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ETICA E MEDICINA, TRA SALUTE E MALATTIA

medicina



ETICA E MEDICINA, TRA SALUTE E MALATTIA



"Ah, Basta! Lei è un paziente che non

ha pazienza: allora che paziente è?!

...Abbia pazienza!"

(Totò)


I  INTRODUZIONE

Mettere in atto un intervento di promozione della salute, su singole persone, su gruppi e su comunità, impone di adottare specifiche prospettive, delineate da ciò che propone l'OMS in tema di salute, le stesse che sono anche state chiaramente recepite dall'Unione Europea. Si apre così uno scenario d'azione che potrebbe trovare una sua specifica etica di riferimento, ossia una determinata declinazione del "giusto agire". In questo senso, la promozione della salute necessita di azioni integrate e coordinate; tali azioni devono essere servite e devono servire in modo equo tutti i membri di tutte le comunità; le azioni devono rispettare il criterio della sostenibilità nel più ampio contesto (nelle sue caratteristiche spaziali, temporali, e di processo) possibile; le decisioni sulle azioni devono avvenire in modo democratico, attraverso processi di confronto e scelta; e la partecipazione ai processi di promozione della salute deve avvenire in modo autonomo e responsabile; e tutto ciò è realizzabile solo se è possibile condividere tra le parti un alto (o almeno adeguato) livello di competenza.



La medicina da sola non basta, tuttavia essa continua a mantenersi l'ambito sociale di riferimento negli interventi per la promozione della salute, nel bene e nel male.


II     LA MEDICINA HA IL DESTINO DI ATLANTE?

La medicina da sola non basta, tuttavia essa continua a mantenersi l'ambito sociale di riferimento negli interventi per la promozione della salute, nel bene e nel male: ed è proprio su questo che proponiamo una riflessione.

Come sottolinea Autiero[1]

sotto la lente della critica la medicina appare oggi suscettibile di diversi possibili appunti.

Una prima critica [.] nella metà degli anni '60, il libro di Ivan Illich, Nemesi medica, che attraversò il lungo e in largo sia gli stati uniti che l'Europa, ci portò alla considerazione di quanto fosse ammalante la nostra civiltà, la nostra cultura contemporanea. La medicina che essa esprimeva, più che porsi come mezzo per risolvere i problemi della salute, era all'origine di fattori ammalanti. Illich compose il termine di "iatro-genesi" cioè della medicina che generava la malattia più che curarla.

In questo contesto di medicina ammalante, di medicina non sanante, in questo contesto di espropriazione della salute, la medicina la cui finalità ha voluto essere troppo curativa, non sta producendo più un ampia qua 717c28h ntità e qualità di vita. Perciò da curativa essa deve diventare prevalentemente preventiva.  

Un terzo fattore è il modo di gestire la medicina nelle attuali strutture dei sistemi sanitari [.]. Le strutture in cui si realizza la pratica medica non riescono ad eliminare, anzi secondo l'osservazione di alcuni critici incrementano, situazioni di ingiustizia sanitaria. Questa ingiustizia sanitaria si avvera sia a livello di microcosmo che di macrocosmo.

Un quarto fattore di critica [.] riguarda lo stile del medico nell'esercizio della sua professione. Quello che qui va messo in risalto è che la trasformazione tecnologica introdotta dalla medicina va a modificare lo stile d'intervento del medico.

Rispetto a quest'ultimo punto critico richiamato da Autiero vogliamo ricordare che la prassi medica è notevolmente cambiata negli ultimi decenni, e da un atteggiamento che potremmo definire "antropologico" del medico, caratterizzato da una conoscenza ampia (ben più ampia della sola patologia) del paziente, anche attraverso l'utilizzo massiccio del colloquio, si è arrivati ad un atteggiamento che definiremmo "tecnocratico", dove la relazione col paziente è mediata dalla tecnologia e delle realtà strumentistiche che disintegrano la persona-paziente, restituendone un'immagine frammento che coincide tou-court con il suo problema, la sua malattia. Ma non solo. Un altro aspetto che caratterizzava la relazione medico-paziente era, prima di questo dominio della tecnica, il rapporto esclusivo che si instaurava tra i due; oggi invece la gestione delle pratiche mediche e del servizio sanitario portano a moltiplicare i rapporti tra paziente e medico, determinando cioè una situazione di paziente-medici: ed ogni medico specialista risponde solo al quesito medico postogli. Orientarsi e gestire il rapporto con queste figure professionali è un affare tutt'altro che semplice per il paziente. "L'esercizio della medicina è stato segnato da un macroscopico sviluppo tecnologico. Le conseguenze positive di siffatta trasformazione sono sotto gli occhi di tutti, anche se non sempre se ne colgono gli aspetti negativi: come il rischio, ad esempio, che il medico finisca per divenire un'appendice dello strumento tecnologico, assumendo un atteggiamento di passività teorica. [.] la grande medicina - al pari della grande scienza - è stata segnata profondamente nel Novecento dalla nascita della specializzazione. [Questo fenomeno] consente che le nostre conoscenze scientifiche progrediscano, ma nel contempo mina l'organicità delle scienze e ci fa perdere la comprensione delle cose nello loro unità"[2]: il malato viene cioè ridotto alla propria patologia che a sua volta viene scissa in prospettive specialistiche. Ci si potrebbe chiedere: che fine fa la persona in tutto ciò? Se non altro perché, a somme fatte, la persona resta una realtà da cui non si può in nessun modo evadere.

Caratteristico dell'agire medico contemporaneo è la cura della sofferenza e del dolore, in un tentativo, culturalmente ampio, di medicalizzare il dolore. Medicalizzare il dolore è l'evento determinato dallo sforzo di scindere il dolore dalla persona. Specularmente, in questo sforzo generale e ripetuto di scissione, la relazione medico-paziente assume particolari caratteristiche. Sempre Autiero[3], sottolineando l'importanza operativa della relazione medico-paziente e la necessità di un suo recupero, propone tre modelli etici:

Il primo modello è quello dell'etica dei doveri [che risponde alla domanda "che cosa devo fare"]. Il paradigma di questa modalità etica è quello di ricorrere a una riserva di principi universali di moralità da cui poi dedurre, in base a una sorta di movimento applicativo, le norme concrete di azione nel singolo caso. [.] Nel rapporto medico-paziente questo modello dell'etica dei doveri sottolinea e rende dominante la preoccupazione di carattere deontologico.

