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Tensione Finito-Infinito nei canti I-XXXIII del Paradiso

dante



Tensione Finito-Infinito nei canti I-XXXIII del Paradiso


Dopo aver cominciato il suo viaggio di purificazione dalla «selva oscura» ed aver superato anche il regno oltremondano del Purgatorio, Dante arriva nel Paradiso per completare la sua redenzione e incontrare finalmente Dio, termine ultimo del suo cammino di fede.

Tutta la cantica, dunque, risente dell'inquietudine del poeta sempre teso verso l'Assoluto, fine e completamento della sua esperienza: la quasi spasmodica attesa si manifesta anche stilisticamente nelle terzine del Paradiso, che non a caso inizia e termina con l'immagine di Dio. Prima ancora dell'io narrativo, infatti, diversamente dal canto I dell'Inferno, compare «la gloria di colui che tutto move»: solo in un secondo momento si inserisce con umiltà Dante, allo stesso tempo orgoglioso e trepidante per l'avventura mistica che è chiamato a svolgere. Dante e Dio, dunque, si presentano come estremi opposti: l'Uomo, cioè il Finito, il limitato, e Dio, cioè l'Infinito e l'illimitato.

La dicotomia, che è presente in maniera molto forte nel canto iniziale e in quello conclusivo di quest'ultima tappa della Commedia, viene però alla fine risolta: non a caso questi due termini opposti si incontrano nelle ultime terzine, o forse sarebbe meglio dire che, poiché il legame spirituale c'è sempre stato, avviene nella conclusione un incontro fisico -per quanto si possa parlare di fisicità in questo contesto-, e proprio sul tema dell'intimo rapporto che s'instaura fra Finito ed Infinito si basa la suggestione dei canti I-XXXIII.



Non solo dal punto di vista ideologico, ma anche da quello tematico Dante vuole suggerire questo avvicinamento tra i due estremi: l'argomento del canto I è, infatti, il problema dell'unità del creato e della tensione di tutte le creature verso il proprio Creatore. Precede alla narrazione un'introduzione in cui il poeta si rivolge ad Apollo: come ben sappiamo, ad altezza di materia, nella Commedia, corrisponde una certa altezza di registro stilistico e di destinatario. Così, mentre nel Purgatorio l'invocazione, più modesta, era rivolta alle Muse, nel Paradiso l'invocazione è ben più ampia e non si rivolge più solamente a delle divinità minori, ma a un dio vero e proprio, la somma divinità classica dell'Arte e della Musica, Apollo. Dopo questa preghiera, in cui non rinuncia neanche in tale contesto ad inserire una critica alla società , il poeta comincia la narrazione dicendo che si trova accanto a Beatrice, che l'aveva guidato durante il suo viaggio nel Purgatorio e che ora si trova «in sul sinistro fianco» mentre ha gli occhi fissi nel sole, nella luce, cioè, che proviene direttamente dall'Empireo, sede di Dio, al di sopra dei nove cieli che si dispongono attorno alla Terra (sette cieli per sette pianeti, a cui si aggiungono il Cielo delle Stelle Fisse e il Primo Mobile, che infonde movimento agli altri).

