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Dan Brown - Il simbolo perduto 1

letteratura



Dan Brown - Il simbolo perduto 1

Ringraziamenti

Il mio sentito grazie va a tre cari amici con i quali ho il grande privilegio di lavorare: il mio editor, Jason Kaufman, la mia agente, Heide Lange, e il mio consulente, Michael Rudell. Vorrei inoltre esprimere tutta la mia gratitudine alla Doubleday, ai miei editori nel mondo e, naturalmente, ai miei lettori.

Questo romanzo non sarebbe mai stato scritto senza la generosa collaborazione di molte persone che hanno condiviso con me le loro conoscenze ed esperienze. A tutti voi va la mia profonda riconoscenza.


"Vivere nel mondo senza avere consapevolezza del suo significato è come vagabondare in una immensa biblioteca senza neppure toccare un libro."

The Secret Teachings of All Ages


PROLOGO




House of the Temple 20.33

Il segreto è come si muore.

Fin dal principio dei tempi, il segreto è sempre stato come si muore.

L'iniziato, che aveva trentaquattro anni, guardò il teschio umano che teneva fra le mani come una coppa. Era pieno di vino rosso sangue.

Bevilo, si disse. Non c'è nulla di cui aver paura.

Come richiesto dalla tradizione, aveva cominciato il suo viaggio indossando le vesti rituali dell'eretico medievale condotto al patibolo: la tunica aperta sul petto chiaro, il calzone sinistro arrotolato sopra il ginocchio, la manica destra rimboccata fino al gomito e un grosso cappio intorno al collo. Quella sera, invece, come gli affiliati che assistevano al cerimoniale, era vestito da maestro.

I fratelli intorno a lui avevano grembiuli di pelle d'agnello, fasce e guanti bianchi, e al collo portavano gioielli cerimoniali che brillavano come occhi spettrali nella luce fievole. Molti di loro ricoprivano cariche prestigiose nella vita, ma l'iniziato sapeva che tra quelle mura la posizione sociale non aveva alcuna importanza.

Lì erano tutti uguali, fratelli uniti da un legame mistico, da un giuramento solenne.

Mentre osservava quello straordinario consesso, l'iniziato pensò che nessuno avrebbe mai immaginato di vedere riunita quell'assemblea, e meno che mai in quel luogo. La sala pareva un antico santuario.

Ma la verità era ancora più strana.

Mi trovo a pochi isolati dalla Casa Bianca.

Il monumentale edificio, al civico 1733 di Sixteenth Street NW a Washington, ricalcava un tempio precristiano, il tempio di re Mausolo ad Alicarnasso - il primo "mausoleo" - costruito per ospitare le spoglie del defunto monarca. Ai lati dell'ingresso principale, due sfingi di diciassette tonnellate facevano la guardia al portone di bronzo. L'interno era un labirinto riccamente decorato di camere rituali, corridoi, sotterranei, biblioteche e persino una parete cava dietro la quale erano murati due scheletri. L'iniziato era stato informato che ogni stanza di quell'edificio racchiudeva un segreto, ma lui non ne conosceva nessuna che potesse racchiudere segreti più arcani della sala gigantesca in cui era inginocchiato quella sera, con un teschio fra le mani.

La Sala del Tempio.

Era perfettamente quadrata, alta trenta metri, con il soffitto sostenuto da colonne monolitiche di granito verde. Vi erano sistemate file e file di sedie di noce russo, scure, rivestite di pelle di cinghiale. Sul lato ovest c'era un trono alto dieci metri, di fronte a un organo a canne nascosto. Le pareti erano un caleidoscopio di antichi simboli egizi, ebraici, astronomici, alchemici e di altro genere, ancora tutti da scoprire.

Quella sera la Sala del Tempio era illuminata da una serie di ceri sistemati con grande precisione. Al loro cupo bagliore si aggiungeva il pallido riflesso lunare che entrava dal grande lucernario nel soffitto e illuminava l'arredo più impressionante di tutta la stanza, un enorme altare ricavato da un unico blocco di marmo nero del Belgio, al centro esatto del pavimento perfettamente quadrato.

Il segreto è come si muore, si ripete l'iniziato.

«È ora» sussurrò una voce.

L'iniziato lasciò che il suo sguardo salisse verso la figura vestita di bianco in piedi davanti a lui, il Venerabilissimo Maestro. L'uomo, vicino alla sessantina, era un'icona americana, stimato, energico e immensamente ricco. I suoi capelli, un tempo scuri, stavano ingrigendo, e il suo volto celebre esprimeva grande intelligenza e autorevolezza.

«Presta giuramento» disse il Venerabilissimo Maestro con voce suadente, soffice come neve. «Completa il tuo viaggio.»

Il viaggio dell'iniziato era cominciato dal primo grado, come sempre. Allora, con un rito simile, il Venerabilissimo Maestro gli aveva infilato un cappuccio di velluto e, puntandogli un pugnale sul petto nudo, gli aveva chiesto: "Dichiari sul tuo onore, con serietà e senza motivazioni mercenarie o altrimenti indegne, di offrirti liberamente e di tua spontanea volontà a questa fratellanza, per venire messo a parte dei suoi misteri e privilegi?".

"Mi offro" aveva risposto l'iniziato. Ma era una menzogna.

"Che questo sia di stimolo alla tua coscienza, giacché se mai tradirai i segreti che verranno a te rivelati, la tua morte sarà immediata."

All'epoca, l'iniziato non aveva provato alcun timore. Non verranno mai a sapere le mie vere intenzioni.

Quella sera, tuttavia, gli sembrava che l'atmosfera solenne della Sala del Tempio fosse carica di cupi presagi, e gli tornarono in mente gli avvertimenti ricevuti nel corso del viaggio, le minacce di terribili conseguenze nel caso avesse mai rivelato gli antichi segreti di cui stava per venire a conoscenza. Gole squarciate... lingue recise alla radice... viscere estratte e bruciate... sparse ai quattro venti... cuori strappati dal petto e dati in pasto alle fiere...

«Fratello» disse il Venerabilissimo Maestro dagli occhi grigi, posando la mano sinistra sulla spalla dell'iniziato. «Presta il giuramento finale.»

L'uomo si preparò a compiere l'ultimo passo del suo viaggio iniziatico, si spostò lievemente e abbassò lo sguardo sul teschio che teneva fra le mani. Il vino, alla luce delle candele, pareva quasi nero. Nella sala regnava un silenzio di tomba e lui si sentiva addosso lo sguardo di tutti i presenti, in attesa che prestasse il giuramento finale ed entrasse a far parte della loro cerchia ristretta.

Stasera, pensò l'iniziato,fra queste mura sta avvenendo qualcosa che mai ha avuto luogo in tutta la storia della fratellanza, in tutti i secoli dei secoli.

Sapeva che sarebbe stata la prima scintilla... e che gli avrebbe dato un potere incommensurabile. Pervaso da una nuova energia, fece un profondo respiro e pronunciò ad alta voce le stesse parole che innumerevoli uomini prima di lui avevano pronunciato in tutto il mondo.

«Possa il vino che sto per bere trasformarsi in mortale veleno se mai violerò il mio giuramento, consapevolmente o inconsapevolmente.»

Le sue parole risuonarono nell'enorme sala.

Poi scese il silenzio.

Con mano ferma, l'iniziato avvicinò il teschio alla bocca e lo sfiorò con le labbra. Poi chiuse gli occhi e lo inclinò, bevendo il vino in lunghe sorsate. Quando l'ebbe finito, abbassò di nuovo il teschio.

Per un attimo provò una strana costrizione al petto e il cuore prese a battergli all'impazzata. Mio Dio, mi hanno scoperto! Poi, veloce com'era venuta, quella sgradevole sensazione scomparve e un piacevole calore lo invase.

Fece un sospiro e sorrise fra sé guardando l'uomo dagli occhi grigi che, senza sospettare nulla, lo aveva incautamente ammesso nella cerchia più ristretta della fratellanza.

Presto perderai ciò che hai di più caro al mondo.


L'ascensore Otis, gremito di turisti, saliva lungo il pilone sud della Tour Eiffel. Tra i visitatori assiepati, un austero uomo d'affari in un elegante completo guardava il ragazzo al suo fianco. "Come sei pallido, figlio mio! Saresti dovuto rimanere giù."

"No, sto bene..." rispose il ragazzo, cercando di non farsi prendere dal panico. "Magari al prossimo livello scendo." Non riesco a respirare.

L'uomo si chinò verso il figlio. "Pensavo che ormai avessi superato la paura." Gli fece una carezza affettuosa sulla guancia.

Il ragazzo si vergognava di deludere il padre, ma quasi non lo sentiva, tanto gli fischiavano le orecchie. Non riesco a respirare. Devo uscire da qui!

Il lift spiegò rassicurante il funzionamento dei pistoni dell'ascensore, mentre sotto di loro si diramava il reticolo delle strade di Parigi.

Ci siamo quasi, si diceva il ragazzo allungando il collo. Tieni duro.

Mentre l'ascensore saliva verso la balconata, il pozzo si stringeva trasformandosi in un angusto cunicolo verticale.

"Papà, non credo di..."

Tutto a un tratto si sentì un rumore simile a una frustata e la cabina sussultò, inclinandosi da una parte. Alcuni cavi, sfilacciati, ballonzolarono intorno all'abitacolo serpeggiando come cobra. Il ragazzo si aggrappò al padre.

"Papà!"

I loro occhi si incrociarono per un istante, terrorizzati.

Poi dalla cabina dell'ascensore si staccò il fondo.

Robert Langdon si svegliò di soprassalto. Era seduto tutto solo in un sedile di morbida pelle nell'enorme cabina del business jet Falcon 2000EX che vibrava 717d36h per la turbolenza, con il rombo dei due motori Pratt & Whitney in sottofondo.

«Professor Langdon?» gracchiò l'altoparlante. «Siamo in fase di atterraggio.»

Langdon si tirò su e ripose gli appunti del suo discorso nella borsa di pelle a tracolla. Si era assopito ripassando la simbologia massonica e aveva sognato il padre. Probabilmente a farglielo venire in mente era stato l'invito inaspettato che aveva ricevuto quella mattina dal suo mentore di sempre, Peter Solomon.

L'altro uomo che non voglio deludere.

Solomon, storico, filantropo e scienziato, aveva cinquantotto anni e aveva preso Langdon sotto la propria ala quasi trent'anni prima, riempiendo per molti versi il vuoto lasciatogli dalla morte del padre. Apparteneva a una famiglia ricca e influente, ma Langdon aveva trovato in quei suoi occhi grigi umiltà e calore umano.

Guardò dall'oblò e, nonostante il sole fosse già tramontato, scorse la sagoma affusolata dell'obelisco più grande del mondo che si stagliava all'orizzonte come un'antica stele. Alto quasi centosettanta metri e rivestito di marmo, l'obelisco era il simbolo della nazione, attorno al quale strade e monumenti si irradiavano in una geometria perfetta.

Anche dall'alto, Washington aveva un fascino quasi mistico.

Era una città che Langdon amava molto e, atterrando, provò un brivido di emozione al pensiero di ciò che lo aspettava. Il jet si avvicinò a un terminal privato del Dulles International Airport e si fermò.

Langdon raccolse le proprie cose, ringraziò i piloti e scese dalla scaletta. Era felice di uscire all'aria aperta, benché fosse gennaio e facesse molto freddo.

Respira,    Robert!

Sulla pista aleggiava una cortina di nebbia bianca. Quando toccò l'asfalto bagnato, Langdon ebbe l'impressione di avere messo i piedi in un pantano.

«Buonasera! » trillò una voce con accento inglese. «Il professor Langdon?»

Lui alzò gli occhi e vide una signora di mezz'età con una targhetta sul petto e una cartellina rigida sotto il braccio. Gli andava incontro, salutandolo con la mano. Indossava un berretto di lana molto trendy da cui spuntavano capelli biondi e ricci.

«Benvenuto a Washington, professore!»

Langdon sorrise. «Grazie.»

«Sono Pam, del servizio passeggeri.» La donna parlava con un'esuberanza quasi fastidiosa. «Se vuole seguirmi, l'accompagno alla macchina.»

Langdon andò con lei verso l'area arrivi riservata ai privati, circondata da jet luccicanti. Un posteggio di taxi per ricchi e famosi, pensò.

«Non vorrei metterla in imbarazzo» azzardò la donna timidamente «ma lei è il professor Langdon che scrive libri su simboli e religioni, vero?»

Dopo un attimo di esitazione, Langdon annuì.

«Lo immaginavo» replicò lei illuminandosi. «Nel mio gruppo di lettura abbiamo discusso del suo libro sul sacro femminino e la Chiesa. Ha fatto proprio scandalo! Le piace sollevare vespai, eh?»

Langdon sorrise. «Veramente, non era mia intenzione sollevare alcun vespaio.»

La donna intuì che Langdon non aveva voglia di parlare del proprio lavoro. «Mi scusi, sono stata importuna. Sarà stufo di essere riconosciuto... Però è colpa sua.» Indicò il suo abbigliamento con gesto giocoso. «L'ho capito dalla divisa...»

Divisa? Langdon si guardò. Aveva uno dei suoi soliti dolcevita antracite, giacca di Harris Tweed, calzoni cachi e mocassini: gli abiti che indossava normalmente quando insegnava, teneva conferenze, si faceva fotografare o partecipava a manifestazioni.

La donna rise. «I golf a collo alto sono un po' datati, sa? Starebbe meglio in giacca e cravatta.»

Neanche per sogno, pensò Langdon. Con la cravatta non respiro... Quando frequentava la Phillips Exeter Academy, doveva mettere la cravatta sei giorni su sette e, nonostante il preside sostenesse che questa originasse dal "focale" - la sciarpa di seta che gli oratori dell'antica Roma portavano per proteggere le corde vocali -, lui sapeva che la parola "cravatta" deriva etimologicamente dai cavalieri "croati" che nel Seicento si annodavano un fazzoletto al collo prima di lanciarsi in battaglia. Ancora oggi quell'antico indumento viene indossato dai moderni guerrieri da ufficio nella speranza di intimidire l'avversario nei più combattuti consigli di amministrazione.

«Grazie del suggerimento» disse Langdon con una risatina. «Ne terrò conto.»

In quel momento un uomo scese con piglio professionale da una Lincoln parcheggiata vicino al terminal e alzò un braccio. «Il signor Langdon? Sono Charles, della Beltway Limousine.» Gli aprì la portiera. «Buonasera e benvenuto a Washington.»

Langdon ringraziò Pam, le diede la mancia e salì sulla lussuosa automobile. L'autista gli spiegò come funzionava il climatizzatore e gli indicò il cestino di muffin caldi e la bottiglia d'acqua. Qualche secondo dopo partirono, imboccando una strada ad accesso riservato. Dunque è così che vive certa gente...

Mentre l'auto sfrecciava lungo Windsock Drive, l'autista consultò un foglio e fece una telefonata. «Beltway Limousine» disse in tono serio ed efficiente. «Dovevo confermarvi l'atterraggio del passeggero.» Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «Sì, signore, il suo ospite, il professor Langdon, è arrivato. Lo sto accompagnando al Campidoglio. Saremo lì per le diciannove. Prego, signore». Chiuse la comunicazione.

Langdon non potè fare a meno di sorridere. Non trascuriamo nemmeno il più piccolo dettaglio, vero? Peter Solomon era un uomo estremamente preciso, e quella dote gli consentiva di gestire il suo grande potere senza apparenti difficoltà. E avere in banca diversi miliardi di dollari non guasta, immagino.

Langdon si sistemò sul sedile in pelle e chiuse gli occhi. Il rumore dell'aeroporto si faceva sempre più debole. Ci sarebbe voluta mezz'ora per arrivare al Campidoglio: non gli dispiaceva avere del tempo per riordinare le idee. Era successo tutto talmente in fretta, quel giorno, che solo allora riusciva a rendersi conto della serata incredibile che lo aspettava.

Arrivare protetti da un velo di segretezza. Quella prospettiva lo divertiva.

A una quindicina di chilometri dal Campidoglio, una figura solitaria si stava preparando all'arrivo di Robert Langdon.


L'uomo che si faceva chiamare Mal'akh si premette l'ago sulla testa rasata e sospirò di piacere nel conficcarlo e poi estrarlo dalla pelle. Il ronzio di quell'aggeggio elettrico gli dava quasi dipendenza, e così il pizzico dell'ago che gli entrava nella carne e la colorava.

Sono un capolavoro.

Il tatuaggio, in realtà, non aveva mai avuto scopi estetici: soddisfaceva il bisogno di cambiare. Dalla scarificazione dei sacerdoti nella Nubia del 2000 a.C. al tatuaggio dei seguaci del culto di Cibele nell'antica Roma, fino al moko dei moderni maori, per gli esseri umani il tatuaggio era un modo per offrire il corpo in parziale sacrificio, sopportando il dolore fisico per trasformarsi in individui diversi.

Nonostante il feroce monito del Levitico 19,28, che vieta le incisioni sul corpo, il tatuaggio continua a essere un rito di passaggio per milioni di individui, dagli adolescenti di buona famiglia ai tossici incalliti, alle casalinghe annoiate.

Tatuarsi è trasformarsi, è dichiarare il proprio potere e annunciare al mondo: Ho il controllo sul mio corpo. L'esaltante sensazione di potere derivata dalla trasformazione fisica rende dipendente una moltitudine di persone che non riesce a fare a meno di chirurgia estetica, piercing, body-building, anabolizzanti... e persino abbuffate bulimiche e cambio di sesso. Lo spirito dell'uomo anela al controllo sul proprio guscio carnale.

La pendola batté un rintocco e Mal'akh alzò gli occhi. Erano vestaglia di seta di Kiryu sul corpo nudo e uscì dalla stanza. Nell'imponente palazzo aleggiava l'odore degli inchiostri e del fumo delle candele di cera d'api usate per sterilizzare gli aghi. Il giovane uomo, alto quasi un metro e novanta, percorse il corridoio pieno di pezzi di antiquariato italiani, fra un'incisione di Piranesi, una sedia Savonarola, una lampada a olio dell'argentiere Bugarini.

Passando davanti a una vetrata, ammirò la vista. La cupola illuminata del Campidoglio brillava solenne e potente nel cielo scuro d'inverno.

lì che è nascosto, pensò. È sepolto laggiù, da qualche parte.

Poche persone sapevano della sua esistenza, e ancora meno conoscevano il suo straordinario potere e il modo ingegnoso in cui era stato nascosto. Restava uno dei più grandi segreti del paese. I pochissimi al corrente della verità la custodivano gelosamente, protetta da un velo di simboli, leggende e allegorie.

E adesso mi hanno aperto le porte, pensò Mal'akh.

Tre settimane prima, nel corso di un oscuro rituale a cui avevano preso parte gli uomini più influenti degli Stati Uniti, Mal'akh era stato ammesso al trentatreesimo grado, il più alto della confraternita più antica ancora operante nel mondo. Nonostante questo, i fratelli non gli avevano detto niente. E non me lo diranno mai. Non era così che funzionava. C'erano cerchie all'interno di altre cerchie, fratellanze all'interno di altre fratellanze. Mal'akh avrebbe potuto aspettare anni senza mai guadagnarsi la fiducia di quei pochissimi.

Ma non ne aveva bisogno per scoprire il loro segreto più profondo.

La mia iniziazione è servita allo scopo.

Emozionato all'idea di ciò che lo attendeva, andò in camera da letto. Gli amplificatori distribuiti in tutta la casa trasmettevano una rara registrazione di un castrato che cantava Lux aeterna dal Requiem di Verdi. Gli ricordava la sua vita precedente. Prese il telecomando e alzò il volume per il Dies irae e, con timpani e quinte parallele in sottofondo, salì di corsa lo scalone di marmo con la vestaglia che gli svolazzava sulle gambe muscolose.

Sentì brontolare lo stomaco. Erano due giorni che digiunava, assumendo solo liquidi, per preparare il proprio corpo secondo le antiche modalità. La tua fame verrà saziata all'alba, si disse. Così come il tuo dolore.

Mal'akh entrò con atteggiamento riverente nella camera da letto, un vero e proprio santuario, e chiuse a chiave la porta. Mentre andava verso l'armadio si fermò, attirato dalla propria immagine riflessa nel grande specchio dorato. Era irresistibile: lentamente, come scartando un dono prezioso, aprì la vestaglia per ammirare la propria nudità. Rimase strabiliato.

Sono un capolavoro.

Il suo corpo, tonico e muscoloso, era completamente glabro, la pelle liscia. Mal'akh si guardò dapprima i piedi, sui quali erano tatuati gli artigli di un falco. Le gambe, invece, erano colonne intagliate: la sinistra tortile, la destra scanalata. Boaz e Jachin. Pube e addome formavano un arco decorato e sul petto campeggiava la fenice bicefala con le due teste di profilo, i capezzoli che fungevano da occhi. Spalle, collo, viso e capo rasato erano un intricato arazzo di sigilli e simboli antichi.

Sono un'opera d'arte... un'icona in costruzione.

Un solo mortale lo aveva visto nudo, diciotto ore prima, e aveva gridato per lo spavento: "Buon Dio, sei un demone!".

"Se così mi percepisci" gli aveva risposto Mal'akh che, al pari degli antichi, comprendeva come angeli e demoni fossero la stessa cosa, archetipi intercambiabili, una mera questione di polarità: l'angelo custode che ti ha aiutato a vincere la battaglia è visto dal tuo nemico come un demone distruttore.

Mal'akh inclinò la testa e cercò di guardarne la sommità, dove brillava un cerchio pallido di pelle non tatuata, simile a un'aureola, o a una corona. Era l'unica parte del corpo ancora vergine, luogo sacro in paziente attesa... che sarebbe stato coperto quella sera. Benché Mal'akh non avesse ancora ciò che gli serviva per completare il capolavoro, sapeva che il momento era vicino.

Quel pensiero lo rese euforico: sentiva già crescere il proprio potere. Si chiuse la vestaglia e si avvicinò alla finestra per guardare la città mistica davanti a sé. È sepolto laggiù, da qualche parte.

Si concentrò nuovamente sul compito che doveva portare a termine. Si sedette e si applicò con cura uno strato di cerone sul viso, sulla testa e sul collo per coprire i tatuaggi. Poi indossò gli abiti e gli altri accessori che aveva meticolosamente preparato per quella sera e, quando ebbe finito, si guardò allo specchio. Soddisfatto, si passò la mano sulla testa liscia e sorrise.

E' là, pensò. E stasera un uomo mi aiuterà a trovarlo.

Mentre usciva, si preparò all'evento che ben presto avrebbe scosso il Campidoglio. Mettere insieme tutti i pezzi necessari gli era costato un impegno incredibile.

Ma adesso, finalmente, era entrata in gioco anche l'ultima pedina.


Robert Langdon era intento a rileggere le schede del suo discorso quando sentì che l'autista della limousine aveva cambiato andatura. Alzò gli occhi e rimase sorpreso nel vedere dov'erano.

Siamo già al Memorial Bridge?

Posò le schede e osservò le acque calme del Potomac. Sul fiume aleggiava una spessa coltre di nebbia. Langdon trovava strano che la capitale fosse stata costruita a Foggy Bottom, un nome che è tutto un programma. Di tutti i posti nel Nuovo Mondo, è singolare che i padri fondatori avessero scelto proprio una palude lungo il fiume per posare la prima pietra della loro utopica società.

Si voltò verso sinistra a guardare il Tidal Basin e l'elegante silhouette del Jefferson Memorial, che molti definivano il Pantheon americano. Davanti a sé osservò la rigida austerità del Lincoln Memorial, le cui linee ortogonali ricordavano il Partenone di Atene. Ancora più in là si intravedeva la punta del monumento simbolo della città, che Langdon aveva ammirato dall'alto poco prima, ispirato a un'architettura ben più antica di quella greca o romana.

L'obelisco egizio degli Stati Uniti.

Il Washington Monument si stagliava luminoso contro il cielo scuro come l'albero maestro di un veliero. Da quell'angolazione pareva sollevato da terra, quasi stesse beccheggiando in un mare in tempesta. Anche a Langdon mancava la terra sotto inaspettata. Mi sono svegliato stamattina pensando di trascorrere una tranquilla domenica a casa, e ora mi ritrovo a pochi minuti dal Campidoglio.

Quella mattina, alle cinque meno un quarto, si era tuffato in acque tranquille e si era fatto le quotidiane cinquanta vasche nella piscina deserta del campus di Harvard. Non aveva più il fisico di quando giocava nella squadra di pallanuoto dell'università, ma era ancora tonico e asciutto, e portava egregiamente i suoi quaranta e passa anni. L'unica differenza era che adesso per mantenersi in forma faceva molta più fatica.

Quando era tornato a casa, verso le sei, aveva cominciato come sempre a macinare a mano il caffè Sumatra assaporandone il profumo esotico. Ma poi si era reso conto con grande sorpresa che la lucina rossa della segreteria telefonica lampeggiava. Chi è che mi chiama alle sei della domenica mattina? Aveva premuto il tasto e ascoltato il messaggio.

"Professor Langdon, buongiorno. Mi scusi se la chiamo a quest'ora." Era una voce educata, esitante, con un lieve accento del Sud. "Sono Anthony Jelbart, l'assistente personale di Peter Solomon. Il signor Solomon mi ha detto che lei è mattiniero. Ha bisogno di parlarle con la massima urgenza. Gli può telefonare appena sente questo messaggio, per favore? Immagino che abbia già il suo nuovo numero diretto, ma in ogni caso glielo do: 202-329-5746."

Langdon si era preoccupato immediatamente per il vecchio amico. Peter Solomon era una persona di grande cortesia e educazione, un vero gentleman, e non lo avrebbe mai disturbato di domenica all'alba se non si fosse trattato di qualcosa di molto grave.

Aveva lasciato la macinatura del caffè a metà ed era corso nello studio a telefonare.

Speriamo che stia bene...

Peter Solomon era un amico, un mentore e, benché avesse solo dodici anni più di lui, una sorta di padre putativo. Si erano conosciuti all'università di Princeton. Quando Langdon frequentava il secondo anno, una sera aveva assistito alla conferenza di un giovane storico e filantropo molto noto. Solomon aveva parlato con contagiosa passione di semiotica e storia degli archetipi, presentandole in un modo che aveva fatto accendere in

Langdon un amore per la simbologia che non si era più sopito. A conquistarlo, tuttavia, non era stata tanto la brillante cultura di Solomon, quanto la sua umiltà, la luce serena dei suoi occhi grigi. Gli aveva scritto una lettera di ringraziamento, senza nutrire eccessive speranze che uno degli intellettuali più ricchi e famosi degli Stati Uniti rispondesse a uno studente universitario del secondo anno. Invece Solomon lo aveva fatto, ed era stato l'inizio di un'amicizia profonda e gratificante.

Accademico illustre con i modi pacati tipici degli aristocratici, apparteneva alla facoltosa famiglia Solomon, il cui nome appariva su edifici e università di tutto il paese. Come quello dei Rothschild in Europa, era un nome dalle connotazioni quasi mistiche, che sapeva di successo e nobiltà. Peter aveva ereditato lo scettro in giovane età, alla morte del padre, e nella vita aveva ricoperto numerose cariche prestigiose. Adesso, a cinquantotto anni, dirigeva lo Smithsonian Institution. Langdon lo prendeva in giro, dicendogli che l'unica pecca nel suo immacolato curriculum era la laurea, presa in un'università di second'ordine come Yale.

Entrando nello studio, Langdon si era sorpreso nel vedere che Peter gli aveva mandato anche un fax.

Peter Solomon
SMITHSONIAN INSTITUTION

SEGRETARIATO

Caro Robert, buongiorno. Ho bisogno di parlarti al più presto. Ti prego di chiamarmi in mattinata appena puoi al 202-329-5746.

Peter


Langdon aveva composto subito il numero e si era seduto alla scrivania di rovere finemente intagliata.

"Segretariato" aveva risposto l'assistente di Solomon. Langdon lo aveva riconosciuto dalla voce. "Sono Anthony Jelbart."

"Buongiorno, sono Robert Langdon. Mi ha lasciato un messaggio poco fa..."

"Sì, professor Langdon." L'uomo sembrava sollevato. "Grazie di aver richiamato subito. Il signor Solomon ha urgenza di parlarle. Lo avverto immediatamente. Può attendere un istante?"

"Certo."

Mentre aspettava in linea, Langdon aveva abbassato lo sguardo e sorriso nel vedere il nome di Peter sulla carta intestata dello Smithsonian. La famiglia Solomon non si smentisce. L'albero genealogico di Peter vantava imprenditori di grande successo, politici influenti, eminenti scienziati e persino alcuni membri della Royal Society di Londra. L'unico altro componente della famiglia ancora in vita, la sorella minore di Peter, Katherine, aveva ereditato il gene della scienza ed era una figura di spicco in una disciplina nuovissima, la noetica.

Per me è arabo... Katherine aveva cercato di spiegare a Langdon di che cosa si trattava a una festa a casa del fratello, l'estate precedente. Lui l'aveva ascoltata con attenzione e alla fine aveva osservato: "Sembra più magia che scienza".

Katherine gli aveva strizzato l'occhio. "Sono più vicine di quanto tu creda, Robert."

L'assistente di Solomon nel frattempo era tornato al telefono. "Mi scusi, ma il signor Solomon sta cercando di sganciarsi da una teleconferenza. Stamattina c'è un bel po' di confusione, qui."

"Nessun problema. Richiamo dopo."

"Veramente, il signor Solomon mi ha chiesto di spiegarle il motivo per cui l'abbiamo contattata. Le dispiace?"

"Ma no, si figuri."

L'uomo aveva preso fiato. "Come lei saprà, ogni anno il consiglio direttivo dello Smithsonian organizza un galà qui a Washington per ringraziare i sostenitori più generosi. Vi partecipa gran parte dell'èlite culturale americana."

Langdon sapeva di avere troppo pochi zeri sul conto corrente per poter far parte di quell'èlite, ma si era domandato se Solomon non avesse intenzione di invitarlo lo stesso.

"È consuetudine che la cena sia preceduta da un intervento di apertura, che quest'anno si terrà nella National Statuary Hall."

L'auditorium più bello di tutta Washington, aveva pensato Langdon. Ricordava di avere assistito a una conferenza, in quella sala semicircolare. Difficile dimenticare le cinquecento sedie pieghevoli disposte in un arco perfetto e le trentotto statue ad altezza naturale della sala in cui in passato si riuniva la Camera dei Rappresentanti.

"Il problema è il seguente" aveva continuato l'assistente di Solomon. "L'oratore si è ammalato e ci ha informati solo poco fa che non sarà in grado di prendere parte all'evento." Si era interrotto, imbarazzato. "Questo significa che dobbiamo trovare qualcuno che lo sostituisca. Il signor Solomon ha pensato a lei."

Langdon era rimasto di stucco. "A me?" Non se lo aspettava proprio. "Sicuramente ci sono persone ben più qualificate..."

"Il signor Solomon ha voluto contattarla per primo. Lei è troppo modesto, professore. Gli ospiti dello Smithsonian saranno felici di ascoltarla. Il signor Solomon pensa che potrebbe riproporre il suo intervento di qualche anno fa su Bookspan TV. Così non deve preparare niente di nuovo. Dice che trattava del simbolismo nell'architettura della capitale: sarebbe perfetto per l'occasione."

Langdon non ne era altrettanto sicuro. "Se ben ricordo, parlava più della storia della massoneria che di..."

"Ma va benissimo! Lei sa che il signor Solomon è massone, come peraltro molti degli amici che interverranno al galà. Sono certo che apprezzeranno."

Ammetto che non dovrebbe essere un compito troppo difficile... Langdon conservava sempre i testi delle sue conferenze. "Dovrei pensarci un momento. Quando si terrà il galà?"

L'assistente di Solomon si era schiarito la voce, improvvisamente a disagio. "Be', professore, a dire la verità sarebbe stasera."

Langdon era scoppiato a ridere. "Stasera?"

"Non l'avremmo disturbata a quest'ora, altrimenti. Ci troviamo in una situazione di profondo imbarazzo..." Si era messo a parlare più velocemente. "Il signor Solomon le manderà un jet privato a Boston. È un'ora di volo: sarà a casa per mezzanotte. Sa dov'è il terminal privato del Logan Airport?"

"Sì" aveva risposto Langdon riluttante. Non mi stupisce che Peter riesca sempre a ottenere quello che vuole.

"Magnifico! Riuscirebbe a farsi trovare lì per... diciamo le diciassette?"

"Non ho molte alternative, giusto?" aveva domandato Langdon ridendo.

"Sto solo cercando di accontentare il signor Solomon, professore."

Peter fa questo effetto alla gente. Langdon aveva riflettuto un momento, ma non aveva visto vie d'uscita. "D'accordo. Gli dica che per me va bene."

"Splendido!" aveva esclamato l'assistente, sollevato. Aveva dato a Langdon il numero di coda del jet e altre informazioni utili.

Quando aveva riattaccato, Langdon si era chiesto se qualcuno avesse mai detto di no a Peter Solomon.

Era tornato al suo caffè e aveva deciso di aggiungere qualche grano. Un po' più di caffeina stavolta ci vuole, aveva pensato. Sarà una giornata impegnativa.


Il Campidoglio si erge come una reggia all'estremità orientale del National Mall, su un altopiano che l'urbanista Pierre L'Enfant definì "un piedistallo in attesa di un monumento". Le misure sono impressionanti: lungo 228 metri e largo 106, occupa quasi 7 ettari di superficie e contiene ben 541 stanze. È in stile neoclassico, meticolosamente studiato per rievocare l'architettura dell'antica Roma, ai cui ideali i padri fondatori si ispirarono nello stabilire le leggi e la cultura della nuova repubblica.

I turisti devono superare i controlli di sicurezza nel nuovo centro visitatori sotterraneo che si trova sotto una bellissima vetrata da cui si può ammirare la cupola. Alfonso Nunez, agente di sicurezza appena entrato in servizio, osservò con grande attenzione l'uomo che si avvicinava al metal detector. Aveva la testa rasata e ciondolava nell'atrio da un po', parlando al telefonino. Aveva il braccio destro al collo e zoppicava leggermente. Indossava un cappotto militare sgualcito che, insieme al particolare della testa rasata, gli fece pensare a un veterano. Peraltro, molti dei visitatori di Washington erano ex militari.

«Buonasera» disse Nunez. La procedura prescriveva di attaccare discorso con tutte le persone di sesso maschile che entravano nel Campidoglio da sole.

«Buonasera» rispose l'uomo guardandosi intorno. L'atrio era Praticamente deserto. «Non c'è molta gente, vedo.»

«I playoff. Sono tutti davanti alla tivù a guardare i Redskins.» Anche a Nunez sarebbe piaciuto, ma lavorava lì soltanto da un mese e quel turno poco ambito era toccato a lui. «Posi nel vassoio tutti gli oggetti metallici, per cortesia.»

Il visitatore si frugò nelle tasche del cappotto con l'unica mano sana, sotto lo sguardo attento di Nunez. Di solito si è portati a essere più permissivi con i malati e i disabili, però gli era stato insegnato a essere inflessibile con tutti nello stesso modo.

Aspettò che il visitatore si togliesse dalle tasche il solito assortimento di monetine, chiavi e cellulari. «Distorsione?» chiese, fissando la mano fasciata da uno spesso bendaggio.

L'uomo annuì. «Sono scivolato sul ghiaccio una settimana fa e quando muovo il braccio vedo ancora le stelle.»

«Mi spiace. Prego, venga avanti.»

Il visitatore passò zoppicando sotto il metal detector, che protestò con un trillo.

L'uomo si accigliò. «Me l'aspettavo: ho un anello alla mano fasciata. Il dito era troppo gonfio per toglierlo e così il medico me l'ha lasciato sotto le bende.»

«Nessun problema» disse Nunez. «Controllo con il rilevatore manuale.»

Glielo passò sulla mano fasciata. Come previsto, l'unico metallo che trovò fu in corrispondenza dell'anulare. Nunez fece scorrere il detector su tutto il braccio, senza tralasciare neppure un centimetro quadrato di bende. Sapeva che il suo supervisore lo stava controllando attraverso l'impianto a circuito chiuso e voleva fare una buona impressione. Meglio essere prudenti. Infilò il rilevatore sotto il bendaggio dell'uomo, che fece una smorfia di dolore.

«Mi scusi.»

«Non si preoccupi» rispose il visitatore. «La prudenza non è mai troppa, di questi tempi.»

«Ha proprio ragione.» Nunez lo trovò simpatico, e questo era un elemento importante: l'istinto era la principale arma con cui l'America si difendeva dal terrorismo. È dimostrato che l'intuito rappresenta un sensore di pericolo più accurato di tante apparecchiature elettroniche. In uno dei manuali che Nunez aveva dovuto studiare veniva definito "il dono della paura".

L'istinto di Nunez non percepiva alcun segnale di pericolo. L'unica cosa che l'addetto alla sicurezza notò, ora che erano vicini, fu che quell'uomo, all'apparenza così macho, aveva sul viso una crema autoabbronzante o un fondotinta. E con ciò? La gente odia essere pallida, d'inverno.

«A posto» dichiarò mettendo via il rilevatore manuale.

«Grazie.» L'uomo cominciò a recuperare i propri effetti personali dal vassoio.

Nunez notò che sulla punta dell'indice aveva tatuata una stella e su quella del pollice una corona. Ormai si tatuano tutti, pensò. E rifletté che sui polpastrelli doveva essere particolarmente doloroso. «Non ha sentito un male boia a farsi quei tatuaggi?»

L'uomo si guardò le dita e rise. «Meno di quello che pensa.»

«È stato fortunato» disse Nunez. «Io ho sofferto le pene dell'inferno. Mi sono fatto tatuare una sirena sulla schiena, durante il servizio militare.»

«Una sirena?» L'uomo rasato rise.

«Eh...» fece Nunez imbarazzato. «Errori di gioventù.»

«La capisco» replicò il visitatore. «Anch'io ne ho fatto uno bello grosso, e adesso mi ci sveglio accanto ogni mattina.»

Scoppiarono a ridere tutti e due. Poi l'uomo con la testa rasata se ne andò.

Un gioco da ragazzi, pensò Mal'akh allontanandosi da Nunez per andare verso la scala mobile. Era stato più semplice di quanto si fosse aspettato. Si era sistemato un'imbottitura sulla pancia, aveva tenuto la schiena curva per mascherare il proprio fisico atletico e si era messo del cerone sulla faccia e sulle mani per nascondere i tatuaggi. Ma il vero colpo di genio era stato presentarsi con un braccio al collo, celando sotto le bende l'oggetto portentoso che voleva portare dentro l'edificio.

Un dono per l'unico uomo al mondo che può aiutarmi a ottenere ciò che cerco.


Il museo più grande e tecnologicamente avanzato del mondo è anche uno dei segreti meglio custoditi della terra. Vi sono conservati più pezzi che all'Ermitage, ai Musei Vaticani e al Metropolitan di New York messi insieme. Tuttavia, nonostante la magnifica collezione, poche persone hanno il permesso di entrare fra quelle mura superprotette.

Il museo si trova al 4210 di Silver Hill Road, appena fuori Washington, ed è un gigantesco edificio consistente in cinque moduli collegati e disposti a zigzag, ciascuno dei quali è più grande di un campo da calcio. L'esterno, di metallo azzurrino, non lascia trapelare che dentro c'è un mondo alieno di oltre cinquemilacinquecento metri quadrati di superficie, composto da una "zona morta", un "modulo Acquario" e una ventina di chilometri di armadi e scaffalature.

Quella sera, in preda a un certo turbamento, la scienziata Katherine Solomon si avvicinò ai controlli di sicurezza del complesso a bordo della sua Volvo bianca.

La guardia le sorrise. «Non le interessa il football, dottoressa?» Abbassò il volume: stava seguendo lo show prepartita.

Katherine si sforzò di ricambiare il sorriso. «È domenica sera.»

«Ah, è vero. La riunione.»

«È già arrivato?» chiese Katherine con ansia.

L'uomo consultò un registro. «Qui non è segnato.»

«Sono in anticipo.» Gli fece un cenno di saluto e proseguì lungo la strada a curve verso il posto dove di solito metteva la macchina, in fondo al piccolo parcheggio. Cominciò a raccogliere le proprie cose e si diede un'occhiata nello specchietto retrovisore, più per abitudine che per vanità.

Dagli avi mediterranei aveva ereditato la pelle ambrata ed elastica, e a cinquant'anni aveva ancora il viso fresco e levigato. Non si truccava quasi e teneva sciolti i capelli folti e scuri. Come suo fratello maggiore, Peter, aveva gli occhi grigi e una naturale eleganza aristocratica.

Sembrate gemelli, dicevano in molti.

Il loro padre era morto di cancro quando Katherine aveva appena sette anni e lei ne serbava solo vaghi ricordi. Suo fratello, di otto anni più grande di lei, a quindici anni si era ritrovato a essere il patriarca della famiglia, molto prima di quanto chiunque avesse potuto prevedere. Ben presto, tuttavia, era riuscito a ricoprire quel ruolo con la dignità e la forza che ci si aspettavano da un Solomon. Vegliava ancora sulla sorella come se fosse una bambina.

Nonostante le occasionali esortazioni di Peter e un certo numero di pretendenti, Katherine non si era mai sposata. Viveva per la scienza e dal lavoro ricavava più soddisfazioni di quante potesse sperare di averne da un uomo. Non aveva rimpianti.

Il campo che si era scelta, le scienze noetiche, era quasi sconosciuto quando lei aveva cominciato a interessarsene, ma negli ultimi anni aveva aperto nuove prospettive sul potere della mente umana.

Il potenziale dell'uomo è assolutamente straordinario.

I due saggi che Katherine aveva scritto l'avevano resa un personaggio di spicco in quel campo ancora nebuloso, e le sue scoperte più recenti, una volta pubblicate, avrebbero dato alla noetica enorme rilievo a livello mondiale.

Ma quella sera la noetica era l'ultimo pensiero di Katherine. Poche ore prima aveva appreso notizie davvero inquietanti riguardo a suo fratello. Non è possibile che sia vero... Era tutto il pomeriggio che non riusciva a pensare ad altro.

Sul parabrezza cadeva una pioggerellina sottile. Katherine si affrettò a prendere le sue cose e stava per scendere dalla macchina quando le squillò il cellulare.

Guardò il display per vedere chi fosse e trasalì.

Si sistemò i capelli dietro le orecchie e si preparò a rispondere.

A una decina di chilometri di distanza, Mal'akh si muoveva nei corridoi del Campidoglio con il cellulare attaccato all'orecchio, aspettando con pazienza.

Finalmente, sentì una voce di donna. «Sì?»

«Dobbiamo incontrarci di nuovo» disse Mal'akh.

Ci fu un lungo silenzio. «È tutto a posto?»

«Ho delle informazioni nuove.»

«Mi dica.»

Mal'akh fece un respiro profondo. «Quello che suo fratello ritiene sia nascosto a Washington...»

«Sì?»

«È possibile trovarlo.»

Katherine Solomon era sbigottita. «Mi sta dicendo che... esiste veramente?»

Mal'akh sorrise tra sé. «A volte, quando una leggenda perdura nei secoli, un motivo c'è.»


«Non può lasciarmi più vicino?» Robert Langdon era in ansia quando l'autista si fermò in First Street, a diverse centinaia di metri dal Campidoglio.

«Purtroppo no» rispose l'uomo. «Per motivi di sicurezza l'accesso alla zona è vietato a tutti i veicoli. Mi spiace, professore.»

Langdon guardò l'ora e rimase sconcertato nel vedere che erano già le sette meno dieci. Un cantiere nei pressi del National Mall li aveva rallentati e lui avrebbe dovuto cominciare a parlare di lì a dieci minuti.

«Cambia il tempo» disse l'autista scendendo per aprirgli la portiera. «Le conviene sbrigarsi.» Langdon prese il portafoglio per dargli la mancia, ma l'uomo gli fece segno che non era il caso. «Sono già stato pagato generosamente. Grazie.»

Tipico di Peter, pensò Langdon raccogliendo le proprie cose. «Grazie mille.»

Cominciò a piovere nel momento in cui arrivò in cima alla rampa che portava alla nuova entrata sottoterra.

Il centro visitatori del Campidoglio era frutto di un progetto molto costoso e molto criticato. Era stato descritto come una città sotterranea del calibro di certe attrazioni di Disney World, e ospitava mostre, ristoranti e sale conferenze su una superficie di circa cinquantamila metri quadrati.

Langdon avrebbe voluto guardarsi intorno, ma non aveva previsto di dover fare tutta quella strada a piedi. Poiché sembrava che da un momento all'altro dovesse scoppiare un temporale, vestito per tenere una conferenza, non per correre i quattrocento metri sotto la pioggia!

Quando arrivò in fondo, aveva il fiatone. Entrò nella porta girevole e si fermò un attimo nell'atrio per riprendere fiato e rassettarsi i vestiti. Poi alzò gli occhi per guardare quello spazio appena inaugurato.

E rimase colpito.

Il centro visitatori non era affatto come se lo era immaginato. Conoscendo la sua ubicazione, temeva la claustrofobia. Da quando era rimasto imprigionato in un pozzo fino a notte fonda, da bambino, pativa i luoghi chiusi. Ma quello spazio, ancorché sotterraneo, era ampio, arioso, luminoso.

Il soffitto era di vetro, con una serie di lampadari che riversavano all'interno una luce soffusa color madreperla.

In un'altra circostanza sarebbe rimasto un'ora ad ammirarne l'architettura ma, mancando soltanto cinque minuti all'inizio della sua conferenza, chinò la testa e si precipitò verso il metal detector e le scale mobili. Rilassati, si disse. Peter sa che stai arrivando. Non cominceranno senza di te.

Mentre lui si svuotava le tasche e si toglieva l'orologio vintage, l'agente di sicurezza attaccò discorso. Era giovane, di origine ispanica.

«L'orologio di Topolino?» gli chiese divertito.

Langdon annuì. C'era abituato. Quell'orologio, un pezzo da collezione, gli era stato regalato dai genitori per il suo nono compleanno. «Mi serve a rallentare un po' il passo e a prendere la vita meno sul serio.»

«E funziona?» gli chiese l'agente con un sorriso. «Lei sembra trafelato...»

Langdon sorrise e mise la borsa nella macchina a raggi X. «Da che parte è la Statuary Hall?»

L'agente gli mostrò le scale mobili. «Segua le indicazioni.»

«Grazie.» Langdon prese la borsa e si allontanò in tutta fretta. Sulla scala mobile fece un respiro profondo e cercò di riordinare le idee. Alzò gli occhi verso il soffitto a vetri e guardò la cupola sovrastante. Il Campidoglio era un edificio straordinario. In cima, a quasi cento metri di altezza, la Statua della Libertà guardava nel buio come una sentinella. Langdon sorrideva ogni volta che pensava che a sollevare sul suo piedistallo quella statua di bronzo alta quasi sei metri erano stati degli schiavi, benché la maggior parte dei libri di storia adottati nelle scuole sorvolasse sull'argomento.

Ma non era l'unica stranezza di quell'edifìcio. C'erano per esempio la "vasca da bagno assassina", che aveva causato la morte del vicepresidente Henry Wilson, una macchia di sangue indelebile su una scala, su cui pareva inciampassero molti visitatori, e una nicchia murata in cui alcuni operai, nel 1930, avevano scoperto il cavallo imbalsamato del generale John Alexander Logan.

La leggenda voleva inoltre che vi si aggirassero ben tredici fantasmi. Lo spettro dell'urbanista Pierre L'Enfant era stato visto in diverse occasioni vagare nelle sale reclamando il saldo delle sue parcelle, ormai in ritardo di due secoli, e pareva che il fantasma dell'operaio precipitato dalla cupola in costruzione camminasse per i corridoi con una cassetta degli attrezzi in mano. L'apparizione più famosa, tuttavia, riferita da più voci, era quella di un gatto nero che si diceva gironzolasse nei sotterranei del palazzo.

Langdon scese dalla scala mobile e guardò di nuovo l'ora. Mancano tre minuti alle sette. Percorse a lunghi passi l'ampio corridoio seguendo le indicazioni per la Statuary Hall mentre ripassava a mente le frasi di apertura. L'assistente di Solomon aveva ragione: l'argomento era perfetto per un galà organizzato a Washington da un insigne massone.

Era risaputo che la storia della città di Washington aveva forti ascendenze massoniche. La prima pietra del Campidoglio era stata posata nel corso di un rituale massonico da George Washington in persona. La capitale era stata concepita e progettata da maestri muratori come lo stesso Washington, Benjamin Franklin e Pierre L'Enfant, grandi menti che l'avevano riempita di arte, architettura e simboli massonici.

Com'è naturale, la gente vede in questi simboli i significati più stravaganti.

Molti teorici del complotto sostenevano che i padri fondatori avessero celato importanti segreti per tutta la città e nascosto messaggi simbolici nella topografia delle strade. Langdon non ci aveva mai dato peso: la disinformazione riguardo alla massoneria era talmente diffusa che persino gli istruiti studenti di Harvard avevano un'idea distorta di quella fratellanza.

L'anno precedente, una matricola si era presentata a lezione con le pagine stampate da un sito web. Era una cartina di Washington su cui erano evidenziate alcune strade a formare pentacoli satanici, squadra e compasso e persino la testa di Baphomet, a dimostrazione che i massoni che avevano progettato la capitale degli Stati Uniti facevano parte di qualche oscura e mistica cospirazione.

"Molto divertente" aveva commentato Langdon. "Ma questa mappa non dimostra un bel niente. Se uno traccia abbastanza rette su una cartina, riesce a ricavarne tutte le figure che vuole. "

"Ma non può essere una coincidenza" aveva protestato il giovane.

Langdon allora gli aveva spiegato pazientemente che sulla cartina di Detroit si potevano ricavare le medesime figure.