Un secondo modello a cui mi riferisco è quello dell'etica dei valori. Qui non ci si domanda cosa devo fare? ma: quali valori devo promuovere? Questo paradigma fa leva sui valori che quanto più sono comuni tanto più consenso riescono a creare. [.] Il medico nella sua relazione terapeutica cerca di interpretare l'universo dei valori del paziente e, attraverso il suo atto medico, cerca di promuovere nel paziente questi valori che egli ritiene siano per lui importanti.

Questi due modelli etici aprono la via ad un terzo modello che mi sembra oggi stia acquistando sempre più ascolto, e vada proponendo sempre più elementi risolutivi per superare determinate conflittualità, e cioè il modello etico delle virtù. L'etica delle virtù si domanda non che cosa devo fare, non quali sono i valori in gioco che devo perseguire, ma prevalentemente come devo essere? [Qui] non è l'atto da regolare sulla base di principi o sulla base di valori, quanto piuttosto l'agire. L'atto è un prodotto dell'agire, l'agire è il contesto globale in cui la persona si pone per far sì che le azioni, gli atti che derivano, siano riferibili a sé come soggetto vero delle azioni che compie. L'etica della virtù vuole spiare l'orizzonte della qualità morale della persona nel suo esprimersi nell'agire.

In quello che Autiero definisce modello etico delle virtù, l'azione per essere dotata o meno di valore deve essere quindi determinata nel contesto del suo agire che è inevitabilmente attraversato dal senso storico-socio-culturale che la comprende: ed è lì che (se pur non siamo in pieno accordo con l'autore sull'utilizzo del termine virtù) un atto diventa rappresentante di ben più della singola azione, ma continua, intervenendovi, il senso stesso dell'agire. Diremmo altresì che in questo modello si promuovono dimensioni di autonomia e di responsabilità del medico: dimensioni che, ci piace ricordarlo, non possono fare un cieco affidamento all'efficacia del potere tecnico, né in suo nome ogni azione può dirsi a priori legittimata. Allo stesso modo i valori, che notoriamente servono per additare un orizzonte ideale, non possono essere posti qui a dominio, perché in questo modello l'ideale è sostituito dall'analisi del reale e dall'inevitabile situare l'agire, proprio e altrui, poiché l'agire proprio può trovare ragione solo lì dove è responsabilmente messo in relazione con l'agire altrui. Qui si propone un medico che sia in grado di sostenere la relazione, riflettendo su ciò che avviene tra lui e nel paziente, organizzando quindi l'agire proprio attraverso il "saper pensare su-". I valori, come la tecnica, se posti a dominio nell'agire, operano inevitabilmente delle distanze nella relazione, sono entrambi modi per possedere (a livello di fantasie inconsce) l'altro, attraverso la pretesa di predeterminarlo: in questo caso l'altro è sia il paziente, che il senso del proprio agire. Vogliamo chiarirci, non stiamo cercando di dimostrare che la tecnica e i valori non sono importanti nell'agire medico: si potrà cogliere che ci stiamo rivolgendo criticamente ad un possibile atteggiamento medico rispetto a questi strumenti, e non agli strumenti in quanto tali. Anzi proprio per uscire dalla mitologia del proprio agire, pensiamo sia utile saperlo contestualizzare e dotare di senso: dentro la mitologia dell'agire si determina una forte rigidità e immobilità, fosse anche di fronte alle più chiare evidenze. Oggi si è soliti ammettere l'esistenza di un (necessario) pluralismo etico in medicina, poiché la medicina affronta evidentemente problemi e risorse eterogenee: ammetterlo tuttavia non basta, bisogna promuovere una nuova cultura dove questa complessa variabilità dell'agire, e del buon agire, sia leggibile e gestibile (cioè negoziabile e riscrivibile), tanto dal medico, quanto dal paziente, e quanto anche dagli organi decisori. E' del resto lungi da noi l'idea di portare avanti un discorso sulla sola medicina: sappiamo che un atteggiamento, a maggior ragione se di una categoria professionale, non è mai stabilito in modo monodirezionale, bensì è situato e determinato culturalmente in modo multidirezionale. Ci sembra per esempio che possa essere individuata una specifica dinamica di rapporto tra il potere "distruttivo" della sofferenza, del dolore, e il potere istituito alla medicina, quale scienza paladina: e per questo le viene chiesto di attrezzarsi con un equipaggiamento degno di tale battaglia, le armi invincibili, le tecnologie; questo atteggiamento tuttavia ha storicamente determinato una delega totale verso i medici e la promozione di una etica centrata unicamente sul medico:

l'etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l'etica del medico. E' il medico che la determina e la professione medica che se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familari, per le professioni che collaborano con il medico [che non a caso sono chiamati para-medici...]. Tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire cosa sia buono in medicina, sia in senso clinico che in senso etico[4].

In questo accordo collusivo tra la medicina e società, che ha lungamente abbagliato le aspettative, oggi è più facile coglierne i limiti. E proprio a partire dall'evidenza di questi limiti che si possono incontrare nuovi scenari etici: un etica che sia orientata dai problemi e dalla loro interrelazione.


III   OLTRE I LIMITI DEL CRITERIO ECONOMICO:

I VALORI DELLA - E NELLA - SOCIETA' CIVILE

Parlando di etica medica, sarebbe difficile trascurare quanto alla sua determinazione concorrano anche alcuni interessi trasversali che, in un modo o nell'altro, la attraversano. L'interesse economico ad esempio sembra ineludibile. Il criterio economico monetario sappiamo essere un inevitabile parametro con il quale ogni tipo di attività deve confrontarsi.

Nei servizi sanitari, più aumenta l'offerta, più aumenta la domanda: ossia, accade che tanto più la medicina avanza nel suo "poter curare", tanto più il bacino d'utenza s'allarga. Questo è un problema che richiama l'attenzione sulla necessità di una capacità di gestione delle domande e del servizio offerto. Come si noterà, stiamo già su un piano molto diverso dalla sola edizione della tecnica. Uno dei problemi che si incontra a questo livello è quello inevitabile di far quadrare il bilancio economico, ossia del rapporto tra la spesa e le risorse economiche disponibili. Non vogliamo avventurarci nell'ambito della gestione della spesa sanitaria, ma rilevare che il discorso sulla spesa è inevitabilmente un discorso non solamente economico. Il SSN è innanzitutto uno strumento che permette di promuovere diritti: nella Costituzione italiana si legge "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti"[5]. Se la salute è un diritto dell'individuo, ne devono poter godere tutti in modo indistinto: quello che si definisce "principio di equità nella salute". Stiamo ancora tuttavia di fronte ad una questione non semplice, ossia riuscire a passare dai valori alla attuazione, dall'orizzonte ideale a quello reale: si sta cioè in contatto con dei limiti, e tra questi limiti quelli più spesso imputati sono, dal mondo sanitario, la scarsità delle risorse economiche disponibili, mentre, dal mondo politico, la cattiva gestione delle risorse economiche rese disponibili. E come abbiamo visto le risorse dovrebbero poter dare risposta anche alle dimensioni valoriali che le dispongono: vogliamo ora provare a considerare quella dell'equità nella salute.

