Inferociti per lo smacco subito, i
Malebranche inseguono i due pellegrini, ma questi riescono a porsi in salvo
calandosi per il dirupo che porta nella sesta bolgia. Qui una folla di anime,
quelle degli ipocriti, avanza a passi lentissimi, oppressa da pesanti cappe
di piombo, tutte dorate esteriormente. Due dei dannati pregano Dante e
Virgilio di sostare ed uno, invitato dal Poeta, parla di sé e del compagno e
accenna alla loro colpa: bolognesi e frati Gaudenti entrambi, ricoprirono
insieme a Firenze la carica di podestà, con il compito di riportare la pace
fra i partiti. I risultati della loro doppiezza sono ancora visibili nei
pressi del Gardingo, dove un tempo sorgevano le dimore degli Uberti, poi rase
al suolo. Dante di nuovo rivolge loro la parola, ma all'improvviso tace,
poiché il suo sguardo si ferma su un peccatore crocifisso a terra per mezzo
di tre pali. Uno dei due frati Gaudenti gli spiega che si tratta del gran
sacerdote Caifas, il quale suggerì al Farisei di suppliziare e uccidere
Cristo 454f55e ; poi rivela che nessun ponte scavalca la sesta bolgia. Malacoda ha
dunque mentito. Virgilio, crucciato, si allontana a gran passi, seguito dal
discepolo.
Anche
nell'episodio degli ipocriti sarebbe presente, secondo alcuni studiosi
(Sannia, V. Rossi), quell'elemento comico che costituisce la tonalità
principale dell'intermezzo - fondamentalmente spensierato e alieno dal
definirsi nei termini consueti dell'ethos e della religiosità danteschi, pur
senza contrastare con questi ultimi - dei canti XXI e XXII. Secondo questo
punto di vista la commedia degli ipocriti non ha, né del resto potrebbe
avere, dato il carattere dei suoi protagonisti, l'evidenza rude e immediata
che caratterizza quella dei barattieri. La comicità di questo episodio
richiederebbe, per essere assaporata in tutte le sue sfumature, una lettura
volta a cogliere, oltre l'evidenza delle immagini, il sottile gioco di
sottintesi che Dante sarebbe riuscito a celare in questa sua pagina e
risulterebbe, più che dall'insieme dell'episodio, da una somma di
particolari. Questi, illuminandosi a vìcenda, sarebbero in grado di svelarci
lo stato d'animo con il quale il Poeta avrebbe immaginato lo spettacolo della
sesta bolgia e il suo incontro con i due frati Gaudenti. E' pertanto sui
particolari che questi critici hanno fermato la loro attenzione, isolandoli,
al fine di legittimare la loro tesi, dal contesto in cui sono inseriti.
Per il Sannia, ad esempio, l'invocazione con cui uno dei due podestà
bolognesi si rivolge a Dante e Virgilio (tenete i piedi ... ) avrebbe un
sapore comico, comico essendo il contrasto fra la sua "smania del
pervenire e la tardità forzata" laddove V. Rossi scrive, sempre a
proposito di questa invocazione, che "Catalano fa, senza volerlo, la
caricatura del suo tartarughesco andare".
E' invece evidente, a chiunque legga questo canto senza preconcetti, che in
esso riaffiora solenne, maestoso, reso più grave dal ritmo lento delle
terzine - in cui pare riflettersi qualcosa del penoso incedere degli ipocriti
- il motivo del sovrannaturale rìmasto in ombra nei due canti precedenti e
che, tra l'altro, l'invocazione dei versi 77-78, lungi dall'essere
caricaturale, è tragica, sconsolata.