Lo studente era rimasto alquanto deluso.

"Non si scoraggi " gli aveva detto Langdon. "È vero che Washington nasconde segreti incredibili, ma non sulla cartina."

Il ragazzo si era illuminato. "Segreti? E quali?"

"In primavera terrò un corso di simbologia occulta in cui ne parlerò diffusamente. Se vuole, può iscriversi."

"Simbologia occulta!" Il giovane si stava di nuovo entusiasmando. "Dunque a Washington ci sono simboli diabolici!"

Langdon aveva sorriso. "Mi spiace, ma il termine 'occulto', nonostante faccia subito pensare a culti satanici, significa semplicemente 'nascosto', 'oscuro'. Nei periodi di oppressione religiosa, tutto ciò che andava contro la dottrina dominante doveva essere 'occultato' e la Chiesa, poiché si sentiva minacciata, a poco a poco conferì all'aggettivo 'occulto' un significato negativo, legato al male, al diavolo. E questo pregiudizio è perdurato nei tempi."

"Ah." Il giovane si era nuovamente perso d'animo.

Ma quella primavera Langdon lo aveva visto seduto in prima fila, tra i cinquecento studenti che affollavano il Sanders Theatre, lo storico auditorium di Harvard con i banchi di legno scricchiolanti in cui teneva il suo corso.

"Buongiorno a tutti" aveva detto a voce alta dalla pedana. Poi aveva acceso un proiettore per diapositive facendo apparire un'immagine alle proprie spalle. "Quanti di voi riconoscono questo edificio?"

"È il Campidoglio!" avevano risposto decine di voci. "A Washington."

"Esatto. La cupola contiene oltre quattro tonnellate di ferro. Un'impresa senza eguali per la tecnologia di metà Ottocento."

"Mitico!" gridò qualcuno.

Langdon alzò gli occhi al cielo: detestava quell'esclamazione. "Okay. Quanti di voi sono stati a Washington?"

Si erano alzate alcune mani.

"Così pochi?" Langdon si era finto sorpreso. "E quanti di voi sono stati a Roma, Parigi, Madrid o Londra?"

Questa volta quasi tutti avevano alzato la mano.

Come sempre. Uno dei riti di passaggio del giovane studente americano era un'estate con un biglietto Eurail, prima di affrontare le asperità della vita adulta. "Sembra che quelli che hanno visitato l'Europa siano molto più numerosi di quelli che sono stati nella nostra capitale. Per quale motivo, secondo voi?"

"Perché in Europa sono meno rigidi sul consumo di alcolici " aveva risposto qualcuno dalle ultime file.

Langdon aveva sorriso. "Perché, qui non bevete?"

Risata generale.

Era la prima lezione del corso e i ragazzi impiegavano più del solito a sistemarsi nei banchi. A Langdon piaceva quell'aula perché poteva misurare l'attenzione degli studenti semplicemente dalla quantità di cigolii che sentiva.

"Seriamente" aveva ripreso. "A Washington ci sono esempi di arte, architettura e simboli tra i più belli del mondo. Perché andate all'estero prima di visitare la vostra capitale?"

"Perché la roba antica è troppo più bella" aveva risposto qualcuno.

"Suppongo che per 'roba antica' lei intenda castelli, cripte, templi. Giusto?" aveva domandato Langdon.

Tutti avevano annuito.

"Be', e se vi dicessi che a Washington ci sono castelli, cripte, templi e persino piramidi?"

I cigolii erano improvvisamente diminuiti.

"Nel resto dell'ora scoprirete che la nostra nazione è ricca di misteri e di storia segreta" aveva detto Langdon abbassando la voce e avvicinandosi ai banchi. "E, proprio come in Europa, i segreti più impenetrabili sono nascosti in bella vista."

Silenzio totale.

Ecco: ho catturato la vostra attenzione.

Langdon aveva abbassato le luci ed era passato alla seconda diapositiva. "Chi sa dirmi che cosa sta facendo George Washington qui?"

Era il famoso dipinto che ritrae Washington con le vesti rituali massoniche davanti a un attrezzo bizzarro, un grande treppiede di legno che sostiene un sistema di funi e pulegge da cui pende un pesante blocco di pietra, in mezzo a personaggi vestiti elegantemente.

"Solleva un blocco di pietra?" aveva azzardato un ragazzo.

Langdon non aveva risposto, sperando che fosse uno studente a correggerlo.

"Veramente" era intervenuto uno "a me pare che Washington quella pietra la stia abbassando. È vestito da massone. Ho visto altre immagini di massoni che posano la prima pietra di una costruzione. È una cerimonia, e usano sempre quel treppiede."

"Esatto" aveva commentato Langdon. "L'affresco ritrae i nostri padri fondatori mentre posano la prima pietra del Campidoglio il 18 settembre 1793, fra le undici e un quarto e le dodici e mezzo." Si era fermato, guardando le facce degli studenti. "Qualcuno sa che cosa significano quell'ora e quella data?"

Silenzio.

"Se vi dicessi che furono scelte da tre famosi massoni, ovvero George Washington, Benjamin Franklin e Pierre L'Enfant, l'urbanista che ha dato la sua impronta alla città di Washington?"

Silenzio.

"Molto semplicemente, la prima pietra del Campidoglio venne posata in quel giorno e a quell'ora perché, fra le altre cose, Caput Draconis era nella Vergine."

I ragazzi si erano scambiati occhiate perplesse.

"Un momento" aveva detto qualcuno. "Intende... astrologicamente?"

"Sì. Anche se mi riferisco a un'astrologia diversa da quella che conosciamo noi adesso."

Si era alzata una mano. "Significa che i nostri padri fondatori credevano nell'astrologia?"

Langdon aveva sorriso. "Eccome ! Cosa pensereste se vi dicessi che nella struttura urbanistica e architettonica di Washington ci sono più segni zodiacali che in qualsiasi altra città del mondo? Zodiaci, configurazioni astrali, pietre angolari posate in date propizie dal punto di vista astrologico... Parecchi tra gli estensori della nostra costituzione appartenevano alla massoneria, credevano a una stretta correlazione fra le stelle e il destino e prestarono molta attenzione agli influssi celesti nel costruire il Nuovo Mondo."

"Ma il fatto che Caput Draconis fosse nella Vergine alla posa della prima pietra del Campidoglio... perché è significativo? Non potrebbe essere soltanto una coincidenza?"

"Sarebbe una coincidenza straordinaria, se pensiamo che la prima pietra delle tre costruzioni che costituiscono il triangolo federale, e cioè il Campidoglio, la Casa Bianca e il Washington Monument, venne posata in anni diversi ma con la stessa identica congiunzione astrale. Gli studenti avevano sgranato gli occhi. Alcuni prendevano appunti.

Si era alzata una mano negli ultimi banchi. "Perché stavano tanto attenti a queste cose?"

Langdon aveva fatto una risatina. "La risposta sarebbe materiale per un intero semestre. Se siete interessati, frequentate il mio corso sul misticismo. A dire il vero, non credo siate emotivamente preparati a sentire la risposta."

"Cosa?" aveva ribattuto lo studente. "Ci metta alla prova!"

Langdon aveva fatto finta di pensarci su e poi aveva scosso la testa. "Mi dispiace, ma non posso. Fra voi ci sono delle matricole. Non vorrei che rimanessero sconvolte."

"Ce lo dica!" avevano protestato in coro.

Langdon si era stretto nelle spalle. "Prendete contatto con la massoneria o con l'ordine della Stella d'Oriente e scopritelo direttamente alla fonte."

"Ma non possiamo" gli aveva fatto notare un ragazzo. "La massoneria è una società supersegreta."

"Supersegreta? Ne siete proprio sicuri?" A Langdon era venuto in mente il grosso anello massonico che il suo amico Peter Solomon portava orgogliosamente all'anulare destro. "Allora perché i massoni indossano anelli, fermacravatte e spille notoriamente massonici? Perché gli edifici della massoneria sono indicati in maniera chiara? Perché gli orari delle riunioni appaiono sui giornali?" Aveva sorriso nel vedere le facce confuse degli studenti. "La massoneria non è una società segreta. È una società con dei segreti."

"È la stessa cosa" aveva rimarcato qualcuno.

"Davvero?" aveva ribattuto Langdon. "Anche la Coca-Cola, allora, è una società segreta?"

"Direi di no" aveva risposto il ragazzo.

"Ma cosa succede, secondo lei, se va nella sede della Coca-Cola e chiede la ricetta?"

"Non me la danno."

"Infatti. Per conoscere la formula lei dovrebbe lavorare alla Coca-Cola per anni, dimostrarsi una persona fidata e salire ai vertici, dove forse le svelerebbero il segreto. Ma, a quel punto, le farebbero giurare di non rivelarlo a nessuno."

"Dunque, la massoneria è come un'azienda?"

"Solo nel senso che entrambe hanno una rigida gerarchia e tengono molto ai loro segreti."

"Mio zio è massone" aveva detto una ragazza. "E mia zia brontola perché lui non le racconta mai niente. Secondo lei, la massoneria è una religione."

"Fraintendimento abbastanza diffuso."

"Perché, non è una religione?"

"Facciamo una verifica" aveva proposto Langdon. "Chi di voi ha seguito il corso di religioni comparate del professor Witherspoon?"

Si erano alzate diverse mani.

"Bene. Ditemi: quali sono i requisiti fondamentali affinché un'ideologia possa essere considerata una religione?"

"Assicurare, credere, convertire" aveva risposto una studentessa.

"Esatto" aveva replicato Langdon. "Le religioni assicurano la salvezza, credono in una determinata teologia e convertono i non credenti." Dopo una piccola pausa, aveva aggiunto: "La massoneria invece no. Non promette salvezza, non ha una teologia specifica e non cerca di convertire nessuno. Anzi, nelle logge massoniche è proibito discutere di religione".

"Dunque, la massoneria è antireligiosa?"

"Al contrario. Uno dei requisiti per esservi ammessi è la fede in un'entità superiore. La differenza tra la spiritualità massonica e la religione organizzata è che i massoni non danno un nome o una definizione specifica a tale entità superiore. Invece di identità teologiche definite, come Dio, Allah, Buddha o Gesù, i massoni preferiscono usare denominazioni generiche, come Essere Supremo o Grande Architetto dell'Universo. Ciò permette la coesistenza di fedi diverse all'interno della massoneria."

"Mi sembra un po' tirato per i capelli" aveva osservato un ragazzo.

"Ma denota un'apertura mentale non da poco" gli aveva fatto notare Langdon. "In un'epoca in cui popoli di culture diverse arrivano a uccidersi per stabilire qual è la definizione migliore di Dio, la tradizione di tolleranza e apertura mentale della massoneria mi sembra assolutamente encomiabile." Si era messo a camminare avanti e indietro sulla pedana. "Inoltre, essa accoglie uomini di tutte le razze, di tutti i colori e di tutte le fedi e propugna una fratellanza spirituale che non discrimina in alcun modo."

"Non discrimina?" A intervenire era stata una ragazza del Women's Center di Harvard. "Quante donne sono ammesse in questa fratellanza, professore?"

Langdon aveva allargato le braccia. "Giusta osservazione. Le radici della massoneria affondano nelle gilde europee dei muratori, che erano tutte maschili. Alcuni secoli fa, secondo alcuni nel 1703, fu fondato l'ordine della Stella d'Oriente, che tra gli affiliati conta più di un milione di donne."

"Però la massoneria continua a essere un'organizzazione potente da cui le donne sono escluse" aveva insistito la studentessa.

Langdon non era sicuro di quanto fosse potente la massoneria al giorno d'oggi e non voleva affrontare l'argomento; i massoni moderni venivano percepiti in maniere molto diverse c'era chi li vedeva come un gruppo di innocui vecchietti che giocano a mascherarsi e chi li considerava un'accolita sotterranea di potenti che governa il mondo. La verità, come spesso succede, era nel mezzo.

"Professor Langdon, se la massoneria non è una società segreta, non è un'azienda e non è una religione, allora che cos'è?" A porre la domanda era stato un giovane con i capelli ricci, seduto nell'ultima fila.

"Se lo chiedesse a un affiliato, le risponderebbe che la massoneria è un sistema morale velato di allegorie e illustrato da simboli."

"Che a me sembra un eufemismo per 'setta stravagante'."

"Ha detto 'stravagante'?"

"Cavoli, sì!" Il giovane si era alzato in piedi. "Io ho sentito cosa fanno in quei palazzi segreti! Strani riti a lume di candela con bare, cappi, teschi pieni di vino... Stravagante è dir poco. "

Langdon aveva guardato il suo uditorio. "C'è qualcun altro che lo trova stravagante?"

"Sì " avevano risposto molte voci.

Langdon aveva sospirato. "Peccato. Se per voi questo è stravagante, allora non vorrete mai unirvi alla mia setta."

Nell'aula era calato il silenzio. La studentessa del Women's Center aveva assunto un'aria preoccupata. "Lei è in una setta, professore?"

Langdon aveva annuito e, con voce più bassa e in un tono da cospiratore, aveva detto: "Non raccontatelo a nessuno, ma io nel giorno del dio pagano del sole, Ra, mi inginocchio ai piedi di un antico strumento di tortura e ingerisco simboli che stanno per sangue e carne".

Gli studenti erano attoniti.

Langdon aveva fatto spallucce. "Se volete saperne di più, venite nella cappella dell'università domenica prossima, inginocchiatevi ai piedi del crocifisso e fate la comunione."

Il silenzio era generale.

Langdon aveva strizzato l'occhio ai ragazzi. "Aprite la mente: abbiamo tutti paura di ciò che non comprendiamo."

Nei corridoi del Campidoglio risuonò il rintocco di un orologio.

Le sette.

Robert Langdon ora correva. Sarà un'entrata indimenticabile. Nel corridoio, vide l'ingresso della National Statuary Hall.

Nei pressi della porta, rallentò il passo e fece alcuni lunghi respiri, si abbottonò la giacca ed entrò a testa alta, proprio mentre l'orologio suonava l'ultimo rintocco.

Era giunto il momento di andare in scena.

Mentre entrava nella sala, il professor Robert Langdon alzò gli occhi e sorrise. Un istante dopo, il sorriso gli morì sulle labbra. Si fermò di scatto.

C'era qualcosa che non andava.


Katherine Solomon attraversò di corsa il parcheggio sotto la pioggia e rabbrividì, pentita di aver indossato soltanto i jeans e un maglione di cachemire. Amano a mano che si avvicinava all'ingresso principale, il ronzio degli enormi depuratori d'aria diventava più forte. Ma Katherine quasi non lo sentiva, perché nelle orecchie le riecheggiava ancora la telefonata appena ricevuta.

Quello che suo fratello ritiene sia nascosto a Washington... è possibile trovarlo.

Era un'idea quasi inconcepibile. Avendo ancora molte cose di cui discutere, lei e il suo interlocutore erano rimasti d'accordo di parlarsi nuovamente quella sera.

Arrivata al portone, sentì il fremito di eccitazione che sempre provava prima di entrare nel gigantesco edificio. Nessuno conosce l'esistenza di questo posto.

La targa diceva:

SMITHSONIAN MUSEUM SUPPORT CENTER

(SMSC)


Pur avendo a disposizione una decina di grandi musei lungo il National Mall, lo Smithsonian Institution possedeva una collezione talmente vasta da non riuscire a esporne più del due per cento alla volta. Il restante novantotto per cento doveva essere conservato da qualche altra parte, e precisamente... lì.

Non doveva sorprendere, quindi, che in quell'edificio si trovasse un assortimento straordinariamente vario di oggetti e opere d'arte: colossali statue di Buddha, codici manoscritti, frecce avvelenate della Nuova Guinea, pugnali tempestati di pietre preziose, una canoa costruita con fanoni di balena. Per non parlare degli altrettanto straordinari pezzi rari naturali: scheletri di plesiosauro, una collezione di meteoriti dal valore inestimabile, un calamaro gigante e persino una serie di crani di elefante portata dall'Africa dopo un safari da Theodore Roosevelt.

Ma non era stato per quel motivo che il segretario generale dello Smithsonian, Peter Solomon, tre anni prima aveva condotto sua sorella all'SMSC. Non voleva che Katherine ammirasse le meraviglie della scienza, bensì che ne creasse di nuove. Ed era proprio quello che lei aveva fatto.

Dentro l'edificio, nelle buie viscere del modulo 5, c'era un piccolo laboratorio scientifico senza uguali al mondo. Le recenti scoperte che Katherine vi aveva fatto nel campo della noetica avevano ramificazioni e implicazioni in molte discipline diverse, dalla fisica alla storia, dalla filosofia alla religione. Presto tutto cambierà, pensò lei.

Quando Katherine entrò nell'atrio, la guardia di turno mise via in fretta e furia la radio e si tolse gli auricolari. «Dottoressa Solomon!» La salutò con un gran sorriso.

«I Redskins?»

L'uomo arrossì, colto in flagrante. «Ancora il prepartita.»

Katherine sorrise. «Non dirò niente a nessuno.» Andò verso il metal detector e si svuotò le tasche. Quando si tolse dal polso il Cartier d'oro, provò come sempre un moto di tristezza. Gliel'aveva regalato sua madre per il diciottesimo compleanno. Ed erano passati dieci anni da quando era morta, di morte violenta, fra le sue braccia.

«Allora, dottoressa Solomon» bisbigliò scherzosamente la guardia. «Quando ci dirà che cosa combina là dentro?»

Katherine alzò gli occhi. «Un giorno o l'altro lo farò, Kyle. Ma non stasera.»

«Coraggio» insistette l'uomo. «Un laboratorio segreto... in un museo segreto? Deve trattarsi di qualcosa di speciale.»

Speciale è dir poco, pensò Katherine mentre raccoglieva le sue cose. Gli esperimenti scientifici che conduceva in verità erano talmente avanzati da non sembrare neppure più scienza.


Robert Langdon rimase impietrito sulla soglia della National Statuary Hall e osservò la scena, sorpreso. La sala era un emiciclo perfetto, nello stile di un anfiteatro greco. Le pareti, in arenaria e decorate a stucco, descrivevano un elegante arco scandito da colonne in breccia oniciata e da trentotto statue a grandezza naturale di altrettanti americani illustri, disposte in semicerchio sul pavimento di marmo bianco e nero.

Era esattamente come Langdon la ricordava dalla volta in cui vi aveva assistito a una conferenza.

Con una sola differenza.

La sala era vuota.

Non c'erano sedie, né pubblico, né Peter Solomon. Solo pochi turisti che si guardavano intorno distrattamente, ignari della sua entrata in grande stile. Forse Peter intendeva la Rotonda? Diede un'occhiata nel corridoio in quella direzione, ma anche lì vide soltanto qualche visitatore che passeggiava.

L'eco dei rintocchi dell'orologio si era spenta. Ora Langdon era ufficialmente in ritardo.

Tornò in gran fretta nel corridoio. «Scusi» chiese a una guida «dove si tiene la conferenza per l'evento dello Smithsonian?»

La guida esitò. «Non saprei, signore. A che ora comincia?»

«In questo preciso momento!»

L'uomo scosse la testa. «Non mi risulta che ci siano eventi dello Smithsonian, stasera. Non qui, almeno.»

Perplesso, Langdon tornò a passo svelto verso il centro della sala, guardandosi intorno. Solomon mi sta facendo uno scherzo?

Gli pareva impossibile. Prese il cellulare e il fax ricevuto quella mattina e compose il numero di Peter.

Il telefonino ci mise un momento a trovare il segnale in quell'edificio enorme, poi finalmente cominciò a suonare.

Rispose la solita voce con l'accento del Sud. «Segretariato. Sono Anthony Jelbart. Desidera?»

«Anthony!» esclamò Langdon sollevato. «Per fortuna è ancora lì. Sono Robert Langdon. Credo ci sia stato un malinteso. Mi trovo nella Statuary Hall, ma non c'è nessuno. La conferenza è stata spostata in un'altra sala?»

«Non penso, professore. Aspetti che controllo.» L'assistente fece una piccola pausa. «Ha avuto la conferma dal signor Solomon personalmente?»

«No, la conferma me l'ha data lei, Anthony. Stamattina!» replicò Langdon, confuso.

«Sì, me lo ricordo.» Ci fu un attimo di silenzio, poi: «È stato un po' incauto da parte sua, professore, non trova?».

Langdon si stava agitando. «Come, scusi?»

«Ci pensi...» continuò l'uomo. «Ha ricevuto un fax che le diceva di telefonare a un certo numero. Lei lo ha chiamato, ha parlato con un perfetto sconosciuto che le ha detto di essere l'assistente personale di Peter Solomon, dopodiché si è imbarcato su un aereo privato e all'aeroporto di Washington è salito sull'auto che la aspettava. Giusto?»

Langdon si sentì gelare. «Chi diavolo è lei? Dov'è Peter?»

«Peter Solomon non sa neppure che lei è a Washington.» L'accento del Sud scomparve e la voce dell'uomo si trasformò in un bisbiglio più basso e mellifluo. «Lei è qui, professor Langdon, perché l'ho voluto io »


Robert Langdon, dentro la Statuary Hall, si premette il cellulare all'orecchio e cominciò a camminare in tondo. «Chi diavolo è lei?»

«Non si allarmi, professore. Lei è stato convocato qui per un motivo» replicò l'uomo con un sussurro lieve e morbido come la seta.

«Convocato?» Langdon si sentiva come un animale in gabbia. «Dica piuttosto sequestrato!»

«Non sono d'accordo.» La voce dell'uomo era di una calma sinistra. «Se avessi voluto farle del male, sarebbe già morto a bordo della Lincoln.» Lasciò riecheggiare nel silenzio quelle parole per un po'. «Le mie intenzioni sono nobili, glielo garantisco. Volevo semplicemente porgerle un invito.»

No, grazie. Diventato famoso suo malgrado dopo le avventure in Europa degli ultimi anni, Langdon era abituato ad avere a che fare con tipi strani e pazzoidi di ogni genere, ma questo aveva passato ogni limite. «Senta, non so che cosa diavolo stia succedendo, ma ora spengo e...»

«Se fossi in lei, non lo farei» lo interruppe l'uomo. «Le sue possibilità di salvare l'anima di Peter Solomon sono molto esigue.»

Langdon prese fiato. «Come ha detto?»

«Ha capito benissimo.»

Il modo in cui l'uomo aveva pronunciato il nome di Peter aveva raggelato Langdon. «Che cosa sa di Peter Solomon?»

«A questo punto, tutti i suoi segreti più preziosi. Il signor Solomon è mio ospite, e io so essere un anfitrione molto convincente.»

Non è possibile. «Peter non è suo ospite.»

«Ho risposto al suo cellulare, no? Non si è accorto che quello che le ho dato è il numero del telefonino di Peter? Ci rifletta.»

«Ora chiamo la polizia.»

«Non è necessario» ribatté l'uomo. «Le autorità arriveranno a momenti.»

Ma che discorsi fa questo squilibrato? Il tono di Langdon si indurì. «Se Peter è con lei, me lo passi.»

«Impossibile. Il signor Solomon è rimasto bloccato in un luogo infelice.» Silenzio. «È nell'Araf.»

«Dove?» Langdon si rese conto che, a furia di stringere spasmodicamente il telefono, gli si erano intorpidite le dita.

«L'Araf, l'Hamistagan, il luogo a cui Dante ha dedicato la seconda cantica della Commedia. Ha presente?»

Quelle allusioni religioso-letterarie confermarono in Langdon il sospetto di avere a che fare con uno psicopatico. La seconda cantica della Divina Commedia. Langdon la conosceva bene, perché nessuno usciva dalla Phillips Exeter Academy senza aver letto Dante. «Vuole forse darmi a intendere che Peter Solomon è... in purgatorio?»

«Quello che usate voi cristiani è un termine un po' rozzo, ma sì, il signor Solomon non è né di qua né di là.»

Con quelle parole che ancora gli riecheggiavano nelle orecchie, Langdon chiese: «Sta dicendo che Peter è... morto?».

«Non proprio, no.»

«Come non proprio?» gridò Langdon. La sua voce rimbombò nella grande sala e una famiglia di turisti si voltò a guardarlo. Lui si girò e abbassò la voce. «Che io sappia, la morte non prevede vie di mezzo!»

«Mi stupisco di lei, professore. Credevo che conoscesse meglio i misteri della vita e della morte. Esiste un mondo intermedio, in cui si trova attualmente sospeso Peter Solomon. Può tornare in questo mondo, o può andare nell'altro... a seconda di quello che farà lei adesso.»

Langdon cercò di raccapezzarsi. «Che cosa vuole da me?»

«È molto semplice: le è stato dato accesso a qualcosa di molto antico. E stanotte lei lo condividerà con me.»

«Non capisco a che cosa si riferisca.»

«No? Fa finta di non conoscere gli antichi segreti che le sono stati affidati?»

Langdon ebbe un tuffo al cuore. Cominciava a capire di che cosa si trattasse. Antichi segreti. Non aveva raccontato a nessuno ciò che gli era successo a Parigi diversi anni prima, ma i fanatici del Graal avevano seguito attentamente la vicenda sui media e alcuni si erano convinti che lui fosse venuto a conoscenza di informazioni segretissime, forse addirittura del luogo in cui si trovava il Santo Graal.

«Senta, se si riferisce al Santo Graal, le assicuro che non so niente di più di...»

«Questa è un'offesa alla mia intelligenza, professor Langdon» ribatté l'uomo. «Non nutro alcun interesse per sciocchezze come il Santo Graal o le ridicole polemiche su chi siano i detentori della verità. Le chiacchiere sulla semantica religiosa non mi appassionano. Sono domande alle quali si trova risposta solo con la morte.»

Quelle crude parole sconcertarono Langdon. «Di cosa diavolo si tratta, allora?»

L'uomo tacque per parecchi secondi. «Come forse lei sa, in questa città esiste un antico portale.»

Un antico portale?

«E stanotte, professore, lei lo aprirà per me. Dovrebbe sentirsi onorato del fatto che io abbia contattato proprio lei. Questo invito è un'occasione unica nella sua vita. Lei è il prescelto.»

E lei invece è matto. «Mi dispiace, ha scelto male» ribatté Langdon. «Non so nulla di antichi portali.»

«Lei non capisce, professore. Non sono stato io a sceglierla, ma Peter Solomon.»

«Cosa?» esclamò Langdon con un filo di voce.

«Il signor Solomon mi ha spiegato come fare a trovare il portale e mi ha rivelato che un uomo soltanto è in grado di aprirlo. E quell'uomo è lei.»

«Se Peter le ha detto così, si è sbagliato... o le ha mentito.»

«Non penso. Era in una condizione delicata quando me lo ha confessato, e sono propenso a credergli.»

Langdon provò un moto di rabbia. «L'avverto, se fa del male a Peter io...»

«Troppo tardi» replicò l'uomo in tono divertito. «Ho già avuto ciò che mi serviva da Peter Solomon. Tuttavia, se tiene al suo amico, mi dia quello di cui ho bisogno. Il tempo è prezioso... per lei e per il signor Solomon. Le consiglio di trovare quel portale e di aprirlo. Peter indicherà la via.»

Peter? «Mi pareva di aver capito che è in "purgatorio".»

«Come sopra, così sotto» ribatté l'uomo.

Langdon si sentì raggelare ancora di più. Quella strana risposta era un'antica formula ermetica che alludeva all'esistenza di un legame fisico tra cielo e terra. Come sopra, così sotto. Langdon si guardò intorno nella grande sala, meravigliato dalla rapidità con cui quella serata si era trasformata in un incubo. «Senta, io non so proprio dove trovare questo antico portale. Ora chiamo la polizia.»

«Davvero non ci arriva? Non ha ancora capito perché è stato scelto proprio lei?»

«No» rispose Langdon.

«Lo capirà presto» replicò lo sconosciuto ridacchiando.

E chiuse la conversazione.

Langdon rimase immobile per alcuni istanti, terrorizzato, a cercare di elaborare quello che era successo.

Tutto a un tratto, in lontananza, udì un suono inaspettato.

Veniva dalla Rotonda.

Erano grida.


Langdon era entrato nella Rotonda del Campidoglio molte volte in vita sua,però mai di corsa. Mentre varcava precipitosamente l'ingresso nord, vide un gruppo di turisti radunato al centro della sala. Un bambino gridava e piangeva mentre i genitori cercavano di consolarlo. Altre persone si erano avvicinate per guardare e vari agenti di sicurezza stavano facendo del loro meglio per riportare l'ordine.

«L'ha tirata fuori dalla fasciatura e l'ha lasciata lì!» diceva qualcuno.

Avvicinandosi, Langdon vide la causa di tanta agitazione. Innegabilmente l'oggetto sul pavimento del Campidoglio era strano, ma non tanto da giustificare tutte quelle urla.

Lui lo aveva visto molte volte. Al dipartimento di arte di Harvard, c'erano decine di modelli anatomici come quello, a grandezza naturale, di plastica. Pittori e scultori li usavano per aiutarsi a riprodurre la parte più complessa del corpo umano che, contrariamente a quanto si possa pensare, non è il viso bensì la mano. Chi può averlo lasciato nella Rotonda?

Quel tipo di modello anatomico aveva dita articolate che permettevano all'artista di sistemare la mano nella posizione desiderata, che nel caso degli studenti dei primi anni era spesso con il dito medio teso e rivolto verso l'alto. Nel caso specifico, invece, erano l'indice e il pollice a puntare verso il soffitto.

Langdon fece un passo avanti e si rese conto che il modello era diverso dal solito. La superficie di plastica non era liscia, bensì chiazzata e leggermente rugosa. Sembrava quasi...

Pelle, pelle vera.

Langdon si fermò di colpo.

Poi vide il sangue. Mio Dio!

Il polso mozzato era stato infilzato su un piedistallo di legno provvisto di una punta acuminata, in modo che stesse dritto. Langdon provò un senso di nausea. Avanzò leggermente, trattenendo il fiato, e vide che i polpastrelli dell'indice e del pollice erano decorati da piccoli tatuaggi. Ma non furono questi ad attirare la sua attenzione. Spostò immediatamente lo sguardo sull'anello d'oro all'anulare.

Oh, no!

Indietreggiò. Era come se il mondo gli fosse crollato addosso: quella che aveva davanti agli occhi era la mano destra di Peter Solomon.


Perché Peter non risponde? si chiese Katherine Solomon chiudendo il cellulare. Dov'è?

Da tre anni a quella parte, Peter era sempre arrivato per primo all'appuntamento settimanale della domenica sera. Era il loro rito privato, di famiglia, un modo per tenersi in contatto prima di iniziare una nuova settimana, e a lui serviva anche per essere aggiornato sul lavoro fatto dalla sorella al laboratorio.

Non è mai in ritardo, pensò Katherine, e risponde sempre al telefono. Come se non bastasse, era ancora indecisa su cosa dirgli quando fosse finalmente arrivato. Come faccio a chiedergli spiegazioni riguardo a quello che ho scoperto oggi?

I suoi passi riecheggiavano ritmati nel corridoio di cemento che andava da un capo all'altro dell'SMSC come una spina dorsale. Era soprannominato la "Strada" e collegava fra loro i cinque grossi moduli da cui era composto l'edificio. A dodici metri di altezza una rete di tubature arancioni convogliava migliaia di metri cubi di aria filtrata da depuratori che ronzavano pulsando, come un cuore che batte.

Di solito quel rumore aveva un effetto calmante su Katherine e l'accompagnava lungo i circa quattrocento metri che portavano al laboratorio, ma quella sera il "respiro" dell'edificio la innervosiva. Le cose che aveva scoperto sul conto del fratello avrebbero turbato chiunque, ma dal momento che Peter era l'unico parente rimastole il fatto che le avesse taciuto un'informazione tanto importante l'aveva scombussolata ancora di più.

Che lei ricordasse, Peter le aveva tenuto nascosta una sola cosa in vita sua... ed era stato per farle una sorpresa bellissima. Tre anni prima, l'aveva condotta in quel corridoio mostrandole l'SMSC e alcuni dei suoi reperti più inconsueti: il meteorite di origine marziana ALH- 84001, il diario pittografico di Toro Seduto, i barattoli di vetro sigillati con la cera contenenti esemplari originali raccolti da Charles Darwin...

A un certo punto erano passati davanti a una robusta porta con una finestrella. Katherine, avendo intravisto ciò che si trovava al di là, aveva esclamato: "Che cos'è?".

Peter aveva ridacchiato ed era andato avanti. "Il modulo 3. Lo chiamiamo il modulo Acquario. Incredibile, eh?"

Terrificante, casomai. Katherine aveva allungato il passo per non rimanere indietro. Le sembrava di trovarsi su un altro pianeta.

"La cosa che ti voglio mostrare è nel modulo 5" le aveva detto il fratello, continuando a camminare lungo il corridoio apparentemente infinito. "È il nostro ultimo ampliamento. È stato costruito per ospitare gli oggetti conservati nei sotterranei del Museo nazionale di storia naturale. Siccome verranno trasferiti qui fra circa cinque anni, adesso è vuoto."

Katherine gli aveva lanciato un'occhiata interrogativa. "Vuoto? E allora che cosa ci andiamo a fare?"

Gli occhi grigi del fratello si erano illuminati. "Ho pensato che, finché resta libero, potresti usarlo tu."

"Io?"

"Certo. Mi è venuto in mente che può farti comodo uno spazio dedicato, un laboratorio dove realizzare alcuni degli esperimenti teorici che hai ideato in questi anni."

Katherine lo aveva fissato esterrefatta. "Ma, Peter, si tratta di esperimenti teorici, per l'appunto! Realizzarli è praticamente impossibile."

"Nulla è impossibile, Katherine, e questa struttura sembra fatta apposta per te. L'SMSC non è solo un contenitore di oggetti preziosi, è uno dei centri di ricerca scientifica più avanzati del mondo. Preleviamo continuamente pezzi dalle nostre collezioni per esaminarli con le migliori tecnologie esistenti. Qui avrai a disposizione tutte le attrezzature e i macchinari possibili."

"Peter, le tecnologie necessarie per condurre questi esperimenti sono..."

"... già qui." Peter aveva sorriso. "Il laboratorio è pronto."

Katherine si era fermata di colpo.

Il fratello aveva indicato il fondo del corridoio. "Stiamo andando a vederlo."

Katherine era senza parole. "Mi... mi hai fatto costruire un laboratorio?"

"Rientra nei miei compiti istituzionali. Lo Smithsonian è stato fondato per promuovere le scienze e, in quanto segretario generale, di questo mi devo occupare. Sono convinto che gli esperimenti da te proposti possano allargare i confini della conoscenza scientifica verso territori inesplorati." Peter si era interrotto e l'aveva guardata dritto negli occhi. "Mi sentirei in dovere di appoggiare le tue ricerche anche se tu non fossi mia sorella: le tue intuizioni sono brillanti, ed è giusto che il mondo sappia dove portano."

"Peter, non posso..."

"Okay, rilassati... Sono io personalmente a finanziare le tue ricerche, e al momento il modulo 5 non serve a nessuno. Quando avrai completato gli esperimenti, te ne andrai. A parte il fatto che il modulo 5 ha alcune caratteristiche particolari che lo rendono perfetto per il tuo lavoro."

Katherine non riusciva a immaginare che cosa potesse esserci di utile per le sue ricerche in un enorme spazio vuoto, ma aveva la sensazione che presto l'avrebbe scoperto. Erano appena arrivati davanti a una porta in acciaio con impressa una scritta nitida:

MODULO 5


Peter aveva inserito una chiave magnetica nell'apposita fessura. Si era acceso un tastierino elettronico e lui aveva sollevato il dito per comporre il codice identificativo, ma poi si era fermato e aveva guardato la sorella con la stessa espressione furbetta di quando era piccolo. "Sei pronta?"

Katherine aveva annuito. Mio fratello è sempre stato un grande attore.

"Sta' indietro." Peter aveva premuto una serie di tasti. La porta si era aperta con un sibilo.

Oltre la soglia c'era solo un gran buio... uno spazio vuoto, nero come l'inchiostro, un abisso da cui parevano levarsi un vago gemito e una corrente d'aria fredda. Era come affacciarsi sul Grand Canyon di notte.

"Immagina un hangar in attesa di una flotta di Airbus" le aveva detto il fratello "Più o meno è così."

Katherine, involontariamente, aveva fatto un passo indietro.

"È troppo grande per poterlo riscaldare, ma il tuo laboratorio è in fondo ed è praticamente un cubo di materiale termoisolante. Godrai della massima tranquillità."

Katherine aveva cercato di immaginarlo: una scatola dentro una scatola. Si era sforzata di guardare nel buio, ma non aveva visto nulla. "Quanto è lontano da qui?"

"Parecchio... Il modulo è grande più o meno come un campo da calcio e attraversarlo fa venire i brividi. Ti avverto: dentro è buio pesto."

Katherine si era affacciata oltre la soglia. "Non c'è un interruttore?"

"Il modulo 5 non è ancora collegato alla rete elettrica."

"Ma... come fa a funzionare un laboratorio senza elettricità?"

Peter aveva ammiccato. "Con una cella a combustibile a idrogeno."

Katherine era rimasta a bocca aperta. "Stai scherzando, vero?"

"Abbiamo energia sufficiente per una piccola città. E il tuo laboratorio è completamente schermato dalle radiofrequenze del resto dell'edificio. Inoltre, il modulo è rivestito di membrane fotoresistenti per proteggere dalla radiazione solare gli oggetti che vi verranno conservati. Insomma, è un ambiente isolato, energeticamente neutro."

Katherine stava cominciando ad apprezzare le qualità del modulo 5. Dal momento che il suo lavoro era in gran parte basato sulla misurazione di campi energetici sconosciuti, gli esperimenti andavano condotti in un luogo isolato e protetto da qualsiasi radiazione estranea o "rumore bianco", comprese per esempio sottili interferenze quali le "radiazioni cerebrali" o "emissioni di pensiero" generate dalle persone nei paraggi. Per questo motivo non sarebbero andati bene né un campus universitario né un laboratorio ospedaliero, mentre un magazzino deserto dell'SMSC era l'ideale.

"Andiamo a dare un'occhiata." Con un gran sorriso, Peter si era addentrato nelle tenebre. "Seguimi."

Katherine aveva esitato sulla soglia. Più di cento metri nel buio assoluto? Stava per suggerire di prendere una torcia, ma il fratello era già scomparso nell'abisso.

"Peter?" l'aveva chiamato.

"Abbi fede" le aveva risposto lui, già lontano. "Troverai la strada, fidati di me."

Scherza? si era chiesta Katherine con il batticuore, muovendo i primi passi e continuando a cercare di scrutare nel buio. Non vedo niente! La porta di acciaio aveva emesso un sibilo e all'improvviso si era chiusa alle sue spalle, lasciandola immersa nell'oscurità più totale. Non un barlume da nessuna parte. "Peter?"

Silenzio.

Troverai la strada, fidati di me.

Esitante, era andata avanti alla cieca, a piccoli passi. Abbi fede? Ma se non riusciva nemmeno a vedere a un palmo dal naso! Aveva continuato a camminare, tuttavia dopo pochi secondi era già completamente disorientata. Dove sto andando?

Tutto questo era successo tre anni prima. Ora, arrivando davanti alla stessa robusta porta di metallo, Katherine si rese conto di quanti progressi avesse compiuto da quella prima volta. Il laboratorio, soprannominato il "Cubo", era diventato per lei una seconda casa, un rifugio nelle viscere del modulo 5. Esattamente come previsto da Peter, aveva trovato la strada nel buio quella sera, e tutte le altre volte in seguito, grazie a un sistema ingegnoso che suo fratello le aveva lasciato scoprire da sola.

Ma, ancora più importante, anche l'altra previsione di Peter si era avverata e gli esperimenti di Katherine avevano prodotto risultati straordinari, soprattutto negli ultimi sei mesi, facendole fare passi avanti che avrebbero cambiato radicalmente interi paradigmi di pensiero. Lei e Peter avevano deciso di mantenere il più assoluto riserbo su tali risultati finché le loro implicazioni non fossero state più chiare. Ma Katherine sapeva che un giorno non molto lontano avrebbe pubblicato alcune delle scoperte scientifiche più rivoluzionarie nella storia dell'umanità.

Un laboratorio segreto in un museo segreto, pensò mentre inseriva la chiave magnetica nella fessura. Il tastierino si illuminò e Katherine digitò il proprio codice identificativo.

La porta di acciaio del modulo 5 si aprì con un sibilo.

L'ormai familiare vago gemito fu accompagnato dalla consueta corrente di aria fredda. Come sempre, Katherine senti che il cuore le batteva più forte.

Nessuno al mondo fa un percorso più strano di me per andare a lavorare.

Preparandosi ad affrontare il viaggio, guardò l'ora prima di tuffarsi nel buio. Era preoccupata. Dov'è Peter?


Il capo della polizia del Campidoglio, Trent Anderson, era responsabile della sicurezza del complesso da oltre dieci anni. Era un uomo robusto, dalle spalle larghe e dalla mascella squadrata, con i capelli rossi tagliati molto corti che gli davano un'aria militare. Portava la pistola alla cintura bene in vista, a mo' di avvertimento per chiunque fosse così sciocco da mettere in dubbio la sua autorità.

Passava la maggior parte del tempo a coordinare un piccolo esercito di agenti da un nucleo operativo ad alta tecnologia nel seminterrato del Campidoglio. Lì, sotto la sua direzione, un gruppo di tecnici controllava i dati e i monitor dell'impianto a circuito chiuso. Un centralino telefonico permetteva di tenersi in contatto costante con il personale di sicurezza.

Quel pomeriggio era stato più tranquillo del solito, e Anderson era soddisfatto. Sperava addirittura di poter seguire la partita dei Redskins sul televisore a schermo piatto del suo ufficio. A pochi minuti dall'inizio, suonò l'interfono.

«Capo?»

Anderson gemette e, tenendo gli occhi fissi sullo schermo, premette il pulsante per rispondere. «Sì?»

«C'è un problema alla Rotonda. Ho già mandato a chiamare alcuni colleghi, ma è meglio che venga a dare un'occhiata anche lei.»

«Arrivo.» Anderson entrò nel centro nevralgico della sicurezza, una sala funzionale modernissima, piena di schermi. «Che cosa vedi?»

Il tecnico di turno stava richiamando un filmato digitale sul monitor. «Telecamera est della galleria della Rotonda. Meno di un minuto fa.» Fece partire la registrazione.

Anderson guardò da dietro le spalle del tecnico.

La Rotonda era semideserta, con pochi turisti sparsi qua e là. L'occhio allenato di Anderson si posò subito sull'unica persona da sola, che si muoveva più veloce delle altre. Era un uomo con la testa rasata e un cappotto militare verde. Aveva un braccio al collo e zoppicava leggermente. Era curvo e parlava al cellulare.

I suoi passi riecheggiavano, secchi. Arrivato al centro della Rotonda, l'uomo dalla testa rasata si fermava di colpo, smetteva di parlare e si inginocchiava, come per allacciarsi una scarpa. Invece estraeva un oggetto dalla fasciatura e lo posava per terra. Poi si rialzava e, sempre zoppicando, si avviava velocemente verso l'uscita est.

Anderson osservò l'oggetto che l'uomo aveva lasciato sul pavimento. Aveva una forma strana. Che cosa...? Era verticale, alto una trentina di centimetri. Anderson si avvicinò allo schermo e strizzò gli occhi. Non può essere!

Mentre l'uomo dalla testa rasata si allontanava in fretta e spariva oltre il porticato est, si udiva la voce di un bambino che diceva: "Mamma, a quel signore è caduto qualcosa". Il bambino si avviava verso l'oggetto, ma si fermava di colpo e, dopo essere rimasto immobile qualche secondo, lo indicava con il dito e lanciava un grido acutissimo.

Anderson si voltò di scatto e corse verso la porta, dando ordini a gran voce: «Contattate via radio tutte le unità! Trovate il tizio pelato con il braccio al collo e fermatelo! SUBITO!».

Uscì di corsa e salì la scala, tre gradini alla volta. Nel filmato, l'uomo dalla testa rasata si allontanava dalla Rotonda attraverso il porticato est. Da lì il percorso più breve per lasciare l'edificio era il corridoio est-ovest, che si trovava poco più avanti.

Posso    intercettarlo.

Arrivato in cima alla scala, svoltò l'angolo e osservò il corridoio silenzioso. Verso il fondo c'erano due anziani che passeggiavano mano nella mano; davanti a loro, un turista biondo con un blazer blu leggeva una guida e ammirava il soffitto a mosaico fuori della Camera dei Rappresentanti.

«Scusi!» gridò Anderson mentre gli si avvicinava di corsa. «Ha visto un tizio con la testa rasata e un braccio al collo?»

Il turista alzò gli occhi dalla guida con aria confusa.

«Un uomo pelato, con un braccio al collo!» ripetè Anderson in tono più deciso. «Lo ha visto?»

Il turista esitò, poi guardò intimorito l'estremità est del corridoio. «Ehm... sì» disse. «È appena passato di corsa, mi pare... Andava verso quella scala laggiù.» E indicò il fondo del corridoio.

Anderson tirò fuori la radio e gridò: «A tutte le unità! Il sospetto è diretto verso l'uscita sudest. Convergete là!». Mise via la radio e correndo estrasse la pistola dalla fondina.

Trenta secondi dopo, il biondo muscoloso con il blazer blu prese l'uscita sul lato est del Campidoglio, poco frequentata, e sorrise, assaporando l'aria fresca della sera.

Trasformazione.

Era stato facilissimo.

Un minuto prima era uscito zoppicando dalla Rotonda con indosso un cappotto militare. Se l'era tolto in una nicchia buia rimanendo in giacca blu e, prima di abbandonarlo in un angolo, aveva estratto dalla tasca una parrucca bionda. Poi da quella del blazer aveva preso una piccola guida di Washington ed era uscito dalla nicchia con passo tranquillo e disinvolto, a testa alta.

La trasformazione è la mia specialità.

Mentre andava verso la limousine, Mal'akh drizzò la schiena e tirò indietro le spalle, ergendosi in tutta la sua statura. Inspirò profondamente, riempiendosi di aria i polmoni, e sentì allargarsi le ali della fenice che aveva tatuata sul petto.

Se solo conoscessero il mio potere, pensò mentre ammirava il panorama della città. Stanotte la mia trasformazione sarà completa.

Mal'akh aveva giocato abilmente le sue carte nel palazzo del Campidoglio, rendendo omaggio a tutti gli antichi protocolli. L'antico invito è stato consegnato. Se Langdon non aveva ancora capito quale fosse il suo ruolo nella capitale, quella sera, ci sarebbe arrivato presto.


La Rotonda del Campidoglio, come la Basilica di San Pietro, riusciva sempre a sorprendere Robert Langdon. Razionalmente, sapeva che era così enorme da poter contenere senza problemi la Statua della Libertà, quella di New York, ma ogni volta rimaneva colpito dalla sua grandezza e solennità. Quella sera, però, vi regnava il caos.

Alcuni agenti di sicurezza stavano chiudendo la sala al pubblico e cercando di allontanare i turisti sconvolti dalla mano mozza. Il bambino continuava a piangere. Ci fu un lampo di luce: qualcuno aveva scattato una foto. Subito gli agenti si precipitarono a fermare il responsabile, gli sequestrarono la macchina fotografica e lo accompagnarono fuori. In mezzo alla confusione, Langdon avanzava come in trance, insinuandosi tra la folla per avvicinarsi.

La mano destra di Peter Solomon era in verticale. Il polso, reciso di netto, era infilzato su una punta acuminata sopra un piccolo piedistallo di legno. Tre dita erano ripiegate, mentre il pollice e l'indice erano tesi e puntati verso la cupola della sala.

«State indietro!» gridò un poliziotto.

Langdon era ormai abbastanza vicino da riuscire a distinguere il sangue che, colato dal polso, si era coagulato alla base di legno. Le ferite post mortem non sanguinano... quindi Peter è vivo. Il sollievo che aveva provato si trasformò subito in raccapriccio. Gli hanno amputato una mano? Ebbe un attacco di nausea e pensò a tutte le volte che gliel'aveva stretta.

Per qualche secondo si sentì come immerso nella nebbia.

La prima immagine che riuscì a mettere a fuoco fu del tutto inaspettata.

Una corona... e una stella.

Langdon si accovacciò per vedere meglio la punta del pollice e dell'indice. Tatuaggi? Incredibile ma vero, il mostro che aveva commesso quell'atrocità aveva tatuato dei piccoli simboli sulla punta delle dita di Peter.

Una corona sul pollice, una stella sull'indice.

Non è possibile. Non appena riconobbe i due simboli, quella scena, già così agghiacciante, assunse per Langdon una sfumatura soprannaturale. Storicamente apparivano spesso, sempre nella stessa posizione, sulle dita di una mano. Si trattava di una delle icone più antiche e più ambite del mondo.

La Mano dei Misteri.

Ormai si vedeva di rado, ma in passato aveva rappresentato un'imperiosa esortazione ad agire. Langdon si sforzò di capire il significato del macabro feticcio che aveva davanti. Qualcuno ha trasformato la mano di Peter in una Mano dei Misteri? Era inconcepibile. Tradizionalmente, la mano veniva scolpita nella pietra o nel legno, oppure disegnata. Langdon non aveva mai sentito parlare di una Mano dei Misteri in carne e ossa. Era un'idea raccapricciante.

«Signore?» disse un agente alle sue spalle. «Per favore, si sposti.»

Langdon quasi non lo sentì. Ci sono altri tatuaggi. Pur non riuscendo a vedere i polpastrelli delle tre dita ripiegate, sapeva che anche quelli dovevano avere ciascuno il suo simbolo. La tradizione voleva così. Cinque simboli in tutto. Nel corso dei millenni, i cinque simboli della Mano dei Misteri non erano mai cambiati, così come non era mai cambiata la funzione simbolica della mano stessa.

La mano rappresenta... un invito.