Come abbiamo visto la salute non può essere definita come uno stato assoluto, né una condizione unicamente di sanità: la salute è un evento complesso, in cui concorrono molti ed eterogenei determinanti. Anche volendo restringere il campo, mettendo a fuoco solamente l'aspetto sanitario e il diritto di tutti di godere in modo uguale del Servizio Sanitario, le cose risultano tutt'altro che lineari. Abbiamo visto che esistono diversi problemi a cui la medicina risponde, diverse medicine potremmo anche dire, e quindi diversi utenti; sappiamo che le realtà sociopolitiche locali possono variare notevolmente tra loro, organizzando realtà di servizio sanitario anche molto diverse (e con differenze impressionanti circa la qualità); sappiamo che le caratteristiche dell'accesso al SSN sono anche in rapporto con le condizioni socioculturali dell'utenza; e sappiamo anche che quando utilizziamo parole come patologia, malattia, sofferenza, ci stiamo rivolgendo ad universi di problemi che racchiudono mondi esperienziali unici e non equiparabili. In che termini allora possiamo riferirci all'equità? Difficilmente appoggiandoci alla fantasia "stiamo tutti bene allo stesso modo, fruendo dello stesso servizio": dobbiamo cioè declinare il valore dell'equità rispetto a specifici problemi e a contesti d'intervento. Al momento ci sembra sensato pensare al concetto di equità non come un prodotto dato, da raggiungere, bensì come ad un volano per lo sviluppo. L'equità ci sembra sia necessariamente costretta a passare attraverso un servizio che sappia ascoltare/scambiareàpensareàattuare. L'equità è possibile lì dove sono pensabili e trattabili competentemente gli aspetti differenziali delle richieste e delle necessità. Solo un servizio "intelligente", che negozia con competenza gli obiettivi tenendo a mente il proprio mandato sociale e le finalità (o valori) con le quali è mosso, che è attento al contesto e alla realtà sociale in cui lavora, che sa organizzarsi a partire dalla domanda dell'utenza, e che è in grado di orientarsi attraverso i propri risultati raggiunti (ossia sa ragionare sul rapporto tra processi-obiettivi) può coniugare la propria azione con l'altrui utilità: e questo può considerarsi un modo per porre a tutti gli utenti le stesse (potenziali, possibili) opportunità, cioè un'equità nel rapporto con il Servizio Sanitario.



SCARSITA' DELLE RISORSE ECONOMICHE: I COLORI, IN UN OSPEDALE DI ROMA[6]


Vogliamo riportare il caso di una Azienda Ospedaliera di Roma, un evento apparentemente poco significativo, ma che ci offre un'occasione per riflettere sul senso della "scarsità delle risorse".

Il reparto in questione è quello di Oncologia infantile, un reparto abitato da medici, infermieri e operatori, bambini-pazienti, famigliari e amici di questi bambini che incontrano durante le visite quotidiane. I pazienti assistiti nel reparto possono essere degenti o ricoverati in day hospital. Nel reparto i medici e gli operatori fanno terapia e "combattono contro i tumori", allo stesso tempo però sono privi di modalità di intervento circa le relazioni che si instaurano con e tra i pazienti, nonché di strumenti per trattare quelle esigenze dei paziente che esulano dalla terapia (esigenze che potremmo definire "altre" e che sistematicamente vengono poste al servizio): e questo è un aspetto particolarmente critico se si considera che questi pazienti sono nell'età dello sviluppo (e sono ben note le problematiche derivanti da queste esperienze "istituzionalizzanti", specialmente nell'infanzia) e che capita non di rado che si rendano necessarie lunghe degenze.

Per una serie di circostanze, in questo reparto si comincia a considerare quanto le caratteristiche ambientali e d'arredo determinino un impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti, concorrendo al senso di deprivazione e rafforzando la diffusione dell'angoscia di morte nel reparto. In particolare si decide di modificare il colore delle pareti, da verde, a variopinto: si decide di ritenteggiare le pareti utilizzando diversi colori, decisione che ci sembra rifletta chiaramente l'ampiezza delle necessità extramedicali portate nel reparto dai pazienti e dai loro famigliari. Al ritinteggio però si frappone il problema della mancanza di risorse economiche disponibili al reparto, rendendo impossibile l'ingaggio di una ditta per questo lavoro: il reparto cioè sperimenta che le proprie risorse hanno dei limiti. Consapevole di non avere i soldi, il reparto promuove e diffonde una richiesta per l'interessamento al progetto da parte di sponsor "esterni" all'ospedale: il reparto riesce nell'impresa, ottenendo l'interessamento e il denaro, potendo così iniziare e concludere i lavori di ritinteggio a colori delle pareti. Così, nonostante le risorse scarse, il reparto è riuscito a raggiungere il suo progetto di umanizzazione.

Proviamo ora a riflettere brevemente su quanto avvenuto.

Sembra che, sperimentato il limite delle proprie risorse, il reparto non volendo comunque abbandonare il suo progetto, abbia continuato a perseverare nella ricerca di contributi economici: un'ostinazione che è potuta dirsi anche fortunata. Ma, se gli sponsor esterni non si fossero trovati?

