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'PROSA CANTO I', PROSA CANTO III, V, VI

dante



"PROSA CANTO I"

A meta' del cammino della nostra vita terrena mi ritrovai in una selva oscura poiche' avevo smarrito la via diritta. Ahi quanto e' doloroso dire qual era quella selva selvaggia, impervia ed insuperabile, che al solo ricordo la paura si rinnova. E' tanto amara che la morte lo e' poco di piu'; ma per trattare del bene che vi ho trovato, diro' delle altre cose che vi ho visto.Io non so ben raccontare come vi entrai, tanto ero pieno di sonno in quel punto in cui abbandonai la via della verita'. Ma dopo che giunsi ai piedi di un colle, la' dove terminava quella valle che mi aveva riempito il cuore di paura, guardai verso l'alto e vidi la sua sommita' rivestita gia' dei raggi del sole che guida (con la sua luce) gli altri uomini per la via diritta.Allora si calmo' un poco quella paura che mi era restata nell'interno del cuore la notte che io trascorsi con tanto affanno. E come colui che con il respiro affannoso, uscito fuori del mare, si volge all'acqua pericolosa e guarda intensamente, cosi' il mio animo, che ancora fuggiva, si volse indietro a riguardare il passaggio che non lascio' giammai vivo nessun individuo.Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco ripresi la via per il pendio deserto, in modo tale che il piede fermo era sempre il piu' basso.Ed ecco, quasi al cominciare della salita una lonza leggera e molto agile che era coperta di pelo maculato; e non si allontanava dalla mia vista, piuttosto impediva tanto il mio cammino che io fui piu' volte costretto ad indietreggiare.Era passato del tempo dal principio del mattino ed il sole saliva in alto in congiunzione con quelle stelle che erano con lui quando l'Amore Divino impresse per la prima volta il movimento a quelle cose belle; si' che l'ora mattutina e la dolce stagione primaverile mi erano di buon auspicio per sperare di scampare da quella fiera dalla pelle variegata; ma non abbastanza per non farmi spaventare dalla vista di un leone che mi apparve.Questi sembrava che venisse contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, in modo tale che sembrava che anche l'aria ne tremasse.Ed una lupa, che nella sua magrezza sembrava carica di ogni desiderio, e aveva fatto vivere miseramente gia' molte genti, questa mi comunico' tanta angoscia con lo spavento che emanava dalla sua apparizione che io persi la speranza di raggiungere la vetta.E come colui che guadagna volentieri e giunge il tempo che lo fa perdere, che 616g67g in ogni suo pensiero piange e si rattrista;lo stesso effetto provoco' in me la bestia senza pace la quale, venendomi incontro, mi respingeva a poco a poco la' dove il sole tace. Mentre io cadevo rovinosamente in basso, mi si offri' alla vista uno che, a causa del lungo silenzio, appariva fioco.Quando vidi costui nel vasto deserto gli gridai "Abbi pieta' di me, chiunque tu sia, un uomo reale o un'ombra!" Mi rispose: "Non sono un uomo reale, lo fui, ed i miei genitori furono lombardi, di patria mantovana entrambi.Nacqui sotto Giulio Cesare, sebbene alla fine del suo dominio, e vissi a Roma sotto il buon Augusto, al tempo del paganesimo.Fui poeta e cantai di quel giusto figliuolo di Anchise che venne da Troia dopo che la superba Ilione fu bruciata.Ma tu perche' ritorni a tanta noia? Perche' non sali il piacevole monte che e' il principio e l a causa di ogni gioia?"Allora sei tu quel Virgilio e quella fonte di saggezzache spandi un cosi' largo fiume di parole?"gli risposi con la fronte bassa."O onore e luce degli altri poetimi valga il lungo studio ed il grande amore che mi ha fatto cercare la tua opera.Tu solo sei il mio maestro ed il mio autore;tu solo sei colui dal quale io trassilo stile bello che mi ha fatto onore.Vedi la bestia a causa della quale sono volto indietro, aiutami da lei, famoso saggio, poich\'e8 essa mi fa tremare le vene e i polsi.""A te conviene percorrere un'altra strada",rispose dopo che mi vide piangere,"se vuoi scampare da questo luogo selvaggio:poiche' questa bestia, a causa della quale tu gridi,non lascia passare nessun altro per la sua via,ma tanto lo impedisce che lo uccide;ed ha una natura cosi' malvagia e colpevole,che non sazia mai la voglia bramosa, e dopo il pasto ha piu' fame di prima.Molti sono gli animali con cui si ammoglia,e saranno ancora di piu' finche' non verra' il Veltro,che la fara' morire con dolore.Questi non desiderera' potere ne' ricchezze, ma sapienza, amore e virtu',e la sua origine sara' tra feltro e feltro.Egli sara' la salvezza di quella umile Italia per la quale mori' la vergine Camilla e (morirono) di ferite Eurialo, Turno e Niso.Costui caccera' la lupa per ogni citta', finche' l'avra' rimessa nell'inferno, da dove la tirera' fuori la prima invidia.Per cui io, per il tuo bene, penso e vedo con chiarezza, che tu mi segua, ed io saro' la tua guida e ti trarro' di qui attraverso un luogo eterno, dove udrai le g rida disperate, vedrai gli antichi spiriti che soffrono, ciascuno dei quali invoca la seconda morte ;e vedrai coloro che sono contenti nel fuoco perche' sperano di venire, quando saro', alle genti beate.Se tu poi vorrai salire ad esse ci sara' per guidarti un'anima piu' degna di me, nell'andarmene ti lascero' con lei;poiche' quell'imperatore che regna lassu' non vuole che io vada nel suo dominio poiche' fui estraneo alla sua legge.Egli impera in tutti i luoghi, e la' regna; la' e' la sua citta' ed il suo trono: oh, felice colui che sceglie per quel luogo!"Ed io dissi a lui: " Poeta, io ti chiedo di nuovo, in nome di quel Dio che non hai conosciuto, che tu mi conduca la' dove ora dicesti affinche' io fugga questo male e altri peggiori, in modo tale che io veda la porta di San Pietro e coloro che tu descrivi cosi' infelici".Allora si mosse ed io lo seguii.