Langdon rabbrividì nel ricordare le parole dell'uomo che lo aveva condotto fin lì. Questo invito è un'occasione unica nella sua vita. Nell'antichità, la Mano dei Misteri aveva veramente rappresentato l'invito più ambito che esistesse. Ricevere quel segno significava essere chiamati a far parte di un'èlite, il gruppo ristretto di coloro che erano considerati detentori di una conoscenza esoterica ed eterna. Oltre a essere un grande onore, l'invito significava che un maestro ti considerava degno di condividere tale sapienza segreta. La mano che il maestro tendeva all'iniziato.

«Per favore» ripetè l'agente toccando Langdon su una spalla. «Deve spostarsi subito più indietro.»

«So cosa significa. Vi posso aiutare!» disse Langdon.

«Per favore!» insistette il poliziotto.

«Il mio amico è in pericolo. Dobbiamo...»

Si sentì sollevare da braccia possenti che lo trascinarono via. Era troppo scombussolato per protestare.

Gli era appena stato rivolto un invito ufficiale. Qualcuno lo aveva convocato affinché aprisse un portale mistico che avrebbe rivelato un mondo di antichi misteri e conoscenze segrete.

Ma era pura follia.

Il delirio di un pazzo.


La limousine di Mal'akh si allontanò dal Campidoglio e imboccò Independence Avenue in direzione est. Un ragazzo e una ragazza, sul marciapiede, cercarono di vedere dai finestrini posteriori oscurati se a bordo ci fosse qualche VIP.

Sono qui davanti, pensò Mal'akh sorridendo tra sé.

Gli piaceva il senso di potere che provava nel guidare da solo quella vettura di lusso. Nessuna delle altre cinque macchine che possedeva gli avrebbe potuto offrire ciò di cui aveva bisogno quella sera: la garanzia dell'anonimato. Una privacy totale. Le limousine a Washington godevano di una sorta di tacita immunità. Sono ambasciate mobili. Per evitare il rischio di infastidire qualche personaggio potente fermando una limousine nei pressi del Campidoglio, i vigili in servizio in quella zona preferivano astenersi.

Nel momento in cui attraversò il fiume Anacostia ed entrò nel Maryland, Mal'akh ebbe la sensazione di essere trasportato verso Katherine dalla forza del destino. Sono stato chiamato a un secondo compito stasera... un compito che non avevo previsto. La sera precedente, quando Peter Solomon aveva confessato l'ultimo dei suoi segreti, Mal'akh era venuto a sapere dell'esistenza del laboratorio in cui Katherine Solomon aveva compiuto miracoli: scoperte eccezionali che, se fossero state rese pubbliche, avrebbero cambiato il mondo.

Le sue ricerche riveleranno la vera natura di tutte le cose.

Per secoli le "menti più brillanti" del mondo avevano ignorato le scienze antiche, considerandole ridicole superstizioni scaturite dall'ignoranza, e forti di arrogante scetticismo e nuove tecnologie si erano allontanate sempre più dalla verità. Le scoperte di ogni generazione vengono confutate dalla tecnologia di quella successiva. Così erano sempre andate le cose: più l'uomo imparava, più si rendeva conto di non sapere.

Per millenni l'umanità aveva vagato nelle tenebre... ma ora, come annunciato dalle profezie, si preparava un cambiamento. Dopo tanto brancolare nel buio, il genere umano era arrivato a un crocevia. Si trattava di un evento previsto da tempo immemorabile, preconizzato da antichi testi, da calendari arcaici e dagli astri stessi. La data era precisa, l'evento era imminente. Sarebbe stato preceduto da una grande esplosione di conoscenza... un lampo che avrebbe squarciato le tenebre e offerto all'uomo la sua ultima chance di allontanarsi dall'abisso e imboccare la strada della sapienza.

Sono venuto a oscurare la luce, pensò Mal'akh. È questo il mio ruolo.

Il destino lo aveva legato ai fratelli Solomon. Le scoperte fatte da Katherine all'SMSC rischiavano di spalancare le porte a un nuovo modo di pensare, di dare inizio a un nuovo Rinascimento. Se rese pubbliche, le sue rivelazioni avrebbero catalizzato le energie dell'umanità, spingendola a riscoprire la conoscenza perduta, dandole un potere che superava ogni immaginazione.

Il destino di Katherine è accendere questa torcia.

Il mio è spegnerla.


Nell'oscurità più totale, Katherine Solomon cercò a tastoni la porta esterna del laboratorio, pesante e rivestita di piombo. L'aprì e si precipitò nel piccolo atrio. La traversata al buio era durata soltanto novanta secondi, eppure il cuore le batteva fortissimo. Dopo tre anni, dovrei essermi abituata. Provava un gran sollievo ogni volta che dal buio del modulo 5 entrava in quello spazio pulito e bene illuminato.

Il Cubo era un parallelepipedo senza finestre. Le pareti e il soffitto erano interamente rivestiti da una rigida rete di fibre di piombo e titanio che lo faceva sembrare una grossa gabbia dentro un involucro di cemento. Pareti di plexiglas smerigliato lo suddividevano in vani: un laboratorio, una sala controllo, un archivio dati, un locale di alimentazione che fungeva anche da magazzino, un bagno e una piccola biblioteca.

Katherine entrò a passo deciso nel laboratorio, un ambiente luminoso e asettico dotato di avanzatissime apparecchiature di misurazione: due elettroencefalografi, un pettine di frequenze con laser a femtosecondi, una trappola magneto-ottica e vari generatori di eventi casuali (REG), macchine quantistiche basate sul rumore elettronico. Sebbene le scienze noetiche prevedessero l'uso di tecnologie all'avanguardia, le scoperte di Katherine erano in effetti molto più mistiche dei freddi macchinari grazie ai quali venivano realizzate. Quanto più nuovi dati arrivavano a sostegno del principio fondamentale della noetica, secondo cui la mente umana ha un enorme potenziale in gran parte inutilizzato, tanto più magia e mito si trasformavano in realtà.

La tesi di fondo era semplice: Abbiamo a malapena scalfito la superficie delle nostre facoltà mentali e spirituali.

Esperimenti condotti in centri come l'Istituto di scienze noetiche della California e il Laboratorio di ricerca delle anomalie di Princeton avevano dimostrato senza ombra di dubbio che il pensiero umano, se opportunamente indirizzato, è in grado di influenzare e modificare la massa fisica. Tali esperimenti non erano trucchi da salotto, tipo piegare cucchiaini, bensì indagini attentamente verificate che portavano tutte alla stessa conclusione: il nostro pensiero interagisce effettivamente con il mondo fisico, che noi ne siamo coscienti o no, e produce cambiamenti fino al livello subatomico.

La mente plasma la materia.

Le scienze noetiche avevano fatto enormi progressi nel 2001, nelle ore immediatamente successive agli attentati dell'11 settembre. Quattro scienziati si erano infatti accorti che, quando il mondo intero si era commosso per quella tragedia, i segnali generati da trentasette REG sparsi in diverse località del globo erano diventati di colpo meno casuali. In qualche modo la condivisione globale di quell'esperienza, il concentrarsi di milioni di menti su un unico evento, aveva influito sulla casualità dei segnali generati da quelle macchine, organizzandone l'output e introducendo ordine nel caos.

Tale sorprendente scoperta sembrava confermare l'antica credenza spirituale in una "coscienza cosmica", una sorta di ampia convergenza di intenzioni in grado di interagire con la materia. Risultati analoghi erano stati ottenuti successivamente nel corso di studi sulla meditazione e la preghiera collettiva condotti per mezzo di generatori di eventi casuali, corroborando l'ipotesi avanzata da Lynne McTaggart nel suo saggio di scienze noetiche, secondo cui la coscienza umana è esterna al corpo e consiste in un'energia altamente organizzata capace di modificare il mondo fisico. Katherine era rimasta affascinata dal saggio della McTaggart, La scienza dell'intenzione, e dal suo studio condotto su scala mondiale utilizzando internet -theintentionexperiment. com- per scoprire in che modo l'intenzione umana possa influire sul mondo. Anche altri testi all'avanguardia avevano stimolato la curiosità della studiosa.

Prendendo spunto da tutto ciò, aveva compiuto un grande balzo in avanti nelle sue ricerche, arrivando a dimostrare che il "pensiero focalizzato" può influire praticamente su tutto, dalla velocità di crescita delle piante alla direzione in cui nuotano i pesci in una boccia, al modo in cui si dividono le cellule in una capsula di Petri, alla sincronizzazione di sistemi automatizzati separatamente, alle reazioni chimiche nel corpo umano. Persino la struttura cristallina di un solido può essere modificata nella fase di formazione grazie alla forza della mente. Katherine era riuscita a creare cristalli di ghiaccio straordinariamente simmetrici mandando pensieri amorevoli a un bicchiere d'acqua mentre stava congelando. Incredibilmente, era vero anche il contrario: quando indirizzava all'acqua pensieri negativi, i cristalli assumevano forme caotiche, frammentarie.

Il pensiero umano è veramente in grado di trasformare il mondo fisico.

Gli esperimenti di Katherine si erano fatti sempre più coraggiosi e i risultati sempre più stupefacenti. Con il lavoro svolto in quel laboratorio, era riuscita a dimostrare in modo inequivocabile che l'affermazione "la mente plasma la materia" non è solo un mantra new age. La mente umana ha davvero la capacità di alterare lo stato della materia e, soprattutto, ha il potere di spingere il mondo fisico in una direzione o in un'altra.

Siamo padroni del nostro universo.

A un livello subatomico, Katherine aveva dimostrato che le particelle apparivano e sparivano semplicemente in base alla sua intenzione di osservarle. In un certo senso, era il suo desiderio di vedere una particella a farla materializzare. Heisenberg aveva intuito decenni prima tale realtà, che di recente era diventata uno dei principi fondamentali delle scienze noetiche. Per usare le parole di Lynne McTaggart, "la coscienza vivente è l'influenza che trasforma la possibilità di qualcosa in qualcosa di reale. L'ingrediente più essenziale nella creazione del nostro universo è la coscienza che l'osserva".

L'aspetto più stupefacente del lavoro di Katherine, tuttavia, era stato rendersi conto che la capacità della mente di influire sul mondo fisico si può affinare con la pratica. È una facoltà acquisita. Come con la meditazione, per imparare a usare consapevolmente il pensiero occorre un certo allenamento. Ci sono però individui più portati di altri e, nella storia dell'umanità, alcuni di costoro erano diventati veri maestri.

È l'anello mancante che collega la scienza moderna al misticismo degli antichi.

Katherine aveva appreso tutto questo da suo fratello Peter, Pensando a lui, si preoccupò. Andò verso la biblioteca del laboratorio e vi guardò dentro. Era vuota.

Nella stanzetta c'erano due poltrone Morris, due lampade a stelo e una parete di scaffali in mogano che contenevano circa cinquecento volumi. Katherine e Peter vi conservavano i loro libri preferiti, su argomenti che spaziavano dalla fisica delle particelle alla mistica del passato, e a poco a poco avevano accumulato una miscellanea di vecchio e nuovo, di tecnologia avanzata e storia antica. Tra i libri di Katherine figuravano titoli come Quantum Consciousness, La nuova fisica, Principi di neuroscienza. Il fratello aveva contribuito con testi classici esoterici come Il Kybalion, Zohar, La danza dei maestri Wu Li e una traduzione delle tavolette sumeriche del British Museum.

"La chiave del nostro futuro scientifico" diceva spesso suo fratello "è nascosta nel passato." Da sempre studioso appassionato di storia, scienza e misticismo, Peter era stato il primo a incoraggiare Katherine a integrare la formazione universitaria scientifica con lo studio dell'antica filosofia ermetica. A soli diciannove anni, le aveva trasmesso l'interesse per i collegamenti fra scienza moderna e antico misticismo.

"Dimmi, Kate" le aveva chiesto una volta, quando lei frequentava il secondo anno di università "che testi di fisica teorica si studiano di questi tempi a Yale?"

Katherine, in piedi nella ricca biblioteca di famiglia, aveva snocciolato un lungo elenco.

"Niente male" aveva commentato Peter. "Einstein, Bohr e Hawking sono geni moderni. Ma leggete anche qualche autore più antico?"

Lei si era grattata la testa. "Come per esempio... Newton?"

Peter aveva sorriso. "Più antico ancora." Aveva solo ventisette anni, ma si era già fatto un nome nel mondo accademico. A entrambi piacevano quelle scherzose discussioni intellettuali.

Più antico di Newton ? A Katherine erano venuti in mente nomi lontanissimi come Tolomeo, Pitagora ed Ermete Trismegisto. Nessuno legge più quella roba.

Peter aveva scorso con un dito un lungo scaffale carico di volumi polverosi, con la copertina in pelle screpolata. "Le conoscenze scientifiche degli antichi erano sbalorditive... la fisica moderna sta solo cominciando a capirle."

"Peter" aveva ribattuto Katherine "mi hai già spiegato che gli egizi conoscevano leve e carrucole molto prima di Newton e che gli antichi alchimisti erano capaci di operazioni paragonabili a quelle della chimica moderna. E con questo? La fisica di oggi lavora su concetti che sarebbero stati inimmaginabili per gli antichi."

"Per esempio?"

"Be'... per esempio la teoria dell'entanglement!" La ricerca a livello subatomico aveva ormai dimostrato inequivocabilmente che la materia è tutta correlata, "aggrovigliata" in un'unica rete, e che esiste una sorta di non separabilità universale. "Vorresti dire che gli antichi conoscevano la teoria della correlazione quantistica?"

"Certo!" aveva esclamato Peter scostandosi la frangia scura dagli occhi. "L'entanglement si ritrova in molte tradizioni. Lo chiamavano Dharmakaya, Tao, Brahman... Lo scopo della ricerca spirituale era proprio acquisire la consapevolezza che siamo parte di un tutto, uniti da un profondo legame con ciò che ci circonda. L'uomo ha sempre aspirato a diventare un tutt'uno con l'universo, a raggiungere la riconciliazione." Peter aveva inarcato le sopracciglia. "La redenzione a cui aspirano ebrei e cristiani altro non è che il ritorno allo stato di unione con Dio, alla 'non separazione'."

Katherine aveva sospirato; si era dimenticata quanto fosse difficile discutere con un uomo che conosceva così bene la storia. "Okay, ma tu stai facendo un discorso generale. Io parlo di fisica specifica."

"Allora sii più specifica."

"Bene, parliamo di qualcosa di semplice, come per esempio il concetto di polarità, l'equilibrio positivo/negativo in campo subatomico. Ovviamente, gli antichi non potevano capire che..."

"Un momento!" Peter aveva preso un grosso tomo impolverato e l'aveva posato sul tavolo. "La moderna polarità altro non è che il 'mondo duale' descritto da Krishna nella Bhagavad Gita oltre duemila anni fa. C'è almeno una decina di libri qui, tra cui Il Kybalion, che parlano di sistemi binari e di forze contrapposte in natura."

Katherine era scettica. "Okay, ma se parliamo di scoperte moderne a livello subatomico... il principio di indeterminazione di Heisenberg, per esempio..."

"Per quello dobbiamo cercare qui" aveva detto Peter spostandosi lungo lo scaffale per prendere un altro volume. "Le Upanishad, le sacre scritture vediche degli indù." Aveva appoggiato il volume sul precedente. "Heisenberg e Schrodinger hanno dichiarato che studiare questo testo li ha aiutati a formulare alcune delle loro teorie."

Il confronto era durato parecchi minuti e la pila di libri polverosi sul tavolo era diventata sempre più alta. Alla fine Katherine aveva allargato le braccia, frustrata. "Okay, ho capito, ma ti consiglio di studiare la fisica teorica più avanzata. È questo il futuro della scienza! Dubito che Krishna o Vyasa avessero molto da dire sulla teoria delle superstringhe e sui modelli cosmologici multidimensionali. "

"Hai ragione, non ne fanno cenno." Peter si era zittito e aveva sorriso. "Ma se ti riferisci alle superstringhe... allora parli di questo libro." Era andato a prendere un grosso tomo rilegato in pelle e l'aveva posato con un tonfo sul tavolo. "Traduzione duecentesca dall'aramaico."

"La teoria delle superstringhe nel Duecento?" Katherine non ci voleva credere. "Ma fammi il piacere!"

La teoria delle superstringhe è un modello cosmologico moderno che si basa sulle più recenti osservazioni scientifiche. Secondo questa teoria, le dimensioni dell'universo non sono tre, ma addirittura dieci, e interagiscono vibrando come le corde di un violino.

Lei aveva aspettato che il fratello aprisse il volume e scorresse l'indice per cercare un brano circa all'inizio del trattato. "Leggi qua." Le aveva indicato una pagina sbiadita di testo scritto e figure.

Katherine aveva letto attentamente. La traduzione era antiquata e difficoltosa, ma con sua sorpresa testo e disegni descrivevano lo stesso universo prefigurato nella moderna teoria delle superstringhe. Dopo un po', aveva esclamato sbigottita: "Mio Dio, parla anche di come sei delle dimensioni dell'universo siano correlate fra loro e agiscano come se fossero una sola! Che libro è questo?".

Peter le aveva sorriso soddisfatto. "Un libro che spero un giorno leggerai." Tornò al frontespizio, dove un cartiglio elaborato incorniciava il titolo.

Sefer ha-Zohar, o Il libro dello splendore.

Lei non lo aveva mai letto, ma sapeva che era il testo fondamentale dell'antica mistica ebraica, un tempo considerato depositario di segreti così potenti da poter essere letto soltanto dai rabbini più eruditi. "Mi stai dicendo che gli antichi mistici sapevano che l'universo ha dieci dimensioni?"

"Proprio così." Peter le aveva indicato la figura sulla pagina: dieci cerchi collegati fra loro, detti Sephiroth. "Naturalmente la nomenclatura è esoterica, ma i concetti sono di fisica avanzata."

Lei non sapeva cosa rispondere. "Ma... allora perché lo studiano così in pochi?"

Peter aveva sorriso. "Lo studieranno, vedrai."

"Non capisco."

"Katherine, abbiamo la fortuna di essere nati in un'epoca straordinaria. Le cose stanno per cambiare. L'umanità è alle soglie di una nuova era in cui si ricomincerà a guardare alla natura e alle tradizioni di un tempo. Si tornerà alle idee contenute in libri come lo Zohar e gli antichi testi di altre civiltà. La verità è potente come la forza di gravità ed esercita un'attrazione irresistibile. Verrà un giorno in cui la scienza moderna comincerà a studiare sul serio la sapienza degli antichi... e quel giorno l'umanità comincerà a trovare una risposta alle grandi domande che ancora le sfuggono."

Quella sera stessa Katherine si era messa a leggere con grande interesse i testi suggeriti da Peter e si era resa conto che il fratello aveva ragione. Gli antichi avevano profonde conoscenze scientifiche. Più che "scoperte", quelle della scienza moderna erano "riscoperte". A quanto pareva, l'umanità aveva colto molto presto la vera natura dell'universo, ma poi l'aveva abbandonata e dimenticata.

La fisica moderna può aiutarci a ritrovare il passato! Lei aveva fatto di quella ricerca la sua missione: usare gli strumenti della scienza avanzata per riscoprire la sapienza perduta degli antichi. Non perseguiva quegli studi solo per spirito di competizione accademica. A motivarla era il convincimento che il mondo avesse bisogno di capire quelle cose, oggi più che mai.

In un angolo del laboratorio, il camice bianco di Peter era appeso a un gancio accanto al suo. Istintivamente, prese il cellulare per controllare se c'erano messaggi. Niente. Una voce le riecheggiò nella mente. Quello che suo fratello ritiene sia nascosto a Washington... è possibile trovarlo. A volte, quando una leggenda perdura nei secoli, un motivo c'è.

«No» disse ad alta voce. «Non può essere vero.»

A volte le leggende sono solo... leggende.


Il responsabile della sicurezza Trent Anderson tornò di corsa verso la Rotonda del Campidoglio, infuriato. Un agente aveva appena trovato una benda e un cappotto militare in una nicchia vicino al porticato est.

Quel bastardo è uscito come se niente fosse!

Anderson aveva già dato ordine di controllare i filmati delle telecamere esterne, ma anche nel caso in cui i suoi uomini avessero trovato qualcosa, a quel punto lo sconosciuto sarebbe stato già lontano.

In quel momento, entrando nella Rotonda per valutare la gravità del problema, vide che la situazione era relativamente sotto controllo. Le quattro entrate della sala erano state chiuse nel modo più discreto possibile, ovvero con un cordone di velluto, un agente dall'aria dispiaciuta e un cartello che diceva

SALA TEMPORANEAMENTE INAGIBILE PER PULIZIE.


I testimoni, una decina di persone, erano stati radunati in un gruppo sul lato est della sala e gli agenti di sicurezza stavano requisendo cellulari e macchine fotografiche: l'ultima cosa di cui Anderson aveva bisogno era che uno dei presenti inviasse alla CNN una foto scattata con il telefonino.

Uno dei testimoni, un uomo alto dai capelli scuri con una giacca di tweed, stava cercando di allontanarsi dal gruppo per venire da lui. Discuteva animatamente con gli agenti.

«Gli parlerò tra un attimo» disse Anderson. «Per il momento, non lasciate andare via nessuno finché non avremo chiarito la faccenda.»

A quel punto si volto a guardare la mano, ancora al centro della sala. Santo cielo! In quindici anni di servizio in Campidoglio di cose strane ne aveva viste tante, ma come quella mai.

Speriamo che la Scientifica si sbrighi e mi tolga di torno al più presto questo orrore.

Si avvicinò e vide che il polso insanguinato era stato infilzato su un piedistallo di legno in modo che la mano rimanesse in posizione verticale. Il legno non viene rilevato dai metal detector. L'unico oggetto metallico era un grosso anello d'oro. Anderson immaginò che fosse stato controllato all'ingresso con un rilevatore manuale, o che il sospetto lo avesse sfilato dalla mano morta fingendo che fosse la propria.

Si chinò per esaminarla. A occhio, doveva appartenere a un uomo sulla sessantina. L'anello aveva un sigillo elaborato con un uccello a due teste e il numero 33. Anderson non l'aveva mai visto prima. Ad attirare la sua attenzione furono soprattutto i due piccoli tatuaggi sul pollice e sull'indice.

Una macabra sceneggiata.

«Capo?» Un agente arrivò di corsa con un telefono in mano. «C'è una chiamata personale per lei. Passata dal centralino della sicurezza.»

Anderson lo guardò come se fosse impazzito. «Non vedi che sono occupato?» disse a denti stretti.

L'agente, pallidissimo, coprì il telefono con la mano e mormorò: «È la CIA».

Anderson trasalì. La CIA è già al corrente?

«L'Office of Security.»

Anderson si irrigidì. Oh, merda! Guardò diffidente il telefono.

Nel vasto mare delle agenzie di intelligence di Washington, l'Office of Security della CIA era una specie di triangolo delle Bermuda, una regione infida e misteriosa da cui tutti coloro che ne conoscevano l'esistenza si tenevano il più possibile alla larga. L ' O S era stato istituito in seno alla CIA con un mandato apparentemente autolesionista, ovvero spiare la CI A stessa, ed esercitava le funzioni di un ufficio Affari interni, sorvegliando i dipendenti dell'Agenzia per scoprire o prevenire comportamenti illeciti quali appropriazione indebita, vendita di informazioni riservate, furto di tecnologie segrete e ricorso a metodi di tortura, per citarne solo alcuni.

L'OS spia le spie.

Avendo carta bianca in tutte le indagini su questioni attinenti alla sicurezza nazionale, era molto potente e arrivava molto lontano. Anderson non aveva la minima idea del motivo per cui fosse interessato alla mano mozza, né di come avesse fatto a venirne a conoscenza così in fretta. Ma era risaputo che l'OS aveva occhi ovunque. Per quel che ne sapeva lui, non era escluso che ricevesse direttamente le immagini dell'impianto a circuito chiuso del Campidoglio. L'incidente di quella sera non sembrava rientrare nelle competenze dell'OS, ma era difficile pensare che quella chiamata fosse solo una coincidenza.

«Capo?» L'agente gli porgeva il telefono come se fosse una patata bollente. «Non può non rispondere. È...» Fece una pausa, quindi sillabò senza emettere suono: "SA-TO".

Anderson aggrottò la fronte. Stai scherzando? Si accorse di avere le mani sudate. Sato in persona?

Il capo supremo dell'Office of Security, Inoue Sato, era una figura leggendaria nel mondo dell'intelligence. La sua vita era iniziata nel campo di internamento per giapponesi di Manzanar, in California, poco dopo Pearl Harbor, e Sato faceva parte della schiera di sopravvissuti temprati dalle avversità che non avrebbero mai potuto dimenticare gli orrori della guerra, o i rischi derivanti dalle carenze dei servizi segreti militari. Raggiunti i massimi livelli della carriera nel settore dell'intelligence, aveva dimostrato un irriducibile amor di patria e una terrificante implacabilità verso tutti i nemici dell'America. Benché si facesse vedere molto di rado, era un personaggio temutissimo e nuotava nelle acque profonde della CIA come un leviatano che emerge in superficie soltanto per divorare la preda.



Anderson aveva avuto un solo incontro faccia a faccia con Inoue Sato, ma il ricordo dei suoi gelidi occhi neri gli bastava a rallegrarsi di dover affrontare quella conversazione a distanza.

Prese il telefono e, nel tono più cordiale che gli riuscì, disse: «Direttore, sono Anderson. Che cosa posso...?».

«Devo parlare con una persona che si trova lì in Campidoglio.» La voce del direttore dell'OS era inconfondibile: sembrava ghiaia che gratti su una lavagna. In seguito a un intervento per un cancro alla gola, Inoue Sato aveva una voce terrificante e un'altrettanto spaventosa cicatrice sul collo. «Me lo passi subito.»

Tutto qui? Devo soltanto far chiamare una persona? A quel punto Anderson sperò che la telefonata di Sato fosse arrivata in quel momento per pura coincidenza. «Di chi si tratta?»

«Si chiama Robert Langdon. Credo si trovi lì da voi in questo preciso momento.»

Langdon? Quel nome gli suonava vagamente familiare, ma non ricordava dove l'avesse già sentito. Si chiese se Sato sapesse della mano. «Al momento mi trovo nella Rotonda» disse. «Ci sono dei turisti e... un attimo solo.» Abbassò il telefono e chiese ad alta voce al gruppo di visitatori: «Scusate, qualcuno di voi si chiama Langdon?».

Dopo un attimo di silenzio, una voce profonda rispose: «Sì, io. Sono Robert Langdon».

Sato sa tutto. Anderson allungò il collo per vedere chi aveva parlato.

Era lo stesso tizio che poco prima aveva cercato di allontanarsi dal gruppo. Sembrava sconvolto. Oltretutto gli pareva di avere già visto quel volto da qualche parte. Sollevò di nuovo il telefono e disse: «Sì, il signor Langdon è qui».

«Me lo passi» ordinò Sato in tono brusco.

Anderson tirò un sospiro di sollievo. Meglio che se la prenda con lui che con me. «Un attimo solo.» Fece cenno a Langdon di avvicinarsi.

In quel momento si rese conto del motivo per cui quel nome gli era parso familiare. Ho appena letto un articolo su di lui. Che cosa diavolo ci fa qui?

A parte l'alta statura e il fisico atletico, Anderson non ravvisò in Langdon nulla della grinta che si sarebbe aspettato in un uomo sopravvissuto a un'esplosione in Vaticano e a una rocambolesca caccia all'uomo a Parigi. E questo è sfuggito alla polizia francese... in mocassini? Anderson lo avrebbe visto meglio seduto a leggere Dostoevskij davanti al caminetto di una biblioteca universitaria della Ivy League.

«Professor Langdon?» disse andandogli incontro. «Sono Trent Anderson, il responsabile della sicurezza in Campidoglio. C'è una telefonata per lei.»

«Per me?» Langdon sgranò gli occhi azzurri, preoccupato e perplesso.

Anderson gli porse il telefono. «L'Office of Security della CIA.»

«Mai sentito nominare.»

Anderson sorrise minaccioso. «A quanto pare, loro hanno sentito nominare lei.»

Langdon accostò il telefono all'orecchio. «Pronto?»

«Robert Langdon?»

La voce gracchiante di Sato era abbastanza forte da arrivare anche a Anderson.

«Sì?»

Anderson si avvicinò per sentire meglio.

«Sono Inoue Sato, direttore dell'Office of Security. Sto gestendo una crisi e credo che lei abbia informazioni che mi potrebbero essere utili, professore.»

«Si tratta di Peter Solomon? Lei sa dove si trova?» chiese Langdon speranzoso.

Peter Solomon ? Anderson si sentì completamente tagliato fuori.

«Professore, per il momento sono io a fare le domande» ribatté Sato.

«Peter Solomon è in grave pericolo» insistette Langdon. «Uno psicopatico gli ha...»

«Mi scusi» lo interruppe bruscamente Sato.

Anderson rabbrividì. Mai contraddire un alto funzionario della CIA. Solo un civile poteva commettere un simile errore. Pensavo che Langdon fosse più furbo.

«Mi stia bene a sentire» continuò Sato. «In questo preciso momento, il paese è sull'orlo di una crisi. Mi risulta che lei abbia informazioni che possono aiutarmi a evitarla. Perciò, di nuovo, le domando: di quali informazioni è in possesso, professore?»

Langdon era completamente disorientato. «Direttore, non ho idea di cosa stia parlando. A me preme soltanto trovare Peter e...»

«Non ne ha idea?» ripetè Sato in tono di sfida.

«Nossignore, non ne ho la più pallida idea.»

Anderson trasalì. No, no. Errore gravissimo. Robert Langdon aveva appena commesso un altro passo falso con il direttore Sato che gli sarebbe costato molto caro.

Troppo tardi. Il responsabile della sicurezza sgranò gli occhi vedendo entrare a passo svelto nella Rotonda, alle spalle di Langdon, il direttore Sato in persona. Sato è qui! Anderson, con il fiato sospeso, si preparò al peggio. Langdon non sa che cosa lo aspetta.

Il direttore si avvicinava con aria torva, il telefono appoggiato all'orecchio e gli occhi neri puntati come due raggi laser su Langdon.

Langdon stringeva il telefono del responsabile della sicurezza, sempre più frustrato. «Mi dispiace, signore» disse al direttore dell'os. «Non ho il dono della telepatia. Che cosa vuole da me?»

«Che cosa voglio da lei?» La voce di Inoue Sato risuonò all'orecchio di Langdon roca e stridula come quella di un moribondo con un'infezione da streptococco alla gola.

Mentre ascoltava, Langdon si sentì battere leggermente su una spalla. Si voltò e si trovò davanti... una giapponese minuta dall'espressione furibonda, con la pelle chiazzata, i capelli radi, i denti macchiati dalla nicotina e una brutta cicatrice alla base del collo. Con la mano nodosa teneva un cellulare vicino all'orecchio e i movimenti delle sue labbra corrispondevano ai suoni emessi dalla voce rasposa che giungeva a Langdon dal telefono.

«Che cosa voglio da lei, professore?» Inoue Sato chiuse con calma il cellulare e fulminò Langdon con un'occhiata. «Tanto per cominciare, che la smetta di chiamarmi "signore".»

Langdon sgranò gli occhi, mortificato. «Signora... Mi scusi. La ricezione era pessima e io...»

«La ricezione era ottima, professore» ribatté lei. «E io non tollero i bugiardi.»


Il direttore Inoue Sato era un personaggio temibile: alta meno di un metro e mezzo, intrattabile, era scheletrica, con lineamenti spigolosi e una malattia della pelle, la vitiligine, che le dava l'aspetto screziato di un blocco di granito infestato dai licheni. Indossava un tailleur pantalone blu sgualcito che le pendeva addosso come un sacco informe e una camicetta bianca con il colletto sbottonato che non tentava neppure di nascondere la cicatrice. La sua unica concessione alla vanità, a quanto dicevano i suoi collaboratori, consisteva nello strapparsi i baffi.

Inoue Sato era a capo dell'Office of Security della CIA da oltre dieci anni. Aveva un quoziente di intelligenza molto più alto della media e un fiuto pressoché infallibile, e la combinazione di queste due doti la rendeva molto sicura di sé. Inoue Sato terrorizzava chiunque non fosse in grado di fare anche l'impossibile. Nemmeno la diagnosi di un aggressivo cancro alla gola l'aveva scalzata dal suo piedistallo. La lotta con la malattia le era costata un mese di lavoro, mezza laringe e un terzo del suo peso, ma Inoue Sato era tornata in ufficio come se niente fosse. Sembrava davvero indistruttibile.

Langdon sospettava di non essere stato il primo a scambiarla per un uomo al telefono, ma lei continuava a fissarlo come se volesse incenerirlo.

«Le rinnovo le mie scuse, signora» disse. «Sono ancora disorientato: una persona che si è fatta passare per Peter Solomon mi ha attirato qui a Washington con l'inganno, stasera.» Tirò fuori dalla tasca della giacca il fax. «Mi ha spedito questo. Ho annotato il numero di coda dell'aereo con cui mi ha mandato a prendere, quindi forse se chiama la FAA e si fa dare...»

Con un gesto fulmineo, Sato gli strappò di mano il foglio e se lo mise in tasca senza nemmeno guardarlo. «Professore, le ricordo che sono io a dirigere le indagini. Finché non mi avrà detto quello che voglio sapere da lei, le consiglio di parlare solo se interrogato.»

Poi si voltò di scatto verso Trent Anderson.

«Lei» lo apostrofò avvicinandosi decisamente troppo e guardandolo dal basso con i suoi occhietti furibondi. «Le dispiacerebbe spiegarmi che cosa diavolo sta succedendo? L'agente all'ingresso est mi ha detto che avete trovato una mano mozza per terra. È vero?»

Anderson si fece da parte e le mostrò l'oggetto al centro della sala. «Sì, signora, è successo pochi minuti fa.»

Inoue Sato guardò la mano come se fosse uno straccio dimenticato lì per caso. «Però lei non mi ha detto niente quando ci siamo parlati.»

«Pensavo... pensavo che lo sapesse già.»

«Non mi racconti balle.»

Anderson si sentì mortificato, ma reagì con voce sicura: «Signora, la situazione è sotto controllo».

«Ne dubito» ribatté lei in tono altrettanto sicuro.

«Sta per arrivare una squadra della Scientifica. Chiunque sia stato, avrà lasciato delle impronte...»

Sato pareva scettica. «Secondo me, una persona abbastanza in gamba da superare i vostri controlli di sicurezza e portare qui dentro una mano mozza è anche in grado di non lasciare impronte.»

«Può darsi, ma è mia responsabilità controllare.»

«Non si preoccupi: da questo momento lei è sollevato da qualsiasi responsabilità. Assumo io il comando.»

Anderson si irrigidì. «Questa cosa non è di competenza dell'OS, o sbaglio?»

«Sbaglia. È una questione di sicurezza nazionale.»

La mano di Peter una questione di sicurezza nazionale? Langdon assisteva esterrefatto a quel battibecco. Aveva la sensazione che la priorità di Inoue Sato non fosse trovare al più presto Peter. Il direttore dell'OS sembrava avere tutt'altre preoccupazioni.

Anche Anderson aveva l'aria perplessa. «Sicurezza nazionale? Con tutto il rispetto, signora...»

«A quanto mi risulta, il mio grado è superiore al suo, quindi le consiglio di eseguire gli ordini senza discutere.»

Anderson annuì e mandò giù il rospo. «Ma non dovremmo almeno prendere le impronte della mano mozza per accertare che sia di Peter Solomon?»

«Posso confermarvelo io» disse Langdon, che ne era tragicamente certo. «Riconosco l'anello, e anche la mano.» Dopo una pausa, aggiunse: «I tatuaggi, però, sono nuovi. Glieli hanno fatti di recente».

«Come, scusi?» Sato parve esitare per la prima volta da quando era arrivata. «La mano è tatuata?»

Langdon annuì. «Sul pollice c'è una corona e sull'indice una stella.»

Sato tirò fuori un paio di occhiali, andò verso la mano e cominciò a girarci intorno come uno squalo con la preda.

«Le altre tre dita non si vedono» aggiunse Langdon «ma sono sicuro che sono tatuate anche quelle.»

Sato, incuriosita, fece un cenno a Anderson. «Per piacere, guardi le altre tre dita e ci dica se sono tatuate.»

Anderson si accovacciò vicino alla mano, stando attento a non toccarla, avvicinò la guancia a terra e sbirciò da sotto. «È così, signora. Ci sono tatuaggi anche sui polpastrelli delle altre dita, ma non riesco a vedere bene che cosa...»

«Un sole, una lanterna e una chiave» disse Langdon con voce piatta.

Sato si voltò e lo squadrò con i piccoli occhi neri. «E lei come fa a saperlo con tanta precisione?»

Langdon la fissò, altrettanto implacabile. «La mano che reca questi segni sulla punta delle dita è un simbolo molto antico Si chiama "Mano dei Misteri".»

Anderson si alzò di scatto. «Questa roba ha un nome?»

«E' uno dei simboli più oscuri del mondo antico.»

Sato inclinò la testa. «E si può sapere che cosa diavolo ci fa una Mano dei Misteri nel bel mezzo del Campidoglio?»

Langdon avrebbe tanto voluto risvegliarsi da quell'incubo. «Tradizionalmente, signora, la Mano dei Misteri aveva la funzione di porgere un invito.»

«Un invito? E a fare che?» chiese imperiosa Sato.

Langdon osservò i simboli tatuati sulle dita del suo amico. «Per secoli, la Mano dei Misteri è stata usata per trasmettere una chiamata mistica. In pratica, si tratta di un invito a ricevere conoscenze arcane... segreti esoterici noti solo a pochi eletti.»

Sato incrociò le braccia e lo fissò con lo sguardo torvo. «Be', professore, per essere uno che sostiene di non sapere nemmeno come mai è qui, mi sembra piuttosto bene informato.»


Seguendo la solita routine, appena arrivata in laboratorio Katherine Solomon indossò il camice bianco per cominciare quella che suo fratello chiamava scherzosamente la "ronda".

Come una madre ansiosa che va a controllare il proprio bambino che dorme, si affacciò sulla porta del locale di alimentazione. La cella a combustibile a idrogeno funzionava regolarmente e le bombole di riserva erano al sicuro al loro posto, sull'apposita rastrelliera.

Proseguì nel corridoio per andare all'archivio dati. Le due unità olografiche di backup ronzavano come sempre, nei rispettivi contenitori isotermici. Tutte le mie ricerche, pensò Katherine guardando oltre il vetro infrangibile di sette centimetri di spessore. I drive di memoria olografica, a differenza dei loro antenati grossi come frigoriferi, avevano le linee eleganti di componenti di impianti stereo, sorretti ciascuno dalla sua colonna.

Quelli del laboratorio, sincronizzati e identici, fungevano da backup, su cui Katherine salvava i dati in doppia copia. Generalmente i protocolli di backup prevedevano l'esistenza di un sistema secondario remoto, in caso di terremoti, incendi o furti, ma Katherine e Peter avevano deciso insieme di dare la priorità alla segretezza: se i dati fossero usciti dal laboratorio per essere conservati su un server remoto, loro non avrebbero più avuto la certezza che rimanessero riservati.

Dopo essersi assicurata che tutto funzionava a dovere, Katherine tornò nel corridoio. Appena ebbe svoltato l'angolo, però, vide qualcosa di inaspettato dall'altra parte del laboratorio. Com'è possibile? Le apparecchiature riflettevano un lieve bagliore. Si affrettò ad andare a controllare, sorpresa nel vedere che dalla parete di plexiglas della sala controllo filtrava della luce.

È arrivato. Attraversò velocemente il laboratorio, giunse alla sala controllo e spalancò la porta. «Peter!» esclamò entrando di corsa.

La donna seduta al terminale fece un salto. «Oh, mio Dio, Katherine! Che spavento!»

Trish Dunne, l'unica altra persona al mondo autorizzata a entrare lì dentro, era un'analista specializzata in metasistemi e lavorava di rado durante il fine settimana. Ventisei anni, capelli rossi e qualche chilo di troppo, Trish era un genio del data modeling e aveva firmato un accordo di segretezza degno del KGB. Quella sera stava analizzando dati sulla parete al plasma della sala controllo, un enorme display a schermo piatto che sembrava uscito dalla NASA.

«Scusa» disse Trish. «Non mi ero accorta che eri già qui. Stavo cercando di finire prima che arrivaste tu e tuo fratello.»

«Gli hai parlato? È in ritardo e non risponde al telefono.»

Trish scosse la testa. «Starà ancora cercando di capire come funziona l'iPhone che gli hai regalato...»

Katherine apprezzava il senso dell'umorismo di Trish. Le venne un'idea. «Già che sei qui, forse potresti aiutarmi a fare una cosa, se non ti dispiace.»

«Qualsiasi cosa sia, sarà certo più interessante del football.»

Katherine prese fiato per riflettere con calma. «Non so da che parte cominciare... Oggi ho saputo una strana storia.»


Trish ignorava quale storia fosse venuta a sapere Katherine, ma era chiaro che l'aveva turbata. Dai suoi occhi grigi, di solito tranquilli, traspariva un senso di angoscia. Da quando era entrata nel laboratorio, inoltre, Trish l'aveva vista sistemarsi i capelli dietro le orecchie già tre volte: un chiaro sintomo di nervosismo. Ottima scienziata. Pessima giocatrice di poker.

«A me sembra una storia inventata...» disse Katherine. «Una leggenda. Però...» Si interruppe per ravviarsi di nuovo i capelli.

«Però?»

Katherine fece un sospiro. «Però una fonte affidabile mi ha assicurato che è vera.»

«Okay...» Dove vuole andare a parare?

«Ne parlerò con mio fratello, ma ho pensato che nel frattempo potresti aiutarmi a scoprire qualcosa in proposito. Mi piacerebbe sapere se questa leggenda ha mai trovato conferma nei secoli passati.»

«Nei secoli?»

Katherine annuì. «In qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi lingua, in qualsiasi periodo storico.»

Strana richiesta, pensò Trish, ma sicuramente fattibile. Dieci anni prima sarebbe stata un'impresa impossibile, ma oggi, con internet e la progressiva digitalizzazione delle grandi biblioteche e dei patrimoni museali del mondo, la curiosità di Katherine poteva essere soddisfatta usando un metamotore di ricerca relativamente semplice, un esercito di moduli di traduzione e una scelta oculata di parole chiave.

«Nessun problema» rispose. Molti testi su cui lavorava Katherine contenevano brani in lingue antiche e a Trish capitava spesso di dover scrivere moduli di traduzione OCR specializzati per convertire in inglese testi originali in lingue sconosciute. Doveva essere l'unica esperta di metasistemi al mondo ad aver scritto moduli di traduzione OCR per l'antico frisone, per il dialetto dell'estinta tribù coreana maek e per l'accadico.

I moduli sarebbero stati utili, ma il trucco per costruire uno spider di ricerca efficace stava nella selezione appropriata delle parole chiave. Specifiche, ma non troppo restrittive.

Katherine cominciò subito a buttare giù un elenco di possibili parole chiave. Ne scrisse un paio, poi si fermò, rifletté un momento e ne aggiunse altre. «Okay» disse alla fine, porgendo il foglietto a Trish.

Lei scorse la lista e sgranò gli occhi. Su che razza di strana leggenda sta investigando Katherine? «Vuoi che le cerchi tutte?» C'era persino una parola che Trish non aveva mai sentito. Che lingua è? «Pensi davvero che le troveremo insieme in un unico posto? Testualmente?»

«Vorrei provare.»

Trish era tentata di rispondere che era impossibile, ma quello era un termine che Katherine aveva eliminato dal proprio vocabolario, considerandolo sintomo di un atteggiamento pericoloso in un campo in cui quelle che spesso venivano ritenute a priori falsità si dimostravano invece verità conclamate. Tuttavia Trish aveva forti dubbi che quella ricerca potesse portare a qualcosa.

«Quanto ci vorrà per avere i risultati?» chiese Katherine.

«Ho bisogno di qualche minuto per istruire lo spider e lanciarlo, dopodiché ci metterà circa un quarto d'ora.»

«Così poco?» Katherine parve rincuorata.

Trish le diede conferma con un cenno del capo. I metamotori di ricerca tradizionali potevano impiegare anche un giorno per esplorare l'intero universo online, trovare nuovi documenti, digerirne il contenuto e aggiungerlo al proprio database. Ma lo spider di Trish era di un altro tipo.

«Userò un software delegato» spiegò Trish. «Non del tutto lecito, ma molto veloce. In pratica si tratta di un programma che fa lavorare per noi i motori di ricerca degli altri. Nella maggior parte dei database di biblioteche, musei, università ed enti pubblici c'è una funzione di ricerca interna. Io istruisco uno spider che si collega con loro, inserisco le parole chiave e sfrutto il lavoro di migliaia di motori che funzionano contemporaneamente.»

«Elaborazione parallela» disse Katherine ammirata.

Una specie di metasistema. «Se scopro qualcosa, ti chiamo.»

«Grazie, Trish.» Katherine le diede una pacca sulla spalla e si voltò per uscire. «Mi trovi in biblioteca.»

Trish si mise al lavoro. Programmare uno spider di ricerca era un compito molto al di sotto del suo livello di competenza, ma non le dispiaceva. Per Katherine Solomon avrebbe fatto qualsiasi cosa. Ancora adesso non riusciva a capacitarsi di quanto fosse fortunata a lavorare lì.

Hai fatto molta strada, ragazza mia.

Circa un anno prima, Trish si era licenziata dalla grossa azienda nel settore dell'alta tecnologia dove faceva l'analista di metasistemi. Nel tempo libero programmava software e aveva aperto un blog specialistico: "Applicazioni future nell'analisi computazionale dei metasistemi". Dubitava che qualcuno lo leggesse, ma una sera era squillato il telefono.

"Trish Dunne?" aveva chiesto educatamente una voce di donna.

"Sono io. Chi parla?"

Trish per poco non era svenuta. Katherine Solomon? "Ho appena letto il suo libro, Scienza noetica: la via moderna alla sapienza degli antichi, e ne ho parlato sul mio blog!"

"Sì, lo so" aveva detto cortesemente Katherine. "La chiamo proprio per questo."

Naturale. Trish si era sentita stupida per non averci pensato prima. Anche i grandi scienziati cercano il proprio nome su Google.

"Il suo blog mi ha incuriosito" aveva continuato Katherine. "Non sapevo che la modellazione dei metasistemi fosse così avanti."

"Oh, sì!" aveva esclamato Trish, intimidita e affascinata dalla fama della sua interlocutrice. "È una tecnologia emergente, con un gran numero di possibili applicazioni."

Avevano parlato per un po' del lavoro di Trish nel campo dei metasistemi e della sua esperienza nell'analisi, nella modellazione e nella previsione dei flussi di grossi campi dati.

"Naturalmente, il suo libro è troppo difficile per me" aveva precisato Trish "ma ho capito abbastanza da intravedere un possibile punto di incontro con il mio lavoro sui metasistemi."

"Nel suo blog lei scrive che la modellazione dei metasistemi potrebbe trasformare lo studio della noetica."

"Senz'altro. Penso che i metasistemi potrebbero far diventare la noetica una vera scienza."

"Una vera scienza?" Il tono di Katherine era suonato leggermente infastidito. "Perché, adesso non lo è?"

Oh, merda, non era questo che intendevo. "No, be'... volevo dire che... insomma, è un po' esoterica."

Katherine aveva riso. "Tranquilla, scherzavo. È un'osservazione che mi fanno in molti."

Non mi stupisco, aveva pensato Trish. Persino l'Istituto di scienze noetiche della California descriveva la propria disciplina in termini arcani e oscuri, definendola lo studio delle "vie più dirette e immediate per accedere alla conoscenza al di là di ciò che è normalmente esperibile tramite i sensi e la ragione".

Trish aveva appreso che la parola "noetica" deriva dal greco nous, e significa grossomodo "conoscenza interiore" o "coscienza intuitiva".

"Il suo lavoro sui metasistemi" aveva proseguito Katherine "mi interessa in vista di una possibile applicazione a un progetto a cui sto lavorando. Le andrebbe di parlarne a quattr'occhi? Vorrei chiederle una consulenza."

Katherine Solomon vuole una consulenza da me? Era un po' come se Maria Sharapova le avesse chiesto dei consigli sul tennis.

Il giorno dopo davanti a casa di Trish si era fermata una Volvo bianca da cui era scesa una donna attraente e snella, in jeans. Trish si era sentita mortificata. Ricca, intelligente e anche magra... E io dovrei credere che Dio è buono? Ma la dottoressa Solomon l'aveva messa subito a suo agio: non si dava per niente delle arie.

Si erano sedute nella grande terrazza dietro la casa di Trish, da cui si godeva un magnifico panorama.

"Che bella casa! Complimenti" aveva detto Katherine.

"Grazie. Sono stata fortunata a vendere la licenza di alcuni software che ho creato quando ero all'università."

"Software per un metasistema?"

"Un precursore dei metasistemi. Dopo l11 settembre, le autorità si ritrovarono a dover incrociare campi dati enormi... e-mail, cellulari, fax, SMS, siti web... per individuare parole chiave nelle comunicazioni fra i terroristi. Io approntai un programma che permetteva di elaborare quei dati in un modo diverso, ricavando anche un altro genere di informazioni." Aveva sorriso. "Fondamentalmente, il mio era un software per misurare la febbre al paese."

"Come, scusi?"

Trish aveva riso. "Sì, lo so, descritto così sembra assurdo. Diciamo che serviva a quantificare lo stato emotivo della popolazione. Una specie di barometro della coscienza globale, se vogliamo." Poi le aveva spiegato in che modo, utilizzando come campo dati le comunicazioni scambiate nel paese, era possibile valutare l'umore dell'opinione pubblica in base alla "densità delle occorrenze" di parole chiave e indicatori emozionali determinati. Nei periodi tranquilli il linguaggio era più sereno, mentre nei periodi difficili rifletteva lo stress generale. Le autorità potevano ricorrere a campi dati per misurare i cambiamenti nella coscienza collettiva degli americani a seguito, per esempio, di un attacco terroristico, e dare suggerimenti migliori al presidente.