L'idea ad esempio di ripensare sia le risorse che gli obiettivi non è stata comunque considerata, dando per scontato l'iniziativa come buona in sé. Pensando al senso di un'azione di umanizzazione del reparto, crediamo necessario considerare innanzitutto il tipo di "umanità" con cui si ha a che fare; in questo caso: bambini, in un evento di interruzione delle proprie abitudini, ricoverati in un ambiente adultizzato, alieno e incapace di dare senso alla emozionalità infantile, una emozionalità che in queste condizioni viene ancor di più centrata sulla sofferenza e la patologia: poiché ci si cura, il resto va sospeso e rimandato! Dare colore all'ambiente ci sembra ancora il sintomo di una domanda, più che una riflessione ed un intervento su tale domanda. Trattare la domanda "colorare", probabilmente avrebbe condotto ad assumere, lì dove invece è stata fatta fuori, la difficoltà di condividere un ambiente, sì, ma anche quella sperimentata nel convivere con funzioni ed esigenze diverse, sperimentando un'estraneità che non può essere trattata con il solo "fare terapia". Pensare ai fruitori della terapia come pazienti o come bambini, non è proprio la stessa cosa: la richiesta di "colorare", così come l'idea di "umanizzare", poste in un rapporto con i pazienti, assumono caratteristiche paternalistiche e di cura: un intervento per il bene del paziente (nell'idea che "quando si fa del bene, non si sbaglia mai!"); poste invece in un rapporto con i bambini, permettono di dichiarare il disagio di avere a che fare con una utenza che non si conosce e verso cui si avverte di agire attraverso un ruolo e un atteggiamento non del tutto idonei. Questa differenza, che può sembrare di lana caprina, organizza rispettivamente due diverse modalità di relazione: rispetto alla prima prospettiva, l'intervento "colorare" è posto come buona tecnica, sicuramente utile: certo, mancano solo i soldi per attuarlo, ma una volta trovati i soldi si presupporrà un sicuro successo; nella seconda prospettiva invece, la scarsità delle risorse si può leggere come una caratteristica stessa della realtà, e non più solo un contrattempo d'ordine puramente economico: in questa seconda prospettiva, la condizione di scarsità delle risorse economiche disponibili, avrebbe, ad esempio,potuto promuovere un lavoro di tinteggiatura e disegno organizzato ed eseguito da gruppi di operatori e pazienti-bambini, per poter giocare, testimoniare e personalizzare uno spazio e un'esperienza, conoscersi e farsi conoscere nei propri "colori", un processo di esplorazione delle risorse e di scambio, un modo per cocostruire obiettivi (nell'idea che questo avrebbe determinato un modello non solo preventivo di problemi, ma anche, e soprattutto, di promozione reciproca dello sviluppo), un modo per sostenere un modello di servizio sanitario che viene solitamente definito attraverso la centralità della relazioni (perlomeno tra) medici-paziente-pazienti.


Se poi dal contesto sanitario si allarga la prospettiva e si ritorna al rapporto tra equità e salute, diviene sensibilmente ancora più evidente come la gestione degli ambiti sociali sia determinante. Rispetto alla gestione del servizio sanitario, accenniamo brevemente, a mo' d'esempio, al problema delle malattie rare. Per le questioni che abbiamo fin ora affrontato, possiamo considerare che queste malattie sono caratterizzate da un basso potere tecnico medico, dovuto anche al basso investimento della ricerca medica e farmaceutica in questo campo, per la bassa ricaduta in termini di guadagni economici che comunque ne deriverebbe; trattare queste malattie in ambito ospedaliero, palesa quanto il servizio erogato da uno specifico ospedale sia o meno competente nel trattare la sua utenza, perché nelle malattie rare non si può fare affidamento alla meccanicistica gestione protocollare delle attività. Il malato raro rappresenta un'utenza difficile, che solo una buona competenza di servizio permette di poter trattare. Ma allo stesso tempo il servizio sanitario può ritenersi legittimato dal senso del suo mandato sociale proprio quando riesce a muoversi al di là della mera esecuzione-produzione (e riproduzione!) delle cure.


IV   OLTRE IL PATERNALISMO:

LIBERTA', RESPONSABILITA' E AUTONOMIA

I presupposti etici che sono riconducibili all'imperativo unico di "fare del bene al paziente", predispongono ad un agire professionale affine alla posizione salvifica del missionario. Qui la pretesa è di incontrare un "buon paziente", ossia un paziente remissivo e accondiscendente, spaventato e timoroso verso il proprio malessere, però allo stesso tempo incondizionatamente fiducioso nel potere del medico e nella sua bontà d'animo: il paziente non deve creare problemi, deve attenersi alle regole prescritte e, nel suo bene, deve assicurare una solida compliance, anche quando non gli sia chiaro il "perché". La malattia in questo modello di relazione è posta come qualcosa di scisso dal paziente, e non è raro che si verifichi che sia proprio il paziente l'ultimo a ricevere informazioni mediche su quel che gli succede, poiché come direbbero questi medici "il paziente, meno sa, meglio sta": il medico incarna il potere, il sapere, e il paziente il dolore e la sofferenza che il medico deve riuscire a (utilizzando un termine che più vago non si può) contenere! Oltre l'ingenua fantasia del "contenere", sappiamo benissimo in psicologia clinica che ciò che viene contenuto dipende dal contenitore con cui si contiene: quindi "contenere" ci può parlare del contenitore, più che del contenuto, perché è il contenitore che realizza il contenuto.

Il modello culturale di relazione medico/attivo-paziente/passivo è oggi perlomeno obsoleto. E' un modello che predispone un paziente ingenuo, regressivamente infantilizzato, impotente, un paziente che una volta ammalato è segnato da uno stato bisognoso di dipendenza. E' un modello che non coincide con gli atteggiamenti e con i valori della modernità:

Saper aude, abbi il coraggio di servirti dell'intelletto come guida. L'epoca moderna comincia in medicina quando il programma generale dell'emancipazione si estende anche a quella "minorità non dovuta" che vige tra il medico e il paziente. Il malato dell'epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona etero determinata, ma assume il peso e le responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui, nella medicina tradizionale, il malato è per definizione uno che non può determinare da solo i fini e i mezzi per conseguirli. [.] La condizione di malato non fa di noi delle persone prive di autonomia, e quindi del diritto/dovere di prendere le decisioni che ci riguardano. [.] Superato il paternalismo benevolo, l'ideale medico in questo modello diventa un'autorità democraticamente condivisa: il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. [.] L'idea di qualità dell'atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l'intervento sanitario non solo se è rivolto a fare del bene al paziente, ma deve rispettare anche una correttezza formale, vale a dire le procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche[7].