Imitando la sua donna, Dante rivolge lo sguardo verso quella luce, per quanto le sue facoltà umane gli consentano, e in quella contemplazione è così rapito quasi da non accorgersi che staccandosi dal suolo comincia a trascendere verso il primo cielo, il Cielo della Luna, come notiamo nell'effetto di reticenza. Durante la sua ascesa egli si meraviglia prima della novità della luce e del suono, poi di come mai riesca a volare più in alto dei corpi leggeri, dell'aria e del fuoco: alla seconda questione Beatrice risponde più ampiamente, con una spiegazione solenne e mirabile per ampiezza di respiro e consequenzialità di deduzioni, tanto da fondare su questa il punto nodale del canto, ossia l'avvicinamento delle creature verso il Creatore, a cui si riconnette il tema del rapporto tra Finito ed Infinito. Dio ha creato tutto l'Universo secondo un certo ordine e un'unità nota solamente a lui stesso: in quest'ordine, però, le «alte creature», ossia gli angeli e gli uomini, sono in grado di vedere «l'orma/ dell'etterno valore», cioè in che modo ha operato la Provvidenza divina. Chi più chi meno, tutte le creature hanno ricevuto una spinta vitale, in modo che il respiro cosmico si chiuda nel «gran mare dell'essere», nella cui disposizione è riconoscibile una gerarchia di perfezione che porta a Dio: la diversità, dunque, non è disuguaglianza, visto che tutto è in armonia nel progetto divino. La spinta vitale che Dio ha donato al momento della creazione spinge poi le sue creature a tendere, secondo il grado di perfezione ottenuta, verso il loro Creatore: tutto torna a Dio, come anche Dante. Egli, infatti, si riconcilia con se stesso e con la storia dal momento che, una volta terminata la sua esperienza, tornerà agli uomini recando la profezia della pace di Dio. Una volta giunto nel Paradiso, perciò, Dante è oramai purificato dei suoi peccati e pronto a giungere al cospetto divino: per tutto ciò egli non deve meravigliarsi, spiega Beatrice, della sua ascesa all'Empireo, visto che come una «folgore» ritorna nel «proprio sito» da dove era partito, ormai privo di impedimenti, e dunque pronto per l'ultima visione.

L'ultima visione che finalmente avviene una volta che Dante supera tutti e nove i Cieli e giunge nell'Empireo. La guida che lo accompagna, però, non è più Beatrice, dal momento che per avvicinarsi alla divinità non basta la scienza teologica, ma è necessaria la facoltà contemplativa, quindi è S. Bernardo, un mistico vissuto nel XII secolo. L'inizio dell'ultimo canto, dunque, è occupato dalla preghiera, a cui partecipano tutti gli altri beati e, non da ultima, Beatrice, rivolta dal santo alla Madonna, affinché permetta al poeta di completare il suo viaggio di redenzione e di entrare al cospetto di Dio, dal momento che ella rappresenta nel cielo una fiaccola di carità, mentre in terra una fonte di speranza, a cui devono essere inevitabilmente rivolte tutte le preghiere degli uomini perché vengano esaudite. Grazie all'intercessione della Vergine, Dante riesce ad ottenere il permesso di portare a compimento la propria esperienza e, volgendo lo sguardo verso l'alto, verso la fonte diretta della luce, ossia Dio, comincia una contemplazione che lo porterà sempre più vicino alla divinità: l'intelletto giunge così in una dimensione nuova ed abbagliante, così immensa da non poter essere seguita dalla memoria e dunque riferita agli uomini dalla parola. Questo è il rimpianto di Dante, di non poter comunicare alla sua società e a quella futura, se non in minima parte, la straordinarietà della sua visione. Durante questo processo di accostamento all'Assoluto, inoltre, si addentra anche nel profondo dell'essenza divina e viene a stretto contatto con i misteri, tali solo per coloro a cui Dio non rafforza la facoltà intuitiva: Dante entrando a far parte della Candida Rosa dei Beati ha modo di vedere e di capire concetti che precedentemente gli erano preclusi a causa della scarsa abilità intellettiva, rispetto a quella divina. La prima visione è l'unità del creato, che completa il tema preso in esame nel canto I, sottolineando ancora una volta lo stretto rapporto, anche dal punto di vista degli argomenti trattati, tra Finito ed Infinito. Penetrando sempre più con lo sguardo nella luce, Dante riesce a vedere tutto l'Universo, tutti i suoi elementi costitutivi uniti insieme in Dio e, in questa unità, le «sustanze», ovvero ciò che è sostanziale e necessario, come ciò che è accessorio ed accidentale, gli «accidenti», insieme al loro modo di comportarsi e di accadere, sono una sola cosa: tutto ciò che discende da Dio, quindi, trova armonia ed unità solo in Dio, cioè solo in seno al suo Creatore, perciò il Finito può trovare quiete ancora una volta solo congiungendosi con l'Infinito. Non potendo distogliere lo sguardo dalla luce, il poeta continua la sua corsa verso l'Assoluto, poiché la stessa volontà non permette di volgersi dalla perfezione verso qualcos'altro che risulta difettivo in qualche sua parte: anche il pensiero accoglie in sé la luce divina sempre più prossima e si avvicina anch'esso alla sua perfezione in modo da permettere a Dante di comprendere uno de misteri fondanti della religione Cristiana, quello della Trinità. Cercando di spiegare la visione in termini matematico-geometrici, il poeta parla di tre cerchi, divergenti per il colore, ma uguali in dimensione, racchiusi in quella luce eterna: l'uno è riflesso dell'altro e il terzo appare spirare come fuoco da entrambi. In quello riflesso vede, dopo un'attenta e lunga osservazione, dipinto «del suo colore stesso» dell'immagine umana: volendo capire come potessero convivere insieme queste due nature, che costituiscono il mistero della doppia natura di Cristo, viene investito dalla folgorazione mistica e realizza il suo desiderio di vedere e capire il mistero dell'incarnazione. Cristo diventa dunque figura simbolo della dicotomia Finito-Infinito, della congiunzione tra umano e divino, dunque cifra della tensione dantesca presente fin dall'inizio della cantica.