"Molto interessante" aveva osservato Katherine, accarezzandosi il mento. "In sostanza, quindi, lei esamina un insieme di individui... come se si trattasse di un unico organismo."

"Esatto. Un metasistema. Una singola entità definita dalla somma delle sue parti. Il corpo umano, per esempio, è fatto di milioni di cellule, ciascuna delle quali è dotata di attributi e compiti diversi, ma funziona come un unico organismo."

Katherine aveva annuito entusiasta. "Come uno stormo di uccelli o un banco di pesci che si muovono tutti insieme. Noi la chiamiamo convergenza, o entanglement."

Trish aveva intuito che la sua illustre ospite stava cominciando a vedere il potenziale che la programmazione di metasistemi aveva nel suo campo, le scienze noetiche. "Il mio software" le aveva spiegato "è concepito per aiutare le agenzie governative a valutare nella maniera migliore e affrontare crisi di grosse proporzioni come pandemie, tragedie nazionali, atti di terrorismo e cose del genere." Aveva fatto una pausa. "Naturalmente c'è sempre la possibilità che venga usato per altri scopi... magari per avere un quadro degli umori nazionali e prevedere l'esito di un'elezione o la direzione che prenderanno i mercati finanziari all'apertura della Borsa."

"Prestazioni di valore incalcolabile" aveva commentato Katherine.

Trish aveva indicato la sua bella casa. "Così hanno ritenuto le autorità che hanno comprato la licenza."

Katherine l'aveva guardata dritto in faccia con i suoi occhi grigi. "Trish, posso chiederle cosa pensa del dilemma etico sollevato dal suo lavoro?"

"In che senso, scusi?"

"Voglio dire, lei ha creato un software che si presta a usi discutibili. Chi ne dispone può avere accesso a informazioni delicate, non disponibili per tutti. Non ha avuto alcuna esitazione nel metterlo a punto?"

Trish non aveva battuto ciglio. "Assolutamente no. Il mio programma non è diverso da, mettiamo, un simulatore di volo. Ci sarà chi lo usa per prepararsi a missioni umanitarie nel Terzo Mondo e chi per allenarsi a dirottare aerei o lanciarsi contro grattacieli. La conoscenza è uno strumento e, come per tutti gli strumenti, i suoi effetti dipendono da come viene usata."

Katherine si era appoggiata allo schienale, colpita. "Allora mi permetta di farle una domanda ipotetica."

Trish aveva compreso che la conversazione si era trasformata di colpo in un colloquio di lavoro.

Katherine si era chinata, aveva raccolto dal pavimento della terrazza un granellino di sabbia e lo aveva mostrato a Trish. "Mi sembra che il suo lavoro sui metasistemi, in ultima analisi, permetta di calcolare il peso di un'intera spiaggia... pesando un granello di sabbia alla volta."

"Sì, è una metafora azzeccata."

"Come lei sa, questo granello di sabbia ha una massa, anche se piccolissima."

Trish aveva annuito.

"E, dal momento che ha una massa, questo granellino esercita una forza di gravità, seppure troppo piccola perché noi possiamo percepirla."

"Sì."

"Ma se prendiamo trilioni di granelli di sabbia come questo e lasciamo che si attraggano l'un l'altro fino a formare, mettiamo, la luna, la forza di gravità complessiva che eserciteranno sarà sufficiente a muovere interi oceani e a far salire e scendere le maree in tutto il pianeta" aveva detto Katherine.

Trish non aveva idea di dove volesse andare a parare, tuttavia quel discorso le piaceva.

"Facciamo un'ipotesi" aveva continuato Katherine lasciando cadere il granello di sabbia. "Se le dicessi che un pensiero, che ogni più piccola idea che si forma nella sua mente ha una massa? Se le dicessi che i pensieri sono in realtà cose, entità misurabili con una massa quantificabile, minuscola, d'accordo, ma pur sempre una massa? Che cosa ne consegue?"

"Sempre in termini ipotetici? Be', ne consegue che... se il pensiero ha una massa, esercita una forza di gravità."

Katherine aveva sorriso. "Brava! Ora facciamo il passo successivo. Che cosa succede se tante persone cominciano a concentrarsi sullo stesso pensiero? Tutte le occorrenze di quel pensiero iniziano a fondersi in una sola, la sua massa cumulativa aumenta e, di conseguenza, aumenta anche la sua forza di gravità."

"Okay."

"Questo significa che, se un numero sufficiente di persone comincia a pensare la stessa cosa, la gravità di quel pensiero diventa tangibile ed esso inizia a esercitare una vera e propria forza gravitazionale." Katherine aveva ammiccato. "E può avere un effetto misurabile sul mondo fisico."


Inoue Sato, con le braccia conserte e lo sguardo fisso sul professore, rifletteva con aria scettica su quello che Langdon le aveva appena riferito. «Vuole che lei gli apra un antico portale? In che senso?»

Langdon si strinse nelle spalle. Aveva di nuovo la nausea e cercava di non guardare la mano mozza dell'amico. «E quello che mi ha detto. Un antico portale nascosto in questo edificio. Gli ho risposto che non mi risultava ci fossero portali qui dentro.»

«Ma allora perché si è rivolto a lei?»

«Mi sembra ovvio che si tratta di un pazzo.» Ha detto che Peter mi avrebbe indicato la via. Langdon guardò l'indice teso, disgustato dal sadico gioco di parole dello sconosciuto. Peter indicherà la via... Il dito era puntato verso la cupola della Rotonda. Un portale? Lassù? Pazzesco. «L'unica persona al corrente della mia trasferta al Campidoglio, stasera, è l'uomo che mi ha telefonato» osservò poi. «Quindi, dev'essere stato lui a dirle che ero qui. Le consiglio di...»

«Dove io reperisco le informazioni non è affar suo» lo interruppe Sato in tono brusco. «La mia priorità, al momento, è collaborare con questa persona, e mi risulta che lei è il solo a poterle dare ciò che desidera.»

«La mia priorità, invece, è trovare il mio amico» replicò Langdon frustrato.

Sato sospirò spazientita. «Se vogliamo trovare il signor Solomon, non possiamo che cercare di collaborare con l'unica persona che sembra sapere dove si trovi.» Guardò l'ora. «Abbiamo poco tempo. Le assicuro che è indispensabile rispondere senza indugio alle richieste di quest'uomo.»

«E come?» Langdon era incredulo. «Scoprendo dov'è questo "antico portale" e aprendoglielo? Non esiste nessun portale, direttore. Abbiamo a che fare con uno psicopatico.»

Sato si avvicinò a Langdon. «Le faccio notare che quest'uomo, che lei definisce "psicopatico", oggi è già riuscito a ingannare due individui di intelligenza più che discreta.» Guardò prima Langdon e poi Anderson. «L'esperienza mi insegna che la linea di demarcazione fra malattia mentale e genio è molto sottile. Ritengo sarebbe opportuno mostrare un po' più di rispetto per questa persona.»

«Ha mozzato la mano a un uomo!»

«Appunto. Non mi sembra il gesto di un individuo confuso o privo di determinazione. Ma la cosa più importante, professore, è che costui è convinto che lei lo possa aiutare. L'ha fatta venire qui a Washington: avrà ben avuto un motivo!»

«Se pensa che io possa aprire questo portale, è solo perché glielo ha detto Peter» ribatté Langdon.

«E perché Solomon avrebbe affermato una cosa del genere, se non fosse vera?»

«Non credo l'abbia detta, infatti. O l'ha fatto solo perché era sotto tortura, confuso, spaventato...»

«La tortura può essere molto efficace per costringere qualcuno a dire la verità.» Sato si era espressa nel tono di chi lo sappia per esperienza diretta. «L'uomo con cui ha parlato le ha spiegato come mai Peter Solomon la ritiene l'unica persona in grado di aprire questo portale?»

Langdon fece cenno di no con la testa.

«Professore, mi risulta che lei e Solomon vi interessiate di segreti, esoterismo, misticismo e così via. Solomon non le ha mai accennato a un portale segreto, qui a Washington?»

Langdon non riusciva a credere che un alto funzionario della CIA gli stesse facendo quella domanda . «No. Ne sono certo. Io e Peter abbiamo parlato spesso di questioni arcane, ma mi creda se le dico che avrei messo in dubbio la sua salute mentale se mi avesse accennato a un portale nascosto. Per accedere agli antichi misteri, poi...»

Inoue Sato alzò gli occhi. «Come, scusi? L'uomo che le ha telefonato le ha specificato a cosa si accede attraverso questo antico portale?»

«Sì. Anche se non ce n'era bisogno.» Langdon indicò la mano. «La Mano dei Misteri è un invito formale a varcare una porta mistica per acquisire le segrete conoscenze note come antichi misteri, la perduta sapienza ancestrale.»

«Dunque, lei ha già sentito parlare del segreto che questa persona ritiene sia nascosto qui in Campidoglio.»

«Non solo io. Molti storici ne sono a conoscenza.»

«E come fa a dire che il portale non esiste, allora?»

«Con tutto il rispetto, signora Sato, si sente parlare spesso della fonte dell'eterna giovinezza e di Shangri-La, ma questo non significa che esistano veramente.»

La radio di Anderson si mise a gracchiare rumorosamente. «Capo?» chiamò una voce.

Anderson si sganciò la radio dal cinturone. «Sì?»

«Abbiamo completato il giro dell'edificio senza trovare nessuno che corrisponda alla descrizione. Nuovi ordini?»

Anderson lanciò un'occhiata al direttore dell'OS, aspettandosi una lavata di capo, ma Inoue Sato sembrava distratta. L'uomo si allontanò e riprese a parlare alla radio, a voce bassa.

Sato continuava a fissare Langdon. «Secondo lei, quindi, il segreto che quest'uomo ritiene sia nascosto a Washington non esiste?»

Langdon annuì. «È un mito molto antico. Il segreto degli antichi misteri è precedente al cristianesimo. Risale a migliaia di anni fa.»

«E si è conservato fino a oggi?»

«Come molte altre credenze altrettanto inverosimili.» Langdon ricordava spesso ai suoi studenti che quasi tutte le religioni moderne riferiscono eventi privi di un fondamento scientifico dalle acque del Mar Rosso che si dividono per lasciar passare Mosè agli occhiali magici con cui Joseph Smith aveva tradotto il Libro di Mormon, inciso su tavole d'oro rinvenute nel territorio dello Stato di New York. Il fatto che molti ci credano non significa che una cosa sia vera.

«Capisco. Dunque, che cosa sono esattamente questi... antichi misteri?»

Langdon sospirò. Quante settimane mi dai per spiegartelo? «In poche parole, si riferiscono a un corpus di informazioni segrete raccolte molto tempo fa. La cosa interessante è che tali informazioni consentirebbero di sviluppare capacità straordinarie che normalmente la mente umana non sa neppure di avere e non è in grado di utilizzare. Gli adepti illuminati in possesso di queste conoscenze fanno voto di tenerle nascoste alle masse in quanto le considerano troppo potenti e pericolose per i profani, i non iniziati.»

«In che senso "pericolose"?»

«È lo stesso motivo per cui si tengono i fiammiferi fuori dalla portata dei bambini. Nelle mani giuste, il fuoco illumina, ma in quelle sbagliate può essere molto distruttivo.»

Sato si tolse gli occhiali e lo guardò. «Mi dica, professore, lei crede che queste "potenti" informazioni esistano veramente?»

Langdon non sapeva cosa rispondere. Gli antichi misteri rappresentavano uno dei più grandi paradossi che aveva incontrato nella sua carriera accademica. Quasi tutte le tradizioni mistiche del mondo ruotano intorno all'idea che esistano conoscenze arcane capaci di conferire all'uomo poteri mistici, quasi divini: i tarocchi e l'I Ching consentono di prevedere il futuro, l'alchimia dona l'immortalità grazie alla leggendaria pietra filosofale, la wicca permette agli iniziati di lanciare incantesimi. L'elenco è infinito.

In quanto studioso, Langdon non poteva negare l'abbondanza di documentazione storica: innumerevoli scritti, oggetti e opere d'arte attestavano che gli antichi possedevano conoscenze formidabili trasmesse esclusivamente attraverso allegorie, miti e simboli per consentire l'accesso solo a chi avesse ricevuto un'opportuna iniziazione. Tuttavia, essendo un realista, non ci credeva.

«Diciamo che sono scettico» rispose al direttore dell'OS. «Non ho mai visto niente nel mondo reale in grado di farmi pensare che gli antichi misteri siano qualcosa di più di una leggenda, di un archetipo mitologico ricorrente. Credo che, se l'uomo fosse davvero in grado di acquisire poteri miracolosi, ne esisterebbero le prove. Invece, finora la storia non ci ha mostrato alcun esempio di individui dotati di poteri sovrumani.»

Inoue Sato inarcò le sopracciglia. «Non è propriamente vero.»

Dopo un attimo di esitazione, Langdon si rese conto che per molti credenti esistevano figure del genere, e Gesù Cristo era una di queste. «So che c'è una moltitudine di persone, anche colte, convinte che esistano conoscenze capaci di dare all'uomo una marcia in più, ma io non ci credo.»

«E Peter Solomon?» gli chiese Sato, lanciando un'occhiata alla mano per terra.

Langdon non riusciva a trovare il coraggio di guardarla. «La passione per il misticismo e l'antichità è molto radicata nella sua famiglia.»

«Mi sta dicendo che Peter Solomon è fra quelli che ci credono, professore?»

«Le assicuro che se anche Peter credesse davvero all'esistenza degli antichi misteri non penserebbe di potervi accedere attraverso un portale arcano nascosto qui a Washington. Ne comprende perfettamente il significato simbolico, metaforico. Al contrario del suo rapitore.»

Sato annuì. «Dunque, secondo lei questo portale è una metafora?»

«Ne sono convinto» rispose Langdon. «Nella teoria, per lo meno. Quella del portale mistico da varcare per ottenere l'illuminazione è una metafora piuttosto comune. Porte e portali sono simboli abbastanza diffusi del rito di passaggio. Ma cercare un portale concreto sarebbe come andare materialmente alla scoperta delle porte del paradiso.»

Sato ci rifletté un attimo. «Il rapitore di Solomon, però, sembra convinto che lei possa aprire materialmente questo portale.»

Langdon sospirò. «Ha commesso un errore tipico di molti fanatici: ha confuso la metafora con la realtà.» Come i primi alchimisti, peraltro, che si erano impegnati anima e corpo per trasmutare il piombo in oro, senza rendersi conto che ottenere oro dal piombo altro non è che una metafora dello sviluppare appieno il potenziale umano, ovvero trasformare una mente da ottusa e ignorante a illuminata.

Sato indicò la mano. «Se quell'uomo vuole che lei gli trovi un portale, perché non le ha detto chiaramente come fare per scoprire dov'è? Che motivo aveva di mettere in piedi tutta questa messinscena? Perché questa mano tatuata?»

Langdon si era posto la stessa domanda e la risposta che si era dato era inquietante. «Be', pare che la persona con cui abbiamo a che fare, oltre a essere mentalmente instabile, sia anche molto istruita. La mano dimostra che conosce bene i misteri e i relativi codici. Per non parlare della storia di questa sala.»

«Non capisco.»

«Tutto ciò che ha fatto questa sera è in perfetto accordo con gli antichi protocolli. Nella tradizione, la Mano dei Misteri è un invito sacro, e come tale va presentata in un luogo sacro.»

Il direttore dell'OS strinse gli occhi. «Questa è la Rotonda del Campidoglio, professore, non un santuario.»

«Conosco molti storici che non sarebbero d'accordo con lei, signora Sato» replicò Langdon.


In quel momento, dall'altra parte della città, Trish Dunne era seduta nel Cubo, alla fievole luce della parete al plasma. Aveva finito di istruire lo spider di ricerca e aveva digitato le cinque parole chiave che Katherine le aveva dato.

Non arriveremo da nessuna parte.

Ben poco ottimista, lanciò lo spider, dando inizio alla ricerca. Le frasi stavano per essere confrontate, a una velocità impressionante, con testi di tutto il mondo, per trovare una corrispondenza perfetta.

Trish era curiosa di sapere che cosa stessero cercando, ma ormai aveva imparato che lavorare con i fratelli Solomon significava non conoscere mai tutta la storia.


Langdon guardò ansioso l'orologio: mancavano due minuti alle venti. Il muso sorridente di Topolino non servì a rallegrarlo. Devo trovare Peter. Stiamo perdendo tempo.

Sato si era allontanata un momento per fare una telefonata, ma ora stava tornando da lui. «Ha fretta, professore?»

«No, no» rispose lui nascondendo l'orologio sotto la manica. «Sono solo molto preoccupato per Peter.»

«La capisco. Le assicuro, però, che la cosa migliore che può fare per il suo amico è aiutarmi a comprendere come ragiona il suo rapitore.»

Langdon aveva la netta sensazione che non sarebbe andato da nessuna parte finché il direttore dell'OS non avesse ottenuto le informazioni che cercava.

«Un attimo fa lei ha detto che la Rotonda è in qualche modo consacrata a questi antichi misteri. Giusto?»

«Giusto.»

«Mi può spiegare che cosa intende esattamente, per favore?»

Langdon si rese conto che doveva stare attento alle parole: aveva tenuto interi corsi sul simbolismo mistico di Washington, e anche limitandosi al Campidoglio i riferimenti mistici erano innumerevoli.

L'America ha un passato nascosto.

Ogni volta che teneva una lezione sulla simbologia americana, i suoi studenti rimanevano sbigottiti nell'apprendere che le vere intenzioni dei padri fondatori erano ben diverse da quelle che molti politici adesso attribuivano loro.

L'America non ha realizzato il proprio destino.

Coloro che avevano fondato la capitale degli Stati Uniti l'avevano originariamente chiamata Roma e avevano dato al suo fiume il nome Tevere. Vi avevano costruito pantheon e templi, adornati con le immagini delle divinità classiche più importanti: Apollo, Minerva, Venere, Elio, Vulcano e Giove. Al centro, come in molte città del mondo classico, avevano eretto un tributo imperituro alla tradizione: un obelisco egizio. Più grande di quelli del Cairo e di Alessandria d'Egitto, si elevava in altezza per quasi centosettanta metri, più di trenta piani, per ricordare e ringraziare il padre fondatore da cui la capitale aveva preso il nome, venerato quasi come un dio.

Washington.

A distanza di secoli, nonostante in America vigesse la separazione fra Chiesa e Stato, quella Rotonda che ospitava i più importanti organi pubblici brillava di antico simbolismo religioso. Ospitava oltre dieci divinità diverse, più di quante ve ne fossero al Pantheon di Roma. D'altra parte, il Pantheon romano nel 609 era diventato una chiesa cristiana, mentre quello americano non si era mai convertito, e le vestigia della sua vera storia restavano tuttora visibilissime.

«Come lei forse sa, il progetto della Rotonda si è ispirato a uno dei luoghi sacri più venerati di Roma, il tempio di Vesta.»

«Quello delle vestali?» Sato guardò Langdon dubbiosa: evidentemente non credeva che le sacerdotesse vergini incaricate di sorvegliare il fuoco sacro potessero avere a che fare con il Campidoglio di Washington.

«Il tempio di Vesta era circolare, con una fossa al centro in cui ardeva il fuoco dell'illuminazione, sorvegliato da un gruppo di vergini che aveva il compito di mantenere sempre accesa la fiamma.»

Sato si strinse nelle spalle. «La Rotonda è circolare, d'accordo, ma non ha nessuna fossa.»

«Non più, tuttavia per anni al centro di questa sala c'è stata una grande apertura, proprio lì dove si trova la mano di Peter Solomon adesso.» Le indicò il pavimento. «Si vedono ancora i segni della grata che impediva alla gente di cadere di sotto.»

«Che cosa?» Sato osservò il pavimento, stupita. «Non l'avevo mai sentito.»

«Mi sa che ha ragione.» Anderson indicava con il dito una serie di borchie di metallo disposte in cerchio. «Avevo visto quei tondi di metallo, ma non sapevo a cosa servissero.»

Non sei il solo, pensò Langdon, immaginando le migliaia di persone, celebri legislatori compresi, che ogni giorno attraversavano il centro della Rotonda senza avere idea che una volta da lì sarebbero caduti nei sotterranei del Campidoglio.

«Poi l'apertura venne chiusa, ma per parecchio tempo i visitatori della Rotonda poterono vedere il fuoco che ardeva nella cripta» spiegò Langdon.

Saro si voltò verso di lui. «Fuoco? Nel Campidoglio?»

«Più che un vero e proprio fuoco, era una torcia sempre accesa. Era qui, direttamente sotto di noi. Doveva essere visibile e rendeva questo luogo una sorta di moderno tempio di Vesta. Il Campidoglio aveva persino la sua vestale: un dipendente federale, il custode della cripta, ha mantenuto la fiamma accesa per cinquant'anni, senza interruzioni, finché politica, religione e annerimento da fumo hanno spento gli entusiasmi.»

Trent Anderson e Inoue Sato erano sorpresi.

L'unica traccia del fatto che in passato lì ardesse una torcia era ormai la rosa dei venti a quattro punte nel pavimento della cripta al piano sottostante, simbolo della fiamma perpetua dell'America, che un tempo aveva gettato luce fino ai confini del Nuovo Mondo.

«Dunque, professore, secondo lei l'uomo che ha lasciato qui la mano di Peter Solomon è al corrente di tutto questo?» gli chiese Inoue Sato.

«Sì, sa questo e molto altro. La sala in cui ci troviamo contiene diversi simboli che riflettono la fede negli antichi misteri.»

«Conoscenze esoteriche che permettono all'uomo di acquisire poteri quasi divini» aggiunse Sato sarcastica.

«Esatto.»

«Non mi sembra molto in accordo con i principi cristiani su cui si fonda la nostra nazione.»

«Già. Però è così. Questa deificazione dell'uomo è anche detta "apoteosi". Non so se lo sa, ma è il tema centrale del simbolismo della Rotonda.»

«Apoteosi?» Anderson si voltò, con un'espressione di improvvisa consapevolezza.

«Sì.» Anderson lo sa. Lavora qui. «In greco antico significa "deificazione", diventare un dio.»

Anderson sembrava sbigottito. «Apoteosi è lo stesso che diventare un dio? Non ne avevo idea...»

«Che cosa mi sono persa?» chiese Sato.

«Il più grande dipinto del Campidoglio si chiama L'apoteosi di George Washington e ritrae lo statista mentre viene deificato.»

Il direttore dell'OS assunse un'espressione dubbiosa. «Mai visto.»

«Non direi proprio.» Langdon alzò un dito puntandolo verso il soffitto. «Ce l'ha sopra la testa.»


L'apoteosi di George Washington - un affresco di quattrocentotrenta metri quadrati che ricopre la volta della Rotonda del Campidoglio - era stato ultimato nel 1865 da Costantino Brumidi.

Detto "il Michelangelo del Campidoglio", Brumidi aveva preteso per sé la cupola del Campidoglio proprio come Michelangelo aveva fatto con la Cappella Sistina, dipingendo un affresco sulla superficie più nobile dell'ambiente, il soffitto. Come Michelangelo, Brumidi aveva realizzato alcune delle sue opere più belle all'interno del Vaticano. Poi, però, nel 1852 era emigrato in America, abbandonando il più grande tempio di Dio in favore di un nuovo tempio, il Campidoglio americano, che adesso risplende di esempi della sua bravura, dai trompe-l'oeil dei Corridoi Brumidi al soffitto ornato di fregi nello studio del vicepresidente. Per la maggior parte degli storici, però, il vero capolavoro di Brumidi resta l'enorme dipinto sospeso sulla rotonda del Campidoglio.

Robert Langdon alzò lo sguardo verso il grande affresco. Di solito si divertiva nel vedere le reazioni sconcertate dei suoi studenti davanti alla bizzarra composizione del dipinto, ma in quel momento si sentiva prigioniero di un incubo che non riusciva ancora a comprendere.

Sato, accanto a lui, osservava con espressione corrucciata e le mani sui fianchi la volta imponente. Langdon capì che stava sperimentando la medesima reazione di tutti coloro che si soffermavano per la prima volta a osservare il dipinto che stava

Totale disorientamento.

Non sei l'unica, rifletté Langdon. Per la maggior parte delle persone, L'apoteosi di George Washington diventava tanto più incomprensibile quanto più la si osservava. «Quello nel pannello centrale è George Washington» disse Langdon, indicando il centro della cupola, sessanta metri più in alto. «Come potete notare, è circondato da tredici figure femminili e sta ascendendo al cielo su una nuvola. È il momento della sua apoteosi, la sua trasformazione in un dio.»

Sato e Anderson osservavano in silenzio.

«Tutto intorno» proseguì Langdon «si vede una serie di figure strane e anacronistiche: sono alcuni dèi dell'antichità che regalano ai nostri antenati il sapere moderno. C'è Minerva, che offre l'ispirazione ai più grandi inventori della nostra nazione: Benjamin Franklin, Robert Fulton, Samuel Morse.» Langdon li indicò a uno a uno. «Là c'è Vulcano, con una macchina a vapore sullo sfondo. Quella al suo fianco è Cerere, la dea delle messi, che ha dato origine alla parola "cereale". È seduta su una mietitrice McCormick, la macchina agricola che ha permesso al nostro paese di diventare leader nel mondo nella produzione alimentare. Sul lato opposto c'è Nettuno, con Venere che mostra come stendere un cavo sottomarino attraverso l'Atlantico. Il dipinto raffigura chiaramente i nostri avi che ricevono il dono della conoscenza dagli dèi.» Abbassò la testa e guardò Sato. «La conoscenza è potere, e la giusta conoscenza permette all'uomo di compiere gesta miracolose, quasi divine.»

Sato spostò lo sguardo su Langdon, massaggiandosi il collo. «Stendere un cavo elettrico non mi sembra un'azione divina.»

«Per un uomo moderno forse no» ribatté Langdon. «Ma se George Washington avesse saputo che saremmo arrivati a parlarci attraverso l'oceano, a volare alla velocità del suono e a mettere piede sulla luna, avrebbe pensato che fossimo diventati degli dèi, capaci di azioni miracolose.» Fece una pausa. «Per dirla con le parole di Arthur C. Clarke, "ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia".»

Sato contrasse le labbra, immersa nelle sue riflessioni. Abbassò gli occhi sulla mano e seguì con lo sguardo la direzione dell'indice teso, su, fino alla cupola. «Professore, l'uomo le ha detto che "Peter indicherà la via", giusto?»

«Sì, signora, ma...»

«Anderson» chiese Sato, voltando le spalle a Langdon «possiamo dare un'occhiata più da vicino al dipinto?»

Anderson annuì. «C'è una galleria che corre lungo il perimetro interno della cupola.»

Langdon alzò lo sguardo verso la minuscola ringhiera appena visibile poco sotto il dipinto e si irrigidì. «Non c'è nessun bisogno di salire lassù.» Aveva già sperimentato una volta l'ebbrezza di camminare in quella galleria, che pochi conoscevano, ospite di un senatore e di sua moglie, e aveva rischiato di svenire per le vertigini.

«Nessun bisogno?» chiese Sato. «Professore, abbiamo un uomo convinto che questa sala contenga un portale in grado di farlo diventare un dio. Abbiamo un affresco che simboleggia la trasformazione di un uomo in una divinità. E abbiamo una mano che indica il dipinto. A me sembra che ci siano buoni motivi per andare lassù.»

«In effetti» disse Anderson «non sono in molti a saperlo, ma nella volta c'è un cassettone esagonale che si apre come un portale. Da lì si può guardare in basso e...»

«Un momento» lo interruppe Langdon. «Voi non avete capito. Il portale che quest'uomo cerca è simbolico... un'apertura che non esiste realmente. Quando ha detto: "Peter indicherà la via" parlava per metafora. Il gesto della mano che addita, con l'indice e il pollice tesi verso l'alto, è un simbolo molto noto degli antichi misteri e compare ovunque nell'arte classica. Lo troviamo anche in tre dei capolavori più famosi ed enigmatici di Leonardo da Vinci, L'ultima cena, l'Adorazione dei magi e San Giovanni Battista. È un simbolo del legame mistico fra l'uomo e Dio.»

Come sopra, così sotto. La bizzarra scelta di parole di quel pazzo cominciava ad avere un certo senso.

«Io non l'ho mai visto» disse Sato.

Perché non guardi ESPN, pensò Langdon, il quale non mancava di sorridere davanti ad atleti professionisti che levavano le mani al cielo in segno di gratitudine dopo una meta o un fuoricampo. Si chiedeva sempre quanti di loro fossero consapevoli di perpetuare una tradizione religiosa precristiana con un gesto di riconoscenza verso quel potere superiore che, per un breve istante, li aveva trasformati in divinità capaci di imprese miracolose.

«Se vi può essere di qualche aiuto» disse Langdon «la mano di Peter non è la prima a compiere questo gesto nella Rotonda.»

Sato lo guardò come se fosse pazzo. «Prego?»

Langdon indicò il BlackBerry. «Cerchi su Google "George Washington Zeus".»

Sato aveva l'aria dubbiosa, ma cominciò a digitare. Anderson le si avvicinò, guardando incuriosito da sopra la spalla.

«Un tempo questa Rotonda era dominata da una grande statua di George Washington» spiegò Langdon. «Era ritratto nella stessa posa di Zeus nel pantheon, con il petto nudo, la mano sinistra che regge una spada e la destra alzata con il pollice e l'indice tesi.»

Evidentemente Sato aveva trovato un'immagine in rete, perché Anderson osservava scioccato il BlackBerry. «Un momento.. quello è George Washington?»

«Sì» rispose Langdon. «Rappresentato come Zeus.»

«La mano» disse Anderson continuando a guardare da sopra la sua spalla. «Le dita della mano destra sono nella stessa posizione di quelle del signor Solomon.»

Ve l'avevo detto, pensò Langdon, che la mano di Peter non è la prima a fare quel gesto, qui dentro. Quando la statua di Horatio Greenough che raffigurava George Washington a torso nudo era stata scoperta per la prima volta nella Rotonda, molti avevano osservato scherzando che Washington doveva avere alzato la mano verso il cielo nel disperato tentativo di trovare qualche indumento. Con il mutare della sensibilità religiosa, tuttavia, le battute di spirito si erano trasformate in polemiche e la statua era stata rimossa ed esiliata dentro un capannone nel lato orientale del giardino. Al momento aveva trovato casa al Museo nazionale di storia americana dello Smithsonian, dove quelli che la vedevano non avevano motivo di sospettare che fosse uno degli ultimi legami con il periodo in cui il padre della patria aveva vegliato sul Campidoglio nelle vesti di un dio, come Zeus sul pantheon.

Sato cominciò a comporre un numero sul suo BlackBerry, forse ritenendo che quello fosse il momento opportuno per Mettersi in contatto con il suo ufficio. «Che cosa avete trovato?» chiese, rimanendo pazientemente in ascolto. «Siete sicuri?» Stette a sentire ancora per un attimo. «Okay, grazie.» Chiuse la comunicazione e tornò a voltarsi verso Langdon. «Il mio staff ha fatto qualche ricerca e mi ha confermato l'esistenza della sua cosiddetta Mano dei Misteri, oltre a tutto quello che lei ha detto: i simboli sui polpastrelli... la corona, la stella, il sole, la lanterna e la chiave... come pure il fatto che questa mano anticamente fungeva da invito ad accostarsi a conoscenze segrete.»

«Ne sono felice» disse Langdon.

«Non ne ha motivo» ribatté lei seccamente. «Pare proprio che ci troviamo a un punto morto se non si decide a condividere con noi quello che invece si ostina a tenere per sé.»

«Prego?»

Sato gli si avvicinò. «Stiamo perdendo tempo, professore. Lei non mi ha detto nulla che non potessi apprendere dai miei collaboratori. Quindi glielo chiederò ancora una volta. Perché è stato chiamato qui stasera? Cosa la rende così speciale? Cos'è quella cosa di cui solo lei è a conoscenza?»

«Ne abbiamo già parlato» rispose Langdon. «Io non so perché questo tizio sia convinto che io sappia qualcosa!» Fu tentato di chiedere a Sato come diavolo avesse fatto lei a sapere che quella sera lui si trovava al Campidoglio, ma anche di questo avevano già parlato. «Se conoscessi il prossimo passo» aggiunse «glielo direi. Ma non lo conosco. Per tradizione, la Mano dei Misteri viene offerta da un maestro a un allievo. Poco dopo, viene fornita una serie di istruzioni, cioè le indicazioni per arrivare a un tempio, il nome di un maestro che ti insegnerà qualcosa... Questo tizio ci ha lasciato soltanto cinque tatuaggi! Troppo poco per...» Si interruppe di colpo.

Sato lo guardò. «Cosa c'è?» Gli occhi di Langdon si spostarono sulla mano. Cinque tatuaggi. Si rese conto che quanto stava dicendo poteva non essere del tutto vero. «Professore?» lo incalzò Sato.

Langdon si avvicinò lentamente a quella cosa raccapricciante. Peter indicherà la via. «Mi è venuto in mente che questo tizio potrebbe aver lasciato qualcosa dentro la palma chiusa di Peter. Una mappa, una lettera, delle istruzioni...»

«No» disse Anderson. «Come può vedere anche lei, le tre dita non sono chiuse.»

«Ha ragione» convenne Langdon. «Ma pensavo...» Si accucciò, cercando di vedere la parte di palma nascosta dalle tre dita. «... che forse non è scritto sulla carta.»

«Tatuato?» domandò Anderson.

Langdon annuì.

«Vede qualcosa?» s'informò Sato.

Langdon si chinò ancora di più, tentando di sbirciare sotto le dita appena piegate. «Da questa prospettiva è impossibile capirlo. Non riesco...»

«Oh, insomma!» sbottò Sato, andando verso di lui. «Apra quella maledetta mano!»

Anderson le si parò davanti. «Direttore! Dovremmo aspettare l'arrivo della Scientifica prima di toccare...»

«Io voglio delle risposte» tagliò corto Sato spingendolo da parte. Si accovacciò, costringendo Langdon a scostarsi.

Lui si alzò in piedi e, incredulo, vide il direttore dell'OS estrarre una penna dalla tasca e infilarla con attenzione sotto le dita piegate. Poi le sollevò a una a una finché la mano non fu del tutto aperta, e la palma visibile.

Alzò gli occhi verso Langdon, con un sorriso a fior di labbra. «Ha visto giusto anche questa volta, professore.»


Katherine Solomon era nervosa. Mentre misurava a grandi passi la biblioteca, scostò la manica del camice per guardare l'ora. Non era abituata ad aspettare, ma in quel momento pareva che tutta la sua esistenza fosse stata messa in attesa. Aspettava i risultati della ricerca di Trish, aspettava che suo fratello si facesse vivo, aspettava una telefonata dall'uomo responsabile di quella situazione angosciante.

Vorrei tanto che non mi avesse detto nulla, pensò. Di solito Katherine era molto cauta con gli estranei, ma nonostante avesse conosciuto quell'uomo soltanto poche ore prima, nel giro di qualche minuto lui si era conquistato la sua fiducia incondizionata.

La telefonata era giunta nel pomeriggio, mentre lei era a casa a godersi il consueto relax domenicale dedicato alla lettura delle riviste scientifiche della settimana.

"Signora Solomon?" Era una voce d'uomo insolitamente delicata. "Sono il dottor Christopher Abaddon. Speravo di poterle parlare un momento di suo fratello."

"Scusi, chi è lei?" aveva chiesto Katherine. E come hai fatto a procurarti il mio numero privato?

Il dottor Christopher Abaddon? A Katherine quel nome non diceva nulla.

L'uomo si era schiarito la voce come se fosse in imbarazzo. "Le chiedo scusa, signora Solomon. Mi era parso di capire che suo fratello le avesse parlato di me. Io sono il medico di Peter. Il suo numero di cellulare figura tra quelli da chiamare in caso di emergenza."

Il cuore di Katherine aveva mancato un battito. In caso di emergenza? "È successo qualcosa?"

"No... non credo" aveva risposto l'uomo. "Suo fratello non si è presentato in studio questa mattina e non riesco a mettermi in contatto con lui. Non ha mai saltato un appuntamento senza avvertire e sono un po' preoccupato. Ho esitato prima di chiamarla, ma..."

"No, no, ha fatto bene." Katherine stava ancora cercando di mettere a fuoco il nome del medico. "Non sento mio fratello da ieri mattina, ma probabilmente ha solo dimenticato di accendere il cellulare." Gli aveva da poco regalato un iPhone e lui non aveva ancora avuto il tempo di capire come funzionava. "Ha detto di essere il suo medico?" aveva chiesto poi. Peter è malato e me lo ha tenuto nascosto?

C'era stato un momento di silenzio. "Sono davvero dispiaciuto, evidentemente ho commesso un grave errore professionale telefonandole. Suo fratello mi ha detto che lei era al corrente delle sue visite nel mio studio, ma adesso capisco che non è così."

Peter ha mentito al suo medico? Katherine era sempre più preoccupata. "È malato?"

"Mi dispiace, signora Solomon, ma il segreto professionale mi impedisce di parlare delle condizioni di suo fratello, anzi, ho già detto fin troppo rivelandole che è mio paziente. Ora devo riattaccare, ma se dovesse sentirlo lo preghi da parte mia di telefonare per rassicurarmi."

"Aspetti!" aveva esclamato Katherine. "Per favore, mi dica cos'ha Peter!"

Il dottor Abaddon si era lasciato sfuggire un sospiro, chiaramente infastidito per il proprio errore. "Signora Solomon, mi rendo conto che lei è turbata e non posso darle torto. Sono sicuro che suo fratello sta bene. È venuto nel mio studio appena ieri."

"Ieri? E doveva tornare oggi? Sembra una faccenda piuttosto seria."

L'uomo aveva fatto un altro sospiro. "Suggerirei di concedergli ancora un po' di tempo prima di..."

"Vengo da lei immediatamente" lo aveva interrotto Katherine, già diretta verso la porta. "Dov'è il suo studio?"

Silenzio.

"Dottor Christopher Abaddon, giusto?" aveva detto Katherine. "Posso trovare l'indirizzo da sola, oppure può darmelo lei. In un modo o nell'altro, sto per arrivare."

Dopo un attimo di silenzio, il medico aveva detto: "Se accetto di parlarle, signora Solomon, mi farebbe la cortesia di non accennarne a suo fratello finché non avrò avuto modo di spiegargli il mio passo falso?".

"D'accordo."

"Grazie. Il mio studio si trova a Kalorama Heights." Le aveva dato l'indirizzo.

Venti minuti dopo, Katherine Solomon procedeva per le strade eleganti di Kalorama Heights. Aveva cercato di contattare il fratello a tutti i suoi numeri di telefono senza ottenere risposta. Non era eccessivamente preoccupata di non sapere dove fosse, ma il fatto che lui andasse segretamente da un medico... quello le creava una certa agitazione.

Quando, finalmente, era giunta all'indirizzo, era rimasta a fissare l'edificio, sconcertata. E questo sarebbe lo studio di un medico?

La dimora signorile, immersa in un parco lussureggiante, era dotata di una recinzione in ferro battuto e di telecamere di sorveglianza. Mentre rallentava per ricontrollare l'indirizzo, una delle telecamere aveva ruotato verso di lei e il cancello si era spalancato. Katherine aveva imboccato lentamente il vialetto di accesso e parcheggiato accanto a una limousine davanti a un garage con sei posti auto.

Che razza di dottore è questo?

Mentre scendeva dalla macchina, il portone si era aperto e una figura elegante era uscita sulla soglia. Era un uomo di bell'aspetto, decisamente alto, e più giovane di quanto lei si aspettasse. Eppure aveva la classe e l'eleganza di una persona più anziana. Era vestito in maniera impeccabile, con abito scuro e cravatta, e i capelli biondi erano pettinati con cura.

"Signora Solomon, sono il dottor Christopher Abaddon" aveva detto, con una voce che pareva un sussurro. Quando gli aveva stretto la mano, Katherine aveva sentito che era estremamente morbida e curata.

"Katherine Solomon" aveva replicato sforzandosi di non fissare la pelle di lui, insolitamente liscia e abbronzata. È truccato?

Entrando nell'atrio arredato con sfarzo, Katherine era stata assalita da un crescente senso di inquietudine. In sottofondo si sentiva della musica classica e nell'aria c'era profumo d'incenso. "È molto bello qui" aveva commentato "ma mi aspettavo... uno studio medico."

"Ho la fortuna di poter lavorare a casa." L'uomo le aveva fatto strada verso il soggiorno, dove nel caminetto era acceso un fuoco scoppiettante. "Si sieda, prego. Stavo preparando del tè. Vado a prenderlo e poi potremo parlare." Si era avviato verso la cucina scomparendo dalla vista.

Katherine Solomon non si era seduta. L'intuito femminile era un istinto potente di cui aveva imparato a fidarsi, e in quel luogo c'era qualcosa che le faceva accapponare la pelle. Non aveva visto nulla che potesse far pensare allo studio di un medico. Le pareti di quella stanza, arredata con mobili antichi, erano tappezzate di opere d'arte classicheggianti, soprattutto dipinti con strani soggetti mitologici. Si era fermata davanti a un quadro che ritraeva le Tre Grazie, i cui corpi nudi erano resi con grande realismo a colori molto vivaci.

"Quello è l'originale a olio di Michael Parkes." Il dottor Abaddon si era materializzato all'improvviso alle sue spalle portando un vassoio su cui era posata una teiera fumante. "Ci sediamo vicino al caminetto?" L'aveva invitata ad accomodarsi. "Non ha motivo di essere nervosa."

"Non sono nervosa" aveva ribattuto Katherine con eccessiva fretta.

Lui le aveva rivolto un sorriso rassicurante. "A dire il vero, il mio lavoro consiste proprio nel capire quando le persone sono nervose."

"Prego?"

"Io sono uno psichiatra, signora Solomon. È questa la mia specialità. Ormai è quasi un anno che suo fratello è in cura da me."

Katherine era rimasta senza parole. Peter è in terapia?

"Spesso i soggetti preferiscono non rivelare ad altri di essere in cura" aveva detto l'uomo. "Io ho commesso un errore telefonandole, anche se, a mia parziale discolpa, è stato suo fratello a indurmi in inganno."

"Io... io non ne avevo idea."

"Le chiedo scusa per averla allarmata" aveva aggiunto, apparentemente imbarazzato. "Ho notato che mi osservava, quando ci siamo incontrati, e... sì, sono truccato." Si era sfiorato la guancia, a disagio. "Ho una malattia della pelle che preferisco nascondere. Di solito è mia moglie che mi trucca, ma quando lei non c'è devo cavarmela da solo."

Katherine aveva annuito, troppo imbarazzata per dire qualcosa.

"E questa folta chioma..." L'uomo si era sfiorato la capigliatura bionda. "È una parrucca. La malattia ha colpito anche i follicoli del cuoio capelluto e mi sono caduti i capelli." Si era stretto nelle spalle. "Temo che il mio peggior peccato sia la vanità."

"E il mio, a quanto pare, la scortesia" aveva detto Katherine.

"Niente affatto." Il sorriso del dottor Abaddon era disarmante. "Ricominciamo da capo? Magari con una tazza di tè?" disse versandoglielo. "Suo fratello mi ha fatto prendere l'abitudine di servirlo durante le nostre sedute. Mi ha detto che i Solomon sono bevitori di tè."

"Una tradizione di famiglia" aveva spiegato Katherine. "Senza latte, grazie."

Avevano parlato del più e del meno per qualche minuto, sorseggiando il tè, ma Katherine era impaziente di avere informazioni sul fratello. "Perché mio fratello è venuto da lei?" aveva chiesto. E perché non me ne ha fatto cenno? Certo, Peter aveva dovuto affrontare la sua buona dose di tragedie: aveva perso il padre in giovane età e in seguito, nel giro di cinque anni, aveva seppellito il figlio e la madre. Ma era sempre riuscito a trovare il modo per andare avanti.

Il dottor Abaddon aveva bevuto un sorso. "Suo fratello è venuto da me perché tra noi c'è un legame che va oltre il normale rapporto medico paziente." Aveva indicato un documento incorniciato appeso vicino al caminetto. Sembrava un diploma, ma poi Katherine aveva visto la fenice a due teste.

"Lei è massone?" E al massimo grado, per di più.

"Io e Peter siamo come fratelli."

"Deve aver fatto qualcosa di importante per essere accolto al trentatreesimo grado."

"Non direi" aveva risposto lui. "Appartengo a una famiglia agiata e devolvo molto denaro agli istituti di beneficenza patrocinati dalla massoneria."

Katherine aveva capito perché suo fratello si fidasse di quel medico così giovane. Un massone, di famiglia ricca, dedito alla filantropia e alla mitologia antica ? Il dottor Abaddon aveva molto più in comune con suo fratello di quanto lei avesse inizialmente immaginato. "Quando le ho chiesto perché mio fratello è venuto da lei, non intendevo perché ha scelto lei, ma perché aveva bisogno di uno psichiatra."

Il dottor Abaddon aveva sorriso. "Sì, l'avevo capito, ma cercavo di eludere educatamente la domanda. Non è una cosa di cui dovrei parlare." Aveva fatto una pausa. "Anche se ammetto di essere rimasto sorpreso che suo fratello le abbia tenuto nascoste le nostre conversazioni, considerato che sono così strettamente legate alle sue ricerche."

"Le mie ricerche?" aveva ripetuto Katherine, colta del tutto di sorpresa. Peter parla con estranei delle mie ricerche?

"Di recente, suo fratello è venuto da me per avere un'opinione professionale sull'impatto psicologico delle scoperte che lei sta mettendo a punto nel suo laboratorio."

Per poco a Katherine non era andato di traverso il tè. "Davvero? Sono... sorpresa." Ma cos'ha nella testa Peter? Ha discusso del mio lavoro con questo strizzaceli? Le procedure di sicurezza imponevano di non parlare con nessuno delle ricerche a cui Katherine si stava dedicando, senza contare che era stato proprio Peter a insistere sulla massima riservatezza.

"Di certo lei saprà, signora Solomon, che suo fratello è molto preoccupato di ciò che potrebbe accadere quando le sue ricerche saranno rese pubbliche. Lui vede le potenzialità per un mutamento filosofico a livello mondiale... ed è venuto da me per discutere delle possibili ricadute da un punto di vista psicologico."

"Capisco" aveva detto Katherine. Le tremava leggermente la mano.

"Gli argomenti di cui discutiamo sono una vera sfida: cosa potrebbe accadere al genere umano se venisse finalmente svelato il grande mistero della vita? Cosa potrebbe succedere se le convinzioni che noi accettiamo come atto di fede venissero inconfutabilmente dimostrate come fatti? O smentite come miti? Qualcuno potrebbe affermare che vi sono questioni che è meglio lasciare irrisolte."

Benché Katherine non riuscisse a credere alle proprie orecchie, aveva tenuto a freno le emozioni. "Spero che non le dispiaccia, dottor Abaddon, ma preferirei tralasciare i dettagli del mio lavoro. Non ho intenzione di rendere pubblico alcun risultato nell'immediato futuro. Per il momento, le mie scoperte restano sotto chiave, al sicuro in laboratorio."

"Interessante." Abaddon si era appoggiato allo schienale della poltrona, perso per un istante nei suoi pensieri. "In ogni caso, ho chiesto a suo fratello di tornare oggi perché ieri ha avuto un piccolo crollo. Quando capita, preferisco che i miei pazienti..."

"Crollo?" Katherine aveva sentito batterle forte il cuore. "Nel senso di crollo psicologico?" Non riusciva a immaginare Peter che perdeva il controllo su qualcosa.

Abaddon aveva allungato una mano per sfiorarla. "Mi perdoni, vedo che l'ho turbata e mi dispiace. Considerate le circostanze, capisco che lei possa ritenere di avere diritto a delle risposte."

"Che io ne abbia diritto o no" aveva ribattuto Katherine "mio fratello è tutto ciò che resta della mia famiglia. Nessuno lo conosce meglio di me, quindi se lei mi dice cosa diavolo gli è successo forse potrò aiutarla. Vogliamo tutti la stessa cosa... il bene di Peter."

Il dottor Abaddon era rimasto in silenzio per alcuni interminabili secondi, poi aveva cominciato ad annuire lentamente, come se avesse capito le ragioni di Katherine. "Per la precisione, signora Solomon" aveva detto alla fine "se decido di rivelarle queste informazioni, lo faccio solo perché penso che il suo parere possa essermi d'aiuto per assistere al meglio suo fratello."

"Naturalmente."

Abaddon si era sporto in avanti, puntellando i gomiti sulle ginocchia. "Signora Solomon, dal momento in cui l'ho preso in cura, ho capito che suo fratello lottava con profondi sensi di colpa. Ma non ho mai fatto pressioni perché me ne parlasse... non è per questo che si è rivolto a me. Ieri, però, per un insieme di circostanze, gli ho chiesto spiegazioni." Abaddon l'aveva guardata dritto negli occhi. "Suo fratello si è aperto, piuttosto inaspettatamente e in modo drammatico. Mi ha detto cose che non mi aspettavo di sentire... compreso quanto è accaduto la notte in cui è morta vostra madre."

La vigilia di Natale... dieci anni fa. È morta fra le mie braccia.

"Mi ha raccontato che vostra madre ha perso la vita durante un tentativo di rapina. Un uomo si era introdotto in casa in cerca di qualcosa che, secondo lui, suo fratello teneva nascosto."

"Esatto."

Gli occhi di Abaddon l'avevano scrutata nei profondo. "Suo fratello mi ha detto di aver sparato a quell'uomo e di averlo ucciso. È così?"