Il paziente acquisisce in questo nuovo modello diritti e doveri. Abbandonato l'atteggiamento dormiente e passivo[8], il malato si trova qui richiamato a sviluppare nel suo rapporto con il medico una funzione, quella di sapere utilizzare in modo autonomo e responsabile il medico come risorsa. Superata cioè la fantasia mitologica, onnipotente e paternalistica del medico, se ne promuove un'altra, quella di un professionista con una competenza conoscibile, utilizzabile, valutabile. Il paziente allora non è più il passivo fruitore dell'agire medico, quello che solitamente viene definito utente, ma agendo a sua volta sul servizio e potendolo attivamente utilizzare per una propria progettualità potremmo, su suggerimento di Carli (2003), definirlo cliente: la posizione del cliente evoca il modello relazionale dove si "ripropone la struttura sociale della democrazia ed ha il suo fondamento psicologico nel processo di identificazione, in atto nell'interazione tra due persone adulte di ugual potere e dipendenti l'una dall'altra, per lo svolgimento di una qualche attività, che interessa entrambe"; in sintesi, il medico aiuta il paziente ad aiutare se stesso. Privandosi del preconcetto, si potrebbe anche ammettere facilmente che medico e paziente, nello stare in relazione, si trovano a confrontarsi con diverse teorie, diverse modalità simboliche di rappresentazione, diversi modelli operativi e affettivi circa (almeno!) la patologia: difficile immaginare che questa relazione non sia anche un reciproco processo di scambio, dagli esiti tutt'altro che scontati e meno ancora prevedibili da un protocollo predeterminato d'intervento. Paziente e medico sono chiamati a sviluppare nuove competenze e ad uscire fuori dalle mitologie dell'intervento salvifico concluso in se stesso.

Lo strumento che sancisce formalmente questo nuovo modello di rapporto tra medico e paziente è il consenso informato. Il consenso informato viene proposto nei vari paesi con una ampia variabilità circa la sua applicazione e le sue finalità: da strumento per proteggere l'individuo dai rischi, a promotore della dignità e dell'autonomia della persona. In Italia il dibattito sul consenso informato è giunto con un certo ritardo, agli inizi degli anni '90, in coerenza con le resistenze culturali tese al mantenimento del modello medicocentrico-paternalistico, dove presupponendo che sia il medico a sapere il "come si fa", ogni eventuale confronto risulterebbe vano e improduttivo, perché potrebbe rallentare o inficiare l'attuazione della beneficità, ossia del bene per il paziente. Nonostante queste resistenze tuttavia il consenso informato ha trovato una sua applicazione anche in Italia. Siamo quindi di fronte ad un cambiamento strutturale. Non possiamo dire lo stesso sotto l'aspetto culturale. Diventando prassi, anzi obbligo, il consenso informato troppo spesso viene trasformato da strumento che dovrebbe criteriare la relazione medico-paziente, ad una mera esecuzione adempitiva della prassi, una liberatoria indispensabile per poter azionare il "meccanismo sanitario", attuata per di più attraverso una comunicazione tautologica. La lunga, impegnativa e faticosa premessa su cui fonda il senso stesso del consenso informato, ossia la possibilità che oltre a combattere contro la malattia il medico possa offrire al paziente una occasione di sviluppo della propria capacità progettuale, d'autonomia e di responsività agli eventi (responsabilità), non essendo stata supportata da interventi volti allo sviluppo della competenza medica per la gestione di questa funzione, ha determinato che tale importante premessa al consenso informato risulti nella pratica spesso trascurata, o portata avanti "come meglio si crede": sembra quindi che in mancanza di nuovi modelli in cui identificare il proprio agire professionale, si rieditino sotto forma diversa quelli paternalistici e missionari, storicamente già posseduti. E' facile considerare che spesso si tratta da parte del paziente di dare il consenso su aspetti clinici e trattamenti davvero difficili da comprendere. Del resto non è neppure detto che l'informazione e la conoscenza più dettagliata sia anche la più utile; "il dettaglio estensivo di solito aumenta la confusione del soggetto: la comprensione di un'informazione medica data a soggetti ignoranti è inversamente correlata con la complessità del materiale presentato. Il medico sconsiderato in realtà espleta la sua autorità e conoscenza per strappare un consenso informato coprendo il soggetto di informazioni"[9]: qui è evidente che se si utilizza l"informazione" come fosse realmente una cosa che si può, e anzi si deve, passare di mano, si realizza un copione relazionale in cui si conferma "io te la do ma, come vedi, non sei in grado di utilizzarla". Anche qui, cioè, ritroviamo il peso di chi sa, su chi non sa: e anche qui ritroviamo la pretesa di velocizzare ed economizzare un processo, di fatto neutralizzandolo. La "troppa" e la "poca" informazione non tengono in considerazione la comprensione del paziente. Tuttavia "il principio di libertà e autonomia dell'individuo, che nella relazione medico-paziente significa libertà e diritto di decidere se e a quali cure sottoporsi [presupponendo che queste cure non bersaglino unicamente la malattia, ma incontrino un'esistenza che ha e può sviluppare un suo progetto di vita], non ha, di per sé, nulla di straordinario. Eppure, proprio in ambito sanitario, è un principio che trova resistenze enormi e infinite difficoltà di realizzazione. Ciò è in gran parte imputabile ad un rapporto medico-paziente ancora sostanzialmente improntato ad un paternalismo autoritario, ispirato al principio di beneficialità"[10]. La medicina ha nella pratica recepito l'uso del consenso informato nel modo più formale che ci si potesse aspettare, rendendolo una mera procedura burocratica, e trattando l'informazione come se fosse un qualcosa in sé. Più o meno come prima, si continua cioè a saltare a piè pari quello che con un ossimoro definiremmo l'utile impaccio dell'entrare in relazione. Si ripropone l'autorità medica e la sudditanza del profano, nonché il potere da parte del medico e la fede da parte del paziente di avere a che fare con una scienza certa e infallibile, la medicina. In realtà però la medicina è ben lontana dal pieno controllo della complessità funzionale dell'organismo e degli eventi che vi possono incidere: gli interventi medici, come si sa, vengono decisi attraverso probabilità statistiche di riuscita, ed è generalmente riscontrabile una notevole variabilità decisionale tra un medico e l'altro. Ci sembra del tutto lecito affermare che, anche in medicina, la certezza continua ad essere un miraggio: proponiamo tuttavia di considerare questa assenza di certezza come un dato universale delle cose[11] e del tutto normale nell'esperienza dell'esistere, un dato difficile da trattare ma l'unico fonte di esplorazione e di sviluppo.