Analogamente a Gesù Cristo, si presenta come emblema dell'apparente contrapposizione tra limitato e illimitato, vincolo e Assoluto, anche la Vergine Madre, destinataria di quest'ultimo canto, caratterizzato appunto dalla figura retorica dell'ossimoro che ben rappresenta la dicotomia che Dante si trova a raccontare. Già l'appellativo unisce due termini in antitesi: "vergine" e "madre" sono due qualificazioni opposte, se non facessimo riferimento al dogma della verginità della Madonna, che accoglie il Figlio di Dio nel suo grembo solo grazie all'opera dello Spirito Santo. Ma la serie di contrasti continua: «figlia del tuo figlio», «umile e alta» e «il suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura»: la Vergine Maria, infatti, è l'anello di congiunzione tra il sommo Creatore e le sue creature, cosicché la sua invocazione porta idealmente a compimento il discorso intrapreso nel canto I e completato nel XXXIII, che non a caso si sviluppa dopo questa necessaria introduzione. Mentre Cristo rappresenta la dualità tra umano e divino, la Vergine rappresenta quella tra Fattore e fattura, ma allo stesso modo si inserisce nel discorso sul Finito e sull'Infinito: come il Creatore, infinito, tende alla sua creatura perché le infonde il soffio vitale di cui si parla nel canto I, così questa, finita, tende nuovamente a Dio per colmare la sua imperfezione: la differenza è che solo il moto della seconda è dinamico, secondo le teorie aristoteliche di cui Dante si fa discepolo .