"PROSA CANTO III"

"Attraverso me si va nella citta' che soffre, attraverso me si va nell'eterno dolore,attraverso me si va tra la gente perduta. La giustizia mosse Dio a crearmi:mi fece la divina potenza,la somma sapienza ed il primo amore.Prima di me non furono create cose se non eterne ed io duro eternamente.Lasciate ogni speranza, o voi che entrate'.Queste parole di colore oscuro vidi scritte sulla sommita' di una porta; per cui dissi: "Maestro, il loro significato mi e' duro". Ed egli a me, come persona saggia: "Qui conviene abbandonare ogni sospetto;qui conviene che ogni vilta' sia morta. Noi siamo venuti nel luogo dove io ti ho detto che tu vedrai le genti dolorose che hanno perso il bene dell'intelletto".E dopo avermi preso per mano con volto lieto, per cui io mi confortai, mi introdusse alle cose segrete.Qui sospiri, pianti e alti lamenti risuonavano per l'aria senza stelle,per cui all'inizio ne piansi. Voci diverse, orribili parlate, parole di dolore, accenti di ira,grida e lamenti, e insieme ad essi rumore di percosse facevano un tumulto, che si aggira sempre in quell'aria tinta senza tempo, come la sabbia quando spira il turbine. Ed io, che avevo la testa cinta di orrore, dissi: "Maestro, che e' quel che io odo? e che gente e' che pare cosi' vinta nel dolore?" Ed egli a me: "Tengono questo misero modo le anime tristi di coloro che vissero senza infamia e senza lode.Sono mischiate a quel coro cattivo degli angeli che non furono ribelli ne' furono fedeli a Dio, ma fecero parte a se'.I cieli li cacciano per non essere meno belli, ne' li riceve il profondo inferno, poiche' i malvagi avrebbero qualche gloria dalla loro presenza.Ed io: "Maestro, che e' tanto pesante per loro, che li fa lamentare cosi' fortemente?" Rispose: "Te lo diro' molto brevemente. Questi non hanno speranza di morte e la loro cieca vita e' tanto bassa,che sono invidiosi di ogni altra sorte.Il mondo non lascia che vi sia ricordo di loro;la misericordia e la giustizia li sdegnano:non parliamo di loro, ma guarda e passa". Ed io, che guardai, vidi una insegna che girando correva tanto veloce che sembrava indegna di qualunque posizione;e dietro le veniva una cosi' lunga fila di gente che io non avrei creduto che la morte ne avesse disfatta tanta Dopo che v i ebbi riconosciuto alcuni,vidi e conobbi l'ombra di coluiche fece per vilta' il gran rifiuto. Istantaneamente compresi e ne fui certo che questa era la setta dei cattivi che non piacciono a Dio ne' ai suoi nemici.Questi sciagurati che non furono mai vivi,erano nudi e molto stimolati da mosconi e da vespe che si trovavano la'.Esse rigavano il volto di sangue,che, mischiato alle lacrime, era raccolto ai loro piedi da fastidiosi vermi.E dopo che mi diedi a guardare oltre,vidi gente sulla riva di un grande fiume;per cui io dissi: "Maestro, ora concedimi che io sappia chi sono, e quale legge le fa sembrare cosi' desiderose di trapassare,come io vedo attraverso la fioca luce". Ed egli a me: "Le cose ti saranno raccontate quando noi fermeremo i nostri passisulla triste riva dell'Acheronte".Allora con gli occhi vergognosi e bassi,temendo che le mie domande gli fossero pesanti, fino al fiume evitai di parlare.Ed ecco venire verso di noi su una nave un vecchio, bianco per la vecchiezza dei capelli,gridando: "guai a voi anime colpevoli!Non sperate mai di vedere il cielo:io vengo per condurvi all'altra rivanelle tenebre eterne, nel caldo e nel gelo.E tu che sei costi' , anima viva,separati da codesti che sono morti".Ma dopo che vide che io non me ne andavo, disse. "Per un'altra via, per altri portiverrai a riva, non qui, per attraversare:conviene che ti porti un legno piu' leggero".E il duca a lui : "Caronte, non ti crucciare:si vuole cosi' la' dove si puo' cio' che si vuole, e non chiedere di piu'".Quindi furono quete le barbute gote al traghettatore della palude livida,che aveva intor no agli occhi ruote di fiamme.Ma quelle anime, che erano stanche e nude,cambiarono colore e battevano i denti,non appena intesero le crudeli parole.Bestemmiavano Dio e i loro genitori, la specie umana e il luogo e il tempo e il seme dei loro avi e dei loro figli. Poi tutte insieme si ritrassero,piangendo forte, verso la riva malvagia che attende ciascun uomo che non teme Dio.Caronte demonio, con gli occhi di brace,chiamandole per cenni, le raccoglie tutte;colpisce con il remo qualunque di esse si adagia. Come d'autunno cadono le foglie l'una dopo l'altra, finche' il ramo vede a terra tutte le sue spoglie,nello stesso modo il seme malvagio di Adamo,si gettanno da quel lido una per volta, al cenno di Caronte come uccello obbediente al richiamo.Cosi' se ne vanno per l'onda bruna,e prima che siano discese di la',anche di qua si raduna una nuova schiera. "Figliuolo mio" disse il maestro cortese,"quelli che muoiono nell'ira di Dio si raccolgono qui da ogni paese:e sono pronti a sorpassare il fiume malvagio,poiche' la giustizia divina li sprona,in modo tale che la paura si trasforma in desiderio.Di qui non passa mai un'anima buona;e percio', se Caronte si lamenta di te,puoi ben capire ormai perche' parla cosi'".Detto questo, la campagna buia tremo' cosi' forte, che il ricordo mi fa ancora sudare per lo spavento.La terra lacrimosa produsse un vento,che fece balenare una luce vermiglia che soverchio' i miei sensi;e caddi come un uomo che si addormenta.