Come è assurdo il voler riscontrare spunti comici - a meno di definire comica
la paradossalità, nella quale si esprime tragicamente una giustizia superiore
a quella umana, della condizione dei dannati - nella pena avvilente dei
sodomiti del canto XVI, e nel modo in cui alcuni di essi, gli artefici della
grandezza di Firenze, parlano del loro stato, altrettanto assurdo è il voler
trovare, nell'episodio della sesta bolgia, un'intenzione beffarda o
caricaturale non riconducibile a quelle che sono le costanti morali e
religiose del pensiero del Poeta.
Il motivo del sovrannaturale si manifesta anzitutto nella forma del
contrappasso, nella quale appare eccessiva sottigliezza scorgere anzitutto
un'espressione di ipocrita ironia verso coloro che in vita fecero
dell'ípocrisia la loro arma, la loro abitudine. Considerazioni del genere si saranno
forse imposte al Poeta, ma come motivo marginale, come tema astratto: il
ritmo e le immagini delle sue terzine le hanno relegate in secondo piano.
Nella pena degli ipocriti non sfavilla infatti un atteggiamento ironico - e
quindi necessariamente scettico e indulgente - nei confronti delle umane
debolezze, ma si afferma, dolorosa, intransigente, una certezza che non
conosce remissioni. La grandezza di Dante, qui come altrove, sta nel
condividere, da uomo, il dolore dei dannati, senza che per questo la sua fede
nella giustizia divina risulti incrinata o scossa. Come nel canto XVI, anche
nel XXIII la degradazione dei dannati è suggerita attraverso una metafora che
li riduce a strumenti (le bilance) e attraverso la sottolineatura dei
particolare fisico considerato a sé (ad ogni mover d'anca... tenete i
piedi... all'atto della gola), né diversamente che in quello il sentimento di
Dante è di pena per lo spettacolo che si dispiega sotto i suoi occhi e di
reverenza per Colui che ne è l'autore.
Un acuto lettore di questo canto, il Bertoni, lo ha definito "il canto
della stanchezza e della malinconia", rilevando che nell'episodio degli
ipocriti "il terrore cede il posto a un senso di scoramento e di pena e
al movimento è sostituita una gravosa lentezza" e caratterizzando questi
dannati, dopo aver messo in luce la somiglianza del loro castigo con quello
dei superbi e degli invidiosi della seconda cantica, come degli
"umiliati e vinti, incapaci di pronunziare una parola che provochi ira o
disgusto". Sempre per il Bertoni "nel contrasto fra l'impaccío dei
dannati e la sollecitudine e la fretta di raggiungere presto i due poeti e
nel loro sguardo bieco" non c'è nessun tratto umoristico, "ma
piuttosto il segno di un desiderio vano di sollievo e di liberazione in tanta
e così penosa costrizione". In termini analoghi si esprime un altro
critico, il Bonora, per il quale, tra l'altro, la preghiera rivolta da uno
dei due frati Gaudenti a Dante e Virgilio ha "solo il valore di quei
suoni che rendono più assorta un'atmosfera di silenzio", per cui nelle
loro parole si avvertirebbe "solo la vibrazione della fatica disumana
cui sottostanno questi incappucciati". Anche nelle parole che Dante
rivolge loro - o frati, i vostri mali... - il Bonora scorge "il medesimo
senso di soffocazione" che è caratteristico di tutta la seconda parte
del canto: in questa infatti si riflette "quel sentimento dì dolore che
non ha voce per esprimersi, quella fatica immensa" che "trovano la
loro compiuta figurazìone nel versi rallentati, scanditi dalla successione
faticosa dei gruppi consonantici", con cui l'episodio degli ipocriti si
apre.
Il canto XXIII è una pagina caratterizzata da una fortissima unità tonale,
nella quale la definizione di una diffusa atmosfera di tristezza, di
silenzio, di angosciata rassegnazione prevale sulla caratterizzazione
drammatica e psicologica di personaggi e situazioni. Per questo soltanto la
critica più recente, non più condizionata dalle premesse che furono proprie
degli orientamenti romantici e positivisti, è riuscita ad intenderlo nella
concretezza dei suoi esiti espressivi.
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