La doppia natura materiale e immateriale sembra costante di questi due canti, come dimostra ulteriormente un altro tema, il tema della luce. Sia nel canto I che nel canto XXXIII, Dante, Beatrice e S. Bernardo sono costantemente immersi nella luce e sempre rivolti verso la sua fonte diretta, cioè Dio, e la sua contemplazione lo porta a salire sempre più in alto. La luce che pervade l'ambiente, pervade anche l'intera aria semantica dei canti, dando adito conseguentemente ai semantemi della "vista", della "visione" e degli "occhi": prendendo in esame solo le prime terzine, infatti, già spiccano termini come «risplende», «luce» o «vidi». La luce si configura come elemento fondante e strettamente pertinente all'argomento de canti dal momento che niente più di essa esprime anche in campo fisico la dualità tra Finito ed Infinito, tra materia ed energia, tra materiale ed immateriale: essa è entrambe le cose, come Cristo era Uomo e Dio, come Maria era creatura e creatrice e inoltre è diretta emanazione di Dio per gli uomini e per l'Universo, quindi strumento di comunione tra questi due termini in apparente antitesi. Solamente grazie alla luce, che si presenta come unica parte visibile e percepibile dell'Ineffabile per eccellenza, cioè Dio, Dante riesce ad avvicinarcisi sempre di più; solamente volgendo in essa lo sguardo, invece di perdersi nella sua intensità, l'Uomo riesce a trovare la via da seguire. Inoltre Dante si serve sempre della luce non solo nel suo tentativo di fissare narrativamente il tempo (l'ora e la stagione), quando parla della precisa posizione del sole e delle varie coordinate geografiche per ambientare l'esperienza a mezzogiorno e in primavera, ma soprattutto quando spiega il mistero della Trinità: i cerchi sono fatti di luce e si riflettono l'un nell'altro, spirano l'un dall'altro come fuoco, insomma offrono tutte le immagini suggestive che la luce può donare all'Uomo, il quale sogna nella sua finitezza di perdersi nell'infinito e, come la luce, superare i propri limiti naturali e materiali. Per offrirle un ruolo centrale e quasi assoluto, Dante la fa campeggiare come signora nell'ambiente scenografico: tutto è deposto, lasciato indeterminato in favore di questa intensa luminosità diffusa. Sparisce per questo ogni descrizione, ogni minimo accenno al paesaggio, che avrebbe in un certo qual modo determinato la poesia, che resta di conseguenza pervasa dall'ineffabile, dall'indeterminato, quindi travalica i limiti netti del Finito. Soprattutto alla fine dell'invocazione di S. Bernardo («Vinca tua guardia i movimenti umani:/ vedi Beatrice con quanti beati/ per li miei prieghi ti chiudon le mani!»), Dante sembra riecheggiare una certa atmosfera giottesca, ma è l'unico momento in cui lo sguardo del poeta sembra allargarsi verso ciò che è distante dalla diretta emanazione divina, presto lo sguardo si dedica nuovamente alla contemplazione divina e la luce abbagliante prende il sopravvento («Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,/ e cede la memoria a tanto oltraggio»).