"PROSA CANTO V"

Così discesi dal primo girone giù nel secondo, che cinge minor luogo, e tanto maggior dolore, che costringe al lamento. Vi sta orribilmente Minosse,  e ringhia: nell'entrata esamina le colpe; giudica e ordina l'esecuzione a seconda di come si avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata gli viene davanti, si confessa tutta; e quel conoscitore dei peccati vede in quale luogo dell'inferno condannarla; si cinge con la coda tante volte per quanti gradi vuole che sia messa giù. Davanti a lui ne stanno sempre molte; vanno a turno ognuna al giudizio; dicono ed ascoltano, e poi sono precipitate giù. "O tu che vieni  al  luogo di dolore", mi disse Minosse quando mi vide, interrompendo cotanto ufficio, "guarda come entri e colui di cui ti fidi; non t'inganni l'ampiezza dell'ingresso!". E il mio duca a lui: "Perchè pure gridi? Non impedire il suo andare fatale: si vuole così là dove si può ciò che si vuole e non chiedere di più". Ora cominciano a farmisi sentire le dolorose note; ora sono giunto là dove mi colpisce molto pianto. Io giunsi in un luogo muto di ogni luce, che muggisce come fa il mare per la tempesta, se è combattuto da venti contrari. La bufera infernale, che non si ferma mai, colpisce gli spiriti con la sua rapina; li tormenta voltandoli e percuotendoli. Quando giungono davanti alla rovina, qui le grida, il pianto, il lamento; qui bestemmiano la virtù divina. Capìi che a un tormento così fatto erano dannati i peccatori carnali, che sottomettono la ragione al desiderio. E come gli stornelli sono portati dalle ali nel tempo freddo, a schiera larga e piena, così il vento gli spiriti malvagi sbatte di qua, di là, di sù, di giù; nessuna speranza li conforta mai, non solo di riposo, ma di pena minore. E come le gru vanno cantando i loro lamenti facendo una lunga fila di sé in aria, così vidi venire, traendo lamenti, ombre portate dalla detta tempesta; per cui io dissi: "Maestro, chi sono quelle genti che l'aria nera castiga così?" "La prima di coloro di cui tu vuoi sapere notizie", mi disse allora quello, "fu imperatrice di molti popoli. Fu così rotta al vizio della lussuria, che rese lecita la libidine nella sua legge, per cancellare il biasimo in cui era caduta. Ella è Semiramide, di cui si legge che succedette a Nino e fu  sua sposa: dominò la terra che ora governa il Sultano. L'altra è colei che si uccise per amore, e ruppe il giuramento alle ceneri di Sicheo; poi c'è Cleopatra lussuriosa. Vedi Elena, per la quale si volse un tempo tanto reo, e vedi il grande Achille, che alla fine combatté con amore. Vedi Paride, Tristano", e più di mille ombre mi mostrò indicandomele e nominandole, che amore separò dalla nostra vita Dopo che ebbi udito il mio dottore nominare le donne e i cavalieuri antichi, mi sopraffece la pietà e fui quasi smarrito. Io cominciai: "Poeta, volentieri parlerei a quei due che vanno insieme, e sembrano essere così leggeri al vento". Ed egli a me: "Vedrai quando saranno più vicini a noi; e tu allora pregali in nome di quell'amore che li conduce, ed essi verranno". Così non appena il vento li volse verso di noi, parlai: "O anime affannate, venite a parlar con noi se altri non lo negano!". Come colombe chiamate dal desiderio con le ali alzate e ferme al dolce nido vengono per l'aria portate dal desiderio; quei tali uscirono dalla schiera dove è Didone, venendo a noi per l'aria maligna, tanto forte fu il grido affettuoso. "O animale grazioso e benevolo che vai visitando per l'aria persa noi che tingemmo il mondo di sangue, se Dio  ci fosse amico, noi lo pregheremmo per la tua  pace poiché hai pietà del nostro male perverso. Di quel che vi piace ascoltare e parlare, noi ascolteremo e parleremo a voi, finchè il vento, come ora, tace. La terra dove nacqui siede sulla marina dove il Po discende con i suoi affluenti per gettarsi a mare. Amore, che subito infiamma il cuore nobile, prese costui per il bel corpo che mi fu tolto, e il modo ancora mi offende. Amore, che a nessuno amato consente di non corrispondere, mi prese di costui un piacere così forte, che come vedi, ancora non mi abbandona. Amore ci condusse alla medesima morte: la Caina attende chi ci spense alla vita". Queste parole ci furono dette da loro. Quando io ebbi ascoltato quelle anime dolenti, chinai il viso e lo tenni basso, finchè il poeta mi disse: "Che pensi?". Quando risposi, cominciai: "Oh lasso, quanti dolci pensieri, quanto desiderio condusse costoro al passo doloroso!" Poi mi rivolsi a loro e parlai io, e cominciai: "Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso e mi fanno piangere. Ma dimmi: nel tempo dei dolci sospiri, in che modo e con quali mezzi Amore concedette che conosceste i desideri dubbiosi?". E lei a me: "Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, e ciò sa il tuo dottore. Ma se hai tanto desderio di conoscere la prima radice del nostro amore, dirò come colui che piange e dice. Noi leggevamo un giorno per diletto di Lancillotto, e come amore lo strinse; eravamo soli e senza alcun sospetto. Per più passi gli occhi ci sospinse quella lettura, e ci impallidì il viso; ma solo un punto fu quello che ci vinse. Quando leggemmo il desiderato sorriso di essere baciato da tanto amante, questi, che mai da me sarà separato, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non leggemmo". Mentre l'uno spirito diceva questo, l'altro piangeva; sì che io per la pietà svenni  come se morissi. E caddi come  cade un corpo morto.