"Sì."

Abaddon si era massaggiato il mento. "Ricorda che cosa cercava l'intruso quando si è introdotto in casa vostra?"

Katherine aveva tentato per dieci anni di cancellare quel ricordo. "Sì. Le sue richieste erano molto specifiche. Purtroppo, però, nessuno di noi ha capito di cosa stesse parlando."

"Be', suo fratello sì."

"Cosa?" Katherine aveva drizzato la schiena.

"In base a quello che mi ha detto ieri, lui sapeva benissimo che cosa cercava l'intruso, ma non voleva consegnarglielo e così ha fatto finta di non capire."

"Ma è assurdo! Peter non poteva sapere cosa voleva quell'uomo. Le sue richieste non avevano alcun senso!"

"Interessante." Il dottor Abaddon si era interrotto per prendere qualche appunto. "Come le ho detto, però, a me ha confidato di saperlo. Suo fratello è convinto che, se avesse collaborato con l'intruso, forse oggi vostra madre sarebbe ancora viva. Quella decisione sbagliata è all'origine dei suoi sensi di colpa."

"Pazzesco" aveva commentato Katherine scuotendo la testa.

Abaddon si era riappoggiato allo schienale della poltrona. Pareva preoccupato. "Signora Solomon, è stata una conversazione molto utile. Purtroppo suo fratello sembra aver sofferto di un lieve straniamento. Devo ammettere che è quanto temevo. È per questo che gli ho chiesto di tornare da me oggi. Questi episodi di delirio non sono affatto insoliti quando si riferiscono a ricordi traumatici."

Katherine aveva scosso di nuovo la testa. "Peter è tutto fuorché delirante, dottor Abaddon."

"Tenderei a essere d'accordo con lei, solo che..."

"Solo che cosa?"

"Solo che il suo resoconto dell'aggressione è stato appena l'inizio... una piccola parte di una storia lunga e improbabile che lui mi ha raccontato."

Katherine si era sporta in avanti. "Cosa le ha detto Peter?"

Abaddon le aveva rivolto un sorriso mesto. "Signora Solomon, lasci che le faccia io una domanda. Suo fratello le ha mai accennato a ciò che ritiene sia nascosto qui a Washington... o al ruolo che lui pensa di ricoprire a difesa di un grande tesoro... di una conoscenza antica e perduta?"

Katherine era rimasta letteralmente a bocca aperta. "Di cosa sta parlando?"

Il dottor Abaddon aveva fatto un lungo sospiro. "Ciò che sto per dirle rappresenterà un piccolo shock per lei, Katherine. ' S i era interrotto e l'aveva guardata negli occhi. "Ma mi sarà molto utile se vorrà raccontarmi ciò che sa al riguardo." Si era sporto in avanti per prendere la sua tazza. "Ancora un po' di tè?"

Un altro tatuaggio.

Langdon si accucciò angosciato accanto alla mano aperta di Peter ed esaminò i sette minuscoli simboli che erano rimasti nascosti sotto le dita piegate e prive di vita.


«Sembrano numeri» disse Langdon sorpreso. «Ma non li riconosco.»

«Il primo è un numero romano» osservò Anderson.

«No, non direi» lo corresse Langdon. «Il numero romano IIIX non esiste. Sarebbe scritto VII.»

«E il resto?» chiese Sato.

«Non ne sono sicuro. Sembrerebbe otto-otto-cinque in numeri arabi.»

«Arabi?» chiese Anderson. «A me sembrano numeri normalissimi.»

«I numeri che usiamo normalmente sono arabi.»

Langdon era così abituato a dover chiarire questo punto con i suoi studenti che aveva preparato una lezione sulle scoperte scientifiche compiute dalle prime culture mediorientali, e fra queste il nostro sistema numerico moderno, i cui vantaggi rispetto a quello romano sono, fra gli altri, la notazione posizionale e l'invenzione del numero zero. Naturalmente, concludeva sempre la sua lezione rammentando agli studenti che la cultura araba aveva regalato all'umanità anche la parola "al-kuhl" - la bevanda preferita delle matricole di Harvard -, da noi tradotta come "alcol".

Osservò con attenzione il tatuaggio, rimanendo sconcertato. «E non sono sicuro neppure riguardo all'otto-otto-cinque. La grafia è molto insolita. Potrebbe non trattarsi di numeri.»

«E allora cosa sono?» chiese Sato.

«Non saprei. Il tatuaggio, nell'insieme, sembra quasi... runico.»

«Sarebbe a dire?» lo incalzò Sato.

«Gli alfabeti runici sono composti soltanto di linee rette perché spesso erano usati per le incisioni sulla pietra, dove le linee curve sono difficili da riprodurre.»

«Se queste sono rune» disse Sato «qual è il loro significato?»

Langdon scosse la testa. Le sue conoscenze si limitavano all'alfabeto runico più arcaico - il futhark - una sequenza usata dalle popolazioni germaniche e risalente al terzo secolo, e quello non era futhark. «Se devo essere sincero, non giurerei neppure che queste siano rune. Dovreste chiedere a uno specialista. Ne esistono decine di forme diverse, per esempio la serie vichinga, quella anglosassone e la medievale...»

«Peter Solomon è un massone, vero?»

Langdon la guardò sbalordito. «Sì, ma cosa c'entra con questo?» Si rialzò in piedi. Ora incombeva sulla donna minuta.

«Me lo dica lei. Ha appena spiegato che i caratteri runici sono usati per le incisioni su pietra, e mi risulta che i primi massoni fossero muratori. Faccio questa affermazione perché, quando ho chiesto al mio ufficio di cercare un collegamento fra la Mano dei Misteri e Peter Solomon, i risultati ci hanno rinviato a un argomento in particolare.» Fece una pausa, come per sottolineare l'importanza della scoperta. «I massoni.»

Langdon si lasciò sfuggire un sospiro, sopprimendo l'impulso di dire a Sato quello che ripeteva sempre ai suoi studenti: "Google non è sinonimo di ricerca". In quell'epoca di interrogazioni a livello globale tramite parole chiave, sembrava che ogni cosa fosse collegata all'altra. Il mondo stava diventando un unico grande groviglio di informazioni, ogni giorno sempre più fitto.

Langdon si sforzò di mantenere un tono paziente. «Non mi sorprende che nella ricerca dei suoi collaboratori siano comparsi i massoni. Sono un collegamento ovvio tra Peter Solomon e una grande quantità di argomenti esoterici.»

«Sì» disse Sato «e questo è un altro dei motivi per cui mi sorprende che questa sera lei non li abbia ancora menzionati. Dopotutto, ha continuato a parlare di un sapere segreto protetto da pochi illuminati. È tipico dei massoni, non è vero?»

«Sì... come pure dei rosacroce, dei cabalisti, degli alumbrados e di molti altri gruppi esoterici.»

«Ma Peter Solomon è un massone... e molto potente, per giunta. Mi sembra che i massoni siano il primo pensiero che viene in mente parlando di segreti. Dio solo sa quanto amino la segretezza.»

A Langdon non sfuggì il tono di disprezzo nella voce di Sato, disprezzo che non condivideva. «Se vuole sapere qualcosa sui massoni, farebbe meglio a chiedere a uno di loro.»

«A dire il vero» ribatté Sato «preferirei chiederlo a qualcuno di cui mi fido.»

Langdon trovò quel commento tanto arrogante quanto offensivo. «Per l'esattezza, signora, tutta la filosofia massonica si fonda sull'onestà e l'integrità. I massoni sono tra gli uomini più degni di fiducia che uno possa sperare di incontrare.»

«Ho prove convincenti del contrario.»

A Langdon il direttore Sato piaceva sempre meno. Aveva passato anni a scrivere della ricca tradizione massonica di simboli e iconografia metaforica e sapeva che la massoneria era sempre stata una delle organizzazioni più ingiustamente diffamate e incomprese al mondo. Accusati di ogni nefandezza, dall'adorare il diavolo al cospirare per un unico governo mondiale, i massoni seguivano la politica di non reagire mai alle critiche, e questo faceva di loro un facile bersaglio.

«Comunque sia» continuò Sato in tono sarcastico «ci troviamo di nuovo a un punto morto, signor Langdon. Ho l'impressione che ci sia qualcosa che le sfugge, o di cui vuole tenermi all'oscuro. Quell'uomo ha detto che Peter Solomon ha scelto specificamente lei.» Qui si interruppe e gli rivolse uno sguardo gelido. «Io credo che sia venuto il momento di proseguire questa conversazione al quartier generale della CIA. Forse là avremo più fortuna.»

La minaccia di Sato lasciò Langdon del tutto indifferente. La donna aveva appena detto qualcosa che si era insinuato nella sua mente. Peter Solomon ha scelto lei. Quella frase, insieme al riferimento ai massoni, lo aveva inspiegabilmente colpito. Abbassò lo sguardo sull'anello al dito di Peter. Era uno dei suoi beni più preziosi, un cimelio della famiglia Solomon recante il simbolo della fenice a due teste, la massima icona del sapere massonico. Lo scintillio dell'oro colpito dalla luce aveva inaspettatamente suscitato in lui un ricordo.

Langdon rimase senza fiato ripensando al sussurro spettrale dell'uomo che teneva Peter prigioniero: Non ha ancora capito perché è stato scelto proprio lei?

In un attimo i suoi pensieri si misero a fuoco e la nebbia si diradò.

D'un tratto, lo scopo della sua presenza lì gli fu chiarissimo.


A quindici chilometri di distanza, mentre guidava lungo la Suitland Parkway diretto a sud, Mal'akh sentì una caratteristica vibrazione sul sedile accanto al suo. Era l'iPhone di Peter Solomon, che quel giorno si era rivelato utilissimo. Sul display dell'apparecchio comparvero l'immagine di una donna attraente di mezza età con lunghi capelli neri e un nome:

KATHERINE SOLOMON


Mal'akh sorrise e ignorò la chiamata. È il destino che ci unisce.

Quel pomeriggio aveva attirato Katherine Solomon a casa sua con un unico scopo: appurare se fosse in possesso di informazioni che potevano essergli utili... magari un segreto di famiglia che lo aiutasse a trovare quello che stava cercando. Evidentemente, però, il fratello non le aveva mai parlato di ciò che custodiva da anni.

In ogni caso, Mal'akh aveva appreso un'altra cosa da Katherine, una cosa che le aveva fatto guadagnare qualche ora di vita. La dottoressa Solomon gli aveva confermato che tutte le sue ricerche si trovavano in un unico posto, al sicuro nel suo laboratorio.

Devo    distruggerle.

Le ricerche di Katherine puntavano ad aprire una nuova porta della conoscenza e, una volta che quella porta fosse stata anche appena socchiusa, altri avrebbero seguito il suo esempio. Era solo questione di tempo prima che tutto cambiasse. Non posso permettere che questo accada. Il mondo deve restare com'è... immerso nel buio dell'ignoranza.

L'iPhone emise un segnale acustico: Katherine aveva lasciato un messaggio vocale. Mal'akh lo ascoltò.

"Peter, sono di nuovo io . " Pareva preoccupata. " Dove sei? Sto ancora pensando alla mia conversazione con il dottor Abaddon... e sono preoccupata. Va tutto bene ? Chiamami , per favore. Sono al laboratorio."

Mal'akh sorrise. Katherine dovrebbe preoccuparsi meno per suo fratello e più per se stessa. Uscì dalla Suitland Parkway all'altezza di Silver Hill Road. Un chilometro e mezzo più avanti intravide nell'oscurità la sagoma dell'SMSC nascosta fra gli alberi alla sua destra. Tutto il complesso era circondato da un'alta recinzione di filo spinato.

Un edificio sicuro? Mal'akh ridacchiò tra sé. Conosco una persona che mi farà entrare.


La rivelazione travolse Langdon come un'ondata.

Io so perché mi trovo qui.

Lì, nel bel mezzo della Rotonda, Langdon provò un desiderio fortissimo di voltarsi e correre via... via dalla mano di Peter, dall'anello d'oro scintillante, dagli sguardi sospettosi di Sato e di Anderson. Invece rimase immobile, stringendo ancora più forte la tracolla della borsa di pelle. Devo andarmene da qui.

Serrò la mascella al ricordo di quella fredda mattina di tanti anni prima, a Cambridge. Erano le sei e Langdon stava entrando in classe come sempre dopo la consueta nuotata nella piscina del campus di Harvard. Appena varcata la soglia, era stato accolto dall'odore familiare della polvere di gesso e del riscaldamento a vapore. Aveva fatto due passi verso la cattedra e si era fermato di colpo.

Qualcuno lo stava aspettando, un uomo elegante con il viso aquilino e occhi grigi aristocratici.

"Peter?" Langdon lo aveva fissato stupefatto.

Il sorriso di Peter Solomon era stato come un lampo bianco nell'aula immersa nella penombra. "Buongiorno, Robert. Sorpreso di vedermi?" La sua voce era pacata ma autorevole.

Langdon si era avvicinato a passi veloci e aveva stretto con calore la mano all'amico. "Cosa diavolo ci fa un sangue blu di Yale nel campus di Harvard prima dell'alba?"

"Missione segreta dietro le linee nemiche" aveva risposto Solomon ridendo. Poi aveva indicato il girovita di Langdon. "Vedo che nuotare fa bene. Sei in ottima forma."

"Sto solo cercando di farti sentire vecchio" aveva ribattuto Langdon, stando al gioco. "Sono felice di vederti, Peter. Cosa succede?"

"Un breve viaggio di lavoro" aveva risposto lui, guardandosi attorno nell'aula deserta. "Scusa se sono piombato qui in questo modo, Robert, ma ho solo pochi minuti. Volevo chiederti un favore di persona."

Questa è una novità. Langdon si era chiesto quale favore potesse mai fare un umile professore universitario a un uomo che aveva tutto. "Qualunque cosa" aveva risposto, felice di poter aiutare chi tanto aveva fatto per lui, considerato che la vita fortunata di Peter era stata segnata anche da grandi tragedie.

"Volevo chiederti di custodire una cosa per me" aveva detto Solomon abbassando la voce.

Langdon aveva alzato gli occhi al cielo. "Non Hercules, spero. " Una volta aveva accettato di prendersi cura del cane di Peter, Hercules, un mastino di settanta chili, quando l'amico era in viaggio. Mentre si trovava da lui, il cane era stato assalito dalla nostalgia per il suo osso di gomma preferito e aveva trovato un degno sostituto nello studio di Langdon, una Bibbia originale del Seicento vergata a mano su pergamena. L'espressione "cagnaccio cattivo" pareva decisamente riduttiva.

"Sai, sto ancora cercando una copia per rimpiazzarla" aveva detto Solomon, con un sorriso imbarazzato.

"Non ci pensare. Sono felice che Hercules si sia gustato un assaggio di religione."

Solomon aveva riso, ma sembrava che la sua mente fosse altrove. "Robert, il motivo per cui sono venuto da te è che vorrei affidarti un oggetto per me di grande valore. L'ho ereditato parecchio tempo fa, però non mi sento più di tenerlo a casa o nel mio ufficio."

Langdon aveva provato un senso di disagio. Qualunque cosa avesse un "grande valore" per Peter Solomon doveva valere una fortuna. "Perché non metterlo in una cassetta di sicurezza?" La tua famiglia è azionista di metà delle banche d'America.

"Significherebbe scartoffie, impiegati di banca... Preferisco un amico fidato. E sono certo che tu sai tenere un segreto." Solomon aveva tirato fuori dalla tasca un pacchetto porgendolo a Langdon.

Considerata l'enfasi del preambolo, Langdon si sarebbe aspettato qualcosa di più consistente, invece si trattava di un pacchetto a forma di cubo, più o meno di otto centimetri di lato, avvolto in una carta marrone sbiadito e legato con lo spago. A giudicare dal peso e dalla forma, doveva contenere un oggetto di pietra o di metallo. Tutto qui? Langdon se lo era rigirato fra le mani e aveva visto che lo spago era stato accuratamente fissato su un lato con un sigillo di ceralacca, come gli antichi editti. Il sigillo riproduceva una fenice a due teste con il numero 33 sul petto, il tradizionale simbolo del massimo grado della massoneria.

"Dài, Peter" aveva detto Langdon con un sorriso ironico. "Sei il Venerabilissimo Maestro, non il papa! Da quando in qua sigilli i pacchetti con il tuo anello?"

Solomon aveva abbassato lo sguardo sul suo anello d'oro e aveva fatto una risatina. "Non ho sigillato io il pacchetto, Robert. È stato il mio bisnonno, quasi un secolo fa."

"Cosa?" aveva esclamato Langdon.

Solomon aveva alzato l'anulare. "Questo anello era suo. Dopodiché è passato a mio nonno, poi a mio padre e adesso a me. "

"Il tuo bisnonno ha chiuso questo pacchetto un secolo fa e nessuno lo ha più aperto?" aveva chiesto Langdon soppesandolo.

"Esatto."

"Ma... perché no?"

Solomon aveva sorriso. "Perché non è il momento. "

"Il momento per cosa?" aveva chiesto Langdon stupito.

"Robert, so che ti sembrerà strano, ma meno sai e meglio è. Metti questo pacchetto in un luogo sicuro e non dire a nessuno che te l'ho dato."

Langdon aveva studiato lo sguardo del suo mentore alla ricerca di un luccichio divertito. Solomon aveva una propensione per gli atteggiamenti teatrali, e Langdon si era chiesto se l'amico si stesse prendendo gioco di lui. "Peter, sei sicuro che questo non sia solo un piano ingegnoso per farmi credere che mi sia stato affidato qualche antico segreto massonico, così da solleticare la mia curiosità e spingermi ad affiliarmi?"

"I massoni non fanno proseliti, Robert, lo sai. Oltretutto, mi hai già detto chiaro e tondo che preferisci non entrare a far parte della massoneria."

Era la verità. Langdon nutriva un profondo rispetto per la filosofia e il simbolismo massonici, ma aveva deciso che non voleva essere iniziato. Il voto di segretezza imposto dall'ordine gli avrebbe impedito di discutere della massoneria con i suoi studenti. Era lo stesso motivo per cui Socrate aveva rifiutato di farsi iniziare ai misteri eleusini.

Mentre osservava il misterioso pacchetto e il sigillo massonico, Langdon non aveva potuto fare a meno di porre la domanda più ovvia. "Perché non affidarlo a uno dei tuoi confratelli?"

"Mettiamola così: il mio istinto mi suggerisce che è più al sicuro al di fuori della fratellanza. E non farti ingannare dalle dimensioni. Se quanto mi ha detto mio padre corrisponde a verità, questo pacchetto contiene un oggetto dotato di grandi poteri." E, dopo una pausa, aveva aggiunto: "Una specie di talismano".

Ha detto talismano? Per definizione, un talismano è un oggetto dotato di poteri magici. I talismani sono usati per portare fortuna, per scacciare gli spiriti malvagi o per compiere antichi rituali. "Peter, ti rendi conto che i talismani sono passati di moda dai tempi del Medioevo?"

Peter gli aveva posato una mano sulla spalla. "Capisco che possa sembrarti strano, Robert. Ti conosco da tanto tempo e, come accademico, lo scetticismo è il tuo maggior punto di forza. E anche la tua più grande debolezza. Ti conosco abbastanza da sapere che non sei un uomo a cui posso chiedere di credere... ma solo di fidarsi. E ora ti chiedo di fidarti di me se ti assicuro che questo talismano è dotato di grandi poteri. Mi è stato detto che può infondere in chi lo possiede la capacità di trarre ordine dal caos."

Langdon era senza parole. Il concetto dell'ordine che viene dal caos era uno dei grandi assiomi della massoneria. Ordo ab chao. Tuttavia era assurdo affermare che un talismano potesse conferire un qualsivoglia potere, figurarsi quello di far scaturire l'ordine dal caos.

"Questo talismano" aveva proseguito Solomon "costituirebbe un pericolo se cadesse nelle mani sbagliate. E, purtroppo, ho Motivo di credere che persone molto potenti vogliano rubarlo." Langdon non lo aveva mai visto così serio. "Vorrei che tu lo tenessi al sicuro per un po'. Puoi farlo?"

Quella sera, seduto al tavolo di cucina, Langdon era rimasto a fissare il pacchetto chiedendosi cosa mai potesse contenere. Alla fine, aveva deciso che doveva trattarsi di una delle tante bizzarrie di Peter, l'aveva chiuso nella cassaforte a muro nella sua biblioteca e se n'era dimenticato.

Per lo meno... fino a quella mattina.

La telefonata. L'uomo con l'accento del Sud.

"Ah, professore, quasi dimenticavo!" aveva detto l'assistente di Peter dopo avere comunicato a Langdon i dettagli del programma di viaggio. "Ci sarebbe un'ultima richiesta da parte del signor Solomon."

"Sì?" aveva domandato Langdon, già concentrato sulla conferenza che aveva appena accettato di tenere.

"Il signor Solomon mi ha lasciato un appunto per lei." L'uomo aveva cominciato a leggerlo con difficoltà, come se stesse cercando di decifrare la scrittura di Peter. "Per favore chieda a Robert... di portare... il pacchetto sigillato che gli ho affidato molti anni fa.'" L'uomo aveva fatto una pausa. "Le dice qualcosa?"

Sorpreso, Langdon si era ricordato del pacchetto chiuso da tempo nella sua cassaforte. "Sì... sì, so a cosa si riferisce."

"E può portarlo con sé?"

"Certo. Dica a Peter che lo porterò."

"Ottimo." L'assistente era parso sollevato. "Si goda la sua conferenza, questa sera. E faccia buon viaggio."

Prima di partire, Langdon aveva recuperato il pacchetto dal fondo della cassaforte e lo aveva messo nella borsa.

E ora era lì, all'interno del Campidoglio, con una sola certezza. Peter Solomon sarebbe inorridito nell'apprendere come lui aveva tradito le sue aspettative.


Mio Dio, Katherine aveva ragione. Come sempre.

Trish Durine fissava stupita l'esito della metaricerca che si stava materializzando sulla parete al plasma davanti a lei. Pensava che i suoi sforzi non avrebbero dato alcun risultato e, invece, erano usciti più di dieci riscontri. E continuavano ad aggiungersene altri.

Uno, in particolare, sembrava promettente.

«Katherine, vieni a vedere!» gridò voltandosi verso la biblioteca.

Erano passati due anni dall'ultima volta che Trish aveva lanciato una metaricerca simile, e i risultati di quella sera la lasciavano stupefatta. Qualche anno fa, questa interrogazione sarebbe stata senza speranza. Ora, invece, sembrava che la quantità di documenti su supporto digitale disponibili in rete fosse esplosa al punto che si poteva davvero trovare qualunque cosa. Incredibilmente, una delle parole chiave era un termine che Trish non aveva mai sentito, eppure la ricerca aveva scovato anche quella.

Katherine entrò di corsa nella sala controllo. «Cos'hai trovato?»

«Un gran numero di riscontri.» Trish indicò la parete al plasma. «Ognuno di questi documenti contiene tutte le tue stringhe, parola per parola.»

Katherine si sistemò i capelli dietro l'orecchio e scorse l'elenco.

«Prima che ti entusiasmi troppo, però» aggiunse Trish «devo avvertirti che la maggior parte di questi documenti non è ciò che stai cercando. In gergo si chiamano "buchi neri". Guarda le dimensioni dei file. Sono enormi. Sono archivi zippati contenenti milioni di e-mail, giganteschi siti di enciclopedie in edizione integrale, gruppi di discussione attivi da anni e così via. A causa delle dimensioni e dei contenuti più disparati, questi file includono così tante potenziali parole chiave da attirare qualunque motore di ricerca gli si avvicini.»

Katherine indicò una delle occorrenze verso l'inizio dell'elenco. «Cosa mi dici di questo?»

Trish sorrise. Katherine era sempre un passo avanti a tutti e aveva trovato subito l'unico file della lista di dimensioni contenute. «Che occhio! Sì, in effetti questo è il nostro unico risultato valido per il momento. Anzi, è così piccolo che non può trattarsi che di una o due pagine.»

«Aprilo.» Il tono di Katherine era eccitato.

Trish non riusciva a immaginare un documento di una pagina che contenesse tutte le strane stringhe di ricerca che Katherine le aveva fornito. Quando lo aprì, però, le stringhe erano lì... chiarissime e facili da individuare all'interno del testo.

Katherine si avvicinò, con gli occhi incollati alla parete al plasma. «Questo documento è... segretato?»

Trish annuì. «Benvenuta nel mondo dei testi digitalizzati.»

La segretazione automatica è una prassi comune nel mercato dei documenti digitalizzati, un procedimento mediante il quale un server permette a un utente di effettuare ricerche su tutto il testo, ma lascia in chiaro soltanto una piccola parte di esso - una specie di anteprima - e solo quella immediatamente vicina alle parole chiave indicate.

Omettendo la stragrande maggioranza del testo, il server evita violazioni di copyright e manda all'utente un messaggio allettante: "Ho le informazioni che stai cercando, ma se le vuoi dovrai acquistarle da me".

«Come vedi» disse Trish, scorrendo la pagina abbondantemente oscurata «il testo contiene tutte le stringhe inserite nella ricerca.»

Katherine fissava la pagina in silenzio.

Trish le diede un minuto, poi tornò all'inizio della pagina. Tutte le stringhe indicate da Katherine, riportate in maiuscolo e sottolineate, erano accompagnate da poche parole che le precedevano e le seguivano nel testo.


Trish non riusciva a immaginare a cosa potesse riferirsi quel documento. E cosa diavolo era un symbolon?

Katherine si avvicinò impaziente allo schermo. «Da dove viene questo documento? Chi lo ha scritto?»

Trish ci stava già lavorando. «Dammi un secondo. Sto cercando di risalire alla fonte.»

«Devo sapere chi lo ha scritto» ribadì Katherine a voce più alta. «Ho bisogno di vedere il resto del documento.»

«Ci sto provando» disse Trish, allarmata dal tono di Katherine.

Stranamente, l'indirizzo del file non era indicato nella forma classica di una pagina web, ma somigliava di più alla sequenza numerica di un indirizzo IP. «Non riesco a risalire all'IP» annunciò Trish. «E il nome del dominio non compare. Però, aspetta un momento. Provo a lanciare un programma per tracciare il percorso del file.»

Trish batté la sequenza di istruzioni per identificare tutti i passi" per risalire al server.

Questo tipo di applicazione era estremamente veloce e stilla parete al plasma comparve quasi all'istante un lungo elenco di dispositivi di rete. Trish cominciò a scorrere il percorso dei router che collegavano il suo computer a...

Che diavolo? La traccia si era interrotta prima di arrivare al server da cui era partito il documento. Per qualche motivo, il segnale generato dal programma era giunto a un dispositivo che l'aveva fagocitato anziché rimbalzarlo indietro. «Sembra che il segnale sia stato bloccato» disse Trish. Ma com'è possibile?

«Riprova.»

Trish lanciò nuovamente l'applicazione, ma ottenne lo stesso risultato. «Niente da fare. Siamo a un punto morto. È come se questo documento fosse in un server non rintracciabile.» Guardò gli ultimi due router prima del punto di arresto. «Però posso dirti che si trova all'interno del Distretto di Columbia.»

«Stai scherzando?»

«Non mi sorprende» osservò Trish. «Questi programmi allargano progressivamente il campo di ricerca su base geografica, quindi i primi risultati si riferiscono sempre a indirizzi locali. Inoltre, una delle nostre stringhe era "Washington, DC".»

«E se tu facessi una ricerca sui nomi di dominio?» suggerì Katherine. «Non capiresti chi è il proprietario?»

Non molto sofisticata come idea, ma neanche da scartare. Trish entrò nel database anagrafico dei domini e lanciò una ricerca per l'indirizzo IP, nella speranza di trovare una corrispondenza tra la sequenza dei numeri e un reale nome di dominio. Adesso la sua delusione era mitigata da una crescente curiosità. Chi diavolo è il proprietario di questo documento? I risultati relativi al "chi " comparvero in fretta, però senza dare alcun riscontro. Trish alzò le mani in segno di sconfitta. «È come se questo indirizzo IP non esistesse. Non riesco a rintracciare nessuna informazione al riguardo.»

«Ma deve esistere. Abbiamo appena trovato un documento contenuto nel suo archivio!»

Vero. Eppure, chiunque fosse, il proprietario di quel documento preferiva non divulgare la propria identità. «Non so cosa dirti. Tracciare percorsi di rete non è esattamente il mio campo e, a meno che tu non voglia chiedere aiuto a un informatico con competenze da hacker, non saprei cos'altro tentare.»

«Ne conosci qualcuno?»

Trish si voltò a guardare il suo capo. «Scherzavo. Non è una buona idea.»

«Ma si può fare?» Katherine guardò l'orologio.

«Be', sì... lo fanno tutti. Tecnicamente, non è difficile.»

«Chi conosci?»

«Di hacker?» Trish fece una risatina nervosa. «Praticamente la metà delle persone che lavoravano con me prima lo è.»

«C'è qualcuno di cui ti fidi?»

Sta dicendo sul serio? Trish vide che Katherine era assolutamente seria. «Be', sì» si affrettò a rispondere. «Conosco un ragazzo. Era il nostro esperto in sicurezza dei sistemi... uno in gamba. Voleva uscire con me, e questo non mi andava, ma è un tipo a posto e mi fido di lui. E poi lavora anche come consulente.»

«Sa tenere la bocca chiusa?»

«È un hacker. Naturale che sa tenere la bocca chiusa. È il suo mestiere. Ma sono sicura che chiederà almeno mille dollari anche solo per guardare...»

«Chiamalo. Offrigli il doppio se mi farà avere una risposta in fretta.»

Trish non avrebbe saputo dire cosa la mettesse più a disagio, se aiutare Katherine Solomon a ingaggiare un hacker... o chiamare un tizio che probabilmente non aveva ancora accettato che un'esperta in metasistemi grassottella e con i capelli rossi respingesse le sue avance. «Sicura?»

«Usa il telefono della biblioteca. È un numero non rintracciabile. E ovviamente non fare il mio nome.»

«D'accordo.» Trish stava già andando verso la porta quando si bloccò, sentendo il trillo dell'iPhone di Katherine. Con un po' di fortuna, il messaggio in arrivo avrebbe potuto contenere le informazioni che l'avrebbero esentata da quella sgradevole incombenza. Attese che Katherine estraesse l'iPhone dalla tasca del camice e guardasse il display.


Katherine Solomon provò un'ondata di sollievo nel vedere il nome sul display.

Finalmente.

PETER SOLOMON


«È un messaggio di mio fratello» annunciò lanciando un'occhiata a Trish.

Lei si illuminò, speranzosa. «Forse dovremmo chiedere spiegazioni a lui... prima di chiamare un hacker?»

Katherine guardò il documento segretato sulla parete al plasma e sentì di nuovo la voce del dottor Abaddon. Quello che suo fratello ritiene sia nascosto a Washington... può essere trovato. Non sapeva più cosa pensare, e trovare quel documento significava scoprire informazioni sulle improbabili teorie da cui suo fratello era, a quanto pareva, ossessionato.

Scosse la testa. «Voglio sapere chi ha scritto questa cosa e dove si trova. Fa' quella telefonata.»

Trish si diresse verso la porta, accigliata.

Che quel documento fosse in grado o no di spiegare il mistero di ciò che Peter aveva raccontato al dottor Abaddon, se non altro quel giorno era stato risolto un altro problema: suo fratello aveva finalmente imparato a mandare messaggi di testo con l'iPhone che Katherine gli aveva regalato.

«E avverti la stampa» disse lei alzando la voce per farsi sentire da Trish. «Il grande Peter Solomon ha appena mandato il suo primo SMS.»


Nel parcheggio di un piccolo centro commerciale sull'altro lato della strada rispetto all'SMSC, Mal'akh si sgranchì le gambe fuori dalla sua limousine mentre aspettava la telefonata che, sapeva, non avrebbe tardato. Aveva smesso di piovere e la luna cominciava a fare capolino tra le nuvole. Era la stessa luna che aveva illuminato Mal'akh attraverso il lucernario della House of the Temple tre mesi prima, durante la sua iniziazione.

Quella sera il mondo sembrava diverso.

Mentre aspettava, nella gelida aria invernale, il suo stomaco emise un altro brontolio. I due giorni di digiuno, per quanto spiacevoli, erano fondamentali per la sua preparazione. Era così che si faceva nell'antichità. Presto tutti i disagi fisici sarebbero diventati irrilevanti.

Mal'akh si lasciò sfuggire una risatina nel vedere che il fato lo aveva portato, ironicamente, proprio davanti a un luogo sacro. Stretta fra uno studio dentistico e un piccolo supermercato c'era

LORD'S HOUSE OF GLORY.

Mal'akh fissò la bacheca in cui erano esposte alcune note dottrinali: NOI CREDIAMO CHE GESÙ CRISTO SIA STATO GENERATO DALLO SPIRITO SANTO, SIA NATO DALLA VERGINE MARIA E SIA VERO UOMO E DIO.

Mal'akh sorrise. Sì, Gesù è tutt'e due le cose, uomo e Dio... ma nascere da una vergine non è un requisito indispensabile per la divinità.    Non è così che funziona.

Lo squillo di un cellulare lacerò l'aria della notte, facendogli aumentare le pulsazioni. Quello che adesso stava suonando era il suo, un apparecchio usa e getta da pochi soldi che aveva acquistato il giorno prima. L'identificativo del numero chiamante gli confermò che si trattava della telefonata che stava aspettando.

Una chiamata locale, rifletté Mal'akh guardando la sagoma a zigzag di un tetto che spuntava oltre gli alberi, illuminata dalla luna.

«Dottor Abaddon» rispose dando alla voce un tono più profondo.

«Sono Katherine» disse una voce di donna. «Finalmente ho avuto notizie da mio fratello.»

«Oh, ne sono felice. Come si sente?»

«Sta venendo al laboratorio» lo informò Katherine. «Anzi, ha proposto che lei ci raggiunga.»

«Prego?» fece Mal'akh fingendosi esitante. «Nel suo... laboratorio?»

«Deve fidarsi davvero di lei. Non ha mai invitato nessuno lì dentro.»

«Forse è convinto che una mia visita possa agevolare i nostri colloqui, ma a me sembra quasi un'intrusione.»

«Se mio fratello dice che lei è il benvenuto, lo pensa sul serio. Inoltre, Peter ha molte cose da raccontarci e gradirei arrivare in fondo a questa faccenda.»

«Molto bene. Dove si trova esattamente il laboratorio?»

«Allo Smithsonian Museum Support Center. Sa dov'è?»

«No» rispose Mal'akh guardando il complesso al di là della strada. «Ma in questo momento sono in macchina e ho un navigatore. Qual è l'indirizzo?»

«4210 Silver Hill Road.» secondo, poi disse: «Ah, bene. A quanto pare è più vicino di quanto pensassi. Il navigatore indica che sono a una decina di minuti da lì».

«Ottimo. Chiamo subito la sicurezza e li avverto che sta arrivando.»

«Grazie.»

«Ci vediamo tra poco.»

Mal'akh si infilò in tasca il cellulare e guardò l'SMSC. Sono stato maleducato ad autoinvitarmi? Con un sorriso, prese l'iPhone di Peter Solomon e osservò compiaciuto il messaggio che aveva inviato a Katherine parecchi minuti prima.

Ricevuto tuoi messaggi. Tutto a posto. Sono stato molto occupato. Dimenticato appuntamento con dottor Abaddon. Scusa se non te ne ho parlato prima. Una storia lunga. Sto venendo al laboratorio. Chiedi al dottor Abaddon di raggiungerci se può. Mi fido pienamente di lui e ho molte cose da dire a entrambi. Peter


Com'era prevedibile, l'iPhone di Peter emise un lieve segnale acustico a indicare che era in arrivo una risposta da Katherine.

Peter, congrat. per aver imparato a mandare messaggi! Che sollievo sapere che stai bene! Parlato con dott. A. Sta venendo al laboratorio. A presto! K


Mal'akh si accucciò e depose l'iPhone di Solomon davanti al pneumatico anteriore della limousine. Gli era stato molto utile... ma ora era venuto il momento di renderlo irrintracciabile. Si mise al volante, ingranò la marcia e fece avanzare la macchina lentamente finché non sentì il rumore secco del cellulare che andava in pezzi.

Mal'akh rimise l'auto in posizione e fissò la sagoma scura dell'SMSC. Dieci minuti. L'immenso deposito di Peter Solomon ospitava oltre trenta milioni di reperti di inestimabile valore, ma quella sera lui era lì per distruggere soltanto i due più preziosi.

Tutte le ricerche di Katherine Solomon.

E Katherine Solomon stessa.


«Professor Langdon?» disse Sato. «Si sente bene? Ha l'aria di uno che ha appena visto un fantasma.»

Langdon si sistemò meglio la tracolla sulla spalla e posò la mano sulla borsa come se, così facendo, potesse nascondere il pacchetto contenuto al suo interno. Sapeva di essere impallidito. «Io... sono soltanto preoccupato per Peter.»

Sato piegò la testa di lato, guardandolo di traverso.

All'improvviso, Langdon venne assalito dal dubbio che la presenza di Sato lì, quella sera, potesse essere collegata al pacchetto che gli era stato affidato. Peter lo aveva avvertito. Costituirebbe un pericolo se cadesse nelle mani sbagliate... ho motivo di credere che persone molto potenti vogliano rubarlo. Langdon non riusciva a immaginare perché la CIA dovesse volere un pacchetto contenente un talismano... né cosa potesse rappresentare. Ordo ab chao?

Sato gli si avvicinò sondandolo con i suoi occhi neri. «Sbaglio, o lei ha appena avuto un'intuizione?»

Langdon cominciò subito a sudare. «No, non esattamente.»

«A cosa pensa?»

«Io...» Lui non sapeva come rispondere. Non aveva intenzione di rivelare l'esistenza del pacchetto, ma se Sato lo avesse portato alla CIA, la borsa sarebbe stata di certo perquisita all'ingresso. «In effetti... m'è venuta un'altra idea riguardo ai numeri sulla mano di Peter» disse mentendo spudoratamente.

Sato rimase impassibile. «Ah, sì?» Si voltò verso Anderson che stava tornando dopo essere andato incontro alla squadra della Scientifica, finalmente arrivata sul posto.

Langdon deglutì a fatica e si accucciò accanto alla mano, chiedendosi cosa potesse mai inventarsi. Su, Robert, sei un docente... improvvisa! Diede un'ultima occhiata ai sette minuscoli simboli sperando in un'ispirazione.


Niente.    Vuoto assoluto.

Mentre la sua memoria eidetica sfogliava inutilmente il repertorio mentale di simboli, Langdon trovò un'unica osservazione da fare. Ci aveva pensato fin dall'inizio, ma l'aveva scartata ritenendola poco valida. In quel momento, però, aveva bisogno di guadagnare tempo per riflettere.

«Be'» cominciò «la prima indicazione che si è sulla strada sbagliata quando si comincia a interpretare un insieme di simboli e codici è che si fa ricorso a più linguaggi. Per esempio, dicendole che questo simbolo è romano e arabo, ho fatto una pessima analisi, perché ho usato due sistemi simbolici diversi. Lo stesso vale per il romano e il runico.»

Sato incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia come per dire: "Vada avanti".

«Di solito, la comunicazione avviene in un'unica lingua, non in più lingue, quindi il primo compito di uno studioso nell'analizzare un testo è trovare un unico sistema simbolico coerente applicabile a tutto il testo.»

«E lei adesso ha individuato questo sistema unico?»

«Be'... sì e no.» L'esperienza con la simmetria degli ambigrammi aveva insegnato a Langdon che talvolta i simboli assumono significati diversi a seconda della prospettiva. In quel caso, si rese conto che in effetti c'era un modo per visualizzare tutti e sette i simboli secondo un unico linguaggio. «Se giriamo di poco la mano, il linguaggio diventa coerente.» Stranamente, la manipolazione che lui stava per effettuare sembrava essere già stata suggerita dall'uomo che teneva prigioniero Peter quando aveva pronunciato l'antica massima ermetica: Come sopra, così sotto.

Con un brivido, Langdon afferrò la base di legno su cui era infilzata la mano di Peter e lentamente la capovolse, in modo che le dita puntassero verso il basso. I simboli sulla palma cambiarono all'istante.


«Da questa prospettiva» disse Langdon «XIII diventa un numero romano, il tredici. Mentre il resto dei caratteri può essere interpretato utilizzando l'alfabeto romano: SBB.» Langdon si aspettava che la sua analisi venisse accolta con sguardi vacui e alzate di spalle, invece l'espressione di Anderson cambiò all'istante.

«SBB?»

Sato si voltò verso di lui. «Se non erro, è un sistema di numerazione in uso qui nel Campidoglio.»

Anderson era impallidito. «Sì.»

Con un sorriso sinistro, Sato fece un cenno con la testa in direzione di Anderson. «Mi segua, per favore. Vorrei parlarle in privato.»

Mentre Sato conduceva Anderson lontano da orecchie indiscrete, Langdon rimase lì, solo e frastornato. Cosa diavolo sta succedendo qui? E cos'è SBB XIII?


Anderson si domandava cos'altro sarebbe potuto accadere quella notte. La mano dice SBB 13? Era meravigliato che un esterno avesse sentito parlare di SBB e soprattutto di SBB 13. Evidentemente, l'indice di Peter Solomon puntava non verso l'alto, com'era parso in un primo momento, ma proprio nella direzione opposta. il direttore Sato condusse Anderson in un punto tranquillo vicino alla statua in bronzo di Thomas Jefferson. «Anderson» disse «immagino che lei sappia dove si trova esattamente l'SBB 13.»

«Certo.»

«Sa cosa c'è dentro?»

«No. Dovrei guardare. Credo che non sia più stato usato da decenni.»

«Be', dovrà aprirlo.»

Anderson non gradiva per niente sentirsi dire cosa dovesse fare nel suo edificio. «Direttore, potrebbe essere un problema. Prima devo controllare il registro dei turni di servizio. Come lei sa, i livelli inferiori ospitano per la maggior parte uffici o depositi privati, e le procedure di sicurezza per gli uffici privati...»

«O lei mi apre l'SBB 13» ribatté Sato «o io chiamo l'OS e faccio venire una squadra con un ariete.»

Anderson la fissò per qualche istante, poi tirò fuori la radio e se la portò alle labbra. «Parla Anderson. Ho bisogno di aprire l'SBB. Mandami qualcuno entro cinque minuti.»

La voce che rispose pareva disorientata. «Capo, mi conferma che ha detto SBB?»

«Esatto. SBB. Manda qualcuno immediatamente. Mi serve anche una torcia.» Anderson ripose la radio con il cuore che gli batteva forte.

Sato gli si avvicinò. «Il tempo stringe» disse abbassando ancora di più la voce. «Voglio che ci accompagni giù all'SBB 13 più in fretta che può.»

«Sì, direttore.»

«Ho bisogno anche di un'altra cosa da lei.»

Oltre a chiedermi di compiere un'effrazione dentro il Campidoglio? Anderson non era nelle condizioni di potersi opporre, ma non gli era sfuggito che Sato era arrivata pochi minuti dopo il ritrovamento della mano di Solomon nella Rotonda e che adesso stava sfruttando la situazione per accedere indisturbata a settori privati del Campidoglio. Pareva che riuscisse ad anticipare gli eventi al punto di determinarne il corso.

Sato indicò il professore. «La borsa che Langdon porta a tracolla.»

Anderson si voltò a guardare. «Cosa c'è?»

«Suppongo che il suo staff abbia passato quella borsa ai raggi X quando lui è entrato nell'edificio.»

«Certamente. Tutte le borse vengono controllate.»

«Mi mostri la radiografia. Voglio sapere cosa c'è dentro.»

Anderson osservò la borsa dalla quale Langdon non si era mai separato per tutta la sera. «Ma... non sarebbe più semplice chiederlo a lui?»

«Quale parte della mia richiesta non le è chiara?»

Anderson estrasse nuovamente la radio. Sato gli diede l'indirizzo e-mail del suo BlackBerry chiedendo che gli uomini della sicurezza le trasmettessero una copia digitalizzata della radiografia appena l'avessero trovata. Anderson accondiscese, seppure con riluttanza.

I tecnici della Scientifica stavano recuperando la mano mozza per la polizia del Campidoglio, ma Sato diede ordine che venisse portata direttamente al suo team a Langley. Anderson era troppo stanco per protestare. Era appena stato travolto da un minuscolo schiacciasassi giapponese.

«E voglio quell'anello» aggiunse Sato.

Il caposquadra della Scientifica stava per protestare, ma poi ci ripensò. Sfilò l'anello d'oro dalla mano di Peter e lo mise in una busta trasparente per le prove che consegnò a Sato. Lei se la infilò nella tasca della giacca, poi si rivolse a Langdon.

«Ce ne andiamo, professore. Prenda le sue cose.»

«Dove siamo diretti?» ribatté Langdon.

«Lei segua il signor Anderson.»

Sì, pensò Anderson, e vedi di starmi vicino. L'SBB è una sezione del Campidoglio in cui pochi entrano. Per raggiungerla si deve attraversare un caotico labirinto di stanzette e stretti corridoi sotto la cripta. Una volta il figlio minore di Abraham Lincoln, Tad, si era perso là sotto e aveva rischiato di morire. Anderson cominciava a sospettare che, se Sato avesse potuto fare di testa propria, a Robert Langdon sarebbe toccata la stessa sorte.


Mark Zoubianis, esperto in sicurezza dei sistemi informatici, si era sempre vantato delle sue capacità di multitasking. In quel momento era seduto sul suo futon con un telecomando della tivù, un telefono cordless, un laptop, un palmare e una grossa ciotola di stuzzichini di mais al formaggio. Con un occhio alla partita dei Redskins sul televisore con il volume azzerato e uno al laptop, Zoubianis stava parlando tramite l'auricolare Bluetooth con una donna che non sentiva da più di un anno.

Solo Trish Dunne può telefonarti la sera di una partita dei playoff.

Dando l'ennesima prova della propria inettitudine nei rapporti sociali, la sua ex collega aveva scelto proprio la sera della partita dei Redskins per chiamarlo e chiedergli un favore. Dopo un breve preambolo sui bei vecchi tempi e su quanto le mancassero le sue battute, alla fine Trish era arrivata al dunque: stava cercando di identificare un indirizzo IP nascosto, probabilmente appartenente a un server protetto del Distretto di Columbia. Questo server custodiva un breve documento di testo segretato e lei voleva accedere al testo completo... o, per lo meno, avere qualche informazione sul proprietario.

"Ti sei rivolta alla persona giusta nel momento sbagliato" le aveva detto. Allora lei lo aveva sommerso di complimenti, gran parte dei quali assolutamente meritati, e, prima di rendersene conto, Zoubianis si era ritrovato a digitare uno strano indirizzo IP sul suo laptop.

Gli bastò dare un'occhiata al numero per sentirsi in difficoltà. «Trish, questo IP ha un formato strano. È scritto con un protocollo che non è ancora stato reso disponibile al pubblico. Probabilmente appartiene a qualche agenzia governativa o ai militari.»

«Militari?» Trish scoppiò a ridere. «Credimi, ti assicuro che il documento segretato che ho appena scaricato da questo server non aveva niente di militare.»

Zoubianis aprì un'altra finestra e lanciò un programma per tracciare il percorso di rete. «Hai detto che la tua ricerca si è bloccata?»

«Sì. Per due volte. Sullo stesso nodo.»

«Anche la mia.» Fece partire un programma di indagine diagnostica. «E cos'ha di tanto interessante questo IP

«Ho lanciato una metaricerca che ha indirizzato un motore su questo IP e ha dato come riscontro un documento segretato. Ho bisogno di vedere tutto il testo. Sono anche disposta a pagare, ma non riesco a scoprire chi è il proprietario dell'IP, né come arrivarci.»

Zoubianis guardò lo schermo con espressione accigliata. «Sei sicura? Sto facendo girare un programma di diagnostica, e le impostazioni di questo firewall sembrerebbero... roba seria...»

«È il motivo per cui ti becchi tutti quei soldi.»

Zoubianis rifletté. Gli avevano offerto una fortuna per un lavoro facilissimo. «Una domanda, Trish. Come mai ti interessa tanto?»

«Sto facendo un favore a un'amica» rispose lei dopo un attimo di esitazione.

«Dev'essere un'amica speciale.»

«Infatti.»

Zoubianis ridacchiò tra sé, ma tenne a freno la lingua. Lo sapevo.

«Allora» disse Trish in tono impaziente «sei abbastanza bravo da identificare questo IP sì o no?»

«Sì, sono abbastanza bravo. E so che mi stai provocando.»



«Quanto tempo ci vorrà?»

«Non molto» rispose lui continuando a digitare. «Dovrei riuscire a entrare in un computer del loro sistema nel giro di una decina di minuti. Una volta che sono dentro e ho capito di cosa si tratta, ti richiamo.»

«Ti ringrazio. Allora, come te la passi?»

Adesso me lo chiede? «Trish, insomma! Mi hai chiamato la sera di una partita dei playoff e ti metti pure a fare conversazione?

Vuoi che identifichi questo IP o no? »

«Grazie, Mark. Lo apprezzo molto. Aspetto la tua chiamata.» «Un quarto d'ora.» Zoubianis riattaccò, prese la ciotola di stuzzichini di mais al formaggio e alzò il volume del televisore.

Ah, le donne!


Dove mi stanno portando?

Scendendo di corsa con Anderson e Sato nelle viscere del Campidoglio, Langdon sentiva il battito cardiaco accelerare a ogni gradino. Avevano iniziato il loro viaggio attraverso il porticato ovest della Rotonda, imboccando una scalinata di marmo per poi ripiegare attraverso una grande entrata nel locale che si trova direttamente sotto il pavimento della Rotonda.

La cripta del Campidoglio.

