia tra la domanda e l'offerta di questi servizi, e tra l'offerta e lo sviluppo sociale. Le associazioni di malati, in altri termini, ci sembrano i luoghi più fecondi se si vogliono comprendere approfonditamente le realtà dei malati rari. Realtà che diventano indispensabili se, seguendo il suggerimento di Folgheraiter (2000), si traguarda la prospettiva in cui l'utente va superato: dove, con utente, l'intervento è concentro sulla malattia portata dal malato (o all'evidenza dei suoi bisogni), piuttosto che sulla "persona, che è anche ammalata" (cioè con una realtà complessa e articolata, che può essere conosciuta - in senso costruttivistico - solo attraverso un interesse esplorativo e una relazione). Le associazioni posseggono un angolo di campo molto interessante sul fenomeno sociale delle malattie rare, dei problemi che ne emergono e delle domande che ne derivano. La loro funzionalità è tuttavia proporzionale alla capacità di far congiungere (nei modi e con gli strumenti che di volta in volta si fanno idonei) i problemi sociali, di cui sono traduttori e portavoce, e i servizi e gli interventi sociali, di cui possono diventare promotori: in mancanza di questa connessione operativa, l'associazione può rischiare di chiudersi a riccio sul mito (inconsolabile) del proprio problema, oppure di disseminare alla cieca una serie di iniziative e intenzioni, al di là di un effettivo progetto. Nonostante questi rischi, tra l'altro tipici del settore Privato Sociale, il significativo lavoro svolto sin oggi dalla maggior parte queste associazioni, rende il bilancio delle loro attività decisamente positivo e ne suggerirebbe un più attento utilizzo da parte delle reti formali. Al momento sembra dunque che il nucleo della questione sia: come impegnare questa importante risorsa, conoscitiva e promotrice, rappresentata dalle associazioni di malati rari? Chi è interessato a coglierla?

E' nostra opinione che senza un adeguato inquadramento e posizionamento (delegato o assunto) funzionale all'interno di una rete, o perlomeno di un rapporto con uno o più interlocutori interessati, le attività di queste associazioni tendono facilmente ad essere ridotte ad azioni rivendicative o proattive degli interessi meramente di parte: magari richieste anche legittime, ma "non integrate", e che quindi finiscono coll'essere negate, o rimandate, dall'interlocutore. Tanto più le relazioni con gli interlocutori si presentano improvvisate e occasionali (magari mosse sulle "emergenze" o sulle "pretese dei diritti"), tanto più diventa difficile e problematica la definizione di un prodotto di relazione con quegli interlocutori. Allo stesso tempo tuttavia costruire legami di rete con soggetti diversi, negoziando e assumendo funzioni, per alcune di queste associazioni può rappresentare un vero e proprio salto evolutivo, a livello organizzativo, non scontato, né semplice. Si riscontra una generale tendenza nelle organizzazioni no-profit ad affidare il proprio equilibrio al carisma del leader o all'appeal delle dimensioni valoriali-ideologiche adottate, invece che alla definizione dei prodotti e alla ricerca dei modelli di gestione appropriati per raggiungerli: e non a caso le condizioni più critiche in queste organizzazioni sono riconosciute nella mancanza di un'adeguata comunicazione interna, nel mancato riconoscimento e gratificazione dell'opera svolta da chi vi lavora, nell'incapacità a utilizzare positivamente i conflitti e le differenze (dove cioè regna la forma gentile e non è permesso uscire dalle buone maniere; o in generale trattando il conflitto come una azione-condizione distruttiva). E' probabilmente anche per questo che, nell'ambito delle malattie rare, alcuni soggetti (UNIAMO, CNMR, Orphanet, ecc.) abbiano deciso di orientare la loro attività alla costituzione di reti di lavoro, con l'intento di rafforzare il ruolo e finalizzare le esperienze delle associazioni di malati rari, sollecitandole a collaborare per la definizione e il raggiungimento di obiettivi comuni: e permettendo l'assunzione di una consistenza tale, da rendere possibile un dialogo con i decisori politici e il proponimento di iniziative a livello istituzionale. Un problema con cui devono confrontarsi i soggetti che operano nel Terzo Settore, ed in particolare le associazioni di malati rari, è quello di possedere posizioni deboli (indefinite, perché non adeguatamente riconosciute) caratterizzate da una certa incertezza e da una certa soggezione contrattuale nei confronti dei soggetti degli altri settori ("dello Stato" e quello del "profit"), il che rende molto più impegnativo e faticoso il tentativo di fondare rapporti di rete con Enti, Istituzioni e servizi. Notevole è, in questo senso, l'attività svolta in Italia da UNIAMO FIMR (Federazione Italiana delle Associazioni di malati rari): il prodotto più recente (luglio 2009) è la stipula di accordo tra UNIAMO FIMR e alcune tra le più importanti società di medicina di base e di genetisti (SIP, Società Italiana di Pediatria; FIMP, Federazione Italiana Medici Pediatri; SIMGePeD, Socità Italiana Malattie Genetiche e Pediatriche e Disabilità congenite; SIGU, Società Italiana di Genetica Umana; FIMMG, Federazione Italiana di Medici di Medicina Generale; SIMG, Società Italiana Medici di Medicina Generale) e Farmindustria, per promuovere una rete diffusa capillarmente sino agli ambulatori, attraverso la quale i soggetti implicati si "impegnano in un'opera di sensibilizzazione e formazione mirata alla diagnosi e presa in carico assistenziale globale dei malati affetti da malattie rare e delle loro famiglie in ambito regionale attraverso Seminari e Attività di formazione che facciano riferimento al Seminario a carattere Nazionale 'Conoscere per Assistere' recentemente organizzato a Roma"[12]; i MdB e pediatri nel SSN sono figure e competenze essenziali per i pazienti e per il raggiungimento della diagnosi: contributi come questo, che nascono dai problemi (come la mancanza di un'adeguata conoscenza sulle malattie rare da parte dei MdB e pediatri) ma che, superando l'onnipotenza della lamentela, si promuovono in modo attivo, sino ad arrivare al conseguimento di un prodotto condiviso, ci sembra il modo più esemplificativo per confermare come l'assunzione, da parte dei pazienti e dei loro rappresentanti, di ruoli e funzioni di sistema, possa mobilitare processi con notevoli potenziali: il potere condiviso, non viene per forza detratto, ma può evidentemente anche moltiplicarsi, ed anzi ci sembra indispensabile la condivisione affinché la complessità delle afferenze, dei problemi, delle risorse e delle sensibilità, possa realizzarsi in adeguate efferenze allo sviluppo.