"PROSA CANTO VI"

Al tornare dei sensi, che si erano smarriti per la pietà provocata dal dolore dei due cognati, che mi aveva tutto confuso di tristezza, mi vedo intorno nuovi tormenti e nuovi dannati, comunque io mi muova e mi giri, e dovunque io guardi. Io sono al terzo cerchio, della pioggia eterna, maledetta, fredda e pesante; che cade sempre nello stesso modo e con lo stesso ritmo. Grandine grossa, acqua sporca e neve si riversano per l'aria oscura; la terra che riceve questo puzza. Cerbero, fiera crudele e mostruosa, latra con tre gole come cane sulla gente che è sommersa qui. Ha gli occhi rossi, la barba unta e nera; e il ventre largo, e le mani unghiate; graffia gli spiriti, e li scuoia e li squarta. La pioggia li fa urlare come cani; con un fianco riparano l'altro; si girano spesso i miserabili peccatori. Quando Cerbero, il grande verme, ci scorse, aprì le bocche e ci mostrò le zanne; non aveva parte del corpo che stesse ferma. E il mio duca distese le mani aperte, prese la terra, e con le pugna piene la gettò dentro alle vogliose gole. Come quel cane che abbaiando desidera, e si acqueta dopo che ha  morso il pasto, perchè è solo intento e impegnato a divorarlo, così si  fecero quelle facce sozze del demonio Cerbero che introna talmente le anime che queste vorrebbero essere sorde. Noi passavamo sulle ombre che la pesante pioggia batte, e ponevamo le piante dei piedi sopra l'immagine loro che sembra  reale corpo. Esse giacevano tutte quante a terra, all'infuori di una che si levò a sedere, non appena ci vide passarle davanti. "O tu che sei tratto per questo inferno", mi disse, "riconoscimi, se sai: tu fosti fatto prima che io fossi disfatto". Ed io a lui: "L'angoscia che hai forse mi impedisce di ricordarti, sì che non sembra che ti abbia mai visto. Ma dimmi chi sei tu che sei in un luogo così dolente ed hai una pena così fatta che, se altre sono maggiori, nessuna è così spiacevole". Ed egli a me: "La tua città, che è piena di invidia tanto che il sacco già trabocca, mi tenne con sé nella vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: a causa della dannosa colpa della gola, come vedi, mi sfinisco alla pioggia. Ed io, anima trista, non sono sola, poiché tutte queste anime stanno ad una pena simile per una colpa simile". E più non parlò. Io gli risposi: "Ciacco, il tuo affanno mi pesa tanto che mi fa piangere; ma dimmi, se sai, a che arriveranno i cittadini della città divisa; se vi è qualche giusto; e dimmi la causa per la quale l'ha assalita tanta discordia". E quello a me: "Dopo lunga tenzone giungeranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l'altra con molta offesa. Poi dopo conviene che questa cada entro tre anni, e che l'altra sormonti con la forza di un tale che qui si aspetta. Terrà alte le fronti per lungo tempo, tenendo l'altra sotto pesanti gioghi, per quanto di ciò pianga e si offenda. Vi sono due giusti, e non sono ascoltati; le tre fiamme che hanno acceso i cuori sono la superbia, l'invidia e l'avarizia". A questo punto finì il discorso doloroso. Ed io a lui: "Ancora voglio che mi dici, e che mi faccia dono di altre parole. Farinata e il Tegghiaio, che furono così degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca e gli altri che impiegarono la loro intelligenza al ben fare, dimmi dove sono e fa che io li  conosca; poichè mi stringe un gran desiderio di sapere se il cielo li addolcisce, o l'inferno li tormenta." E quello: "Essi sono fra le anime più nere: diverse colpe li gravano al fondo: se scendi tanto, là li potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, ti prego di ricordarmi alla memoria di altri: più non ti parlo e più non ti rispondo". Allora storse  gli occhi; guardandomi un poco, e poi chinò la testa: cadde con essa, come gli altri ciechi. E il duca mi disse: "Non si desterà più, prima del suono della tromba angelica, quando verrà il potente nemico: ciascuno rivedrà la sua  infelice tomba, riprenderà il suo corpo ed il suo aspetto, udrà ciò che rimbomberà in eterno". Così passammo attraverso la sozza mistura delle ombre e della pioggia, a passi lenti, parlando un po' della vita futura; per cui io dissi: "Maestro, questi tormenti cresceranno dopo la grande sentenza, saranno minori, o saranno così cocenti?" Ed egli a me: "Ritorna alla tua dottrina, che vuole che tanto più la cosa è perfetta, tanto più si senta il bene, e nello stesso modo il dolore. Tuttavia questa gente maledetta non giungerà mai alla vera perfezione, e l' attende un destino più di qua che di là". Noi percorremmo un tratto del girone, parlando molto di più di quanto non racconto; giungemmo al punto dove degrada al cerchio successivo: qui trovammo Pluto, il grande nemico.

"PROSA CANTO X"