Lì l'aria era più pesante, e Langdon avvertiva già i primi sintomi di claustrofobia. Il soffitto basso della cripta e la debole illuminazione accentuavano la circonferenza imponente delle quaranta colonne doriche che sostenevano il peso del grande pavimento soprastante. Rilassati, Robert.

«Da questa parte» disse Anderson tagliando velocemente a sinistra nell'ampio spazio circolare.

Grazie al cielo, quella particolare cripta non conteneva cadaveri. C'erano però parecchie statue, un modellino del Campidoglio e, nella parte più bassa, un'area in cui veniva riposto il catafalco di legno su cui erano posate le bare in occasione di funerali di Stato. Il gruppo procedette di corsa, senza degnare neppure di uno sguardo la rosa dei venti posta al centro del pavimento, nel punto in cui un tempo ardeva la fiamma perpetua.

Anderson sembrava avere fretta e Sato teneva di nuovo la testa china sul suo BlackBerry. Langdon aveva sentito dire che il segnale era stato amplificato e diffuso in tutti gli angoli del Campidoglio per supportare le centinaia di telefonate che ogni giorno venivano effettuate là dentro.

Dopo aver attraversato in diagonale la cripta, il gruppo entrò in un atrio scarsamente illuminato e imboccò una serie di tortuosi passaggi e vicoli ciechi. Il dedalo di corridoi conteneva ingressi contrassegnati da sigle. Langdon le leggeva a mano a mano che avanzavano serpeggiando.

S154... S153... S152...

Non aveva idea di cosa ci fosse dietro quelle porte, ma adesso almeno una cosa gli era chiara: il significato del tatuaggio sulla mano di Peter Solomon. SBB XIII doveva essere la numerazione di un locale nascosto nei sotterranei del Campidoglio.

«Cosa sono queste porte?» chiese Langdon stringendo la borsa contro le costole e chiedendosi cosa c'entrasse il pacchetto di Solomon con una porta contrassegnata dalla sigla SBB 13.

«Uffici e depositi» rispose Anderson. «Uffici privati e depositi» aggiunse, lanciando un'occhiata a Sato.

La donna non alzò neppure lo sguardo dal BlackBerry.

«Sembrano piccoli» osservò Langdon.

«La maggior parte è poco più di uno stanzino, ma sono comunque gli spazi più ambiti di tutto il Distretto di Columbia. Questo è il cuore del Campidoglio originario, e la vecchia sala del Senato si trova esattamente due piani sopra di noi.»

«E di chi è l'ufficio SBB 13?» chiese Langdon.

«Di nessuno. SBB è una zona di deposito privata, e devo dire che sono stupito del fatto...»

«Anderson.» Sato lo interruppe senza alzare lo sguardo dal BlackBerry. «Si limiti ad accompagnarci sul posto, per favore.»

Anderson serrò la mascella e li guidò in silenzio attraverso quella che sembrava una via di mezzo tra un deposito e un labirinto mitologico. Su quasi ogni parete c'erano indicazioni che puntavano in questa o quella direzione, apparentemente allo scopo di localizzare specifici blocchi di uffici nel reticolo di corridoi.

S 142 - S 152...

ST 1 - ST 70...

H1 - H 166 e HT 1 - HT 67...

Langdon dubitava che sarebbe riuscito a trovare l'uscita da solo. Questo posto è un dedalo. Da quanto aveva capito, i numeri degli uffici cominciavano con una S o con una H, a seconda che si trovassero sul lato del Senato o della House of Representatives, la Camera dei Rappresentanti. Le zone contrassegnate ST o HT si trovavano, a quanto pareva, su un livello che Anderson chiamò Terrace Level, il pianterreno.

Ancora nessuna traccia di SBB.

Alla fine arrivarono davanti a una pesante porta di sicurezza d'acciaio dotata di una serratura ad apertura magnetica.

LIVELLO SB


Langdon intuì che erano vicini.

Anderson estrasse la chiave magnetica ma esitò, chiaramente a disagio per le richieste di Sato.

«Forza» lo esortò lei. «Non abbiamo tutta la sera.»

Riluttante, il capo della sicurezza passò la chiave nel lettore. La serratura scattò e lui spinse la porta d'acciaio. Dopo averla varcata, i tre si ritrovarono in un vestibolo. La pesante porta si richiuse con uno scatto alle loro spalle.

Langdon non avrebbe saputo dire cosa aveva sperato di trovare, ma di certo non quello che vide davanti a sé. Una scala che scendeva. «Ancora più giù?» chiese fermandosi di colpo. «Esiste un altro livello sotto la cripta?»

«Sì» rispose Anderson, «SB sta per Senate Basement, il seminterrato del Senato.»

Langdon si lasciò sfuggire un gemito. Fantastico.


I fari che stavano risalendo la strada d'accesso alberata dell'SMSC erano i primi che la guardia vedeva da un'ora. Ligio al dovere, abbassò il volume del televisore portatile e nascose gli snack sotto il banco. Un tempismo maledetto: i Redskins stavano completando la prima fase d'attacco e lui non se la voleva perdere.

Mentre l'auto si avvicinava, la guardia controllò il nome sul blocco per appunti che aveva davanti.

Dottor Christopher Abaddon.

Katherine Solomon aveva telefonato poco prima per avvertire dell'imminente arrivo del suo ospite. La guardia non aveva idea di chi potesse essere quel dottore, ma a quanto pareva se la cavava piuttosto bene nel suo mestiere, visto che viaggiava a bordo di una limousine stretch. Il lungo ed elegante veicolo si fermò accanto alla guardiola e il vetro oscurato dalla parte dell'autista si abbassò silenziosamente.

«Buonasera» salutò lo chauffeur, togliendosi il berretto. L'uomo, che aveva la testa rasata e la corporatura massiccia, stava seguendo la partita di football alla radio. «Accompagno il dottor Abaddon dalla dottoressa Solomon.»

La guardia annuì. «Documenti, per favore.»

L'autista sembrò sorpreso. «Chiedo scusa, ma la dottoressa Solomon non l'ha avvertita?»

La guardia annuì di nuovo, lanciando un'occhiata furtiva al televisore. «Ho comunque l'obbligo di controllare e registrare l'identità dei visitatori. Mi dispiace, ma sono le regole. Ho bisogno di vedere un documento del dottore.»

«Nessun problema.» L'autista si voltò sul sedile e parlò sottovoce attraverso il divisorio. La guardia intanto diede un'altra sbirciata alla partita e vide che i Redskins stavano sciogliendo l'huddle. Sperò di sbarazzarsi della limousine prima che iniziasse l'azione successiva.

L'autista si girò di nuovo e tese il documento che, apparentemente, gli era appena stato passato attraverso il divisorio.

La guardia lo prese e lo scannerizzò, controllandolo rapidamente nel sistema informatico. La patente, rilasciata a Washington, era intestata a un certo Christopher Abaddon di Kalorama Heights. La foto mostrava un attraente signore biondo in blazer blu, cravatta e fazzoletto di seta nel taschino. Ma chi diavolo mette il fazzoletto nel taschino per una fototessera?

Dal televisore si alzò un applauso smorzato e la guardia si voltò appena in tempo per vedere un giocatore dei Redskins che ballava nella end zone, il dito puntato verso il cielo. «E io me lo sono perso» borbottò la guardia, girandosi di nuovo verso il finestrino dell'auto. «Okay» disse poi restituendo la patente all'autista. «Tutto a posto.»

La limousine ripartì e la guardia tornò al suo televisore, sperando in un replay.


Mentre guidava lungo la tortuosa strada d'accesso, Mal'akh non potè fare a meno di sorridere. Era stato semplice entrare nel museo segreto di Peter Solomon. Ancora più gratificante era il pensiero che quella era la seconda volta in ventiquattr'ore che penetrava in uno spazio privato di Solomon. La sera prima c'era stata una visita analoga a casa sua.

Anche se possedeva una magnifica proprietà di campagna in Potomac, Peter Solomon passava gran parte del suo tempo in città, nell'attico dell'esclusivo Dorchester Arms. L'edificio, come la maggior parte di quelli che ospitano i super ricchi, era una vera e propria fortezza. Alte mura di cinta. Guardie ai cancelli. Elenchi degli ospiti. Parcheggio sotterraneo sorvegliato.

Mal'akh aveva guidato quella stessa limousine fino alla guardiola, si era tolto il berretto da chauffeur dalla testa rasata e aveva dichiarato: "Accompagno il dottor Abaddon. È ospite del signor Peter Solomon". Aveva parlato come se stesse annunciando il duca di York.

La guardia aveva controllato prima un registro e poi il documento d'identità del visitatore. "Sì, vedo che il dottor Abaddon è atteso." Aveva premuto un pulsante e il cancello si era aperto. "Il signor Solomon abita nell'attico. Dica al dottore di utilizzare l'ultimo ascensore a destra. Sale direttamente all'appartamento."

"Grazie." Mal'akh si era rimesso il berretto ed era ripartito.

Mentre si addentrava nelle profondità del garage, si era guardato intorno cercando le telecamere di sicurezza. Niente. Evidentemente chi abitava lì non era il tipo da rubare nelle auto degli altri e neppure da sopportare di essere osservato.

Mal'akh aveva parcheggiato in un angolo semibuio vicino agli ascensori, aveva abbassato il divisorio tra lo spazio riservato all'autista e quello del passeggero e, attraverso quel varco, era scivolato sul retro della limousine, dove si era sbarazzato del berretto da chauffeur e aveva indossato la parrucca bionda. Sistemandosi giacca e cravatta, si era controllato allo specchio per assicurarsi di non aver rovinato il trucco. Non voleva correre rischi. Non quella sera.

Ho aspettato troppo a lungo.

Pochi secondi dopo, Mal'akh entrava nell'ascensore privato. La salita fino all'ultimo piano era stata silenziosa e priva di scosse. Quando le porte si erano aperte, si era ritrovato in un elegante atrio. Il padrone di casa lo stava già aspettando.

"Benvenuto, dottor Abaddon."

Mal'akh aveva fissato l'uomo nei suoi magnetici occhi grigi e aveva sentito accelerare il battito del cuore. "Signor Solomon, la ringrazio per avermi ricevuto."

"Per favore, chiamami Peter." Mentre si stringevano la mano, Mal'akh aveva visto l'anello d'oro della massoneria... Era la stessa mano che una volta aveva puntato una pistola contro di lui. Dal lontano passato di Mal'akh una voce aveva sussurrato: Se premi quel grilletto, non avrai pace.

"Prego, entra" gli aveva detto Solomon, facendolo passare in un elegante soggiorno le cui enormi finestre offrivano una vista stupefacente dello skyline di Washington.

"Quello che sento è odore di tè in infusione?" aveva chiesto Mal'akh entrando.

Solomon era sembrato colpito. "I miei genitori accoglievano sempre gli ospiti con una tazza di tè. Io continuo la tradizione. "

Aveva guidato il visitatore verso il caminetto, dove li aspettava un servizio da tè. "Latte e zucchero?"

"Niente, grazie."

Di nuovo, Solomon era sembrato colpito. "Un purista." Aveva versato due tazze di tè liscio. "Mi hai detto che volevi parlarmi di qualcosa che può essere discusso solo in privato."

"Ti ringrazio. Apprezzo molto che tu mi dedichi un po' del tuo tempo."

"Io e te ora siamo fratelli massoni. C'è un legame tra noi. Dimmi in che modo posso esserti utile."

"Prima di tutto desidero ringraziarti per l'onore del trentatreesimo grado che mi hai concesso qualche mese fa. Significa moltissimo per me."

"Ne sono lieto, ma tu sai che decisioni del genere non sono soltanto mie. Vengono prese tramite votazione del Supremo Consiglio."

"Naturalmente." Mal'akh sospettava che Peter Solomon avesse votato contro di lui, ma all'interno della massoneria, come in ogni altro ambito, il denaro significa potere. Dopo avere raggiunto il trentaduesimo grado nella propria loggia, Mal'akh aveva aspettato solo un mese prima di effettuare, a nome della Gran Loggia massonica, una donazione multimilionaria a un ente benefico. Come aveva previsto, quel gesto di generosità non richiesto era stato sufficiente a procurargli di lì a breve l'invito a entrare a fare parte dell'èlite del trentatreesimo grado. £ ancora non sono venuto a conoscenza di nessun segreto.

Nonostante le voci che circolavano da secoli - "Tutto sarà rivelato al trentatreesimo grado" -, a Mal'akh non era stato detto nulla di nuovo, niente di significativo ai fini della sua ricerca. Ma in realtà non si era mai aspettato che gli venissero fatte rivelazioni. La cerchia più ristretta della massoneria conteneva al suo interno cerchie ancora più ristrette... cerchie che lui non avrebbe visto per anni, o forse addirittura mai. Ma non gli importava. Con l'iniziazione aveva raggiunto il suo scopo. Qualcosa di unico era accaduto all'interno della House of the Temple, qualcosa che gli aveva conferito potere su tutti loro. Non gioco più secondo le vostre regole.

"Sai..." aveva cominciato Mal'akh bevendo un sorso di tè. Io e te ci siamo già incontrati, anni fa."

Solomon era parso stupito. "Davvero? Non ricordo."

"È successo molto tempo fa." E Christopher Abaddon non è il mio vero nome.

"Mi dispiace, ma il mio cervello evidentemente sta invecchiando. Puoi ricordarmi come ci siamo conosciuti?"

Mal'akh aveva sorriso per l'ultima volta all'uomo che odiava più di qualunque altra persona sulla terra. "È un peccato che non ricordi." Con un movimento fluido, aveva estratto dalla tasca un piccolo oggetto, aveva teso il braccio in avanti e poi aveva premuto con forza il dispositivo sul petto di Solomon. C'erano stati un lampo di luce azzurra, il ronzio sfrigolante della scarica elettrica e un ansito di dolore provocato dal milione di volt che saettava nel corpo di Peter Solomon. Con gli occhi sbarrati, Peter si era afflosciato immobile sulla sua poltrona. Mal'akh, ora in piedi, torreggiava su di lui sbavando come un leone sul punto di divorare la preda ferita.

Solomon boccheggiava, tentando di respirare.

Mal'akh aveva colto la paura negli occhi della sua vittima e si era chiesto quante persone al mondo avessero visto il grande Peter Solomon terrorizzato. Aveva assaporato la scena per diversi secondi, poi aveva bevuto un sorso di tè, in attesa che l'altro riprendesse fiato.

Scosso da spasmi, Solomon cercava di parlare. "P-perché?" era riuscito finalmente a sussurrare.

"Tu cosa pensi?"

Solomon sembrava sinceramente confuso. "Vuoi... denaro?"

Denaro? Mal'akh aveva riso. "Ho regalato milioni di dollari ai massoni. Non ho bisogno di soldi." Sono venuto qui per trovare la saggezza e lui mi offre ricchezze.

"Allora cosa... cosa vuoi?"

"Tu sei a conoscenza di un segreto e questa sera lo condividerai con me."

Solomon si era sforzato di sollevare il mento in modo da poter guardare il suo ospite negli occhi. "Io non... non capisco."

"Basta con le bugie!" aveva gridato Mal'akh, avvicinandosi a pochi centimetri dall'uomo paralizzato. "So cosa c'è nascosto qui a Washington."

Negli occhi grigi di Solomon c'era un'espressione di sfida. "Non ho idea di che cosa tu stia parlando!"

Mal'akh aveva posato la tazza sul piattino. "Mi hai detto queste stesse parole anche dieci anni fa, la notte in cui è morta tua madre."

Gli occhi di Solomon si erano spalancati. "Tu...?"

"Non era necessario che tua madre morisse. Se tu mi avessi dato quello che chiedevo..."

Una volta afferrata la verità, il viso dell'uomo si era trasformato in una maschera atterrita e incredula.

"Ti avevo avvertito" aveva continuato Mal'akh. "Se tu avessi premuto il grilletto, non avresti avuto pace."

"Ma tu sei..."

Mal'akh si era lanciato in avanti e aveva premuto di nuovo con forza lo storditore sul petto di Solomon. C'era stato un altro lampo di luce azzurra e Solomon era collassato.

Mal'akh si era rimesso lo storditore in tasca e aveva finito con calma la sua tazza di tè. Poi si era asciugato delicatamente la bocca con il tovagliolo di lino con le iniziali ricamate e aveva abbassato lo sguardo sulla sua vittima. "Vogliamo andare?"

Il corpo di Solomon giaceva immobile, ma gli occhi erano spalancati e vigili.

Mal'akh si era chinato. "Adesso ti porto in un posto dove regna solo la verità" gli aveva sussurrato all'orecchio.

Senza aggiungere altro, aveva appallottolato il tovagliolo e l'aveva cacciato in bocca a Solomon. Poi si era issato il corpo inerte sulle spalle ampie e si era diretto verso l'ascensore privato. Uscendo, aveva afferrato dal tavolino nell'ingresso le chiavi e l'iPhone di Solomon.

Questa notte mi svelerai tutti i tuoi segreti. Compresa la ragione per cui, tanti anni fa, mi hai abbandonato convinto che fossi morto.


Livello SB.

Senate Basement, seminterrato del Senato.

Mentre scendeva quasi di corsa, a ogni passo Langdon si sentiva sempre più oppresso dalla claustrofobia. A mano a mano che si inoltra verso le fondamenta originali dell'edificio, l'aria si faceva più pesante e la ventilazione sembrava inesistente. I muri lì erano un'irregolare mescolanza di pietre e mattoni.

Il direttore Sato digitava sul suo BlackBerry continuando a camminare. Nei modi guardinghi della donna Langdon percepiva diffidenza nei suoi confronti, un sentimento che stava rapidamente diventando reciproco. Sato non gli aveva ancora spiegato come faceva a sapere che lui quella sera si trovava lì. Una questione di sicurezza nazionale? Langdon aveva qualche difficoltà a individuare un qualsiasi rapporto fra l'antico misticismo e la sicurezza nazionale. Era anche vero, però, che aveva qualche difficoltà a capire che cosa stesse avvenendo.

Peter Solomon mi ha affidato un talismano... Un pazzo visionario mi ha costretto con l'inganno a portare il talismano qui al Campidoglio e vuole che me ne serva per aprire un portale mistico... Forse in una stanza denominata SBB 13.

Non proprio un quadro chiaro.

Langdon cercò di scacciare dalla mente l'immagine orribile della mano di Peter trasformata nella Mano dei Misteri. Quella visione raccapricciante era accompagnata dalla voce dello stesso Peter: Gli antichi misteri, Robert, hanno dato origine a numerosi miti... ma questo non significa che siano pura fantasia.

Nonostante una carriera dedicata allo studio dei simboli mistici e della storia, Langdon si era sempre opposto a livello intellettuale all'idea degli antichi misteri e della loro potente promessa di apoteosi.

Certo, doveva ammettere che la documentazione storica offriva prove indiscutibili del fatto che le conoscenze segrete - a quanto pareva nate nelle scuole misteriche dell'antico Egitto - erano state trasmesse nel tempo da una generazione all'altra. Tali conoscenze erano rimaste nascoste e sotterranee, ma erano poi riemerse nell'Europa rinascimentale dove, secondo la maggior parte delle cronache, erano state affidate a un'èlite di scienziati all'interno del primo think tank scientifico europeo: la Royal Society di Londra, enigmaticamente soprannominata Invisible College.

Quel "college" segreto si era ben presto trasformato nell'associazione dei più brillanti ingegni del mondo: Isaac Newton, Francesco Bacone, Robert Boyle e perfino Benjamin Franklin. L'elenco dei "soci" moderni non era meno impressionante: Einstein, Hawking, Bohr e Celsius. Tutte quelle menti illuminate avevano compiuto passi da gigante nella conoscenza umana, progressi che, secondo alcuni, erano il risultato dei loro contatti con l'antica sapienza celata all'interno dell'Invisible College. Langdon non era certo che tutto ciò fosse vero, anche se indubbiamente fra quelle mura era stata svolta un'insolita quantità di "lavoro mistico".

Nel 1936, la scoperta delle carte segrete di Isaac Newton aveva stupito il mondo, rivelando la passione totalizzante dello scienziato per lo studio dell'antica alchimia e della sapienza mistica. Quei documenti privati comprendevano una lettera manoscritta indirizzata a Robert Boyle in cui Newton esortava l'amico a mantenere "assoluto silenzio" per ciò che riguardava la conoscenza spirituale che entrambi avevano appreso. "Non può essere comunicata" scriveva Newton "senza immenso danno al mondo."

Il significato di quella strana ammonizione era tuttora oggetto di dibattito.

«Professore» disse Sato improvvisamente, alzando gli occhi dal BlackBerry. «Malgrado la sua insistenza nell'affermare che non ha idea del perché si trovi qui stasera, forse potrebbe illuminarci sul significato dell'anello di Peter Solomon.»

«Posso provarci» replicò Langdon riportando l'attenzione al presente.

Sato gli porse la busta di plastica trasparente. «Mi spieghi i simboli di questo anello.»

Continuando a camminare nel corridoio deserto, Langdon esaminò quell'anello a lui così familiare, che recava l'immagine di una fenice a due teste, con il petto decorato dal numero 33 e gli artigli che stringevano un cartiglio su cui era scritto: ORDO AB CHAO. «La fenice a due teste con il numero 33 è l'emblema del più alto grado massonico.» Tecnicamente quel grado prestigioso esisteva solo nel rito scozzese, tuttavia i riti e i gradi della massoneria costituivano una complessa gerarchia che Langdon non aveva alcun desiderio di spiegare in dettaglio a Sato. «In sostanza, il trentatreesimo grado è un onore riservato a un gruppo ristretto di massoni che hanno raggiunto un alto livello di perfezionamento. Tutti gli altri gradi possono essere raggiunti tramite un positivo completamento del grado precedente, ma l'accesso al trentatreesimo è controllato e avviene soltanto dietro invito.»

«Quindi lei era al corrente del fatto che Peter Solomon fosse membro di questa ristretta cerchia d'èlite?»

«Naturalmente. L'appartenenza alla massoneria non è certo un segreto.»

«E Solomon è l'esponente di grado più alto?»

«Al momento sì. Peter presiede il Supremo Consiglio del trentatreesimo grado, che governa il rito scozzese in America.» Langdon era sempre felice di visitarne la sede, la House of the Temple, un capolavoro di architettura classica le cui decorazioni simboliche rivaleggiavano con quelle della cappella di Rosslyn in Scozia.

«Professore, ha notato l'incisione sull'anello? "Tutto sarà rivelato al trentatreesimo grado."»

Langdon annuì. «È un tema comune nella tradizione massonica.»

«Questo significa, penso, che se un massone viene accettato nel grado più alto, il trentatreesimo, gli viene rivelato qualcosa di speciale?»

«Sì, così dice la leggenda, ma probabilmente non è questa la realtà. È sempre esistita una teoria del complotto secondo la quale pochi prescelti all'interno di questo gruppo vengono messi a conoscenza di alcuni grandi segreti mistici. Ho il sospetto che la verità sia di gran lunga meno sensazionale.»

Peter Solomon faceva spesso allusioni scherzose all'esistenza di un prezioso segreto massonico, ma Langdon aveva sempre pensato che si trattasse solo di un malizioso tentativo per convincerlo a unirsi alla fratellanza. Disgraziatamente gli eventi di quella sera erano stati tutto fuorché divertenti e non c'era stato niente di malizioso nella serietà con cui l'amico gli aveva chiesto di proteggere il pacchetto sigillato che ora aveva nella borsa.

Langdon lanciò un'occhiata alla busta che conteneva l'anello d'oro dell'amico. «Direttore, le dispiace se lo tengo io?»

La donna lo guardò. «Perché?»

«Per Peter è molto prezioso, e mi piacerebbe restituirglielo stasera.»

Sato sembrava scettica. «Speriamo che lei ne abbia la possibilità.»

«Grazie.» Langdon si mise l'anello in tasca.

«Un'altra domanda» disse Sato mentre si inoltravano sempre più in profondità nel labirinto. «I miei collaboratori mi hanno riferito che effettuando controlli incrociati con "trentatreesimo grado", "portale" e "massoneria" si sono ritrovati letteralmente con centinaia di riferimenti a "piramide".»

«Anche questo non è sorprendente» disse Langdon. «I costruttori delle piramidi d'Egitto sono i precursori dei moderni massoni, e la piramide, unitamente ad altri temi egizi, è molto comune nel simbolismo massonico.»

«E cosa significa?»

«In sostanza la piramide rappresenta l'illuminazione. È un simbolo architettonico emblematico della capacità dell'uomo di liberarsi dalla propria dimensione terrena e di ascendere verso il cielo, verso il sole d'oro e, in ultima analisi, verso la fonte suprema d'illuminazione.»

Sato aspettò un momento. «Nient'altro?»

Nient'altro? Langdon le aveva appena descritto uno dei simboli più raffinati della storia. La struttura tramite la quale l'uomo si eleva fino al livello degli dèi.

«Stando a quanto dicono i miei collaboratori» riprese Sato

«sembra che questa sera ci sia un collegamento molto più pertinente. Mi hanno parlato dell'esistenza di una leggenda popolare su una specifica piramide qui a Washington, una piramide che si collega direttamente ai massoni e agli antichi misteri.»

Langdon capì a cosa Sato si stava riferendo e cercò di liquidare l'argomento prima di sprecare altro tempo. «Conosco quella leggenda, direttore, ma è pura fantasia. La piramide massonica è uno dei miti più persistenti di Washington e probabilmente ha origine dalla piramide che compare nel Gran Sigillo degli Stati Uniti.»

«Perché prima non ne ha parlato?»

Langdon si strinse nelle spalle. «Perché la leggenda non ha alcun fondamento nei fatti reali. Come dicevo, è un mito. Uno dei molti riferiti ai massoni.»

«Eppure questo particolare mito si collega direttamente agli antichi misteri, no?»

«Certo, come moltissimi altri. Gli antichi misteri sono alla base di innumerevoli leggende sopravvissute nel corso della storia... racconti su conoscenze sconvolgenti custodite da guardiani segreti come i templari, i rosacroce, gli illuminati, gli alumbrados... l'elenco è infinito. Sono tutti miti basati sugli antichi misteri... e la piramide massonica è solo un esempio fra tanti.»

«Capisco» disse Sato. «E cosa racconta questa particolare leggenda?»

Langdon rifletté prima di rispondere: «Be', io non sono un esperto nella teoria del complotto, ma conosco la mitologia, e la maggior parte delle versioni dice questo: gli antichi misteri, la conoscenza perduta dei secoli, sono sempre stati considerati il tesoro più sacro dell'umanità e, come tutti i grandi tesori, sono stati custoditi con cura. I saggi illuminati che compresero il vero potere di tale conoscenza impararono a temerne lo spaventoso potenziale. Erano consapevoli che, se quel sapere segreto fosse caduto nelle mani di profani, il risultato avrebbe potuto essere devastante. Come dicevamo, strumenti potenti possono essere usati sia a fin di bene sia in favore del male. Così, per proteggere gli antichi misteri, e al tempo stesso l'umanità, i primi iniziati crearono associazioni segrete all'interno delle quali condivisero la conoscenza solo con gli adepti, trasmettendola da saggio a saggio. Molti ritengono che, se guardiamo indietro, possiamo individuare le tracce storiche di coloro che padroneggiavano i misteri... nelle storie dei maghi, degli stregoni e dei guaritori».

«E la piramide massonica?» domandò Sato. «Come c'entra in tutto questo?»

«Be'...» cominciò Langdon, accelerando per stare al passo. «È proprio qui che storia e mito cominciano a fondersi. Secondo alcuni resoconti, nell'Europa del sedicesimo secolo quasi tutte quelle associazioni segrete si erano ormai estinte, per lo più sterminate da una crescente marea di persecuzioni religiose. A quanto si dice, non rimasero che i massoni quali ultimi custodi degli antichi misteri. Comprensibilmente, essi temevano che, se un giorno la loro confraternita fosse finita come le altre, gli antichi misteri sarebbero andati perduti per sempre.»

«E la piramide?» insistette Sato.

Langdon ci stava arrivando. «La leggenda della piramide massonica è molto semplice. Narra che i massoni, per adempiere al dovere di proteggere quella vasta conoscenza per le generazioni future, decisero di nasconderla in una grande fortezza.» Langdon cercò di mettere ordine nei ricordi. «Voglio sottolineare ancora una volta che si tratta solo di un mito, comunque si narra che i massoni trasferirono la loro conoscenza segreta dal Vecchio al Nuovo Mondo, cioè in America, una terra che speravano non avrebbe mai conosciuto tirannie religiose. E qui costruirono una fortezza impenetrabile, una piramide nascosta, progettata per custodire gli antichi misteri fino al giorno in cui tutta l'umanità fosse stata pronta a gestire il tremendo potere che quella conoscenza poteva conferire. Secondo il mito, i massoni posero sulla sommità della loro grande piramide una splendente cuspide d'oro massiccio a simboleggiare il tesoro conservato all'interno: l'antica sapienza in grado di svelare all'umanità il suo pieno potenziale. L'apoteosi.»

«Che storia» commentò Sato.

«Già. I massoni sono vittime di ogni tipo di folli leggende.»

«Mi pare evidente che lei non crede all'esistenza di quella piramide.»

«Naturalmente no» confermò Langdon. «Non c'è alcuna prova che i padri massoni abbiano costruito una piramide qui in America, tanto meno a Washington. È piuttosto difficile nascondere una piramide, specialmente una abbastanza grande da contenere tutta la sapienza perduta dei secoli.»

La leggenda, per come la ricordava Langdon, non spiegava con precisione cosa si supponeva ci fosse all'interno della piramide massonica, e non diceva se si trattasse di testi antichi, di scritti occulti, di rivelazioni scientifiche o di qualcosa di molto più misterioso. Ciò che la leggenda diceva, però, era che le preziose informazioni preservate all'interno della piramide erano codificate in modo estremamente ingegnoso... e comprensibili solo alle anime più illuminate.

«Comunque» riprese Langdon «questa storia rientra in una categoria che noi studiosi di simbologia definiamo "ibrido archetipo": una miscela di leggende classiche che mutuano così tanti elementi dalla mitologia popolare da rappresentare soltanto una costruzione di fantasia... non un fatto storico.»

Quando Langdon spiegava gli ibridi archetipi ai suoi studenti, si serviva come esempio delle favole, che venivano raccontate generazione dopo generazione, arricchendosi nel corso del tempo e traendo elementi l'una dall'altra fino a evolvere in racconti morali stereotipati nei quali sono presenti i medesimi elementi iconici: damigelle innocenti, principi affascinanti, fortezze inespugnabili e maghi dai grandi poteri. Tramite le favole, la battaglia primordiale del "bene contro il male" viene instillata dentro di noi da bambini: Merlino contro la fata Morgana, san Giorgio contro il drago, Davide contro Golia, Biancaneve contro la strega, addirittura Luke Skywalker che lotta con Darth Vader.

Sato si grattò la testa mentre svoltavano un angolo e seguivano Anderson lungo una breve rampa di scale. «Mi spieghi una cosa. Se non sbaglio, un tempo le piramidi erano considerate portali mistici attraverso i quali i faraoni defunti potevano ascendere agli dèi. È così?»

«Sì.»

Sato si fermò di colpo, afferrò Langdon per un braccio e lo fissò con un'espressione tra la sorpresa e l'incredulità. «Ha detto che il rapitore di Peter Solomon le ha ordinato di trovare un portale segreto. E a lei non è venuto in mente che stava parlando della piramide massonica della leggenda?»

«La piramide massonica è una favola. Pura fantasia.» l'odore di sigaretta del suo alito. «Professore, ho capito come la pensa su questo argomento, ma ai fini della mia indagine è difficile ignorare il parallelismo. Un portale che si apre su una conoscenza segreta? Alle mie orecchie suona molto come qualcosa che il rapitore di Solomon ritiene che lei e lei soltanto sia in grado di aprire.»

«Be', io non credo proprio...»

«Non è questo il punto. Qualunque cosa lei creda, quell'uomo potrebbe pensare che la piramide massonica sia reale.»

«Quell'uomo è pazzo! Può benissimo essere convinto che L'SBB 13 sia l'accesso a una gigantesca piramide sotterranea che contiene tutte le conoscenze perdute degli antichi!»

Sato rimase perfettamente immobile, lo sguardo implacabile. «Professore, la crisi che devo affrontare questa sera non è affatto una favola. È molto reale, glielo assicuro.»

Tra i due scese un silenzio gelido.

«Direttore?» chiamò Anderson indicando un'altra porta distante tre metri. «Ci siamo quasi, se desidera continuare.»

Sato finalmente distolse lo sguardo da Langdon e fece segno a Anderson di andare avanti.

Seguirono il capo della sicurezza attraverso la porta, oltre la quale si trovarono in uno stretto passaggio. Langdon guardò a sinistra e poi a destra. Stiamo scherzando?

Si trovava nel corridoio più lungo che avesse mai visto in vita sua.


Mentre si lasciava alle spalle le luci brillanti del Cubo ed entrava nell'oscurità fredda del vuoto, Trish Durine avvertì l'abituale scarica di adrenalina. La guardia all'ingresso dell'SMSC aveva appena chiamato per avvertire che l'ospite di Katherine, il dottor Abaddon, era arrivato e aspettava di essere accompagnato al modulo 5. Trish si era offerta di andare ad accoglierlo, soprattutto per curiosità. Katherine aveva detto pochissimo dell'uomo che sarebbe venuto a trovarle, e lei era incuriosita. A quanto pareva, si trattava di una persona di cui Peter Solomon si fidava completamente. I Solomon non invitavano mai nessuno nel Cubo. Questa era una prima assoluta.

Spero che non abbia problemi nell'attraversamento, pensò Trish camminando nel buio gelido. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era che il VIP di Katherine si lasciasse prendere dal panico vedendo cosa avrebbe dovuto fare per raggiungere il laboratorio. La prima volta è sempre la peggiore.

La prima volta di Trish risaliva a circa un anno prima. Aveva accettato l'offerta di lavoro della dottoressa Solomon, aveva firmato un accordo di segretezza e poi Katherine l'aveva accompagnata a visitare il laboratorio all'SMSC. Le due donne avevano percorso la Strada in tutta la sua lunghezza ed erano arrivate davanti alla porta metallica contrassegnata dalla scritta MODULO 5. Anche se Katherine aveva cercato di prepararla descrivendole la posizione remota e isolata del laboratorio, Trish era rimasta disarmata davanti a ciò che aveva visto quando la porta si era aperta con un sibilo.

Il vuoto.

Dopo aver varcato la soglia, Katherine aveva percorso qualche passo in quel buio perfetto, quindi le aveva fatto segno di seguirla. "Fidati di me. Non ti perderai."

Trish si era immaginata a vagare nell'oscurità più totale in un ambiente vasto quanto uno stadio; solo all'idea, aveva cominciato a sudare.

"C'è un sistema di orientamento per rimanere sulla rotta giusta" aveva spiegato Katherine indicando il pavimento. "A bassissima tecnologia."

Socchiudendo gli occhi, Trish aveva guardato in basso. Le ci volle qualche secondo per distinguere il pavimento di cemento grezzo nella penombra e individuare la passatoia che si snodava come una strada, perdendosi nel buio.

"Devi vedere con i piedi" aveva aggiunto Katherine, voltandosi e cominciando a camminare. "Stammi dietro."

Mentre Katherine scompariva davanti a lei, Trish aveva soffocato la paura e l'aveva seguita. È una follia!

Aveva fatto appena qualche passo quando la porta del modulo 5 si era richiusa alle sue spalle, bloccando all'esterno l'ultima debole traccia di luce. Con il battito accelerato, Trish si era concentrata sulla passatoia. Avventuratasi di poco in avanti, aveva sentito l'esterno del piede destro toccare il cemento. Sorpresa, aveva istintivamente corretto la traiettoria verso sinistra, riportando entrambi i piedi sul morbido.

La voce di Katherine si era materializzata davanti a lei nel buio, le parole quasi inghiottite dall'acustica di quell'abisso. "Il corpo umano è stupefacente. Se lo privi di uno stimolo sensoriale, intervengono quasi all'istante gli altri sensi. In questo momento, i nervi dei tuoi piedi si stanno letteralmente 'risintonizzando' per diventare più sensibili."

Meno male, aveva pensato Trish correggendo di nuovo la rotta. Avevano camminato in silenzio per un lasso di tempo che le era sembrato un'eternità. "Quanto manca ancora?" aveva domandato.

" Siamo circa a metà strada. " La voce dì Katherine le era sembrata ancora più distante.

Trish aveva accelerato il passo, sforzandosi di mantenere il controllo, ma si sentiva come se quel buio avesse potuto sommergerla. Non vedo a un palmo di naso! "Katherine, come faccio a sapere quando devo fermarmi?"

"Lo capirai tra un momento" era stata la risposta.

Era passato un anno, da allora, e adesso Trish era di nuovo sola nel vuoto e camminava nella direzione opposta per raggiungere l'atrio e dare il benvenuto all'ospite del suo capo. L'improvviso cambiamento nella consistenza della passatoia sotto i piedi le comunicò che era arrivata a tre metri dall'uscita. Il warning track, la pista di avvertimento: era così che Peter Solomon, appassionato tifoso di baseball, chiamava quell'ultimo tratto. Trish si fermò e tastò la parete finché trovò la fessura. Inserì la sua chiave magnetica.

La porta si aprì con un sibilo.

La giovane socchiuse gli occhi sollevata nello scorgere la luce del corridoio.

Ce l'ho fatta... ancora una volta.

Mentre percorreva i corridoi deserti, Trish ripensò al bizzarro file segretato che avevano trovato su un server protetto. Antico portale? Luogo segreto sottoterra? Si domandò se Mark Zoubianis stesse avendo fortuna nel suo tentativo di scoprire dove si trovava quel documento misterioso.


In sala controllo, Katherine stava in piedi nella luce tenue proiettata dalla parete al plasma e fissava l'enigmatico documento che lei e Trish avevano trovato. Aveva isolato le parole chiave ed era sempre più certa che si riferissero effettivamente alla remota leggenda di cui suo fratello, a quanto pareva, aveva messo al corrente il dottor Abaddon.

... luogo segreto SOTTOTERRA dove le...

... da qualche parte a WASHINGTON DC le coordinate...

... scoperto un ANTICO PORTALE che conduceva...

... l'avvertimento che la PIRAMIDE comporta pericolose...

... decifrare questo SYMBOLON INCISO perché sveli...


Devo vedere il file completo, pensò Katherine.

Fissò le parole chiave ancora per un momento, poi fece scattare l'interruttore della parete al plasma. Katherine spegneva sempre quel display ad alto consumo energetico in modo da non sprecare le riserve di idrogeno liquido della cella a combustibile.

Guardò le parole sbiadire lentamente e collassare in un minuscolo puntino bianco, che rimase sospeso per un attimo al centro della parete e poi si spense ammiccando.

Katherine si voltò e tornò nel suo ufficio. Il dottor Abaddon sarebbe arrivato da un momento all'altro, e lei voleva che si sentisse il benvenuto.


«Ci siamo quasi» disse Anderson guidando Langdon e Sato lungo il corridoio apparentemente infinito che si sviluppava per l'intera lunghezza delle fondamenta est del Campidoglio. «Ai tempi di Lincoln, questo passaggio aveva il fondo in terra battuta ed era pieno di topi.»

Langdon fu sollevato dal fatto che il pavimento fosse stato piastrellato; non era un grande estimatore dei topi. Il gruppetto continuò a camminare, e i passi provocavano un'inquietante eco irregolare nel corridoio lungo il quale erano allineate numerose porte, alcune chiuse, molte semiaperte. Parecchie stanze sembravano abbandonate.

Langdon notò che i numeri sulle porte erano in ordine decrescente e, dopo un po', gli sembrò che la numerazione stesse per esaurirsi.

SB4... SB3... SB2... SBl..

Passarono davanti a una porta priva di indicazioni, poi Anderson si bloccò di colpo non appena i numeri ripresero a salire.

HBl... HB2...

«Scusate» disse il capo della sicurezza. «Mi era sfuggito. Non scendo quasi mai quaggiù.»

Il gruppo tornò indietro di qualche metro e si fermò davanti a una vecchia porta metallica.

Langdon notò che si trovava nel punto centrale del corridoio: il meridiano che separava il Senate Basement (SB, il seminterrato del Senato) dallo House Basement (HB, il seminterrato della Camera).

In realtà la porta era contrassegnata da un'indicazione, ma la scritta era così sbiadita da essere quasi illeggibile.

SBB


«Ci siamo» annunciò Anderson. «Le chiavi arriveranno da un momento all'altro.»

Sato corrugò la fronte e guardò l'orologio.

Langdon studiò la sigla SBB e chiese a Anderson: «Come mai questo spazio è riferito al Senato nonostante si trovi al centro?».

Anderson sembrò perplesso. «Cosa intende dire?»

«Lì c'è scritto SBB: comincia con la esse, non con l'acca.»

Anderson scosse la testa. «Quella esse non sta per Senato. Sta per...»

«Capo?» si udì in lontananza. Un agente di sicurezza stava correndo verso di loro mostrando la chiave che aveva in mano. «Spiacente, signore: ci è voluto qualche minuto. Non riuscivamo a trovare la chiave principale dell'SBB. Questa è una copia presa dalla cassetta di scorta.»

«L'originale non si trova?» si stupì Anderson.

«Probabilmente è andato perso» rispose l'agente, senza fiato, raggiungendo il gruppo. «Sono secoli che nessuno chiede di scendere quaggiù.»

Anderson prese la chiave. «E quella dell'SBB 13 ? »

«Mi dispiace, ma finora non siamo riusciti a trovare le chiavi di nessuna stanza dell'SBB. McDonald si sta dando da fare per cercarle.» L'agente estrasse la radio. «Bob? Sono con il capo. Qualche novità sulla chiave dell'SBB 13?»

La radio gracchiò, poi una voce rispose: «In effetti, sì. Però è strano. Da quando abbiamo informatizzato tutto, non risulta che vi sia entrato nessuno e i registri scritti a mano indicano che tutte le stanze dell'SBB sono state sgombrate e abbandonate più di vent'anni fa. Vengono indicate come spazi inutilizzati.» L'agente fece una pausa. «Tutte tranne l'SBB 13.»

Anderson afferrò la radio. «Parla il capo. Cosa intendi dire con "tutte tranne l'SBB 13"?»

«Ecco, signore» rispose la voce «leggo qui un'annotazione scritta a mano che indica la stanza SBB 13 come "privata". L'annotazione risale a molto tempo fa, ma è scritta e firmata dall'architetto in persona.»


Langdon sapeva che il termine "architetto" non si riferiva all'uomo che aveva progettato il Campidoglio, ma a colui che lo dirigeva. Simile a un building manager, chi veniva nominato architetto del Campidoglio aveva il compito di occuparsi di tutto, compresi la manutenzione, il restauro, la sicurezza, l'assunzione del personale e l'assegnazione degli uffici.

«La cosa strana» riprese la voce alla radio «è che l'annotazione dell'architetto indica che quello spazio privato è riservato a Peter Solomon.»

Langdon, Sato e Anderson si scambiarono occhiate stupefatte.

«Signore» continuò la voce «io penso che il signor Solomon potrebbe essere in possesso della chiave originale dell'SBB e di quella dell'SBB 13.»

Langdon non riusciva a credere alle sue orecchie. Peter dispone di una sua stanza privata nel sotterraneo del Campidoglio? Aveva sempre saputo che Peter Solomon aveva dei segreti, ma questo era davvero sorprendente.

« Okay» disse Anderson in tono serio. «Noi vogliamo entrare proprio nell'SBB 13, per cui continuate a cercare la chiave.»

«Certo, signore. Stiamo anche lavorando su quell'immagine digitale che lei ha richiesto e...»

«Grazie» lo interruppe Anderson, chiudendo il contatto radio. «È tutto. Non appena sarà disponibile, trasmettete quel file al BlackBerry del direttore Sato.»

«Benissimo, signore.» La radio tacque.

Anderson restituì l'apparecchio all'agente, che estrasse di tasca la fotocopia di una pianta e la porse al suo capo. «Signore, abbiamo contrassegnato con una X la stanza SBB13, per cui non dovrebbe essere difficile trovarla. È un'area molto piccola.»

Anderson ringraziò l'agente e, mentre questi si allontanava velocemente, rivolse l'attenzione alla pianta. Guardò anche Langdon, che rimase sorpreso nel vedere il numero stupefacente di cubicoli che componevano quel bizzarro labirinto sotto il Campidoglio degli Stati Uniti.

Anderson studiò per un momento la pianta, annuì e poi si mise il foglio in tasca. Voltandosi verso la porta con la scritta SBB, alzò la mano che stringeva la chiave, ma poi esitò, quasi a disagio all'idea di aprire.

Langdon provava un'inquietudine molto simile: non aveva idea di cosa ci fosse oltre quella porta, ma era sicurissimo che, qualunque cosa Solomon avesse nascosto laggiù, lui avrebbe voluto che restasse riservata. Molto riservata.

Sato si schiarì la voce e Anderson recepì il messaggio. Fece un respiro, inserì la chiave nella serratura e provò a girarla. La chiave non si mosse. Per una frazione di secondo Langdon sperò che fosse la chiave sbagliata. Ma al secondo tentativo la serratura scattò.

Il pesante battente si mosse cigolando verso l'esterno e nel corridoio si riversò un'ondata di aria umida.

Langdon sbirciò nel buio, ma non riuscì a vedere nulla.

«Professore» gli disse Anderson, voltandosi verso di lui mentre cercava alla cieca un interruttore «per rispondere alla sua domanda: la esse di SBB non sta per Senato. Sta per "sub", sotto.»

«Sotto?» ripetè Langdon perplesso.

Anderson annuì e premette l'interruttore accanto allo stipite interno. Un'unica lampadina illuminò un'inquietante scala che scendeva molto ripida in un buio d'inchiostro. «SBB sta per "subbasement", il sotterraneo del Campidoglio.»


Mark Zoubianis, esperto in sicurezza dei sistemi informatici, sprofondò ancora di più nel futon e aggrottò la fronte mentre leggeva sullo schermo del suo laptop.

Che cavolo di indirizzo è mai questo?

I suoi migliori trucchi da hacker si stavano rivelando del tutto inefficaci nel tentativo sia di aprire il documento sia di smascherare il misterioso indirizzo IP di Trish. Erano già passati dieci minuti e il programma di Zoubianis continuava a infrangersi contro i firewall, che a quel punto lasciavano ben poche speranze di penetrazione. Non c'è da stupirsi che mi paghino così tanto. Stava per riprogrammare il tutto e tentare un approccio diverso quando squillò il telefono.

Cristo santo, Trish, ti ho detto che avrei chiamato io. Tolse il volume alla partita di football e rispose. «Sì?»

«Parlo con Mark Zoubianis?» domandò una voce maschile. «Residente al 357 di Kingston Drive a Washington?»

Zoubianis sentiva altre conversazioni smorzate in sottofondo. Telemarketing durante i playoff? Sono matti? «Mi lasci indovinare: ho vinto una settimana ad Anguilla?»

«No» rispose la voce senza alcuna traccia di umorismo. «Questa è la sicurezza informatica della CIA. Ci piacerebbe sapere come mai lei sta tentando di entrare in uno dei nostri database segretati.»


Nel seminterrato del Campidoglio, negli ampi spazi del centro visitatori, l'agente di sicurezza Nunez chiuse a chiave le porte d'ingresso come faceva tutte le sere a quell'ora. Mentre ripercorreva il pavimento di marmo, ripensò all'uomo tatuato con il cappotto militare.

L'ho lasciato entrare io. Nunez si chiese se il giorno dopo avrebbe ancora avuto un lavoro.

Era quasi arrivato alla scala mobile quando dei colpi improvvisi lo fecero voltare. Guardò in direzione dell'ingresso principale e vide all'esterno un anziano afroamericano che picchiava sul vetro con la mano aperta e gli faceva segno di voler entrare.

Nunez scosse la testa, indicando l'orologio che aveva al polso.

L'uomo picchiò di nuovo e si spostò alla luce. Indossava un impeccabile abito blu e i capelli, che andavano ingrigendo, erano cortissimi. Il polso di Nunez accelerò. Merda. Perfino da lontano, Nunez lo riconobbe. Si affrettò verso l'ingresso e aprì la porta. «Mi scusi, signore. Prego, entri pure.»

Warren Bellamy, l'architetto del Campidoglio, varcò la soglia e ringraziò l'agente di sicurezza con un educato cenno del capo. Bellamy era agile e snello, con un portamento eretto e uno sguardo penetrante che comunicavano la disinvoltura di chi ha il totale controllo del proprio ambiente. Erano venticinque anni che Bellamy prestava servizio quale supervisore del Campidoglio degli Stati Uniti.

«Posso esserle utile, signore?» gli chiese Nunez.

«Sì, grazie.» Laureato in un'università Ivy League del Nordest, la sua dizione era così corretta da farlo quasi sembrare un inglese. «Ho appena saputo che qui stasera c'è stato un incidente.» Sembrava estremamente allarmato.

«Sì, signore. È stato...»

«Dov'è Anderson?»

«Di sotto, con il direttore Sato dell'Office of Security della CIA.»

Gli occhi di Bellamy si spalancarono per la preoccupazione. «La CIA è qui?»

«Sì, signore. Sato è arrivata praticamente subito dopo l'incidente.»

«Perché?» domandò Bellamy.

Nunez si strinse nelle spalle. Come se avessi potuto chiederglielo,

Bellamy si avviò a grandi passi verso le scale mobili. «Dove si trovano adesso?»

«Sono appena scesi ai livelli sotterranei.» Nuhez si affrettò dietro l'architetto.

Bellamy si voltò con un'espressione preoccupata. «Nei sotterranei? E perché?»

«Non lo so... L'ho appena sentito via radio.»

L'architetto ora stava camminando più rapidamente. «Mi accompagni subito da loro.»