Si pensi ad esempio al problema del consenso in medicina. Se vi fosse una sola medicina possibile, sarebbe semplice: seguire, o no, la terapia. Ma se vi fosse una sola medicina probabilmente non si sarebbe nemmeno arrivati alla attuazione del consenso informato: e difatti le cose non sono così semplici. Più che di medicina sarebbe più appropriato parlare di medicine e di diversi approcci terapeutici possibili: se invece di sanare poi si prende come obiettivo terapeutico quello di promuovere salute, le possibilità di scelta si fanno ancora più ampie! Questo accade tanto per le terapie quanto per la spiegazione delle cause: il pluralismo delle cause, ha sorpassato irrimediabilmente la causa unica e universalmente riconosciuta. Cause e terapia oggi non solo sono addensate dentro un nutrito e pluralistico territorio del vero e validato, ma devono confrontarsi con una variabile assai più ostinata nel perseguire il disordine e nello sconfermare l'universalità: il paziente, inteso come persona con un suo progetto di vita e un suo diritto, variamente declinato, alla salute. E questo non è solo un problema o una complicazione opzionabile, ma una realtà da cui non si può prescindere. Come scrive Manti, "Un approccio all'etica di tipo non meramente deontologico e costruttivistico, da una parte, o utilitaristico, dall'altra, consente di considerare la persona, pur all'interno di una visione individualista, come un soggetto in fieri la cui autonomia non è un'astrazione, ma si esercita nell'ambito di situazioni in cui ognuno è parte di una complessa rete di relazioni e interazioni sociali anche a fronte di appartenenze ascrittive, comunque, influenti. In questa prospettiva la definizione di persona ha a che fare con le azioni di ognuno, con la loro rilevanza etica, con l'assunzione delle responsabilità che esse implicano. [.] Il pluralismo tende a mettere in crisi la stabilità sociale, o, in altri termini, a introdurre conflitto e disordine. Tale condizione di incertezza, rafforza l'impossibilità a far riferimento a criteri veritativi assoluti, comporta una fluidità nella quale la ricerca dell'ordine (comunque sempre relativamente instabile) non sembra poter prescindere dall'attivazione di condizioni e comportamenti atti a favorire al massimo i flussi interattivi, sia a livello di informazione che di confronto critico"[12], e ancora, "La complessità dell'etica consiste nell'avere a che fare con un sapere pratico, che, non prescindendo dalla razionalità del sapere scientifico e dell'argomentazione, è espressione di disposizione simpatetica nei confronti dei nostri simili, di ricerca di quanto ci è comune e assume carattere valoriale, di assunzione di responsabilità rispetto al merito delle nostre azioni e al loro impatto anche a lungo termine"[13]: in sintesi un invito a non evacuare nel nome di un agire professionale la gravità dell'implicazione relazionale. Una relazione tuttavia che non è costruita solo nel momento in cui si incontrano fisicamente medico e paziente, poiché l'incontro fisico è sicuramente preceduto dalle fantasie anticipatorie e dalle specifiche simbolizzazioni affettive che queste mettono in atto: la relazione non deve considerarsi solo il momento dell'incontro fisico, essendo determinata dall'intersezione di percorsi di significazione situati all'interno delle trame che connotano lo stesso incontro fisico. Essere disposti e competenti ad incontrare la categoria altro (e non solo la sua fisicità): questa ci sembra una svolta etica!

Proponiamo in sintesi un importante rapporto, esclusivo, tra crisi e cambiamento, e tra cambiamento e sviluppo: possibile, non certo! Ma tanto ci basta per proporre di pensare alla crisi come ad una possibile risorsa per lo sviluppo. Una possibilità.


V SULLA CENTRALITA' DEL PAZIENTE

Se fossimo alla guida di un automobile, accorgendoci all'improvviso di aver preso un percorso pericoloso, forse reattivamente sterzeremmo di colpo il volante dalla parte opposta: probabilmente però questo ci esporrebbe verso un'ulteriore rischio, per esempio perdere il controllo della vettura. In medicina, o meglio nella gestione dei servizi sanitari, sembra che accada qualcosa di simile. La consapevolezza improvvisa di aver intrapreso una strada sbagliata, nasce dalla scoperta del limite implicito nell'autoreferenzialità dell'agire medico, e la sterzata di risposta è avvenuta attraverso l'invocazione del passaggio dalla centralità della patologia e dell'agire medico, alla centralità del paziente. Sulla centralità del sapere e dell'agire medico ne abbiamo parlato, e rappresenta chiaramente una evidenza (se non altro storica) culturale. Sulla centralità del paziente, essendo uno scenario da costruire, vogliamo porci alcuni interrogativi.

Il modello della centralità del paziente nasce negli anni '80, all'interno di una riflessione critica nell'ambito della medicina generale, con l'esigenza di prospettare una modalità di relazione del medico non centrata unicamente sulla malattia, come se si trattasse di un proprio fatto privato, bensì considerando l'importanza che ha il paziente nell'espletamento degli obiettivi medici di diagnosi e terapia. Considerando il ruolo del paziente nell'azione medica, in questo modello si è posto quindi l'accento sugli elementi comunicativo-relazionali e sulla loro rilevanza rispetto la cura. Si è quindi sviluppato un modello di intervento medico non meramente confinato nella comprensione isolata dei meccanismi patogenetici: nasce in medicina proprio dalle ceneri del dominio del modello riduzionistico, meccanicistico e deterministico. E' un modello che integra al sapere e alla tecnica, la competenza di servizio: un modello che non punta alle certezze, ma alla capacità di considerare le variabilità con la necessaria competenza del poter-saper scegliere, allontanandosi dalla idea di essere chiamati ad intervenire solo su una parte e considerando le reazioni biologiche come eventi altamente complessi, non semplificabili con schemi deterministici di causa-effetto (lì dove, anche volendo, in ogni caso si potrebbe comunque solo parlare di probabilità).