Ora se ne va per un sentiero appartato, tra il muro della città e le tombe, il mio maestro,  ed io lo seguo.   "O somma virtù, che mi conduci per gli empi gironi", cominciai, "come a te piace, parlami e soddisfa ai miei desideri.   Si potrebbe vedere la gente che giace nei sepolcri? Già tutti i coperchi sono sollevati e nessuno fa la guardia".   E quello a me: "Tutti saranno serrati quando torneranno qui da Iosafàt con  i corpi che hanno lasciato là sù.   Da questa parte hanno il loro cimitero con Epicuro tutti i suoi seguaci, che ritengono  l'anima mortale insieme al corpo. Però sarà data subito soddisfazione, qua dentro, a quello che mi chiedi,  e al tuo desiderio, anche se non lo esprimi".   E io: "Buon maestro, non tengo nascosto a te il mio cuore se non per parlar poco, e tu stesso mi hai, non solo ora, disposto a ciò".   "O toscano, che te ne vai vivo per la città del fuoco parlando in modo così chiaro,  ti piaccia soffermarti in questo luogo.   Il tuo parlare ti rivela originario di quella nobile patria alla quale  io fui forse troppo molesto".   Improvvisamente queste parole uscirono da una delle tombe; perciò, temendo, mi strinsi un po' di più alla mia guida.  Ed egli mi disse: "Girati! Che fai? Vedi là Farinata che si è sollevato: lo vedrai tutto, dalla cintola in sù".   Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli si ergeva con il petto e con la fronte  come se avesse l'inferno in gran disprezzo.   E le mani pronte ed energiche del Duca mi spinsero fra le sepolture e lui, dicendo: "Le tue parole siano misurate".   Come io fui ai piedi della tomba, mi guardò  un poco, e poi, quasi sdegnosamente, mi chiese: "Chi furono i tuoi antenati?".   Io che ero desideroso di ubbidire, non glielo nascosi, ma tutto gli dissi; per cui egli sollevò un pò le sopracciglia; poi disse: "Fieramente furono avversi a me, alla mia famiglia, al mio partito, tanto che  per due volte li ho dispersi".   "Se furono cacciati, tornarono da ogni parte", gli risposi, "l'una e l'altra volta; ma i vostri non impararono bene quell'arte".   Allora dall'apertura della tomba scoperchiata sorse un'ombra, lungo la prima, fino al mento: credo che si fosse alzata in ginocchio.   Guardò intorno a me, come se avesse desiderio di vedere se vi erano altri; e dopo che il suo dubbio venne meno,   disse piangendo: "Se vai per questo cieco  carcere per altezza di ingegno, mio figlio dov'è? E perchè non è con te?". Ed io a lui: "Non vengo per mio volere: quello  che mi aspetta là, mi conduce attraverso questi  luoghi che forse il vostro Guido disdegnò".   Le sue parole e la pena che subiva mi avevano già rivelato il nome di colui; perciò la mia risposta fu così completa.   All'improvviso drizzatosi gridò: "Come, dicesti 'egli ebbe'? non vive egli ancora? La dolcSi ricordi che Dante aveva definito magnamimi e luce non colpisce più i suoi occhi?".   Come si accorse che io esitavo nel rispondere, ricadde  supino e non apparve più fuori.   Ma quell'altro grande, per il quale mi ero soffermato, non cambiò atteggiamento,  né volse la testa, né si girò: e continuando il suo discorso di prima disse: "Se essi hanno appreso male quell'arte, ciò mi tormenta più di questo letto   Ma non sarà riaccesa cinquanta volte la faccia della donna che qui regna, che tu saprai quanto è difficile quell'arte..   E, in nome del tuo ritorno nel dolce mondo, dimmi: perchè quel popolo è in ogni sua legge così malvagio contro i miei?".   Per cui gli risposi: "Lo strazio e il grande scempio che colorò di rosso l'Arbia, causa tale atteggiamento nei nostri consigli".   Dopo che ebbe scosso il capo sospirando,  disse: "A far ciò non fui io solo, né certo mi sarei mosso senza motivo insieme agli altri. ma fui solo io, là dove da tutti fu accettato di distruggere Firenze, colui che la difese a viso aperto".   "Deh, in nome del riposo della vostra stirpe", lo pregai, "risolvetemi quel dubbio che ha qui confuso il mio giudizio.   Se ben comprendo, pare che voi prevediate quello che avverrà, mentre non sapete quel che avviene nel presente".   "Noi vediamo le cose che sono lontane come coloro che hanno una cattiva vista", disse, "solo in ciò risplende per noi la somma luce.   Quando si approssimano, o stanno avvenendo, tutto il nostro intelletto è oscuro; e se altri non ci portano notizie, non sappiamo nulla del vostro stato umano.  Perciò puoi capire che la nostra conoscenza sarà tutta morta in quel momento in cui non ci sarà più il futuro".   "Allora, come pentito per una mia colpa, dissi: "ora direte dunque a quel caduto che suo figlio è ancora congiunto con i vivi;   e se io prima non risposi, fategli sapere che lo feci perchè ero già caduto nel dubbio che mi avete risolto".   E già il mio maestro mi richiamava; per cui io pregai lo spirito che più in fretta mi dicesse chi stava con lui.   Mi disse: "Qui giaccio con più di mille: qua dentro ci sono Federico II e il Cardinale; e taccio degli altri".  Quindi si nascose alla vista, ed io  rivolsi i passi verso l'antico maestro, ripensando alla nemica profezia.   Egli si mosse, e poi, così andando, mi disse: "Perchè sei così smarrito?" Ed io risposi alla sua domanda.   "La tua memoria ricordi quel che hai udito contro di te", mi comandò quel saggio. "E ora attendi qui", e alzò il dito:   "quando sari davanti alla dolce luce di colei i cui begli occhi vedono tutto, da lei saprai il cammino della tua vita".   Quindi si volse a sinistra: lasciammo il muro e giungemmo in mezzo per un sentiero che termina in una valle, che ammorbava fin là sù con la sua puzza.

"PROSA CANTO XIII"