«Sì, signore.»

Mentre si affrettavano attraverso il grande spazio, Nunez intravide un massiccio anello d'oro al dito di Bellamy.

L'agente prese in mano la radio. «Avverto il capo che lei sta scendendo.»

«No.» Gli occhi dell'architetto lampeggiarono pericolosamente. «Preferisco non essere annunciato.»

Nunez aveva già commesso alcuni gravi errori quella sera, ma non avvertire il responsabile della sicurezza che in quel momento l'architetto si trovava nell'edificio sarebbe stato l'ultimo. «Signore?» cominciò, a disagio. «Io credo che il capo preferirebbe...»

«Lei è consapevole che il signor Anderson è un mio sottoposto?» lo interruppe Bellamy.

Nunez annuì.

«Allora penso che il signor Anderson preferirebbe che lei obbedisse ai miei ordini.»


Trish Dunne entrò nell'atrio dell'SMSC e alzò lo sguardo, sorpresa. L'ospite in attesa non aveva niente in comune con i vari dottori in completo di flanella e la faccia da topo di biblioteca che di solito entravano in quell'edificio: dottori in antropologia, oceanografia, geologia e altre discipline scientifiche. Nel suo impeccabile abito su misura, il dottor Abaddon sembrava quasi un aristocratico. Era alto, con il torace ampio, il viso abbronzato e capelli biondi perfettamente pettinati. Trish ebbe l'impressione che fosse abituato più ai lussi che ai laboratori.

«Il dottor Abaddon, immagino» lo salutò tendendo la mano.

L'uomo per un attimo sembrò incerto, ma poi strinse con decisione la mano grassoccia della ragazza. «Sì, mi scusi. E lei è...?»

«Trish Dunne. Sono l'assistente di Katherine Solomon. Mi ha chiesto di scortarla al laboratorio.»

«Oh, capisco.» Il dottor Abaddon ora stava sorridendo. «Lieto di conoscerla, Trish. Mi scuso se le sono sembrato confuso, ma mi era parso di capire che questa sera Katherine sarebbe stata da sola.» Indicò con un gesto il corridoio. «Comunque, sono tutto suo. Mi faccia pure strada.»

Nonostante il tempestivo recupero da parte dell'ospite, Trish aveva notato nei suoi occhi un lampo di disappunto. Adesso aveva qualche sospetto sui motivi della riservatezza di Katherine a proposito del dottor Abaddon. Che stia sbocciando una storia d'amore? Katherine non parlava mai della sua vita privata, ma il visitatore di quella sera era un uomo attraente e curato e, anche se più giovane di lei, chiaramente proveniva dal suo stesso mondo di ricchezze e privilegi. In ogni caso, qualunque sviluppo il dottor Abaddon avesse immaginato per quell'appuntamento, la presenza di Trish non sembrava rientrare nei suoi piani.

Alla guardiola della sicurezza nell'atrio, un solitario sorvegliante si tolse velocemente gli auricolari. Trish sentì gli echi della partita dei Redskins. La guardia sottopose il dottor Abaddon alla solita routine riservata ai visitatori, fatta di metal detector e badge temporanei.

«Chi sta vincendo?» domandò affabilmente il dottor Abaddon mentre estraeva dalle tasche un cellulare, un mazzo di chiavi e un accendino.

«Gli Skins sono avanti di tre» rispose la guardia, che sembrava ansiosa di rimettersi all'ascolto. «Un accidenti di partita.»

«Tra non molto arriverà anche il signor Solomon» lo avvisò Trish. «Per favore, appena lo vede vuole dirgli di raggiungerci in laboratorio?»

«Certo.» L'uomo strizzò l'occhio alla ragazza mentre gli passava davanti con l'ospite. «E grazie per l'avvertimento: avrò un'aria molto indaffarata.»

Trish aveva pronunciato quella frase non solo a beneficio della guardia, ma anche per ricordare al dottor Abaddon che lei non era l'unica intrusa nella sua serata privata con Katherine.

«Allora, come mai conosce Katherine?» domandò alzando gli occhi sul misterioso ospite.

«Oh, è una lunga storia.» Il dottor Abaddon ridacchiò. «Stiamo lavorando insieme a una cosa.»

Capito, pensò Trish. Non sono affari miei.

«Questa struttura è davvero stupefacente» osservò Abaddon guardandosi intorno mentre percorrevano l'atrio. «Non ero mai stato qui.»

A ogni passo il tono leggero dell'uomo si faceva sempre più cordiale e socievole. Trish notò che l'ospite stava cercando di osservare e assimilare tutto. Alla luce vivida dell'atrio notò anche che il viso di Abaddon sembrava avere un'abbronzatura fasulla. Strano. Ciò nonostante, mentre percorrevano i corridoi deserti, Trish gli fornì un resoconto generale degli scopi e della funzione dell'SMSC, compresi i vari moduli e i relativi contenuti.

Abaddon parve colpito. «Sembra proprio che in questo posto ci sia un tesoro inestimabile di manufatti. Mi sarei aspettato guardie dappertutto.»

«Non ce n'è bisogno.» Trish indicò la fila di lenti a occhio di pesce allineate sul soffitto. «Qui la sicurezza è automatizzata. Ogni centimetro di questo corridoio, che è la spina dorsale dell'intera struttura, viene sorvegliato ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Ed è impossibile accedere alle stanze che si aprono su questo corridoio senza una chiave magnetica e relativo codice identificativo.»

«Un uso efficiente delle telecamere.»

«Toccando ferro, non abbiamo mai subito un solo furto. E anche vero che il nostro non è il tipo di museo in cui qualcuno vorrebbe rubare. Non è che nei mercati clandestini ci sia molta richiesta di fiori estinti, kayak eschimesi o di una carcassa di calamaro gigante.»

Il dottor Abaddon ridacchiò. «Immagino che lei abbia ragione.»

«La maggior minaccia alla sicurezza è costituita da roditori e insetti.» Trish spiegò come la struttura prevenisse le infestazioni surgelando tutti i rifiuti dell'SMSC e grazie anche a una caratteristica architettonica denominata "zona morta": un inospitale compartimento fra doppi muri che circondava l'intero edificio come una guaina.

«Incredibile» commentò Abaddon. «Ma dov'è il laboratorio di Katherine e Peter?»

«Modulo 5» rispose la ragazza. «È in fondo a questo corridoio.»

Abaddon si fermò di colpo e si voltò verso destra, in direzione di una piccola finestra. «Santo cielo! Guardi lì!»

Trish rise. «Già, è il modulo 3. Lo chiamiamo l'Acquario.»

«L'Acquario?» ripetè Abaddon, il viso premuto contro il vetro.

«Lì dentro ci sono più di tredicimila litri di etanolo. Ha presente il calamaro gigante di cui le parlavo prima?»

«Quello è il calamaro?» Il dottor Abaddon si voltò per un attimo, gli occhi spalancati. «È enorme!»

«È un Archìteuthis femmina. È lunga più di dodici metri.»

Il dottor Abaddon, apparentemente rapito dalla vista del calamaro, sembrava incapace di staccare gli occhi dal vetro. A Trish, per un momento, quell'uomo adulto fece pensare a un bambino davanti alla vetrina di un negozio di animali, ansioso di entrare per vedere un cucciolo. Cinque secondi dopo, il dottor Abaddon guardava ancora con desiderio al di là del vetro. «Okay, okay» cedette finalmente Trish. Ridendo, inserì la chiave magnetica nel lettore e digitò il suo numero di codice identificativo. «Andiamo. Le faccio vedere il calamaro.»


Entrando nel mondo in penombra del modulo 3, Mal'akh esaminò rapidamente le pareti in cerca di telecamere. L'assistente di Katherine cominciò a dilungarsi a proposito degli esemplari conservati in quel locale. Mal'akh non l'ascoltava. Non era minimamente attratto dai calamari giganti o altro. Il suo unico interesse era come servirsi di quello spazio buio e riservato per risolvere un problema imprevisto.


La scala di legno che affondava nei sotterranei del Campidoglio era più ripida e malsicura di qualsiasi scala Langdon avesse mai sceso. Lui respirava più velocemente, adesso, e gli sembrava che i polmoni fossero compressi. L'aria fredda e umida gli riportò alla mente il ricordo della scala, molto simile a questa, di cui si era servito qualche anno prima nella necropoli del Vaticano. La Città dei Morti.

Davanti a lui, Anderson apriva la strada facendo luce con la torcia. Alle sue spalle, Sato lo seguiva da vicino e ogni tanto gli premeva le minuscole mani sulla schiena. Sto andando più in fretta che posso. Langdon inspirò a fondo, cercando di ignorare le pareti che si stringevano su entrambi i lati. C'era a malapena spazio per le spalle, lungo quella scala, e la borsa grattava la parete.

«Forse dovrebbe lasciarla di sopra» gli suggerì Sato da dietro.

«Va bene così» disse Langdon, che non aveva la minima intenzione di perdere di vista la sua borsa. Pensò al pacchetto di Peter: non riusciva neppure a immaginare come potesse collegarsi a qualcosa nei sotterranei del Campidoglio.

«Ancora qualche scalino» annunciò Anderson. «Ci siamo quasi.»

Il gruppo era ormai al buio, oltre la portata dell'unica lampadina della scala. Quando scese l'ultimo gradino, Langdon sentì sotto i piedi un pavimento in terra battuta. Viaggio al centro della Terra.

Sato si fermò dietro di lui.

Anderson alzò la torcia per studiare l'ambiente, che non era tanto un sotterraneo quanto un corridoio angusto che si sviluppava perpendicolarmente alla scala. Puntò il raggio di luce a sinistra e poi a destra.

Langdon vide che il passaggio era lungo appena una quindicina di metri e che su entrambi i lati si aprivano piccole porte di legno, così vicine l'una all'altra che i locali al di là non potevano essere larghi più di tre metri.

Il deposito ACME incontra le Catacombe di Domitilla, pensò Langdon mentre Anderson consultava la pianta. La minuscola sezione riferita al sotterraneo era contrassegnata dalla " X " che indicava la posizione dell 'SBB 13. Langdon non potè fare a meno di notare che la pianta era identica a quella di un mausoleo per quattordici tombe: sette cripte di fronte a sette cripte. Qui ne mancava una, il cui spazio era occupato dalla scala lungo la quale erano appena scesi. Tredici in tutto.


Langdon sospettava che i teorici del complotto del "numero tredici" si sarebbero buttati a pesce sulla notizia che nei recessi del Campidoglio c'erano esattamente tredici ripostigli. Alcuni trovavano sospetto il fatto che nel Gran Sigillo degli Stati Uniti comparissero tredici stelle, tredici frecce, tredici scalini di una piramide, tredici strisce nello scudo, tredici foglie d'ulivo, tredici olive, tredici lettere nella scritta annuit coeptis, tredici lettere in e pluribus unum e così via.

«In effetti sembra tutto abbandonato» osservò Anderson, indirizzando il raggio della torcia nel locale che si apriva direttamente davanti a loro. La massiccia porta di legno era spalancata e il fascio illuminò una stretta stanza di pietra, targa circa tre metri e profonda più o meno nove, simile a un corridoio cieco che non andava da nessuna parte. Conteneva soltanto due vecchie casse di legno sfondate e un po' di carta da imballo accartocciata.

Anderson spostò la luce della torcia sulla vecchia targa affissa alla porta. Era coperta di verderame, ma la scritta era ancora leggibile:

SBB IV


«SBB 4» disse Anderson.

«Qual è l'SBB 13?» domandò Sato, esalando lievi sbuffi di vapore nell'aria fredda del sotterraneo.

Anderson puntò il raggio verso l'estremità sud del corridoio. «Laggiù.»

Langdon lanciò un'occhiata lungo lo stretto passaggio e rabbrividì. Nonostante il freddo, era coperto da un velo di sudore.

Sfilarono davanti alle stanze e videro che tutte avevano le porte spalancate ed erano abbandonate da moltissimo tempo. Arrivati in fondo, Anderson si voltò a destra e sollevò la torcia per guardare all'interno dell'SBB 13. Ma la luce incontrò l'ostacolo di una pesante porta di legno.

A differenza delle altre, quella dell'SBB 13 era chiusa.

Ma per il resto non c'erano elementi distintivi: cardini massicci, maniglia di ferro e una targa di rame incrostata di verde. I sette caratteri sulla targa erano gli stessi tracciati sulla mano di Peter.

SBB XIII


Per favore, ditemi che è chiusa a chiave, pensò Langdon.

«Provi ad aprire» ordinò Sato senza esitare.

Il capo della sicurezza sembrava a disagio, ma tese comunque una mano, afferrò la pesante maniglia di ferro e premette con forza verso il basso. La maniglia non si mosse. Anderson puntò il fascio di luce e illuminò la massiccia piastra della serratura.

«Provi con la chiave principale» suggerì Sato.

Anderson estrasse la chiave della porta d'ingresso del piano di sopra, che però non corrispondeva neppure lontanamente alla serratura.

«Mi sbaglio o la sicurezza dovrebbe avere accesso a ogni angolo di questo edificio, in caso di emergenza?» domandò Sato in tono sarcastico.

Anderson sospirò e sostenne lo sguardo della donna. «Signora, i miei uomini stanno cercando la chiave giusta, ma...»

«Spari alla serratura» lo interruppe Sato, indicando con un cenno la piastra sotto la maniglia.

I1 battito cardiaco di Langdon accelerò.

Anderson si schiarì la voce, a disagio. «Signora, sto aspettando notizie della chiave. Non sono sicuro che mi piaccia l'idea di aprirci la strada a colpi di...»

«Forse le piacerebbe di più ritrovarsi in prigione per avere ostacolato un'indagine della CIA?»

Anderson la guardò incredulo. Dopo un istante, passò con riluttanza la torcia a Sato e aprì la fondina.

«Aspettate!» intervenne Langdon, ormai incapace di assistere passivamente. «Riflettete un attimo. Peter ha preferito sacrificare la sua mano destra piuttosto che rivelare cosa c'è al di là di questa porta, di qualunque cosa si tratti. Siete sicuri di volerlo fare? Aprire questa porta significa in sostanza acconsentire alle richieste di un terrorista.»

«Lei vuole rivedere Peter Solomon?» domandò Sato.

«Certo, ma...»

«Allora le suggerisco di fare esattamente quello che richiede il rapitore.»

«Aprire un antico portale? E lei è convinta che il portale sia questo?»

Sato gli puntò la luce della torcia in faccia. «Professore, io non ho la minima idea di cosa diavolo sia. Ma che si tratti di un ripostiglio o dell'ingresso segreto di un'antica piramide, io intendo aprire questa porta. Sono stata chiara?»

Langdon socchiuse gli occhi alla luce e, dopo un attimo, annuì.

La donna abbassò la torcia e puntò di nuovo il raggio sulla piastra della serratura. «Proceda.»

Anderson, che sembrava ancora contrario all'idea, estrasse molto lentamente la pistola, che poi guardò con aria incerta.

«Oh, per l'amor di Dio!» Sato tese le mani minuscole e gliela strappò, restituendogli la torcia. «Punti quella maledetta luce.» Maneggiò la pistola con la sicurezza di chi è addestrato all'uso delle armi e, senza perdere tempo, tolse la sicura, alzò il cane e prese la mira.

«Aspetti!» gridò Langdon, ma era troppo tardi.

La pistola sparò tre volte.

Questa donna è pazza! In quello spazio minuscolo le detonazioni erano state assordanti.

Anche Anderson sembrava scosso e la mano che puntava la torcia sulla porta crivellata dai proiettili gli tremava leggermente.

La serratura era in frantumi e il legno intorno completamente polverizzato. La porta adesso era socchiusa.

Sato tese il braccio e con la canna della pistola spinse l'anta, che si spalancò sul buio all'interno.

Langdon provò a sbirciare, ma vide soltanto oscurità. Cosa accidenti è questo odore? Da dentro la stanza si spandeva uno strano tanfo.

Anderson varcò la soglia e puntò la torcia sul pavimento, tracciando una scia di luce sulla terra battuta. Il locale era esattamente come tutti gli altri: uno spazio lungo e stretto. I muri di nuda pietra facevano pensare a un'antica prigione. Ma quell'odore...

«Non c'è niente qui dentro» disse Anderson, facendo percorrere al raggio l'intera lunghezza del pavimento. Poi, quando il fascio di luce arrivò in fondo, alzò la torcia per rischiarare la parete.

«Mio Dio...!» gridò.

Lo videro tutti, sconvolti.

Langdon fissò incredulo il recesso più profondo della stanza.

Con suo grande orrore, qualcosa lo stava fissando a sua volta.


«In nome di Dio, cosa...?» Sulla soglia dell'SBB 13, Anderson agitò goffamente la torcia e fece un passo indietro.

Arretrò anche Langdon, e lo stesso fece Sato che, per la prima volta quella sera, sembrava colpita. La donna puntò la pistola verso la parete di fondo e, con un gesto, ordinò a Anderson di farle di nuovo luce. Lui sollevò la torcia. Il raggio arrivava fioco, ma era comunque sufficiente per illuminare la faccia pallida e spettrale che li fissava attraverso le orbite prive di vita.

Un teschio umano.

Il teschio era sul piano di una malconcia scrivania di legno sistemata contro la parete. Accanto a esso c'erano due femori umani, più una serie di altri oggetti disposti meticolosamente come su un altare: un'antica clessidra, una boccetta di cristallo, una candela, due piattini contenenti polveri chiare e un foglio di carta. Accanto alla scrivania si stagliava il contorno inquietante di una lunga falce appoggiata al muro, la lama ricurva familiare come quella della Grande Mietitrice.

Sato entrò nella stanza. «Be', sembra proprio che Peter Solomon abbia più segreti di quanto pensassi.»

Anderson annuì, entrando a sua volta. «E poi parlano di scheletri nell'armadio.» Alzò la torcia ed esaminò il resto del piccolo locale. «E questo odore?» domandò arricciando il naso . «Che cos'è?»

«Zolfo» rispose con voce neutra Langdon alle sue spalle. «I due piattini sulla scrivania. In quello a destra deve esserci del sale. E nell'altro dello zolfo.»

Sato si voltò a guardarlo, incredula. «E lei come diavolo fa a saperlo?»

«Perché, signora, ci sono stanze esattamente uguali a questa in tutto il mondo.»


Un piano sopra il sotterraneo, l'agente di sicurezza Nunez scortava l'architetto del Campidoglio, Warren Bellamy, lungo il corridoio che si sviluppava per l'intera lunghezza delle fondamenta est. Nunez avrebbe potuto giurare di avere appena sentito esplodere tre colpi d'arma da fuoco, là sotto, smorzati e lontani. Ma non è assolutamente possibile.

«La porta del sotterraneo è aperta» osservò Bellamy, fissando a occhi socchiusi il fondo del corridoio.

Una serata davvero strana, pensò Nunez. Nessuno scende mai laggiù. «Posso sentire cosa sta succedendo» dichiarò afferrando la radio.

«Torni pure al suo lavoro» disse Bellamy. «Sono in grado di proseguire da solo.»

A disagio, l'agente si dondolò sui piedi. «E sicuro?»

Warren Bellamy posò una mano decisa sulla spalla di Nunez. «Figliolo, sono venticinque anni che lavoro qui. Penso di riuscire a trovare la strada.»


Mal'akh aveva visto molti posti bizzarri in vita sua, ma solo pochi potevano competere con il lugubre mondo del modulo 3. L'Acquario. La sala faceva pensare a uno scienziato pazzo che si fosse impadronito di un supermercato e poi ne avesse riempito tutti gli scaffali con vasi di vetro contenenti esemplari di ogni tipo e misura. Simile alla camera oscura di un fotografo, l'ambiente era immerso nella foschia rossastra della "luce sicura" che, proiettata da sotto i ripiani, era puntata verso l'alto per illuminare i contenitori pieni di etanolo. L'odore dei prodotti chimici per la conservazione era nauseante.

«Questo modulo ospita più di ventimila specie» stava spiegando la ragazza paffuta. «Pesci, mammiferi, rettili.»

«Tutti morti, spero» commentò Mal'akh, fingendo una voce nervosa.

La ragazza rise. «Sì, certo. Tutti molto morti. Devo ammettere che, dopo aver cominciato a lavorare in questa struttura, non ho osato entrare qui dentro per almeno sei mesi.»

Mal'akh poteva capirne la ragione. Ovunque guardasse c'erano vasi contenenti campioni di forme di vita: salamandre, meduse, ratti, insetti, uccelli e altri esseri che non era in grado neppure di indovinare. E, come se la collezione non fosse stata già abbastanza inquietante di per sé, l'alone rossastro che proteggeva quegli esemplari fotosensibili da una prolungata esposizione alla luce dava al visitatore la sensazione di trovarsi all'interno di un gigantesco acquario nel quale, chissà come, creature morte si fossero riunite per osservarlo dall'ombra.

«Quello è un celacanto» disse la ragazza, indicando un grosso contenitore in plexiglas che ospitava il pesce più brutto che Mal'akh avesse mai visto. «Si riteneva che si fosse estinto insieme ai dinosauri, ma questo esemplare è stato catturato al largo delle coste dell'Africa qualche anno fa e poi donato allo Smithsonian.»

Che fortuna, pensò Mal'akh, che ascoltava a malapena. Era impegnato a esaminare le pareti, in cerca di telecamere di sicurezza. Ne individuò una soltanto: era puntata sulla porta d'ingresso, cosa non sorprendente, dato che quello era probabilmente l'unico accesso.

«E qui c'è quello che le interessa...» continuò la ragazza guidandolo fino al gigantesco contenitore che Mal'akh aveva visto attraverso la finestra. «Il nostro esemplare più grande.» Come il conduttore di un gioco a premi che presenti un'auto nuova, la ragazza indicò con un ampio gesto del braccio la creatura disgustosa. «L'Architeuthis.»

La vasca del calamaro gigante faceva pensare a una serie di cabine telefoniche di vetro posate a terra su un fianco e poi saldate fra loro. All'interno della lunga bara di plexiglas galleggiava una sagoma amorfa dal pallore nauseante.

Mal'akh abbassò lo sguardo sulla testa bulbosa, simile a una specie di sacca, e sugli occhi grandi quanto due palloni da basket. «A paragone di questo, il suo celacanto sembra carino» commentò.

«Aspetti di vederlo illuminato.»

Trish sollevò il lungo coperchio del contenitore, da cui si alzarono esalazioni di etanolo. Si piegò e premette l'interruttore, che si trovava immediatamente sopra il livello del liquido.

Una serie di luci fluorescenti prese vita ammiccando lungo l'intera base del recipiente. Adesso l'Architeuthis risplendeva in tutta la sua gloria: una testa colossale, attaccata a una massa viscida di tentacoli in decomposizione e ventose incredibilmente taglienti.

La ragazza cominciò a spiegare come l'Architeuthis potesse sconfiggere un capodoglio in combattimento.

Mal'akh sentiva soltanto il suono di quelle chiacchiere vuote.

Era arrivato il momento.

Trish Durine si era sempre sentita un po' a disagio all'interno del modulo 3, ma il senso di gelo che aveva appena avvertito era qualcosa di diverso.

Qualcosa di viscerale. Primordiale.

Cercò di ignorare quella sensazione, che tuttavia stava rafforzandosi rapidamente, artigliandola in profondità. Sebbene non riuscisse a individuare l'origine della sua ansia, Trish capì che l'istinto le stava dicendo con chiarezza che doveva allontanarsi da lì.

«Insomma, questo è il calamaro gigante» concluse, piegandosi di nuovo sopra la vasca per spegnere le luci. «Adesso sarà meglio che andiamo da Katherine e...»

Una grande mano le coprì la bocca, premendo con forza e tirandole indietro la testa. Un istante dopo, un braccio possente le circondava il busto, inchiodandola contro un torace duro come la roccia. Per una frazione di secondo, Trish rimase paralizzata dallo shock.

Poi arrivò il terrore.

L'uomo cercò a tastoni sul suo petto, quindi afferrò la chiave magnetica e strattonò con violenza verso il basso. Il cordoncino sembrò quasi bruciarle il collo, prima di strapparsi. La chiave cadde sul pavimento. Trish lottò, cercando di divincolarsi, ma non poteva competere con le dimensioni e la forza fisica dell'uomo. Tentò di urlare, ma le dita continuavano a premere con forza sulla bocca. L'uomo le avvicinò la testa all'orecchio e sussurrò: «Quando tolgo la mano, tu non urli. Chiaro?».

La ragazza annuì vigorosamente. I polmoni le bruciavano, supplicando aria. Non riesco a respirare!

L'uomo tolse la mano e Trish boccheggiò, inspirando avidamente.

«Mi lasci andare! Cosa diavolo sta facendo?»

«Dimmi il tuo numero di codice.»

Trish si sentiva completamente smarrita e confusa. Katherine, aiutami! Chi è quest'uomo? «La sicurezza ti può vedere!» esclamò, sapendo perfettamente di essere fuori dalla portata delle telecamere. E comunque nessuno sta guardando.

Il codice identificativo» ripetè l'uomo. «Il numero che corrisponde alla tua chiave magnetica.»

Mentre un terrore gelido le stringeva le viscere, Trish riuscì a divincolarsi, a girarsi di scatto e a liberare un braccio. Tentò di artigliare gli occhi dell'uomo. Le dita della ragazza toccarono la carne e scesero graffiando lungo una guancia, tracciando quattro solchi scuri. Poi Trish si rese conto che le strisce sul viso non erano di sangue. Quello che lei aveva appena graffiato, scoprendo i tatuaggi nascosti sotto il trucco, era cerone.

Chi è questo mostro?

Con una forza quasi sovrumana, l'aggressore la fece girare di nuovo e la sollevò, spingendola sopra la vasca aperta del calamaro gigante, la faccia quasi al livello dell'etanolo. Le esalazioni le bruciavano le narici.

«Qual è il tuo codice identificativo?»

Nonostante gli occhi in fiamme, Trish riusciva a vedere davanti al proprio viso la carne pallida del calamaro immersa nel liquido.

«Dimmelo!» insistette l'uomo, avvicinando ancora di più la faccia della ragazza all'etanolo. «Qual è il numero?»

Ora Trish si sentiva bruciare la gola. «Zero-otto-zero-quattro!» gridò, a malapena in grado di respirare. «Lasciami andare! Zero-otto-zero-quattro!    »

«Stai mentendo» disse l'uomo, spingendola verso la superficie del liquido. I capelli galleggiavano già nell'etanolo.

«No, non sto mentendo!» protestò Trish fra i colpi di tosse. «Il 4 agosto! È il mio compleanno!»

«Grazie, Trish.»

Le mani potenti strinsero la presa e la spinsero in basso, tuffandole il viso nella vasca. Un dolore lancinante infiammò gli occhi della ragazza. L'uomo esercitò una forza ancora maggiore, immergendole tutto il capo nell'etanolo. Trish sentì il proprio volto premere sulla testa del calamaro gigante.

Raccogliendo tutte le energie residue, cercò di opporre resistenza, di arcuare il corpo all'indietro e di sollevare la faccia dalla vasca. Ma le mani dell'uomo non cedettero.

Devo respirare!

La testa immersa nell'etanolo, Trish lottò con se stessa per non aprire né gli occhi né la bocca. Con i polmoni in fiamme, combatté contro l'impulso di respirare, sempre più urgente. No! Non farlo! Ma alla fine fu il riflesso respiratorio a prevalere.

La bocca si spalancò e i polmoni si espansero di colpo, tentando di risucchiare quell'ossigeno di cui avevano disperatamente bisogno. In un istante, un'ondata di etanolo le si riversò tra le labbra e, mentre l'alcol le scivolava lungo la gola fin nei polmoni, Trish provò un dolore che non avrebbe mai immaginato possibile. Misericordiosamente durò solo pochi secondi, poi il suo mondo diventò completamente nero.


In piedi accanto alla vasca, Mal'akh riprendeva fiato e controllava i danni.

Il corpo inerte di Trish era riverso sopra il bordo del contenitore, la faccia ancora immersa nell'etanolo. Guardandola, Mal'akh ripensò all'unica altra donna che aveva ucciso.

Isabel Solomon.

Tanto tempo fa. In un'altra vita.

Abbassò lo sguardo sul corpo flaccido della ragazza. Lo afferrò per i fianchi ampi e lo sollevò finché cominciò a scivolare al di sopra del bordo della vasca. Trish Dunne si immerse di testa nell'etanolo, sollevando qualche spruzzo. A poco a poco le increspature in superficie svanirono e il cadavere rimase sospeso sopra il calamaro gigante. Dopodiché gli abiti si inzupparono e il corpo iniziò a scendere lentamente verso il fondo, andando a posarsi su quello dell'enorme creatura marina.

Mal'akh si asciugò le mani e risistemò il coperchio di plexiglas della vasca.

L'Acquario ha un nuovo esemplare.

Raccolse dal pavimento la chiave magnetica della ragazza e se la fece scivolare in tasca: 0804.

Quando aveva visto Trish per la prima volta nell'atrio, l'aveva considerata un problema. Poi, però, si era reso conto che la chiave magnetica e la password della ragazza in realtà rappresentavano la sua assicurazione. Se l'archivio dati di Katherine era protetto come Peter gli aveva fatto credere, allora era prevedibile che persuadere la dottoressa ad aprirglielo non sarebbe stato facile. Ma adesso ho le mie chiavi. Era soddisfatto all'idea di non dover più perdere tempo nel tentativo di piegare Katherine alla sua volontà.

Raddrizzandosi, Mal'akh vide il proprio riflesso nella finestra e si accorse che il suo trucco era gravemente compromesso. Ma non aveva più importanza. Quando Katherine avesse messo insieme tutti i pezzi, sarebbe stato troppo tardi.


«Questa è una camera massonica?» domandò Saro, distogliendo lo sguardo dal teschio e fissando Langdon.

Lui annuì. «Si chiama gabinetto di riflessione. È una camera pensata come un luogo freddo e austero in cui un massone possa meditare sulla propria mortalità. Pensando all'ineluttabilità della morte, il massone arriva ad avere una preziosa prospettiva sulla natura fugace della vita.»

Sato si guardò intorno in quell'ambiente misterioso. Non sembrava convinta. «Quindi, questa sarebbe una specie di stanza per la meditazione?»

«Sostanzialmente, sì. In queste camere sono sempre presenti gli stessi simboli: teschio e femori incrociati, falce, clessidra, zolfo, sale, carta bianca, una candela e altro. I simboli della morte inducono i massoni a riflettere su come vivere nel migliore dei modi su questa terra.»

«Sembra una specie dì reliquiario» osservò Anderson.

È proprio questo il punto. «La maggior parte dei miei studenti di simbologia all'inizio ha la stessa reazione.» Langdon assegnava spesso ai ragazzi il testo Symboles des Francs-maçons, un libro contenente fotografie che ben illustravano i gabinetti di riflessione.

«E i suoi studenti non trovano inquietante il fatto che i massoni meditino con teschi e falci?» chiese Sato.

«Non più inquietante del fatto che i cristiani preghino ai piedi di un uomo inchiodato a una croce, o che gli induisti intonino salmodie davanti a un elefante con quattro braccia di nome Ganesh. Fraintendere i simboli di una cultura è spesso alla radice del pregiudizio.»

Sato si voltò, evidentemente non nello spirito giusto per una conferenza, e si avviò verso il tavolo. Anderson cercò di rischiararle la via, ma il fascio luminoso stava cominciando ad affievolirsi. Allora provò a picchiare la base della torcia sulla palma della mano.

Mentre tutti e tre avanzavano nello spazio ristretto, l'odore pungente dello zolfo riempì le narici di Langdon. Il sotterraneo era umido, ed era proprio l'umidità dell'aria che faceva reagire lo zolfo sul piattino. Sato arrivò davanti al tavolo e abbassò lo sguardo sul teschio e sugli altri oggetti.

Anderson le andò accanto e fece del suo meglio per illuminare il piano con il raggio di luce, sempre più debole.

Dopo aver osservato, Sato si mise le mani sui fianchi e sospirò. «Cos'è tutta questa cianfrusaglia?»

Gli oggetti in quella stanzetta erano stati scelti e disposti con la massima cura, come Langdon ben sapeva. «Simboli di trasformazione» rispose, sentendosi sempre più oppresso mentre andava a raggiungere gli altri due davanti al tavolo. «Il teschio, o caput mortuum, rappresenta la trasformazione finale dell'uomo attraverso il decadimento; ci ricorda che tutti noi un giorno ci libereremo della nostra carne mortale. Zolfo e sale sono catalizzatori alchemici che facilitano la trasformazione. La clessidra rappresenta il potere di cambiamento del tempo.» Langdon indicò la candela spenta. «Mentre la candela rappresenta il fuoco primordiale e il risveglio dell'uomo dal sonno dell'ignoranza: la trasformazione attraverso l'illuminazione.»

«E... quella?» domandò Sato puntando un dito verso l'angolo.

Anderson spostò il raggio di luce sull'enorme falce appoggiata alla parete.

«Non è un simbolo di morte, come credono quasi tutti» rispose Langdon. «La falce in realtà è un simbolo del nutrimento offerto dalla natura: la mietitura dei suoi doni.»

Sato e Anderson rimasero in silenzio, quasi stessero cercando di assimilare l'ambiente bizzarro che li circondava.

Ma ciò che Langdon voleva più di qualsiasi altra cosa al mondo era uscire da lì. «Mi rendo conto che questa stanza può sembrare strana, comunque non c'è niente da vedere qui dentro: è tutto assolutamente normale. Moltissime logge massoniche dispongono di gabinetti di riflessione esattamente uguali a questo.»

«Ma qui non siamo in una loggia massonica!» protestò Anderson. «Questo è il Campidoglio, e vorrei proprio sapere cosa diavolo ci fa questa stanza nel mio edificio.»

«A volte i massoni allestiscono spazi di meditazione, cioè stanze come questa, nel luogo di lavoro o nelle loro abitazioni. Non è insolito.» Lo stesso Langdon conosceva un cardiochirurgo di Boston che aveva trasformato un ripostiglio del suo studio in un gabinetto di riflessione, in modo da poter meditare sulla mortalità prima di entrare in sala operatoria.

Sato sembrava turbata. «Lei sta dicendo che Peter Solomon viene quaggiù per riflettere sulla morte?»

«Proprio non lo so» ammise Langdon con sincerità. «Forse ha creato questa stanza come una sorta di rifugio per altri massoni che lavorano nell'edificio, dando loro uno spazio spirituale lontano dal caos del mondo materiale... un luogo in cui un potente legislatore possa meditare prima di prendere decisioni che riguardano i suoi fratelli.»

«Sentimenti lodevoli» commentò Sato sarcastica. «Ma ho la sensazione che gli americani avrebbero qualche problema a immaginare i loro leader che pregano fra teschi e falci chiusi dentro un ripostiglio.»

Be', non dovrebbero, pensò Langdon, riflettendo su come forse il mondo avrebbe potuto essere diverso se un maggior numero di leader politici si fosse preso il tempo di meditare sul carattere definitivo della morte, prima di scatenare qualche guerra.

Sato sporse le labbra ed esaminò con attenzione i quattro angoli della stanza. «Qui dentro deve esserci qualcosa di più di ossa umane e un po' di paccottiglia, professore. Qualcuno l'ha fatta venire fin qui da Cambridge perché lei arrivasse esattamente dove ci troviamo ora.»

Langdon si strinse la borsa al fianco, ancora incapace di immaginare in che modo il pacchetto che aveva con sé si collegasse a quella stanza. «Signora, mi dispiace, ma qui dentro non vedo niente fuori dall'ordinario» dichiarò, sperando che adesso si sarebbero finalmente dedicati alla ricerca di Peter.

La torcia di Anderson lampeggiò di nuovo e Sato si voltò di scatto verso di lui, cominciando a mostrare segni di collera. «Cristo santo, è troppo chiedere un po' di luce?» Infilò una mano in tasca ed estrasse un accendino. Lo fece scattare con il pollice e lo avvicinò alla candela sulla scrivania. Lo stoppino faticò ad accendersi, ma poi la fiamma cominciò a diffondere una luminescenza spettrale nello spazio angusto e sulle pareti di pietra si disegnarono lunghe ombre. Quando la fiamma si fece più decisa, davanti ai tre si materializzò una visione imprevista.

«Guardate!» esclamò Anderson indicando qualcosa.

Alla luce della candela, adesso potevano vedere alcuni graffiti sbiaditi: sette lettere maiuscole incise sulla parete di fondo.

VITRIOL


«Strana scelta» osservò Sato mentre la luce della candela proiettava sui caratteri una spaventosa ombra a forma di cranio.

«In effetti, si tratta di un acrostico» spiegò Langdon. «Compare sulla parete di fondo di quasi tutti i gabinetti di riflessione, come abbreviazione del mantra meditativo massonico: Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem.»

Sato lo fissò, quasi impressionata. «E significa?»

«Penetra nelle viscere della terra e, percorrendo il retto sentiero, scoprirai la pietra che si cela ai tuoi occhi.»

Lo sguardo di Sato si fece più attento. «E questa pietra ha qualche relazione con la piramide nascosta?»

Langdon si strinse nelle spalle. Non voleva incoraggiare l'idea di quel collegamento. «Quelli che si divertono a fantasticare di piramidi nascoste a Washington le direbbero che sì, occultum lapidem si riferisce alla piramide di pietra. Altri le direbbero che si tratta di un riferimento alla pietra filosofale, che gli alchimisti credevano potesse assicurare la vita eterna o trasformare il piombo in oro. Altri ancora sostengono che il riferimento è al sancta sanctorum, una camera segreta in pietra nascosta al centro del tempio di Gerusalemme. Alcuni, invece, affermano che è un riferimento cristiano agli insegnamenti di san Pietro. Ogni tradizione esoterica interpreta la "pietra" a modo suo, ma in tutti i casi l'occultum lapidem è invariabilmente fonte di Potere e illuminazione.»

Anderson si schiarì la voce. «È possibile che Solomon abbia mentito al suo rapitore? Forse gli ha detto che quaggiù c'era qualcosa... mentre in realtà non c'è niente.»

Langdon stava formulando pensieri molto simili.

Senza alcun preavviso, la fiamma della candela vacillò, come mossa da una corrente d'aria. Si affievolì per un istante e poi riprese ad ardere normalmente.

«È strano» osservò Anderson. «Spero che nessuno abbia chiuso la porta di sopra.» Uscì nel buio del corridoio. «C'è qualcuno?»

Langdon si accorse a malapena dell'uscita del capo della sicurezza. Il suo sguardo era stato improvvisamente attirato dalla parete di fondo. Cos'è successo?

«Ha visto anche lei?» domandò Sato, che a sua volta fissava allarmata lo stesso punto.

Langdon annuì, il battito del cuore più rapido.

Un momento prima la parete era sembrata tremolare, come animata da qualche energia.

Anderson rientrò. «Là fuori non c'è nessuno.» La parete ondeggiò di nuovo. «Cristo santo!» esclamò poi, facendo un salto indietro.

Tutti e tre rimasero immobili e in silenzio per qualche istante, con lo sguardo fisso.

Langdon avvertì un brivido gelido quando si rese conto di ciò che avevano davanti agli occhi. Tese incerto un braccio fino a toccare la parete con la punta delle dita. «Non è un muro» annunciò.

Anderson e Sato si avvicinarono, scrutando attenti.

«È un telo» chiarì Langdon.

«E si è mosso» aggiunse subito Sato.

Sì, in un modo molto strano. Langdon studiò la superficie più da vicino. La luce della candela aveva vacillato in modo sorprendente perché il telo stesso si era mosso, ma non verso l'interno della stanza... piuttosto fluttuando all'indietro, come attraverso la parete di fondo.

Molto delicatamente, Langdon allungò le dita tese e spinse il telo. Sorpreso, ritrasse di colpo la mano. C'è un'apertura!

«Tirate il telo» ordinò Sato.

Langdon sentiva il cuore battergli all'impazzata. Allungò un braccio e afferrò il bordo del telo, scostando lentamente il tessuto da un lato. Guardò incredulo ciò che si nascondeva dietro. Mio Dio.

Immobili in un silenzio stupefatto, Sato e Anderson fissarono l'apertura nella parete.

Poi, finalmente, Sato parlò. «A quanto pare, abbiamo appena trovato la nostra piramide.»


Langdon fissava la rientranza nella parete di fondo. Nascosto dietro il telo, c'era un incavo perfettamente quadrato, di circa un metro di lato, che sembrava essere stato ricavato togliendo una serie di mattoni dal muro. Per un momento, nel buio, Langdon aveva pensato che fosse l'accesso a una stanza segreta.

Adesso vedeva che non era così.

Quella rientranza, pur sbozzata in modo rozzo, ricordava la nicchia di un museo, progettata per ospitare una statuetta. E, molto opportunamente, anche questa nicchia accoglieva un unico, piccolo oggetto.

Alto una ventina di centimetri, era un pezzo di solido granito lavorato. La superficie era liscia ed elegante e le quattro facce scintillavano alla luce della candela.

Langdon non riusciva assolutamente a immaginare cosa ci facesse lì quell'oggetto. Una piramide di pietra?

«A giudicare dalla sua espressione, devo presumere che questa cosa non sia tipica di un gabinetto di riflessione» disse Sato in tono compiaciuto.

Langdon si limitò a scuotere il capo.

«Allora, forse, vorrà modificare le sue precedenti dichiarazioni a proposito della leggenda di una piramide massonica nascosta qui a Washington?» Il tono del direttore dell'OS era quasi arrogante.

«Signora» ribatté subito Langdon «questa non è la piramide massonica.»

«Quindi è una pura coincidenza il fatto che abbiamo trovato una piramide nascosta nel cuore del Campidoglio, in una stanza segreta che appartiene a un grande capo della massoneria?»

Langdon si sfregò gli occhi e cercò di pensare con chiarezza. «Senta, questa piramide non corrisponde in alcun modo al mito. La piramide massonica viene descritta come enorme, con la sommità in oro massiccio.»

Inoltre, Langdon lo sapeva, la piccola piramide tronca che avevano appena trovato non era neppure una vera piramide. Priva della cuspide, era un simbolo del tutto diverso. Nota come la "piramide incompiuta", sottolineava simbolicamente come l'ascesa dell'uomo verso il suo pieno potenziale fosse un'opera in costante divenire. Anche se pochi se ne rendevano conto, si trattava del simbolo più diffuso sulla faccia della terra. Oltre venti miliardi di esemplari a stampa. Impressa su ogni banconota da un dollaro in circolazione, la piramide incompiuta aspettava paziente la sua cuspide splendente, sospesa sopra di lei come un promemoria del destino non completamente realizzato dell'America e del lavoro ancora da svolgere, sia come paese sia come individui.

«La prenda» ordinò Sato a Anderson, indicando la piramide. «Voglio darle un'occhiata più da vicino.» La donna fece spazio sulla scrivania spingendo di lato, senza il minimo rispetto, teschio e femori incrociati.

Langdon cominciava ad avere la sensazione di far parte di un gruppo di volgari tombaroli, intenti a profanare un altare.

Anderson gli passò accanto, allungò le mani nella nicchia e strinse le palme ai due lati della piramide. Poi, sollevandola a fatica, la fece scivolare verso di sé e infine la posò con un tonfo sordo sul piano di legno. Arretrò di un passo per lasciare posto a Sato.

Il direttore sistemò la candela vicino alla piramide, di cui cominciò a studiare la superficie lucida. Lentamente, fece scorrere le piccole dita sull'oggetto, esaminando ogni millimetro della sommità piatta e poi delle facce. Circondò la piramide con le mani per tastarne anche il retro, dopodiché aggrottò la fronte, apparentemente delusa. «Professore, lei prima ha detto che la piramide massonica venne costruita per proteggere informazioni segrete.»

«Così narra la leggenda, sì.»

«Perciò, ipoteticamente parlando, se il rapitore di Solomon crede che questa sia la piramide massonica, dovrebbe credere anche che contenga informazioni preziose.»

Esasperato, Langdon annuì. «Sì, ma se anche trovasse quelle informazioni, probabilmente non sarebbe in grado di capirle. Secondo la leggenda, il contenuto della piramide è codificato, indecifrabile per chiunque... a eccezione dei più degni.»

«Prego?»

Nonostante la crescente impazienza, Langdon rispose con voce neutra: «I tesori mitologici sono sempre protetti e possono essere conquistati solo dopo aver superato una serie di prove che dimostrano il valore della persona. Come forse ricorderà, nella leggenda della Spada nella roccia, la roccia cede la spada solo ad Artù, il quale era spiritualmente pronto a sostenerne il terrificante potere. La piramide massonica si basa sullo stesso concetto. In questo caso il tesoro è costituito dalle informazioni, che si dice siano scritte in un linguaggio codificato, una lingua mistica di parole perdute, leggibile solo dai più degni».

Sulle labbra di Sato passò un leggero sorriso. «Questo forse spiega perché lei stasera è stato convocato qui.»

«Prego?»

Con calma, Sato ruotò la piramide di centottanta gradi, senza spostarla. La quarta faccia adesso scintillava alla luce della candela.

Langdon la fissò sorpreso.

«Sembra proprio che qualcuno la giudichi degno» disse Sato.


Perché Trish ci sta mettendo tanto?

Katherine Solomon controllò di nuovo l'orologio. Si era dimenticata di avvertire il dottor Abaddon del bizzarro tragitto per arrivare al suo laboratorio, ma non si sarebbe mai immaginata che il buio li avrebbe rallentati così tanto.

Dovrebbero essere già qui, ormai.

Si avviò verso l'ingresso e aprì con un certo sforzo la porta dalla cornice in piombo che dava sul vuoto. Rimase in ascolto per un istante, ma non sentì niente. «Trish?» chiamò, e la sua voce fu inghiottita dall'oscurità.

Silenzio.

Perplessa, chiuse la porta, estrasse il cellulare e chiamò l'atrio. «Sono Katherine. Trish è lì?»

«No, dottoressa» rispose la guardia. «È tornata indietro con il suo ospite dieci minuti fa.»

«Davvero? Non credo che siano già entrati nel modulo 5.»

«Attenda in linea mentre controllo.» Katherine sentì le dita della guardia che digitavano sulla tastiera del computer. «Ha ragione. Stando alle registrazioni della chiave elettronica della signorina Dunne, lei non ha ancora aperto la porta del modulo 5. La sua ultima entrata è avvenuta circa otto minuti fa... nel modulo 3. Immagino che starà accompagnando il suo ospite in un piccolo giro turistico.»

Katherine si accigliò. A quanto pare. Le sembrava un po' strano, Però sapeva che Trish non sarebbe rimasta a lungo nel modulo 3. L'odore là dentro è terribile. «È già arrivato mio fratello?»

«No, dottoressa, non ancora.»

«Grazie lo stesso.»

Mentre riagganciava, Katherine si sorprese nel provare una certa trepidazione. Si soffermò un attimo su quella sensazione. Era la stessa ansia che aveva avvertito quando era entrata in casa del dottor Abaddon. In quell'occasione il suo intuito femminile l'aveva ingannata, mettendola in una situazione imbarazzante. Molto.

Non è niente, si disse.


Langdon studiò la piramide di pietra. Non è possibile.

«Un antico linguaggio codificato» disse Sato senza alzare lo sguardo. «Secondo lei, questo può essere definito così?»

Sulla faccia della piramide che gli era stata appena mostrata era incisa con cura nella pietra liscia una serie di sedici caratteri.


Accanto a Langdon, Anderson era rimasto a bocca aperta, non meno scioccato di lui. Sembrava che il capo della sicurezza avesse appena visto una specie di tastierino proveniente da qualche mondo alieno.

«Professore?» disse Sato. «Immagino che lei riesca a interpretarlo, no?»

Langdon si voltò. «Cosa glielo fa pensare?»

«Il fatto che lei sia stato convocato qui, professore. Lei è stato considerata la sua reputazione, mi sembra ovvio che lei sia stato condotto qui per decifrarla.»

Langdon doveva ammettere che, dopo le sue esperienze a Roma e a Parigi, aveva ricevuto continue richieste per collaborare alla decifrazione di alcuni dei più importanti codici della storia ancora insoluti: il disco di Festo, il cifrario Dorabella, il misterioso manoscritto Voynich.

Sato fece scorrere le dita sull'iscrizione. «Mi sa spiegare il significato di queste icone?»

Non sono icone, pensò Langdon. Sono simboli. Aveva riconosciuto subito il tipo di codice: un linguaggio criptato del tredicesimo secolo. Lui sapeva benissimo come decifrarlo. «Signora» disse esitante «questa piramide è proprietà privata di Peter.»

«Privata o no, se il codice è davvero il motivo della sua presenza a Washington, non ho intenzione di lasciarle scelta. Voglio sapere cosa dice.»

Il BlackBerry di Sato emise un segnale acustico e lei lo estrasse di scatto dalla tasca, studiando per diversi secondi il messaggio appena arrivato. Langdon era sbalordito che la rete wireless del Campidoglio raggiungesse anche quella profondità.

Sato brontolò qualcosa e inarcò le sopracciglia, lanciando una strana occhiata a Langdon. «Anderson» disse rivolgendosi al capo della sicurezza. «Posso scambiare due parole in privato con lei?» Gli fece cenno di seguirla e sparirono nel buio pesto del corridoio, lasciando Langdon da solo alla luce tremolante della candela, nel gabinetto di riflessione di Peter.


Anderson si domandò quando sarebbe finita quella notte. Una mano mozza nella mia Rotonda? Un reliquiario nel mio sotterraneo? Bizzarre incisioni su una piramide di pietra? Per qualche motivo, la partita dei Redskins non sembrava avere più significato.

Mentre seguiva Sato nell'oscurità del corridoio, Anderson accese la sua torcia elettrica. Il raggio era debole, ma meglio di niente. Sato avanzò per qualche metro, lontano dalla vista di Langdon.