[1] Zuccatelli G. Meccanismi di governo e di responsabilità nell'ambito della rete dei servizi: il nodo dell'appropriatezza. In Gensini G F, Rizzini P, Trabucchi M, Vanara F (a cura di). Rapporto Sanità 2007: servizi sanitari in rete. Dal territorio all'ospedale al territorio. Bologna: Il Mulino, 2007, p. 158

[2] Francescato D, Putton A. Stare meglio insieme: Oltre l'individualismo: imparare a crescere e a collaborare con gli altri. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2000, p. 164

[3] Art. 10: "Sono organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, redatti nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata, prevedono espressamente: 1) assistenza sociale e socio-sanitaria; 2) assistenza sanitaria; 3) beneficenza; 4) istruzione; 5) formazione; 6) sport dilettantistico; 7) tutela, promozione e valorizzazione delle cose d'interesse artistico e storico di cui alla legge 1 giugno 1939, n. 1089, ivi comprese le biblioteche e i beni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409; 8) tutela e valorizzazione della natura e dell'ambiente, con esclusione dell'attività, esercitata abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi di cui all'articolo 7 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22; 9) promozione della cultura e dell'arte; 10) tutela dei diritti civili; 11) ricerca scientifica di particolare interesse sociale svolta direttamente da fondazioni ovvero da esse affidata ad università, enti di ricerca ed altre fondazioni che la svolgono direttamente, in ambiti e secondo modalità da definire con apposito regolamento governativo emanato ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400".

[4] Gli stakehorlder sono i soggetti portatori di interessi rispetto alle iniziative ed attività dell'organizzazione: attraverso questi interessi gli stakeholder ne influenzano la formazione stessa degli obiettivi

[5] Francescato D, Tomai M. Psicologia di comunità e mondi del lavoro: Sanità, pubblica amministrazione, azienda e privato sociale. Roma: Carocci Editore, 2005, p. 135

[6] Maguire L. Understanding social Networks. USA: SAGE Publications, 1983 (trad. it.: Il lavoro sociale di rete. Trento: Edizioni Erikson, 1989, p. 105)  

[7] "Attraverso l'altruismo i volontari soddisfano bisogni come l'autogratificazione, il riconoscimento sociale, il bisogno di appartenenza ad una comunità o la condivisione degli obiettivi di un'organizzazione o di un'aggregazione di persone" (Ordine degli psicologi del Lazio, Fivol (a cura di). Competenze psicologiche nel terzo settore. Milano: Franco Angeli, 2005, p. 29)

[8] Francescato D, Putton A. Stare meglio insieme: Oltre l'individualismo: imparare a crescere e a collaborare con gli altri. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2000, p. 184

[9] Silverman P R. Mutual help groups. USA: SAGE Publications, 1980 (trad. it.: I gruppi di mutuo aiuto. Trento: Edizioni Centro Studi Erikson, 1993, p. 33)

[10] Forse meriterebbe adeguato spazio, ma crediamo ci porterebbe troppo in là rispetto al nostro discorso. Rischiando quindi di non essere adeguatamente chiari, proponiamo un semplice accenno: esistente un rapporto molto intenso tra potere e desiderio e tra mancanza di potere ed invidia (Spaltro, 1999). Allo stesso tempo esiste anche un rapporto molto stretto tra incapacità a desiderare e la propensione ad invidiare (Carli, Paniccia, 2003).

[11] Signorini A. Ospedale privato e non profit: antagonista o alleato strategico dell'assistenza pubblica?. Milano: Vita e Pensiero. 2007, p. 141

[12] Dal protocollo di intesa, 3 luglio 2009




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