Nesso non era ancora arrivato dall'altra parte, quando noi entrammo in un bosco che non era segnato da alcun sentiero. Non fronde verdi, ma di colore scuro; non rami dritti, ma nodosi e storti; non vi eran frutti, ma stecchi con veleno: non hanno sterpi così aspri e così folti quelle selvagge fiere che tra Cecina e Corneto hanno in odio i luoghi coltivati. Qui le brutte Arpie, che cacciarono i troiani dalle Strofadi con triste presagio di danno futuro, fanno i loro nidi. Hanno le ali, i colli e i visi umani, i piedi con gli artigli ed il grande ventre pennuto; emettono strani lamenti sugli alberi. E il buon maestrò cominciò a dirmi: "Prima che più ti inoltri, sappi che sei nel secondo girone, e ci rimmarrai finchè arriverai all'orribile sabbione. Perciò guarda bene; vedrai cose che non crederesti se te le raccontassi". Io sentivo da ogni parte emettere lamenti, e non vedevo nessuno che ne facesse; per la qual cosa, tutto smarrito, mi arrestai. Io credo che egli credette che io credessi che tante voci uscissero, tra quegli sterpi, da gente che si nascondesse alla nostra vista. Perciò il maestro disse: "Se tu strappi qualche ramoscello da una di queste piante, i pensieri che hai si dimostreranno tutti erronei. Allora sporsi un pò la mano e colsi un ramoscello da un grande pruno; e il suo tronco gridò: "Perchè mi schianti?". Dopo che divenne scuro di sangue, ricominciò a dire: "Perchè mi strappi? non hai nessuno spirito di pietà? Fummo uomini ed ora siamo fatti sterpi: la tua mano dovrebbe ben essere più pietosa, se fossimo state anime di serpenti". Come un tizzone verde che sia arso da uno dei capi, e che geme dall'altro e cigola per l'aria che ne esce, così dalla scheggia rotta uscivano insieme parole e sangue; per cui io lasciai cadere la cima, e stetti come un uomo che abbia paura. "Se egli avesse potuto credere prima", rispose il mio saggio, "o anima ferita, ciò che ha pur visto nei miei versi, non avrebbe steso la sua mano su di te; ma la cosa incredibile mi costrinse ad indurlo ad un'azione che pesa anche a me. Ma digli chi tu fosti, così che al posto di qualche ammenda rinfreschi la tua fama su nel mondo, dove gli è possibile tornare". E il tronco: "Tanto mi adeschi con le dolci parole, che io non posso tacere; non vi pesi perchè io un pò mi trattenga nel parlare. Io sono colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico, e che le girai, chiudendo ed aprendo, così soavemente, che estromisi quasi tutti gli altri dalla sua confidenza: fui fedele al glorioso compito, tanto da perderci ogni mia energia, fisica e spirituale. La meretrice, che non distolse mai dalla casa di Cesare gli occhi puttani, comune morte e vizio delle corti, infiammò contro di me tutti gli animi; e gli animi infiammati infiammarono Augusto tanto, che i lieti onori si trasformarono in tristi lutti. Il mio animo, per orgoglio, credendo di fuggire il disdegno con la morte, rese me giusto ingiusto contro di me. In nome delle strane radici di questo legno vi giuro che mai tradii il mio signore, che fu così degno di onore. E se qualcuno di voi ritorna nel mondo, conforti il mio ricordo, che giace ancora per il colpo che gli diede l'invidia". Stette un po' in silenzio, e poi mi disse il poeta: "Poichè egli tace non perdere l'occasione; ma parla, e chiedigli, se ti piace sapere di più". Per cui io gli risposi: "Chiedi tu ancora, di ciò che credi mi soddisfi; chè io non potrei, tanta è la pietà che mi accora". Perciò ricominciò: "Se si faccia spontaneamente ciò che le tue parole chiedono, spirito incarcerato, ancora ti piaccia dirci come l'anima si lega in questi nodi; e dicci, se puoi, se qualcuna mai si svincola da queste membra". Allora il tronco soffiò forte, e poi quel vento si trasformò in tali parole: "Brevemente vi sarà risposto Quando l'anima feroce si separa dal corpo dal quale essa stessa si è strappata, Minosse la manda al settimo cerchio. Cade nella selva, e non vi è un luogo preordinato; ma là dove la fortuna la scaglia, qui germoglia come un seme di biada. Crescendo si sviluppa in virgulto e poi in pianta silvestre: le Arpie, cibandosi poi delle sue foglie, provocano dolore, e finestra per il dolore. Come le altre anime verremo (il giorno del Giudizio), ma senza però che alcuna se ne rivesta, perchè non è giusto avere ciò di cui ci si priva. Trascineremo qui le nostre spoglie, e i nostri corpi saranno appesi per la mesta selva, ciascuno al pruno della sua molesta anima". Noi eravamo ancora attenti al tronco, credendo che volesse dirci altro, quando fummo sorpresi da un rumore, come colui che sente venire il porco e la caccia al suo inseguimento, che sente le bestie e sente stormire le fronde. Ed ecco due dal lato sinistro, nudi e graffiati, fuggendo così forte che rompevano ogni ostacolo frapposto dalla selva. Quello davanti: "Ora vieni, vieni, morte!". E l'altro, al quale sembrava di tardare troppo, gridava: "Lano, non furono così accorte le tue gambe alle giostre del Toppo!" E poi che forse gli mancò il respiro, si gettò in un cespuglio facendosene un mucchio. Dietro a loro la selva era piena di nere cagne, bramose e correnti come cani sciolti dalla catena. Misero i denti in quello che si era fermato, e quello lacerarono brano a brano; poi si portarono via quelle membra dolenti. Allora la mia scorta mi prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva, per le rotture sanguinanti invano. "O Iacopo di Santo Andrea - diceva - a che ti è servito farti schermo di me? che colpa ho io della tua vita malvagia?". Quando il maestro fu fermo sopra di lui, disse: "Chi fosti, che attraverso tante ferite soffi insieme al sangue parole dolorose?" Ed egli a noi: "O anime che siete giunte a vedere lo strazio disonesto che ha così disgiunto da me le mie fronde, raccoglietele ai piedi del triste cespuglio. Io fui della città che mutò il suo primo patrono con Giovanni Battista; egli per tal motivo sempre la farà triste con la sua arte; e se non fosse che in un ponte dell'Arno rimane ancora qualche immagine di lui quei cittadini che poi la rifondarono sulla cenere che rimase dopo Attila, avrebbero fatto lavorare inutilmente. Io mi impiccai a casa mia.