Dal modello della centralità del paziente, se ne sono poi promossi altri: centralità della relazione medico-paziente, centralità della persona, ecc, tutti comunque condividenti la stessa prospettiva epistemologica, antiriduzionistica. Si chiede cioè al medico di mettere in atto delle competenze di relazione, di avere verso la sua utenza un atteggiamento contrattuale e non dominante-prescrittivo: diventa cioè importante comprendere cosa il paziente porta con sé attraverso il sintomo, e lo diventa sia per migliorare l'efficienza dell'intervento, sia perché si riconosce importante la dimensione fenomenologica della malattia, e sia perché si da un peso ideologico alla comprensione e al rispetto dell'altro (non a caso in questi modelli vengono spesso citati riferimenti altruistici, e non di rado espressamente cristiani). Preferiamo, tra queste, sottolineare l'importanza che ha la relazione nel rapporto con l'efficacia dell'intervento, ricordando che è chiaramente dimostrato in letteratura (ma non solo) che ad esempio tanto più le visite dei medici di base sono sbrigate rapidamente, tanto più le diagnosi risultano non corrette, le indagini strumentali e tecnologiche vengono prescritte in modo inappropriato, e le terapie non risultano idonee: questo vuol dire, ancora una volta, che un'economizzazione spiccia e poco lungimirante delle risorse, si traduce da un lato in un ingiustificabile spreco delle stesse, e dall'altro nel fallimento degli interventi, con le conseguenti ripercussioni in negativo sulla salute.

Quindi sembrerebbe che, alla luce del fallimento della lotta mitologica tra il medico e la patologia, si sia sterzato verso una nuova impostazione, dove il paziente è considerato attore, al pari della sua malattia e del sapere e della tecnica del medico. Però crediamo, come abbiamo precedentemente notato, che per quanto questa strada sia nettamente più percorribile rispetto alla precedente, possa essere sempre presente il rischio di sbandamento, e precisamente lì dove la centralità della relazione è assunta come una tecnica e non come un modello di pensiero: in questo senso proponiamo di considerare non tanto l'aspetto buonistico e altruistico che può evocare il "dare considerazione al paziente", quanto piuttosto il prezioso vantaggio che offre il poter sviluppare obiettivi di intervento proprio a partire dai processi di relazione attivatisi tra medico e paziente, attraverso uno scambio e una mutua significazione dell'intervento; ma anche a questo punto sarebbe ancora presente il rischio di "sbandare"! I processi relazionali possono essere davvero molto potenti e, in assenza di ulteriori criteri per gestirli, possono facilmente far tralasciare gli obiettivi: avere dei confini rende più facile organizzare e utilizzare questi processi. Per questo proponiamo la necessità di sviluppare un modello di azione medica centrato non sulla, ma sulle relazioni: ossia sulla relazione con il paziente, ma anche sulle relazioni con le diverse professionalità con cui condivide il lavoro e la gestione del servizio, ed anche sulle relazioni tra il servizio e gli altri servizi territoriali, con cui si perseguono obiettivi comuni o trasversali. Mettere il paziente al centro, se da un lato ci rende presente l'importanza del compito di intervenire non sulla sola patologia, bensì con e sulla persona, dall'altro rimane aperta la questione di declinare cosa questo significhi all'interno di un servizio. Intervenire sulla patologia permette al servizio di poter meccanizzare le proprie attività, assumendo un'ottica di produzione degli interventi, valutabili con rapidi calcoli quantitativi dei risultati. Intervenire sulla persona (o sul paziente, o attraverso la relazione) aumenta la complessità organizzativa, poiché le pratiche di lavoro non possono esaurirsi con il solo espletamento delle proprie mansioni: lavorare con la persona-paziente, rende opportuno, anzi necessario, poter organizzare il servizio in modo dinamico e coordinato tra le diverse professionalità che vi operano. Decade cioè il dominio dell'agire tecnico e il criterio della competenza operativa viene definito attraverso l'intera organizzazione del servizio: in questo senso non è più determinante rispettare la gerarchia dei valori e dei pesi delle specifiche azioni professionali, e quindi la mitologia dei ruoli con il primato dei medici (e, tra questi, dei medici che "salvano la vita"), quanto la considerazione delle funzioni legate ai ruoli professionali e del fatto che ogni singola azione, per quanto nobile possa essere, trova senso e misura nel servizio che la contiene, ossia nella interconnessione tra le varie funzioni organizzative che permettono e determinano il servizio. In questo senso anche il paziente ha una funzione nel servizio, portando una prospettiva operativa non eludibile: è dalla integrazione delle funzioni e dall'orientamento verso le finalità, che si definiscono gli obiettivi e che si determina cosa considerare efficiente rispetto all'intervento. Un servizio sanitario di questo tipo deve essere interpretato e gestito come un sistema ampio ed aperto: in un contesto sociale di promozione della salute, "lo Stato, le Regioni, ed i competenti enti pubblici hanno il dovere di tutelare il diritto alla salute che, in quanto diritto sociale, riconosce al cittadino la pretesa di ottenere dai pubblici poteri prestazioni e servizi che lo soddisfano. [.] il cittadino ha il diritto di ottenere dagli organismi pubblici le prestazioni non soltanto di medicina curativa, ma anche preventiva, idonee ad assicurare il benessere psicofisico, perché un buon sistema sanitario non ha solo la funzione di guarire le malattie in atto ma soprattutto quella di prevenirle"[14]. Curando, ma ancora di più facendo prevenzione e lavorando per la promozione della salute, e della cultura della salute, siamo d'accordo nel considerare fondamentale per il medico recuperare la relazione con il paziente quale indispensabile strumento di lavoro, ma riteniamo che allo stesso modo si debba recuperare una competenza organizzativa di progettazione e gestione dei servizi.


UN SERVIZIO. COSTIPATO

A. è una donna di quasi sessanta anni, con abitudini di vita disordinate, che solitamente non visita il suo medico di base e non fa controlli periodici, a meno di non esserne costretta. Afflitta da un fastidioso e persistenze problema di emorroidi, decide di farsi visitare dal suo medico di base. Il suo medico di base, fatta l'ispezione, le assicura che sono proprio emorroidi e le compila la richiesta per una visita chirurgica per valutare la possibilità di asportarle; quindi: accerta il problema e la invia allo specialista, ma nulla di più. Così A. prende appuntamento in un ospedale pubblico e viene visitata dal chirurgo che, fatta la solita ispezione, decide che è possibile intervenire chirurgicamente; quindi: ricovera A. ed esegue con successo l'intervento, ma, anche lui, nulla di più. Dopo una brevissima convalescenza A. torna alle sue abitudini di vita che, per quello che qui ci interessa, sono: vita altamente sedentaria, dieta iperproteica con la totale assenza di verdure, assunzione limitatissima di liquidi durante la giornata, stipsi costante, sovrappeso, e modalità espressive emozionali caratterizzate da trattenimento e coartazione, alternate a invasività, tendenzialmente distruttiva e priva di gestione.

