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IL TEATRO COMICO DI GOLDONI

letteratura



IL TEATRO COMICO DI GOLDONI


Oramai consapevole, una volta iniziata la collaborazione con il teatro Sant'Angelo e la compagnia di Medebac, di aver avviato un percorso coerente all'interno dei meccanismi testuali della commedia, Goldoni si riserva nel Teatro comico, andato in scena il 5 ottobre 1750, uno spazio teorico e autopoietico del tutto particolare. Contemporaneamente egli andava curando la stampa della prima edizione delle Commedie per il tipografo-editore Bettinelli, introdotta da un secondo importante documento di poetica, 929b11j la lunga Prefazione in cui l'autore metteva a punto i principi generali di un efficace quanto maturo work in progress. Ancora lontano dall'essere pienamente attuata e risolta, la riforma goldoniana trovava comunque, in questi primi due documenti, un fondamentale punto di equilibrio e di svolta.

Senza contare che la sperimentazione sarà resa possibile grazie al contratto con il Medebac e con il ritorno di Goldoni a Venezia, alla fine del quinquennio toscano: se al Teatro comico è riservata una funzione didascalica ed esplicativa, alle commedie che le fanno da corredo nelle vicinanze più immediate, come La vedova scaltra (rappresentata per il Carnevale del 1748), La putta onorata, La famiglia dell'antiquario, spetta invece il compito di realizzare concretamente le intenzioni di un nuovo teatro di carattere, senza le maschere e tutto giocato sulle capacità di interpretazione psicologica dei personaggi.

Goldoni intravede nel capocomico del Sant'Angelo, Girolamo Medebac, il possibile e più maturo strumento della sua riforma, il principale destinatario e insieme interlocutore privilegiato dei suoi lavori: nell'intreccio del Teatro comico è proprio il capocomico Ottavio (poi divenuto Orazio nell'edizione Paperini) a condurre la discussione intorno ai modi di una riforma che si preannuncia in atto ma che Goldoni vuole comunque condurre con attenzione e moderazione, senza strappi violenti ma secondo un progetto di educazione al nuovo modulo. A proposito delle maschere, Ottavio-Goldoni mostra ad esempio un'estrema prudenza nel sovvertire una consolidata tradizione: "Guai a noi, se facessimo una tal novità: non è ancor tempo di farla. In tutte le cose non è da mettersi di fronte contro all'universale. Una volta il popolo andava alla commedia solamente per ridere, e non voleva vedere altro che le maschere in iscena, e se le parti serie avevano un dialogo un poco lungo, s'annoiavano immediatamente; ora si vanno avvezzando a sentir volentieri le parti serie, e godono le parole, e si compiacciono degl'accidenti, e gustano la morale, e ridono dei sali, e dei frizzi, cavati dal serio medesimo, ma vedono volentieri anco le maschere, e non bisogna levarle del tutto, anzi convien cercare di bene allogarle, e di sostenerle con merito nel loro carattere ridicolo anco a fronte del serio più lepido, e più grazioso".



Quella che si mostrava all'orizzonte era una trasformazione globale della messinscena, a partire dal testo per coinvolgere gli stessi attori, affidando loro una funzione decisiva per quanto riguardava la riuscita dello spettacolo. Decretando la morte del gesto atletico del saltimbanco, delle "sconce Arlecchinate", dei "laidi e scandalosi amoreggiamenti e motteggi", Goldoni offriva al teatro d'autore la possibilità di un riscatto autentico, in grado di coinvolgere il capocomico, gli attori, le maestranze, i musici: inaccettabile la permanenza della maschera, oggetto di una costante erosione di quei caratteri che essa aveva stilizzato, almeno nel percorso di una teatralità che mirasse progressivamente alla rappresentazione della natura, e quindi di una realtà sociale diretta, senza mediazioni di sorta. Certo, non era facile convincere gli attori a un cambiamento di rotta, a un mutamento radicale del loro costume, così a lungo esercitato per due secoli sui repertorî dell'arte: nel primo atto della commedia, nelle parole di Pantalone (poi Tonino nella versione per la Paperini), questa preoccupazione pare urgente. "Le commedie de carattere le ha butà sottosora el nostro mistier. Un povero commediante, che ha fatto el so studio segondo l'arte, e che ha fatto l'uso de dir all'improvviso ben o mal quel che vien, trovandose in necessità de studiar, e de dover dir el premedità, se el gh'ha reputazion, bisogna, che el ghe pensa, bisogna, che el se sfadiga a studiar, e che el trema sempre ogni volta, che se fa una niova commedia, dubitando, o de no saverla quanto basta, ode no sostegnir el carattere come xè necessario".

"Il Teatro Comico, - scrive Goldoni nella Lettera allo stampatore - piuttosto che una Commedia, è una Prefazione alle mie Commedie [...]. Io ho in essa palesemente notati tutti que' difetti, che ho cercato di fuggire, e tutti que' fondamenti sopra i quali ho stabilito il mio metodo nel comporre le Commedie". Attraverso l'espediente della commedia nella commedia, che aveva avuto numerosi e illustri precedenti, da Shakespeare (con Hamlet) a Molière (in L'Impromptu de Versailles), Goldoni mette in campo una funzione della metateatralità per sviluppare una precisa articolazione dei meccanismi teorici e strategici. Ciò gli ha consentito di realizzare nell'opera un processo di distanziamento tra la vicenda da rappresentare e i materiali letterari in corso di elaborazione. I personaggi-attori annunciano la prossima realizzazione, da parte del poeta "che somministra a noi le commedie", di sedici commedie "tutte nove, tutte di carattere, tutte scritte"; quindi svolgono un discorso sulle regole e le novità del teatro di carattere, in particolare nel secondo atto, dove la vexata quaestio verte sulla necessità di recuperare uno "stil familiare, naturale, e facile, per non distaccarsi dal verisimile" e ha come sfondo la polemica contro il gusto secentista "pieno d'antitesi, e di traslati".




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