"PROSA CANTO XIII"

Nesso non era ancora arrivato dall'altra parte, quando noi entrammo in un bosco che non era segnato da alcun sentiero. Non fronde verdi, ma di colore scuro; non rami dritti, ma nodosi e storti; non vi eran frutti, ma stecchi con veleno: non hanno sterpi così aspri e così folti quelle selvagge fiere che tra Cecina e Corneto hanno in odio i luoghi coltivati. Qui le brutte Arpie, che cacciarono i troiani dalle Strofadi con triste presagio di danno futuro, fanno i loro nidi. Hanno le ali, i colli e i visi umani, i piedi con gli artigli ed il grande ventre pennuto; emettono strani lamenti sugli alberi. E il buon maestrò cominciò a dirmi: "Prima che più ti inoltri, sappi che sei nel secondo girone, e ci rimmarrai finchè arriverai all'orribile sabbione. Perciò guarda bene; vedrai cose che non crederesti se te le raccontassi". Io sentivo da ogni parte emettere lamenti, e non vedevo nessuno che ne facesse; per la qual cosa, tutto smarrito, mi arrestai. Io credo che egli credette che io credessi che tante voci uscissero, tra quegli sterpi, da gente che si nascondesse alla nostra vista. Perciò il maestro disse: "Se tu strappi qualche ramoscello da una di queste piante, i pensieri che hai si dimostreranno tutti erronei. Allora sporsi un pò la mano e colsi un ramoscello da un grande pruno; e il suo tronco gridò: "Perchè mi schianti?". Dopo che divenne scuro di sangue, ricominciò a dire: "Perchè mi strappi? non hai nessuno spirito di pietà? Fummo uomini ed ora siamo fatti sterpi: la tua mano dovrebbe ben essere più pietosa, se fossimo state anime di serpenti". Come un tizzone verde che sia arso da uno dei capi, e che geme dall'altro e cigola per l'aria che ne esce, così dalla scheggia rotta uscivano insieme parole e sangue; per cui io lasciai cadere la cima, e stetti come un uomo che abbia paura. "Se egli avesse potuto credere prima", rispose il mio saggio, "o anima ferita, ciò che ha pur visto nei miei versi, non avrebbe steso la sua mano su di te; ma la cosa incredibile mi costrinse ad indurlo ad un'azione che pesa anche a me. Ma digli chi tu fosti, così che al posto di qualche ammenda rinfreschi la tua fama su nel mondo, dove gli è possibile tornare". E il tronco: "Tanto mi adeschi con le dolci parole, che io non posso tacere; non vi pesi perchè io un pò mi trattenga nel parlare. Io sono colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico, e che le girai, chiudendo ed aprendo, così soavemente, che estromisi quasi tutti gli altri dalla sua confidenza: fui fedele al glorioso compito, tanto da perderci ogni mia energia, fisica e spirituale. La meretrice, che non distolse mai dalla casa di Cesare gli occhi puttani, comune morte e vizio delle corti, infiammò contro di me tutti gli animi; e gli animi infiammati infiammarono Augusto tanto, che i lieti onori si trasformarono in tristi lutti. Il mio animo, per orgoglio, credendo di fuggire il disdegno con la morte, rese me giusto ingiusto contro di me. In nome delle strane radici di questo legno vi giuro che mai tradii il mio signore, che fu così degno di onore. E se qualcuno di voi ritorna nel mondo, conforti il mio ricordo, che giace ancora per il colpo che gli diede l'invidia". Stette un po' in silenzio, e poi mi disse il poeta: "Poichè egli tace non perdere l'occasione; ma parla, e chiedigli, se ti piace sapere di più". Per cui io gli risposi: "Chiedi tu ancora, di ciò che credi mi soddisfi; chè io non potrei, tanta è la pietà che mi accora". Perciò ricominciò: "Se si faccia spontaneamente ciò che le tue parole chiedono, spirito incarcerato, ancora ti piaccia dirci come l'anima si lega in questi nodi; e dicci, se puoi, se qualcuna mai si svincola da queste membra". Allora il tronco soffiò forte, e poi quel vento si trasformò in tali parole: "Brevemente vi sarà risposto Quando l'anima feroce si separa dal corpo dal quale essa stessa si è strappata, Minosse la manda al settimo cerchio. Cade nella selva, e non vi è un luogo preordinato; ma là dove la fortuna la scaglia, qui germoglia come un seme di biada. Crescendo si sviluppa in virgulto e poi in pianta silvestre: le Arpie, cibandosi poi delle sue foglie, provocano dolore, e finestra per il dolore. Come le altre anime verremo (il giorno del Giudizio), ma senza però che alcuna se ne rivesta, perchè non è giusto avere ciò di cui ci si priva. Trascineremo qui le nostre spoglie, e i nostri corpi saranno appesi per la mesta selva, ciascuno al pruno della sua molesta anima". Noi eravamo ancora attenti al tronco, credendo che volesse dirci altro, quando fummo sorpresi da un rumore, come colui che sente venire il porco e la caccia al suo inseguimento, che sente le bestie e sente stormire le fronde. Ed ecco due dal lato sinistro, nudi e graffiati, fuggendo così forte che rompevano ogni ostacolo frapposto dalla selva. Quello davanti: "Ora vieni, vieni, morte!". E l'altro, al quale sembrava di tardare troppo, gridava: "Lano, non furono così accorte le tue gambe alle giostre del Toppo!" E poi che forse gli mancò il respiro, si gettò in un cespuglio facendosene un mucchio. Dietro a loro la selva era piena di nere cagne, bramose e correnti come cani sciolti dalla catena. Misero i denti in quello che si era fermato, e quello lacerarono brano a brano; poi si portarono via quelle membra dolenti. Allora la mia scorta mi prese per mano, e mi condusse al cespuglio che piangeva, per le rotture sanguinanti invano. "O Iacopo di Santo Andrea - diceva - a che ti è servito farti schermo di me? che colpa ho io della tua vita malvagia?". Quando il maestro fu fermo sopra di lui, disse: "Chi fosti, che attraverso tante ferite soffi insieme al sangue parole dolorose?" Ed egli a noi: "O anime che siete giunte a vedere lo strazio disonesto che ha così disgiunto da me le mie fronde, raccoglietele ai piedi del triste cespuglio. Io fui della città che mutò il suo primo patrono con Giovanni Battista; egli per tal motivo sempre la farà triste con la sua arte; e se non fosse che in un ponte dell'Arno rimane ancora qualche immagine di lui quei cittadini che poi la rifondarono sulla cenere che rimase dopo Attila, avrebbero fatto lavorare inutilmente. Io mi impiccai a casa mia.