A., avendo lasciate invariate le sue abitudini, dopo un certo periodo di tempo è tornata a soffrire del disturbo; un disturbo che, secondo una prospettiva centrata unicamente sulla patologia, può essere trattata chirurgicamente con successo. Potremmo riassumere così: A. ha posto un quesito al suo medico di base "ho o no le emorroidi?", il quale le ha risposto per le rime, ossia "si ce le ha", attivando poi il meccanismo di intervento "le leviamo?"; lo specialista a sua volta ha risposto, anche lui per le rime, al quesito posto dal medico di base affermando "si gliele levo"; operazione riuscita, paziente contento. Ora A. ha di nuovo lo stesso problema.

Qui è evidente che A. non solo non è stata messa al centro, avendo i medici intrapreso una relazione direttamente con il suo problema (nessuno dei due medici si è interessato di indagare le sue abitudini, dichiarando in ciò l'idea di un servizio sanitario assolutamente automatizzato), come se questo fosse una cosa a sé, ma oltretutto si è anche trascurata la connettività tra gli ambiti del servizio sanitario e le finalità sociali affidate nel mandato del servizio stesso. Si capisce che lì dove il servizio è interpretato e gestito burocraticamente da chi vi lavora, fallisce. E il paradosso è che, come in questo caso, pur essendoci un fallimento del servizio allo stesso tempo si può vantare il successo dell'intervento chirurgico: sembra quindi essere presente una certa discrezionalità nel considerare alcuni obiettivi, piuttosto di altri; eppure ci sembra che il mandato non sia così ambiguo. Per questo pensiamo che ci sia bisogno di una certa chiarezza e definizione etica.

A. dovrà a breve operarsi nuovamente, ma soprattutto con questa esperienza di servizio sanitario ha rafforzato l'idea di un modo di fruire e rappresentarsi la medicina per nulla funzionale; ha perso l'opportunità di poter sviluppare risorse sulla cura e gestione di sé, sulla propria autonomia e responsabilità; ha perso la possibilità di ricevere un intervento di prevenzione circa la quota di rischio per malattie (per esempio cardivascolari) future verso le quali le proprie abitudini disordinate la rendono esposta; e potremmo andare avanti ancora, ma in sintesi è evidente come quello su A. è stato un intervento che, senza dubbio, definiremmo ben lontano (anzi, per certi versi opposto) dalla promozione della salute





[1] Autiero A. Il rapporto medico paziente nei suoi aspetti etici. In. Etica e medicina generale. Autiero A, Benciolini P, Viafora C (a cura di). Roma: CIC Edizioni Internazionali, 2000, pp 55-56

[2] Sgreccia E (a cura di). Storia della medicina e storia dell'etica medica verso il terzo millennio. Catanzaro: Rubbettino Editore, 2000, pp 74-75

[3] Autiero A. Il rapporto medico paziente nei suoi aspetti etici. In: Etica e medicina generale. Autiero A, Benciolini P, Viafora C (a cura di). Roma: CIC Edizioni Internazionali, 2000, pp 59-60

[4] Spinsanti S. Chi decide in medicina?  Roma: Zadigroma Editore, 2004, p. 59

[5] Costituzione della Repubblica, Parte I "Diritti e doveri dei cittadini", Art. 32 (Rapporti etico-sociali)

[6] Questo caso e gli altri che saranno riportati in seguito, sono reali e derivano dall'esperienza diretta di chi scrive

[7] Spinsanti S. Chi decide in medicina?  Roma: Zadigroma Editore, 2004, pp 64-65

[8] Per alcuni autori passività del paziente-attività del medico sono tuttavia posizioni ritenute funzionali nelle situazioni d'emergenza: ci chiediamo però fino a dove una situazione può definirsi d'emergenza (ammesso che possa definirsi nella gravità) in senso temporale. Anche lì dove un intervento d'urgenza, come si dice, "salvi" il paziente e lo riporti in una condizione organica di stato funzionale, perfettamente uguale a quando era "sano", si può facilmente immaginare che questa esperienza di "salvazione" non cadrà nel vuoto di una passività reale, ma verrà (e sembra proprio inevitabile) invece elaborato, in un modo o nell'altro, ma sempre attivamente. Per questo anche l'emergenza non ci sembra possa rendere valida e utile le posizioni medico attivo-malato passivo: se avrà successo l'intervento d'urgenza il paziente ritornerà, prima o poi, totalmente o sufficientemente, in uno stato di capacità di orientare nuovamente la sua vita.

[9] Pasinelli G (a cura di). Il consenso informato: una svolta nell'etica medica. Milano: Franco Angeli, 2004, p. 73

[10] Ibidem, p. 43

[11] Il sapere scientifico è costantemente capovoltato su stesso, nella infinita ricerca del sapere ultimo, della scoperta della legge assoluta e onnicomprensiva: l'epistemologia della complessità ha consentito di ampliare di molto la portata della teoria (e potremmo dire non solo in fisica) del caos deterministico! Questo implica che in quanto esseri pensanti siamo costantemente ed inevitabilmente portati ad operare delle scelte, lungi da una qualche garanzia di un ordine aprioristico di disposizione. Il funzionamento a settori e scomparti della natura è un'impalcatura propria della semplificazione artificiale del pensiero scientifico, ma questo limite, oggi quanto mai sotto gli occhi di tutti, non deve scoraggiare, né promuovere reazioni di negazione contro la scienza; come afferma Morin "La scienza non è ai suoi ultimi sviluppi, essa è al suo nuovo inizio. [.] Essa balbetta e farfuglia, appena esce dalle sue equazioni, formidabili manipolatrici di potere. Siamo agli inizi della conoscenza. Ugualmente, adesso l'abbiamo ripetuto abbastanza, siamo agli inizi della coscienza. Per finire, ci troviamo non nel momento di un possibile pieno sviluppo delle società storiche, ma ai segni premonitori di una vera e propria ipercomplessità sociale" (Morin E. Il paradigma perduto. Che cosa è la natura umana? Milano: Feltrinelli, 1994, p. 209)

[12] Manti F. Pensiero della complessità, etica dei diritti ed etica della cura. In: Bioetica e cultura della complessità. Battaglia L, Ceruti M (a cura di). Cesena: Macro Edizioni, 1998, pp 132-133

[13] Ibidem, p.135

[14] Ricci S, Miglino A. Medicina e società. Roma: Società Editrice Universo, 2005, p. 8




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