Ben esprime la parola «oltraggio» la poesia dei canti I e XXXIII, che a tal proposito è stata descritta come poesia dell'oltranza, cioè dell'eccesso a cui l'uomo non può arrivare, l'excessus mentis. L'esperienza che Dante si trova a vivere apre in lui un fortissimo contrasto tra le due dimensioni finora analizzate nella sua poesia, Finito ed Infinito, e Dante, nel canto XXXIII, come abbiamo visto, invoca la Madonna, anello di congiunzione tra le due dimensioni, proprio perché ne sente davvero forte il distacco. I concetti che deve esprimere sono troppo superiori all'intelletto perché la memoria possa registrarne le immagini ed esprimerle a parole, cosicché si fa molto forte anche il distacco fra queste tre facoltà dell'intelligenza umana: tra intelletto e parola si apre così una tal grande voragine che il poeta non poche volte si trova in difficoltà. Il gran divario che si crea non fa altro che riflettere il primo grande divario tra materiale ed immateriale, dal momento che l'intelletto del poeta è chiamato ad apprendere l'Infinito e per mezzo di parole esprimerlo in modo finito, un'operazione pressoché impossibile. È proprio per questo motivo, infatti, che Dante non perde occasione per rivelare più volte il suo lato pragmatico, da essere umano (e dunque creatura con dei limiti fisici, intellettuali e spirituali), nel descrivere dei fenomeni puramente trascendenti con degli espedienti che gli permettano di esprimerli in termini comprensibili. Non dobbiamo dimenticarci, infatti, che il poeta ha un compito ben preciso, cioè quello di portare la sua esperienza come exemplum a tutti gli uomini, perciò non può perdersi nella visione della divinità come i mistici, come S. Bernardo, ma deve compiere un viaggio di purificazione e di crescita interiore come S. Paolo per poi portarne i risultati alla sua società e trasmetterla alle generazioni future. In questo contesto acquista importanza il tentativo di storicizzare la sua esperienza dotandola di termini temporali, come abbiamo precedentemente notato, per mezzo di immagini geometriche («Surge ai mortali per diverse foci/ la lucerna del mondo; ma da quella/ che quattro cerchi giugne con tre croci,/ con miglior corso e con miglior stella/ esce congiunta»); o il tentativo di rifarsi al mito per mezzo della storia di Glauco, dunque in termini comprensibili al lettore, per spiegare il suo volo verso Dio: non a caso nella difficoltà d'espressione tenta di evadere i limiti coniando persino nuove parole, come «transumanar» (da "trans" e "humanus", andare oltre i limiti umani); o infine il tentativo di spiegare uno dei più grandi misteri della fede per mezzo di figure geometriche, mostrando un atteggiamento da matematico piuttosto che da mistico, dunque quasi provocatorio, dal momento acutizza la ragione in un contesto in cui il soprasensibile è extraintellettuale. In questo suo atteggiamento, dunque, riconosce i limiti umani, i suoi stessi limiti, e spesso si abbandona alla disperazione di non poter comunicare in modo esaustivo la sua esperienza, ma lo fa con dignità, non umiliando mai l'Uomo. Ciò che può comunicare, invece, è l'effetto di quella visione, le emozioni e le sensazioni che gli rimangono e spesso la narrazione procede su questi presupposti: «qual è colüi che sognando vede,/ che dopo'l sogno la passione impressa/ rimane, e l'altro a la mente non riede,/ cotal son io, ché quasi tutta cessa/ mia visione, e ancor mi distilla/ nel core il dolce che nacque da essa». Proprio quando la poesia sembra aver perso il suo ruolo, troviamo una descrizione del sogno che esprime tutta la dolcezza che la lirica potesse esprimere grazie ad immagini incorporee: è questa la dignità che Dante contrappone alla propria finitezza.



Diversamente succede in altre produzioni letterarie che trattano lo stesso tema, la tensione tra Finito ed Infinito, come ad esempio nel Romanticismo. La caratteristica di Dante è quella di aver risolto il distacco in una fiducia nell'Uomo, riflesso della fiducia in Dio, dunque un Finito che trova il suo modo d'essere solo una volta congiunto all'Infinito: una contraddizione solo transitoria, che dura il tempo di una vita, ma ben presto sciolta nel regno ultramondano, a cui l'uomo medievale tende come saldo punto di riferimento. Il Romantico, invece, non vedrà la possibilità di una risoluzione di questa antitesi che vive come scacco, come condizione esistenziale insanabile, in modo che la tensione tra Finito ed Infinito è vissuta come languore, come Sehnsucht che, nonostante il recupero di una forte religiosità cristiana durante questo periodo, non può essere quietato nemmeno dopo la morte.



Infatti Dante è sì strumento nelle mani di Dio che avrebbe dovuto recare al mondo la profezia e l'insegnamento tratto dalla sua esperienza, ma si sente anche, e soprattutto, un cittadino di questo mondo tanto corrotto e bisognoso dell'aiuto divino, come diffusamente ha avuto l'occasione di parlare nel Purgatorio e, soprattutto, nell'Inferno.

Secondo la teoria aristotelica, infatti, solamente i corpi imperfetti sono in movimento perché alla ricerca della perfezione, mentre sono in quiete quelli che hanno già trovato la loro completezza. Dio dunque è in quiete poiché è per antonomasia l'Essere perfetto che muove tutto e rimane immobile, come notiamo nella dinamica del Primo Mobile.






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