Canto

anno: 1300

Inferno

personaggi

contrappasso

Canto 1

giovedì 7 aprile, venerdì santo 8 aprile, alba

selva oscura, colle

Dante, Virgilio

Introduzione generale alla Divina Commedia; Dante si risveglia in una selva oscura; lince, leone, lupa, il colle illuminato alle spalle dai raggi del sole; apparizione di Virgilio

Comincia la prima parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Inferno, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze, e di quella prima parte il canto primo. Nel quale l'autore mostra sé smarrito in una valle e impedito da tre bestie, e come Virgilio, apparitogli, se gli offerse per duca a trarlo di quel luogo, mostrandogli per qual via.

Canto 3

venerdì santo 8 aprile, sera

Antinferno, Riviera d'Acheronte

Dante, Virgilio, Caronte

Ignavi, vissuti sanza infamia e sanza lodo, insensibili a ogni forma di interesse politico o religioso, sono umiliati nella loro nudità, costretti a inseguire un'insegna senza significato mentre sono tormentati a sangue da mosconi e vespe; anime in attesa di traghettare, terremoto, svenimento di Dante

Comincia il canto terzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore mostra come in quello entrasse e vedesse i cattivi piagnendo correr forte, trafitti da vespe e da mosconi; e appresso come molte anime s'adunavano alla riva d'Acheronte, le quali tutte Caron passava, ma lui passar non volle.

Canto 5

venerdì santo 8 aprile, ultime ore

cerchio II, lussuriosi, landa battuta dal vento

Minosse, Paolo e Francesca

Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Paride, Tristano; i lussuriosi hanno ricercato la soddisfazione dei sensi contro ogni regola, abbandonandosi alla passione carnale, sottomettendo la ragione al talento: li colpisce un vento furioso che non conosce sosta trascinandoli rovinosamente per tutto il girone.

Comincia il canto quinto dello 'Nferno. Nel quale l'autore, discendendo nel secondo cerchio, truova Minos, e appresso i peccator carnali da aspro vento percossi; e quivi con madonna francesca da Polenta parla, e ode come con Paolo de' Malatesti si congiugnesse in amore.

Canto 6

venerdì santo 8 aprile, verso la mezzanotte

cerchio III

Ciacco, Cerbero

golosi: una pioggia incessante di acqua sporca, neve e grandine cade sulla terra che esala fetore; sui dannati infierisce Cerbero, graffiandoli, scuoiandoli e squartandoli.

Comincia il canto sesto dello 'Nferno. Nel quale l'autor discende nel terzo cerchio, nel quale sotto greve pioggia son tormentati i gulosi. Quivi truova Cerbero, e parla con Ciacco, il quale gli predice cose future a' fiorentini divisi.

Canto 10

sabato 9 aprile, verso le 4 del mattino

cerchio VI, eretici, vasta pianura

Farinata degli Uberti, Cavalcante de' Cavalcanti, Federico II, Ottaviano degli Ubertini

eretici: sepolti nelle arche infuocate a seconda della setta di appartenenza

Comincia il canto decimo dello 'Nferno. Nel quale l'autor parla con Farinata, il quale alcuna cosa gli predice, e solvegli alcun dubbio.

Canto 13

sabato 9 aprile, verso l'alba

cerchio VII, girone 2°: violenti contro se stessi, bosco senza sentiero con alberi privi di foglie e rami contorti

Arpie, Pier delle Vigne, un suicida fiorentino, Lano da Siena, Iacopo da Sant'andrea

violenti contro se stessi: i suicidi sono trasformati in alberi e le Arpie, facendo scempio delle foglie, li straziano; gli scialacquatori corrono fra gli arbusti per sfuggire ai morsi di cagne insaziabili, dalle quali vengono, una volta raggiunti, divorati a brano a brano

Comincia il canto decimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in bronchi, di ciò parlando con Pier dalle Vigne, e appresso coloro li quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati da cagne nere.


Canto 26

sabato 9 aprile, all'ora di mezzogiorno

cerchio VIII, bolgia VIII, immersa in un profondo silenzio e avvolta da fitto buio, in cui lampeggiano le fiamme che nascondono le anime dei dannati.

Ulisse

consiglieri fraudolenti: posero la loro intelligenza non al servizio della verità ma della frode e dell'inganno e sono condannati a stare avvolti da una fiamma che risplende vivamente.

Comincia il canto vigesimosesto dello 'Nferno. Nel quale mostra l'autore come pervenne all'ottava bolgia, nella quale dice esser puniti i frodolenti consiglieri in fiamme di fuoco; e quivi ode da Ulisse il fine suo.



Canto 33

sabato 9 aprile, circa le sei pomeridiane

cerchio IX, zona I, Antenòra: il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito;

cerchio IX, zona 3, Tolomèa, il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito.

Antenòra, Ugolino della Gherardesca, Ruggieri degli Ubaldini; Tolomèa frate Alberigo, Branca d'Oria.

cerchio IX, zona I, Antenòra: traditori della patria, immersi nel ghiaccio dal quale emergono con la testa; piangono tenendo il capo rivolto in giù, ma le lacrime che sgorgano dagli occhi si ghiacciano subito costringendoli a tenerli sempre chiusi;
cerchio IX, zona 3, Tolomèa, traditori degli ospiti, immersi nel ghiaccio in posizione supina, per cui le lagrime ristagnano negli occhi e si ghiacciano immediatamente, tanto da impedire l'uscita di altre lacrime, le quali, non trovando sbocco, si riversano all'interno, acuendone il dolore.

Comincia il canto trigesimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, udita la ragione e 'l modo della morte del conte Ugolino, procedendo nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader l'anime, parendo qua sù ancora il corpo vivo.







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