«Dia un'occhiata» sussurrò a Anderson porgendogli il BlackBerry.

Anderson lo prese e guardò il display socchiudendo gli occhi. Mostrava un'immagine in bianco e nero: la radiografia della borsa di Langdon che il capo della sicurezza aveva chiesto di inviare a Sato. Come sempre con l'uso dei raggi X, gli oggetti di maggiore densità apparivano di un bianco marcato. Nella borsa di Langdon uno risaltava su tutti gli altri. Evidentemente molto denso, brillava come un gioiello in mezzo al mucchio più scuro degli altri oggetti. La sua sagoma era inconfondibile.

Se l'è portata dietro tutta la sera? Anderson osservò Sato sorpreso. «Per quale motivo Langdon non ce ne ha parlato?»

«Bella domanda» bisbigliò il direttore dell'OS.

«La forma... non può trattarsi di una coincidenza.»

«No» convenne Sato, e il suo tono adesso era di rabbia. «Direi proprio di no.»

Un debole fruscio nel corridoio attirò l'attenzione di Anderson. Allarmato, puntò la torcia lungo quel passaggio buio. Il raggio morente rivelò solo un corridoio deserto, lungo il quale si allineavano delle porte aperte.

«Ehi» disse Anderson. «C'è qualcuno?»

Silenzio.

Sato gli rivolse un'occhiata storta perché probabilmente non aveva sentito nulla.

Anderson restò in ascolto ancora qualche momento, poi si riscosse. Devo andarmene da qui.


Rimasto solo nella camera illuminata dalla candela, Langdon sfiorò i bordi dell'iscrizione perfettamente incisa nella piramide. Era curioso di sapere cosa dicesse il messaggio, eppure non aveva intenzione di immischiarsi nella vita privata di Peter Solomon più di quanto avesse già fatto. E poi perché questo pazzo dovrebbe essere interessato a una piccola piramide?

«Abbiamo un problema, professore» annunciò perentoria la voce di Sato dietro di lui. «Ho appena ricevuto un'informazione e ne ho abbastanza delle sue bugie.»

Langdon si voltò e vide il direttore dell'OS che entrava a passo deciso, con il BlackBerry in mano e il fuoco negli occhi. Preso alla sprovvista, Langdon guardò Anderson in cerca di aiuto, ma questi era rimasto di guardia alla porta e aveva anche lui un'espressione poco amichevole.

Arrivata di fronte a Langdon, Sato gli sbatté il BlackBerry davanti alla faccia.

Sconcertato, Langdon fissò il display che mostrava una specie di fotografia in bianco e nero al contrario, come un negativo spettrale. Ritraeva un insieme di oggetti, uno dei quali si stagliava con maggiore intensità. Benché obliquo e decentrato, quell'oggetto era senza ombra di dubbio una piccola piramide appuntita.

Una piccola piramide? Langdon guardò Sato. «Che cos'è?»

La domanda parve esasperare ulteriormente la donna. «Fa anche finta di non saperlo?»

A Langdon saltarono i nervi. «Non sto facendo finta! Non ho mai visto questa cosa in vita mia!»

«Stronzate!» sbottò Sato fendendo l'aria stantia con la sua voce. «È tutta la sera che se la porta in giro nella borsa!»

«Io...» Langdon si bloccò a metà della frase e il suo sguardo si spostò lentamente sulla borsa che aveva a tracolla. Poi tornò a fissare di nuovo il BlackBerry. Mio Dio... il pacchetto. Osservò più da vicino l'immagine e lo vide: un cubo spettrale che racchiudeva la piramide. Sbalordito, si rese conto che stava guardando un'immagine ai raggi X della sua borsa... e anche del misterioso pacchetto a forma di cubo di Peter. Il cubo, in realtà, era una scatola... che conteneva una piccola piramide.

Langdon aprì la bocca per dire qualcosa, ma gli mancarono le parole. Sentì il fiato uscirgli dai polmoni, colpito da una nuova rivelazione.

Semplice. Pura. Devastante.

Mio Dio. Tornò a guardare la piramide tronca sul tavolino. Il suo vertice era piatto - una piccola area quadrata -, uno spazio vuoto che attendeva simbolicamente il suo coronamento finale... il pezzo che l'avrebbe trasformata da una piramide incompiuta in una vera piramide.

Solo allora Langdon comprese che quella nella sua borsa non era affatto una piramide. una cuspide. E in quell'istante capì perché solo lui poteva svelare i misteri di quella piramide.

Sono io a possedere il pezzo finale.

Ed è davvero... un talismano.

Quando Peter aveva detto a Langdon che il pacchetto conteneva un talismano, lui si era messo a ridere. Ora invece si rese conto che il suo amico aveva ragione. Quella piccola cuspide era proprio un talismano, non nel senso magico del termine... ma nel significato più antico. Molto prima che il termine "talismano" assumesse una connotazione magica, aveva un'altra accezione: "completamento". Derivato dalla parola greca telesma, che vuol dire "completo", un talismano era un oggetto, o un'idea, che ne completava un altro e gli conferiva la sua integrità. L'elemento finale. Una cuspide, simbolicamente parlando, era il talismano supremo, il coronamento che trasformava la piramide incompiuta nell'emblema della perfezione.

In quel momento Langdon avvertì una misteriosa convergenza che lo costringeva ad accettare una singolare verità: a parte le sue dimensioni, la piramide di pietra nel gabinetto di riflessione di Peter sembrava trasformarsi a poco a poco in qualcosa di vagamente rassomigliante alla piramide massonica della leggenda.

Dalla luminosità che la cuspide emanava ai raggi X, Langdon sospettò che fosse fatta di metallo... un metallo molto denso. Non aveva modo di sapere se fosse o no d'oro massiccio, e non aveva alcuna intenzione di permettere che la sua mente gli giocasse dei brutti scherzi. Questa piramide è troppo piccola. Il codice è troppo facile da leggere. E poi... si tratta di un mito, per amor del cielo!

Sato lo stava osservando. «Per essere un uomo intelligente, professore, lei ha preso qualche decisione stupida stasera. Mentire a un direttore dei servizi di intelligence? Ostacolare intenzionalmente un'indagine della CIA?»

«Posso spiegarle, se me lo consente.»

«Ci spiegherà tutto al quartier generale. Per il momento, la trattengo in stato di fermo.»

Langdon si irrigidì. «Non starà parlando sul serio.»

«Sono serissima. Le avevo detto chiaro e tondo che la posta in gioco questa sera era alta, e lei ha scelto di non cooperare. Le suggerisco caldamente di cominciare ad abituarsi all'idea di spiegare l'iscrizione su questa piramide, perché quando arriveremo alla CIA...» Sollevò il BlackBerry e scattò una foto da vicino all'incisione sulla piramide di pietra. «... I miei analisti avranno già un bel vantaggio.»

Langdon aprì la bocca per protestare, ma Sato si stava già rivolgendo a Anderson, ancora sulla soglia. «Prenda la borsa di Langdon» gli disse «e ci metta dentro anche la piramide. Io mi occuperò di trattenere il signore in stato di fermo. La sua pistola, grazie.»

Anderson avanzò nella stanza con espressione impassibile, slacciando nel frattempo la fondina. Porse la pistola a Sato, che la puntò immediatamente contro Langdon.

Langdon osservava la scena come se fosse un sogno.

Non può essere vero.

Anderson poi gli si avvicinò, gli sfilò la borsa dalla spalla e l'appoggiò sul tavolo. Aprì la cerniera, prese la pesante piramide di pietra e la infilò dentro, insieme agli appunti di Langdon e al pacchetto.

All'improvviso si udirono un fruscio e dei movimenti in corridoio, e sulla soglia si materializzò la sagoma scura di un uomo che irruppe nella stanza. Il capo della sicurezza non si accorse nemmeno del suo arrivo. In un attimo lo sconosciuto aveva abbassato la spalla e si era lanciato contro la schiena di Anderson, che fu scagliato in avanti andando a sbattere la testa contro lo spigolo della nicchia nel muro. Cadde di schianto abbattendosi sul tavolo e facendo volare tutto intorno ossa e oggetti. La clessidra andò in frantumi e la candela si rovesciò sul pavimento, pur continuando a bruciare.

Sato rimase un attimo sotto shock in mezzo a quel caos, sempre con la pistola puntata, ma l'intruso afferrò un femore e iniziò a menare colpi alla cieca, colpendola alla spalla. Lei si lasciò sfuggire un grido e indietreggiò, facendo cadere la pistola, che il nuovo arrivato allontanò con un calcio. Questi si voltò poi verso Langdon; era alto e magro, un afroamericano elegante che Langdon non aveva mai visto in vita sua.

«Prenda la piramide!» gli ordinò l'uomo. «Presto, mi segua!»


L'afroamericano che guidava Langdon attraverso i meandri sotterranei del Campidoglio era chiaramente un uomo di potere. Oltre a sapersi orientare nel labirinto di corridoi secondari e stanze nascoste, lo sconosciuto aveva anche un mazzo di chiavi che sembrava aprire tutte le porte che bloccavano il loro cammino.

Langdon lo seguì, inerpicandosi veloce su per una scala che non aveva sceso all'andata. Mentre salivano, sentiva la cinghia di pelle della borsa che gli segava la spalla. La piramide di pietra era così pesante che temeva potesse romperla.

I pochi minuti appena trascorsi sfidavano ogni logica, e ormai Langdon si rese conto di agire solo obbedendo all'istinto. E il suo istinto gli diceva di fidarsi dello sconosciuto. Oltre a salvarlo da Sato, che l'avrebbe arrestato, quell'uomo aveva corso rischi incredibili per proteggere il misterioso oggetto di Peter Solomon. Qualunque cosa sia quella piramide. Benché il suo movente rimanesse oscuro, sulla mano dell'uomo Langdon aveva intravisto uno scintillio d'oro rivelatore: un anello massonico con la fenice a due teste e il numero 33. Quell'uomo e Peter Solomon erano più che amici fidati. Erano fratelli massoni del grado più alto.

Langdon lo seguì fino in cima alle scale, in un altro corridoio e poi, attraverso una porta senza alcuna indicazione, in un passaggio secondario, correndo accanto a scatoloni di scorte e sacchi di spazzatura. Poi svoltarono bruscamente e varcarono una porta di servizio che dava accesso a un mondo del tutto inaspettato: una specie di cinema di lusso. L'uomo più anzianolo precedette lungo un corridoio laterale che passava tra due file di poltrone e lo guidò fuori attraverso l'ingresso principale fino a un grande atrio luminoso. Langdon si rese conto in quel momento che si trovavano nel centro visitatori nel quale lui era entrato solo un paio di ore prima.

Sfortunatamente, lì c'era anche un agente della polizia del Campidoglio.

Giunti faccia a faccia, i tre uomini si fermarono e rimasero a fissarsi. Langdon riconobbe il giovane ispanico che aveva passato ai raggi X la sua borsa quella sera.

«Agente Nunez» disse l'afroamericano «non una parola. Mi segua.»

L'agente parve a disagio ma obbedì senza protestare.

Ma chi è questo tizio?

Tutti e tre corsero verso l'angolo sudovest del centro visitatori e arrivarono a un piccolo foyer con una serie di pesanti porte davanti alle quali c'erano dei birilli arancioni a bloccare l'ingresso. Le porte erano sigillate con del nastro adesivo, apparentemente per proteggere il centro visitatori dalla polvere di qualsiasi lavoro si stesse facendo al di là. L'uomo staccò il nastro da una delle porte, poi fece passare le chiavi del suo mazzo a una a una mentre parlava con l'agente. «Il nostro amico Anderson, il tuo capo, è nel sotterraneo. Potrebbe essere ferito. Sarà meglio che tu vada a dargli un'occhiata.»

«Sì, signore.» Nunez sembrava perplesso oltre che allarmato.

«Cosa più importante, tu non ci hai visto.» L'uomo trovò la chiave giusta, la tolse dal mazzo e la usò per aprire la pesante serratura di sicurezza. Tirò verso di sé la porta di acciaio e poi lanciò la chiave all'agente. «Dopo che siamo andati, chiudi e sigilla con il nastro meglio che puoi. Mettiti la chiave in tasca e non dire niente. A nessuno. Compreso il tuo capo. È tutto chiaro, agente Nunez?»

L'agente osservò la chiave come se gli avessero appena affidato una gemma preziosa. «Chiaro, signore.»

L'uomo si affrettò a oltrepassare la porta, e Langdon lo seguì. Nunez chiuse la pesante serratura alle loro spalle e Langdon lo sentì rimettere a posto il nastro adesivo.

«Non mi sono ancora presentato» gli disse l'uomo mentre avanzavano di buon passo lungo un moderno corridoio evidentemente ancora in costruzione. «Mi chiamo Warren Bellamy e Peter Solomon è un mio carissimo amico.»

Langdon lanciò un'occhiata sbigottita a quell'uomo dall'aria signorile. Tu sei Warren Bellamy? Non aveva mai incontrato l'architetto del Campidoglio, ma lo conosceva di nome.

«Peter mi ha parlato sempre molto bene di te» proseguì Bellamy «Mi dispiace che ci siamo dovuti conoscere in circostanze così tragiche.»

«Peter si trova in un terribile guaio. La sua mano...»

«Lo so.» Bellamy si era rabbuiato. «E non è tutto, temo.»

Raggiunsero la fine del tratto illuminato di corridoio, che in quel punto faceva una brusca svolta a sinistra. La restante parte del passaggio, dovunque conducesse, era immersa nel buio più totale.

«Aspetta un attimo» disse Bellamy e sparì nel locale dei quadri elettrici lì vicino, dal quale fuoriusciva un groviglio di grossi cavi arancioni che si perdeva nell'oscurità del corridoio. Langdon aspettò mentre Bellamy trafficava là dentro. L'architetto doveva avere localizzato gli interruttori generali, perché all'improvviso il passaggio davanti a loro si illuminò.

Langdon rimase a bocca aperta.

Washington, come Roma, è una città intessuta di passaggi segreti e gallerie sotterranee. Il corridoio che si presentava ai loro occhi ricordava a Langdon il Passetto che collega il Vaticano a Castel Sant'Angelo. Lungo. Buio. Stretto. A differenza del Passetto, però, questo passaggio era moderno e non ancora completato. Era interminabile e pareva restringersi in lontananza fino a scomparire all'estremità più distante. L'unica luce proveniva da una fila di lampadine regolarmente distanziate le quali, più che illuminare il tunnel, sembravano accentuarne l'incredibile lunghezza.

Bellamy si stava già avviando. «Vieni con me e fa' attenzione a dove metti i piedi.»

Langdon seguì automaticamente i passi di Bellamy, domandandosi dove li avrebbe mai portati quel tunnel.


In quello stesso momento, Mal'akh uscì dal modulo 3 e si avviò a passo spedito lungo il corridoio principale deserto dell'SMSC, diretto al modulo 5. Stringeva in mano la chiave magnetica di Trish e sussurrava a bassa voce: «Zero-otto-zero-quattro».

C'era anche qualcos'altro che continuava a ronzargli nella mente. Aveva appena ricevuto un messaggio urgente dal Campidoglio. Il mio contatto si è imbattuto in difficoltà impreviste. Malgrado ciò, gli aggiornamenti erano comunque incoraggianti: Robert Langdon ora aveva sia la piramide sia la cuspide. Nonostante il modo inaspettato in cui era successo, i pezzi essenziali cominciavano a combaciare. Era come se il destino stesso guidasse gli eventi di quella sera, per assicurare a Mal'akh la vittoria.


Langdon si mise quasi a correre per tenere il passo di Warren Bellamy mentre avanzavano in silenzio nel lungo tunnel. Fino a quel momento l'architetto del Campidoglio sembrava più interessato a mettere la maggior distanza possibile fra Sato e la piramide di pietra che a spiegargli che cosa stava succedendo. Langdon provava il timore crescente che ci fosse in gioco molto più di quanto lui potesse immaginare.

La CIA? L'architetto del Campidoglio? Due massoni del trentatreesimo grado?

Lo squillo acuto del suo cellulare lacerò l'aria. Esitando, lo prese dalla giacca. «Pronto?»

La voce che gli parlò era un sussurro inquietante e familiare. «Professore, ho saputo che ha trovato un compagno inaspettato...»

Langdon sentì un brivido gelido. «Dove diavolo è Peter?» domandò, e le sue parole rimbombarono tra le pareti del tunnel. Warren Bellamy, che gli si era affiancato, gli lanciò un'occhiata ansiosa e gli fece cenno di continuare a camminare.

«Non si preoccupi» disse la voce. «Come le ho già detto, Peter è in un posto sicuro.»

«Gli ha tagliato la mano, per l'amor di Dio! Ha bisogno di un medico!»

«Ha bisogno di un prete» replicò l'uomo. «Ma lei lo può salvare. Se farà quello che le ordinerò, Peter vivrà. Le do la mia Parola.»

«La parola di un pazzo per me non vale niente.»

«Pazzo? Professore, di sicuro lei ha apprezzato il rispetto con cui stasera mi sono attenuto agli antichi protocolli. La Mano dei Misteri l'ha guidata al portale: la piramide che promette di svelare le antiche conoscenze. So che adesso ce l'ha lei.»

«Lei crede che questa sia la piramide massonica?» gli domandò Langdon. «È un pezzo di roccia.»

All'altro capo della linea ci fu un attimo di silenzio. «Signor Langdon, lei è troppo intelligente per fare il finto tonto. Sa benissimo che cosa ha scoperto stasera. Una piramide di pietra... nascosta nel cuore di Washington... da un potente massone...?»

«Lei sta inseguendo un mito! Qualunque cosa le abbia detto Peter, gliel'ha detta in preda al terrore. La leggenda della piramide massonica è pura fantasia. I massoni non hanno mai costruito una piramide per proteggere conoscenze segrete. E, anche se l'avessero fatto, questa piramide è troppo piccola per essere quello che lei pensa che sia.»

L'uomo ridacchiò. «Vedo che Peter le ha rivelato molto poco. In ogni caso, signor Langdon, che lei scelga di credere o no all'autenticità di ciò che ha in mano, farà comunque quello che le dirò. Sono perfettamente al corrente che la piramide in suo possesso reca un'incisione criptata, e lei la decifrerà per me. A quel punto, e solo allora, le restituirò Peter Solomon.»

«Qualunque cosa rivelerà questa incisione» disse Langdon «non saranno certo gli antichi misteri che lei immagina.»

«Ovvio che no. Quei misteri sono troppo vasti per poter essere scritti su una piccola piramide di pietra.»

La risposta colse Langdon alla sprovvista. «Ma se l'incisione non riguarda gli antichi misteri, allora questa non è la piramide massonica. La leggenda afferma esplicitamente che la piramide massonica fu costruita per preservare gli antichi misteri.»

Il tono dell'uomo diventò condiscendente. «Signor Langdon, la piramide massonica è stata sì costruita per preservare gli antichi misteri, ma con un sottinteso che a quanto pare lei non ha ancora colto. Non gliel'ha mai detto Peter? Il potere della piramide massonica non sta nel fatto che può rivelare gli antichi misteri... bensì il luogo segreto dove essi sono nascosti.»

Langdon rimase sbalordito.

«Decifri l'incisione» continuò la voce «e le svelerà il nascondiglio del tesoro più grande dell'umanità.» Una risata. «Peter non le ha affidato il vero tesoro, professore.»

Langdon si bloccò di colpo in mezzo al tunnel. «Aspetti un attimo. Mi sta dicendo che questa piramide è... una mappa?»

Anche Bellamy a quel punto si fermò di scatto, con un'espressione scioccata e allarmata. Era evidente che chi stava chiamando aveva appena toccato un tasto delicato. La piramide è una mappa.

«Questa mappa» sussurrò la voce «o piramide, o portale, o in qualsiasi modo lei voglia chiamarla, fu creata moltissimo tempo fa perché non si dimenticasse mai il luogo dove sono nascosti gli antichi misteri... perché questa memoria non si perdesse per la posterità.»

«Una griglia di sedici simboli non assomiglia granché a una mappa.»

«Le apparenze ingannano, professore. Ma, in ogni caso, solo lei ha la capacità di leggere l'iscrizione.»

«Lei si sbaglia» ribatté Langdon, rivedendosi davanti agli occhi quel semplice codice. «Chiunque potrebbe decifrare l'incisione. Non è poi così sofisticata.»

«Ho il sospetto che in quella piramide ci sia molto di più di quello che salta all'occhio. E, comunque, la cuspide ce l'ha lei.»

Langdon visualizzò la piccola cuspide nella sua borsa. Ordine dal caos? Non sapeva più cosa pensare, ma la piramide di pietra nella borsa sembrava diventare più pesante a ogni istante che passava.

Mal'akh si premette il cellulare sull'orecchio, godendosi il suono del respiro ansioso di Langdon all'altro capo. «Ora mi devo occupare di una faccenda importante, professore, e anche lei. Mi chiami non appena avrà decifrato la mappa. Andremo insieme al nascondiglio e faremo il nostro scambio. La vita di Peter... per tutta la sapienza dei secoli.»

«Io non farò un bel niente» dichiarò Langdon. «Soprattutto senza avere la certezza che Peter sia vivo.»

«Le suggerisco di non sfidarmi. Lei è solo un piccolissimo ingranaggio di una macchina enorme. Se mi disobbedisce, o cerca di rintracciarmi, Peter morirà. Glielo giuro.»

«Per quel che ne so io, Peter è già morto.»

«Invece è vivo e vegeto, professore, però ha disperatamente bisogno del suo aiuto.»

«Ma cos'è che le interessa davvero trovare?» gridò Langdon nel telefono.

Mal'akh fece una pausa prima di rispondere: «Molti hanno inseguito gli antichi misteri e discusso sui loro poteri. Stanotte io dimostrerò che quei misteri sono reali».

Langdon rimase zitto.



«Le consiglio di mettersi subito al lavoro sulla mappa» aggiunse poi Mal'akh. «Ho bisogno di questa informazione oggi.»

«Oggi? Ma sono già le nove passate.»

«Esattamente.    Tempus fugit.»


A New York, l'editor Jonas Faukman stava spegnendo le luci nel suo ufficio di Manhattan quando squillò il telefono. Non aveva alcuna intenzione di rispondere a quell'ora... finché non vide il nome sul display.

Potrebbe essere la volta buona, pensò allungando la mano per prendere la cornetta.

«Ma ti pubblichiamo ancora?» esordì Faukman in tono semiserio.

«Jonas!» La voce di Langdon sembrava angosciata. «Grazie a Dio sei lì. Ho bisogno del tuo aiuto.»

A Faukman si risollevò il morale. «Hai qualche pagina da farmi leggere, Robert?» Finalmente?

«No, ho bisogno di un'informazione. L'anno scorso ti ho messo in contatto con una scienziata, Katherine Solomon, la sorella di Peter Solomon.»

Faukman si accigliò. Niente pagine.

«Cercava un editore per pubblicare un libro sulle scienze noetiche. Te la ricordi?»

Faukman alzò gli occhi al cielo. «Certo che me la ricordo. E grazie mille per avermela presentata. Non solo si è rifiutata di farmi leggere i risultati delle sue ricerche, ma non voleva nemmeno pubblicare niente fino a qualche data magica nel futuro.»

«Jonas, ascoltami, non ho molto tempo. Mi serve il numero di Katherine. Subito. Ce l'hai?»

«Ti devo mettere in guardia... stai agendo in modo un po' avventato. È una bella donna, d'accordo, ma non farai certo colpo su di lei se...»

«Non è uno scherzo, Jonas, ho bisogno subito di quel numero.»

«Va bene... attendi in linea.»

I due erano amici da abbastanza anni perché Faukman capisse quando Langdon parlava seriamente. Inserì il nome di Katherine Solomon in una finestra di ricerca e lanciò la richiesta nel server delle e-mail della casa editrice.

«Lo sto cercando, okay?» lo rassicurò poi. «E, per quel che può valere, quando la chiami sarà meglio che non lo fai dalla piscina di Harvard. Sembra che tu sia finito in una gabbia di matti.»

«Non sono in piscina. Sono in un tunnel sotto il Campidoglio.»

Dal tono di voce Faukman capì che Langdon non stava scherzando. Che cosa gli ha preso oggi, a questo qui? «Robert, perché non te ne resti tranquillo a casa a scrivere?» Il computer emise un suono. «Okay, aspetta...» Fece scorrere la lista delle e-mail. «Sembra che tutto quello che ho sia il numero del cellulare.»

«Dammelo.»

Faukman glielo dettò.

«Grazie, Jonas» disse Langdon in tono riconoscente. «Ti devo un favore.»

«Mi devi un manoscritto, Robert. Hai idea da quanto tempo...»

La comunicazione si era interrotta.

Faukman fissò il ricevitore e scosse la testa. Pubblicare libri sarebbe stato molto più facile senza gli autori.


Katherine Solomon non credeva ai propri occhi quando lesse il nome sul display del cellulare. Aveva immaginato che la telefonata arrivasse da Trish, che la chiamava per spiegarle perché lei e Christopher Abaddon ci stessero mettendo così tanto. Invece non era Trish.

Per niente.

Le affiorò alle labbra un sorriso di piacere. Ci mancava solo questo, fra tutte le stranezze di stasera. Aprì il cellulare.

«Lasciami indovinare» disse in tono scherzoso. «Scapolo secchione cerca scienziata noetica single?»

«Katherine!» La voce profonda era di Robert Langdon. «Grazie a Dio stai bene.»

«Certo che sto bene» rispose lei spiazzata. «A parte il fatto che non mi hai più chiamato dopo la festa a casa di Peter l'estate scorsa.»

«E successo qualcosa, stasera. Ascoltami, ti prego.» La sua voce, solitamente vellutata, sembrava ruvida. «Mi dispiace tanto... ma Peter si trova in guai seri.»

Il sorriso di Katherine svanì. «Di cosa stai parlando?»

«Peter...» Langdon esitò come se stesse cercando le parole giuste. «Non so come dirtelo, ma lui è stato... preso. Non ho ancora idea di come o da chi, ma...»

«Preso? Robert, mi spaventi. Preso... in che senso?»

«Preso prigioniero.» La voce di Langdon si incrinò come se fosse stato sopraffatto dall'emozione. «Dev'essere successo oggi, o forse ieri.»

«Non è divertente» replicò lei irritata. «Mio fratello sta benissimo. Gli ho parlato appena un quarto d'ora fa!»

«Davvero?» Langdon sembrava stupito.

«Sì! Mi ha mandato un messaggio per avvertirmi che sta venendo al laboratorio.»

«Ti ha mandato un messaggio...» pensò ad alta voce Langdon. «Ma non hai sentito la sua voce, vero?»

«No, ma...»

«Ascoltami. Il messaggio che hai ricevuto non l'ha scritto tuo fratello. Qualcuno ha il telefono di Peter. È una persona pericolosa. Chiunque sia, mi ha convinto con l'inganno a venire a Washington stasera.»

«Con l'inganno? Quello che dici non ha senso!»

«Lo so, mi dispiace.» Langdon pareva stranamente disorientato. «Katherine, penso che tu possa essere in pericolo.»

Katherine Solomon era sicura che Langdon non avrebbe mai scherzato su una cosa del genere, eppure sembrava proprio andato fuori di testa. «Sto bene» lo rassicurò. «Sono chiusa dentro un edificio protetto!»

«Leggimi il messaggio che hai ricevuto dal telefono di Peter. Ti prego.»

Perplessa, Katherine richiamò il messaggio e glielo lesse, sentendo un brivido gelido quando arrivò al punto in cui si riferiva al dottor Abaddon. «"Chiedi al dottor Abaddon di raggiungerci se può. Mi fido pienamente di lui..."»

«Oddio...» La voce di Langdon era venata di paura. «Hai invitato quell'uomo nel laboratorio?»

«Sì ! La mia assistente è appena andata all'ingresso a prenderlo. Mi aspetto che tornino da...»

«Katherine, esci di lì!» gridò Langdon. «Subito!»


Dalla parte opposta dell'SMSC, dentro la guardiola della sicurezza, un telefono cominciò a squillare irrompendo nella partita dei Redskins. La guardia, riluttante, si tolse per l'ennesima volta gli auricolari.

«Sicurezza» rispose. «Sono Kyle.»

«Kyle, sono Katherine Solomon!» Dalla voce sembrava angosciata, senza fiato.

«Dottoressa, suo fratello non è ancora...»

«Dov'è Trish? Riesce a vederla sui monitor?»

La guardia girò la sedia con le rotelle per controllare gli schermi. «Non è ancora tornata al Cubo?»

«No!» gridò Katherine, in tono allarmato.

In quel momento la guardia si rese conto che Katherine Solomon era davvero affannata, come se stesse correndo. Cosa sta succedendo laggiù? Si mise subito ad armeggiare con il joystick, facendo scorrere rapidamente le immagini video digitali. «Okay, attenda in linea, sto facendo passare le registrazioni... C'è Trish che esce dall'atrio con il suo ospite... camminano lungo la Strada... Adesso mando avanti velocemente... Okay, sono arrivati all'Acquario... Trish usa la sua chiave magnetica per aprire la porta... entrano nell'Acquario... Mando avanti... Okay, ecco che escono dall'Acquario, appena un minuto fa... si dirigono verso...» La guardia inclinò la testa, rallentando le immagini. «Aspetti un attimo. Questo è strano.»

«Cosa?»

«Il signore è uscito dall'Acquario da solo.»

«Trish è rimasta dentro?»

«Pare proprio di sì. Ora sto guardando il suo ospite... è da solo nel corridoio.»

«Dov'è finita Trish?» chiese Katherine sempre più agitata.

«Non la vedo più sul video» rispose la guardia, con l'ansia che cominciava a insinuarsi nella voce.

Continuò a far scorrere le riprese e notò che l'uomo sembrava avere la manica della giacca bagnata... fino al gomito. Che cosa accidenti ha combinato nell'Acquario?

Lo osservò avanzare a passo sicuro lungo il corridoio principale diretto al modulo 5. In mano stringeva quella che sembrava... una chiave magnetica.

La guardia sentì accapponarsi la pelle.

«Dottoressa Solomon, abbiamo un problema serio.»


Quella era una sera piena di novità per Katherine Solomon.

In due anni, non aveva mai usato il cellulare dentro il vuoto del modulo. Né l'aveva mai attraversato di corsa. In quel momento, invece, aveva il telefono premuto all'orecchio mentre si precipitava alla cieca lungo la passatoia che sembrava non finire mai. Ogni volta che un piede deviava dalla traiettoria, correggeva la direzione riportandosi al centro, sfrecciando nel buio più assoluto.

«Dov'è adesso?» chiese Katherine alla guardia, senza fiato.

«Controllo subito. Vado avanti veloce... Okay, eccolo che cammina nel corridoio... diretto verso il modulo 5...»

Katherine accelerò, sperando di raggiungere l'uscita prima di rimanere intrappolata lì dentro. «Quanto manca perché arrivi all'entrata del modulo 5?»

«Dottoressa, lei non ha capito» spiegò la guardia. «Io sto ancora mandando avanti le immagini. Queste sono registrazioni. Quello che le ho detto è già successo.» Fece una pausa. «Aspetti, mi lasci controllare il monitor con le immagini degli ingressi.» Dopo qualche istante aggiunse: «Dottoressa, la chiave magnetica della signorina Durine è stata usata per accedere al modulo 5 circa un minuto fa».

Katherine frenò di colpo, bloccandosi nel bel mezzo dell'abisso. «È già entrato nel modulo 5?» sussurrò nel cellulare.

La guardia stava digitando freneticamente sulla tastiera. «Sì, sembra proprio che sia entrato... novanta secondi fa.»

Katherine si irrigidì. Smise di respirare. L'oscurità sembrò all'improvviso prendere vita intorno a lei.

È qui dentro con me.

In un istante Katherine si rese conto che l'unica luce in tutto quello spazio proveniva dal suo cellulare, che le illuminava un lato del viso. «Mandi aiuti» sussurrò alla guardia. «E vada all'Acquario a cercare Trish.» Poi chiuse piano il telefono.

Intorno a lei scese l'oscurità.

Rimase immobile e respirò il più silenziosamente possibile. Dopo qualche istante, dal buio di fronte a lei arrivò una zaffata pungente di etanolo. L'odore si faceva via via più intenso. Katherine avvertiva una presenza a pochissima distanza da lei sulla passatoia. Nel silenzio, il suo cuore che martellava sembrava fare tanto rumore da tradirla. Lentamente, si tolse le scarpe e si spostò alla sua sinistra. Il cemento era freddo sotto i piedi. Fece un altro passo di lato per scendere dalla passatoia.

Un dito schioccò.

Nell'immobilità dell'aria sembrò un colpo di fucile.

Da una distanza di appena pochi metri, le giunse un fruscio di vestiti. Katherine scattò con un istante di ritardo e un braccio robusto la toccò, annaspando nel buio, mentre due mani cercavano disperatamente di afferrarla. Lei si voltò e corse via, ma una presa simile a una morsa le agguantò il camice, tirandola e facendola girare su se stessa.

Katherine buttò le braccia all'indietro, sfilandosi il camice per liberarsi. Poi, senza più avere la minima idea di dove fosse l'uscita, si ritrovò a correre alla cieca attraverso un abisso nero e infinito.


Nonostante contenga quella che molti hanno definito "la più bella sala al mondo", la Biblioteca del Congresso è più nota per il suo patrimonio di libri che per lo splendore estetico. Con più di ottocento chilometri di scaffali - abbastanza da coprire la distanza fra Washington e Boston - si può fregiare tranquillamente del titolo di biblioteca più grande della terra. Ed è sempre in espansione, a un ritmo di oltre diecimila titoli al giorno.

Nata per ospitare la collezione personale di volumi scientifici e filosofici di Thomas Jefferson, la biblioteca rappresentava il simbolo dell'impegno dell'America a trasmettere il sapere. Uno dei primi edifici di Washington a essere fornito di luce elettrica, splendeva letteralmente come un faro nell'oscurità del Nuovo Mondo.

Come è implicito nel suo nome, la biblioteca era stata istituita per servire il Congresso, i cui venerabili membri lavoravano nel Campidoglio, dall'altra parte della strada. Il legame secolare fra la biblioteca e il Campidoglio era stato recentemente rinsaldato dalla creazione di un collegamento fisico: un lungo tunnel sotto Independence Avenue che metteva in comunicazione i due edifici.

All'interno di quel tunnel poco illuminato, Langdon seguiva Warren Bellamy attraverso una zona ancora in costruzione, cercando di calmare l'ansia crescente per le sorti di Katherine. Quel pazzo è nel suo laboratorio? Langdon non voleva nemmeno immaginare il motivo. Quando l'aveva chiamata per avvisarla, prima di riappendere le aveva detto esattamente dove si sarebbero incontrati. Quanto è lungo questo dannato tunnel? Gli faceva male la testa, adesso, un torrente in piena di pensieri aggrovigliati: Katherine, Peter, i massoni, Bellamy, le piramidi, un'antica profezia... e una mappa.

Langdon cercò di sgombrare la mente e continuò a camminare. Bellamy mi ha promesso delle risposte.

Quando giunsero finalmente in fondo al sottopassaggio, Bellamy fece strada a Langdon attraverso una porta a due battenti ancora da sistemare. Non trovando il modo per chiuderla a chiave dietro di sé, Bellamy improvvisò. Afferrò una scala di alluminio dagli attrezzi degli operai e ve l'appoggiò in modo precario, mettendovi sopra in equilibrio un secchio di metallo. Se qualcuno avesse aperto la porta, il secchio sarebbe caduto per terra facendo un gran baccano.

E questo sarebbe il nostro sistema d'allarme? Langdon lanciò un'occhiata al secchio appollaiato in cima alla scala e sperò che Bellamy avesse un piano più elaborato per mettersi in salvo quella sera. Era successo tutto troppo in fretta, e lui cominciava solo in quel momento a valutare le ripercussioni della sua fuga con Bellamy. Sono ricercato dalla CIA.

Bellamy, davanti a lui, svoltò un angolo e cominciò a salire un'ampia scalinata il cui accesso era impedito da una serie di birilli arancioni. Langdon era rallentato dal peso della borsa. «La piramide di pietra» disse. «Ancora non ho capito...»

«Non qui» lo interruppe Bellamy. «La esamineremo alla luce. Conosco un posto sicuro.»

Langdon dubitava che esistesse un luogo simile per una persona che aveva aggredito il direttore dell'Office of Security della CIA.

Arrivati in cima alle scale, entrarono in un vasto corridoio di marmi italiani, stucchi e foglie d'oro. Lungo le pareti erano allineate otto coppie di statue, che ritraevano tutte la dea Minerva. Bellamy accelerò il passo, guidando Langdon verso est, attraverso un arco a volta, in uno spazio ancora più grande.

Persino alla luce fioca caratteristica dell'orario di chiusura, l'immenso atrio della biblioteca splendeva della grandiosità di un opulento palazzo europeo.

Venti metri sopra le loro teste, lucernari di vetro istoriato luccicavano nei cassettoni del soffitto, decorati con rare "foglie di alluminio", un metallo che un tempo era considerato più prezioso dell'oro. Sotto, un'imponente fila di doppie colonne si allineava lungo la balconata al primo piano, a cui si accedeva grazie a due magnifiche scalinate; i montanti della balaustra reggevano gigantesche statue femminili in bronzo con in mano la fiaccola della conoscenza.

In un bizzarro tentativo di riflettere questo tema senza contravvenire ai canoni decorativi dell'architettura rinascimentale, nella balaustra delle scale erano stati intagliati dei putti simili a cupidi che rappresentavano scienziati moderni. Un angelo dell'elettricità che tiene in mano un telefono? Un cherubino entomologo con un esemplare in provetta? Langdon si domandò che cosa ne avrebbe pensato Bernini.

«Andremo a parlarne lì» disse Bellamy guidandolo oltre le teche in vetro antiproiettile che contenevano i due libri più preziosi della biblioteca: la grande Bibbia manoscritta di Magonza, risalente al 1450, e la copia americana della Bibbia di Gutenberg, uno dei tre esemplari in pergamena perfettamente conservati esistenti al mondo. Per restare in argomento, nelle volte del soffitto erano dipinte le sei tavole dell'opera di John White Alexander, The Evolution of the Book.

Bellamy si avviò deciso verso un'elegante doppia porta al centro della parete in fondo al corridoio est.

Langdon sapeva quale sala si trovasse al di là, ma non gli sembrava adatta per una conversazione. A parte l'ironia di parlare in un luogo pieno di cartelli con la scritta SI PREGA DI FARE SILENZIO, quello non dava l'idea di essere un "posto sicuro". Situato al centro esatto della pianta cruciforme della biblioteca, rappresentava il cuore dell'edificio. Nascondersi lì dentro era come correre in una cattedrale e sdraiarsi sull'altare.

Invece Bellamy, come se niente fosse, aprì la porta, entrò nella sala buia e cercò a tastoni gli interruttori della luce. Quando li premette, uno dei grandi capolavori dell'architettura americana sembrò materializzarsi dal nulla.

La famosa sala di lettura era un piacere per i sensi. Al suo centro, per quasi cinquanta metri, si innalzava un imponente ottagono i cui lati erano rivestiti di marmo color cioccolato del Tennessee, marmo giallo di Siena e marmo rosso algerino.

Essendo illuminata da otto angolazioni, nella sala non c'erano ombre e l'effetto era che sembrava risplendere di luce propria.

«Alcuni dicono che è la sala più straordinaria di Washington» commentò Bellamy accompagnando dentro Langdon.

Forse addirittura dei mondo intero, pensò Langdon varcandone la soglia. Come sempre, dapprima il suo sguardo fu attirato verso la cornice centrale in alto, da dove si irradiavano file di cassettoni arabescati che rivestivano la cupola fino alla balconata superiore. Tutt'intorno alla sala, sedici statue ritratto in bronzo guardavano giù dalla balaustrata. Sotto di loro, una splendida galleria di archi formava una balconata inferiore. Al livello del pavimento, tre cerchi concentrici di scrivanie in legno lucido si irradiavano dal massiccio banco al centro della sala dove venivano distribuiti i libri.

Langdon tornò a concentrarsi su Bellamy, che stava fissando i doppi battenti della porta per tenerli aperti. «Pensavo che ci dovessimo nascondere» gli disse, confuso.

«Se qualcuno entra nell'edificio» spiegò Bellamy «voglio sentirlo arrivare.»

«Ma qui ci troveranno in un attimo.»

«Ovunque ci nascondiamo, ci troveranno. Ma se ci intrappolano qui dentro, sarai contento che io abbia scelto questo posto.»

Langdon non aveva la minima idea del perché, ma Bellamy non sembrava intenzionato a discuterne con lui. Si stava già dirigendo verso un tavolo di lettura, dove sistemò due sedie e accese una lampada. Poi indicò con un cenno la borsa di Langdon.

«Okay, diamo un'occhiata più da vicino.»

Non volendo graffiare la superficie del tavolo con un blocco di granito, Langdon appoggiò tutta la borsa sul piano, aprì la cerniera e piegò all'esterno i due lembi, scoprendo la piramide.

Warren Bellamy orientò meglio la lampada e la studiò attentamente, facendo scorrere le dita sull'incisione. «Immagino che tu riconosca questi segni.»

«Certo» rispose Langdon osservando i sedici simboli.

Noto come "cifrario massonico", o "cifrario pigpen", quel linguaggio criptato era stato usato per comunicazioni segrete ha i primi fratelli massoni.

Quel sistema di criptografia era stato abbandonato da molto tempo per una semplice ragione: era troppo facile da decifrare.


La maggior parte degli studenti di Langdon all'ultimo anno del seminario di simbologia ci sarebbe riuscita in circa cinque minuti. Lui, con una penna e un pezzo di carta, poteva farcela in meno di sessanta secondi.

La notoria facilità di decrittazione di quello schema presentava nella fattispecie un paio di paradossi. In primo luogo, la pretesa che Langdon fosse l'unica persona al mondo che ci sarebbe riuscita era assurda. In secondo luogo, affermare che un cifrario massonico fosse una questione di sicurezza nazionale, come aveva fatto Sato, era come dire che i codici di lancio dei missili nucleari sono criptati con i dischi cifrati che si trovano nei sacchetti di patatine. Langdon faceva ancora fatica a credere a tutta quella storia. Questa piramide è una mappa? E indica la sapienza perduta dei secoli?

«Robert» disse Bellamy in tono serio «il direttore Sato ti ha messo al corrente del perché le interessa tanto questa piramide?»

Langdon scosse la testa. «Non nei dettagli. Si è limitata a ripetere che era una questione di sicurezza nazionale. Immagino che stia mentendo.»

«Forse» disse Bellamy accarezzandosi la nuca. Sembrava che fosse tormentato da un pensiero. «Ma c'è una possibilità assai più inquietante.» Si voltò per guardare Langdon negli occhi. «Può darsi che il direttore Sato abbia scoperto il vero potenziale di questa piramide.»


L'oscurità che avvolgeva Katherine Solomon sembrava assoluta.

Dopo aver abbandonato la familiare sicurezza della passatoia, ora avanzava annaspando alla cieca, con le braccia tese in avanti che toccavano solo lo spazio vuoto mentre lei si addentrava sempre di più nel nulla desolante. Sotto i piedi scalzi, la distesa infinita del cemento freddo le dava la stessa sensazione di un lago ghiacciato... un ambiente ostile dal quale lei adesso doveva scappare.

Non sentendo più l'odore dell'etanolo, si fermò e aspettò nel buio. Rimase in ascolto immobile, desiderando che il suo cuore la smettesse di battere così forte. I passi pesanti dietro di lei sembravano essersi interrotti. L'ho seminato? Katherine chiuse gli occhi e cercò di immaginare dove si trovasse. In quale direzione sono scappata? Dov'è la porta? Ma era inutile. Aveva girato così tante volte su se stessa che l'uscita avrebbe potuto essere ovunque.

La paura, aveva sentito dire una volta Katherine, agiva da stimolante, affinando le capacità di riflessione. In quel momento, invece, la paura aveva trasformato la sua mente in un vortice di panico e confusione. Anche se trovassi la porta, non potrei uscire. Aveva perso la chiave magnetica quando si era liberata del camice. La sua unica speranza, ormai, era quella di essere come un ago nel pagliaio: un puntino su una griglia di quasi tremila metri quadrati. Malgrado l'irresistibile impulso di scappare, la mente analitica di Katherine le suggerì invece di fare l'unica mossa logica: non muoversi affatto. Resta immobile. Non fare il minimo rumore. La guardia di sicurezza stava arrivando e, per qualche inspiegabile motivo, il suo aggressore puzzava di etanolo. Se si avvicina, me ne accorgo.

Mentre rimaneva lì ferma in silenzio, la sua mente galoppava ripensando a quello che le aveva detto Langdon. Tuo fratello... è stato preso. Sentì una goccia di sudore freddo formarsi sul braccio e colare giù, verso il cellulare che stringeva ancora nella mano destra. Era un pericolo che aveva tralasciato di considerare. Se il telefono avesse squillato, avrebbe rivelato la sua posizione, ma lei non poteva spegnerlo senza aprirlo, e così facendo il display si sarebbe illuminato.

Metti giù il cellulare... e allontanati da lui.

Ma ormai era troppo tardi. L'odore di etanolo le si avvicinava da destra. E diventava sempre più forte. Katherine si costrinse a restare calma, a ignorare l'istinto di mettersi a correre. Con grande attenzione, fece un passo verso sinistra. A quanto pareva, l'aggressore non aspettava altro che di udire il debole fruscio dei suoi vestiti. Lo sentì gettarsi in avanti, e l'odore di etanolo la investì quando una mano robusta le afferrò la spalla. Lei si divincolò, sentendosi invadere da un terrore puro. Ogni considerazione razionale andò a farsi benedire e Katherine si lanciò in una corsa cieca. Girò bruscamente a sinistra, cambiando direzione, gettandosi a occhi chiusi nel vuoto.

Il muro si materializzò dal nulla.

Katherine vi andò a sbattere contro con violenza, rimanendo senza respiro. Il dolore le si diffuse nel braccio e nella spalla, ma lei riuscì a rimanere in piedi. L'angolatura obliqua con cui aveva colpito il muro aveva attutito l'impatto, ma in quel momento era una magra consolazione. Il rumore era riecheggiato ovunque. Lui sa dove sono. Piegata a metà dal male, voltò la testa fissando l'oscurità e sentì che anche lui la stava guardando.

Cambia posizione. Subito!

Sforzandosi di riprendere fiato, cominciò ad avanzare lungo la parete, tastando piano con la mano sinistra ogni bullone d'acciaio che sporgeva. Rimani rasente il muro. Allontanati prima che lui ti metta in trappola. Nella destra stringeva sempre il cellulare, pronta a lanciarglielo addosso, nel caso fosse stato necessario.

Katherine non era affatto preparata al suono che udì in quel momento: il chiaro fruscio di vestiti direttamente di fronte a lei... contro il muro. Si bloccò, trattenendo il fiato. Come fa a essere già arrivato al muro? Sentì un debole sbuffo d'aria impregnato della puzza di etanolo. Sta avanzando verso di me!

Katherine indietreggiò di parecchi passi. Poi, ruotando di centottanta gradi senza fare rumore, iniziò a camminare velocemente nella direzione opposta, sempre seguendo la parete. Aveva fatto una ventina di passi quando avvenne l'impossibile. Di nuovo, proprio di fronte a sé, avvertì un fruscio di vestiti. Poi arrivarono il solito sbuffo d'aria e l'odore di etanolo. Katherine Solomon si irrigidì.

Mio Dio, è dappertutto!


A torso nudo, Mal'akh guardò nell'oscurità.

L'odore di etanolo sulla manica si era rivelato uno svantaggio, ma lui l'aveva trasformato in una risorsa quando si era tolto la giacca e la camicia usandole per mettere all'angolo la sua preda. Dopo avere gettato la giacca contro il muro a destra, aveva sentito Katherine che si fermava e cambiava direzione. Poi, quando aveva lanciato la camicia davanti a sé a sinistra, lei si era fermata di nuovo. Di fatto era riuscito in qualche modo a confinarla stabilendo dei punti che lei non osava oltrepassare.

E ora aspettava, l'orecchio teso nel silenzio. Ha solo una direzione in cui muoversi: verso di me. Malgrado ciò, Mal'akh non udiva il minimo rumore. O Katherine era paralizzata dalla paura, o aveva deciso di rimanere immobile e aspettare che qualcuno arrivasse in suo aiuto. In un caso o nell'altro, è fregata. Sarebbe passato un po' di tempo prima che qualcuno fosse riuscito a entrare nel modulo 5; Mal'akh aveva disabilitato il lettore ottico esterno con una tecnica un po' rude ma molto efficace. Dopo aver usato la chiave magnetica di Trish, aveva conficcato una monetina in fondo alla fessura del lettore per impedire che altri potessero inserirvi la propria tessera.

Io e te da soli, Katherine... per tutto il tempo che ci vorrà.

Mal'akh avanzò, un centimetro alla volta, tendendo l'orecchio per cogliere il minimo rumore. Katherine Solomon sarebbe morta quella sera nell'oscurità del museo di suo fratello. Una fine poetica.

Mal'akh non vedeva l'ora di riferire a Peter la notizia della morte della sorella. L'angoscia di Peter sarebbe stata la tanto agognata vendetta.

D'un tratto Mal'akh vide nel buio, con sua grande sorpresa, un leggero bagliore in lontananza e capì che Katherine aveva commesso un errore fatale. Sta telefonando per chiedere aiuto? Il display che si era appena acceso era sospeso all'altezza della vita, circa una ventina di metri davanti a lui, come un faro in un vasto oceano nero.

Lui si era preparato ad aspettare Katherine, ma adesso non ce ne sarebbe stato più bisogno.

Scattò in avanti di corsa e si lanciò, le braccia pronte ad afferrarla, ben sapendo che doveva bloccarla prima che lei riuscisse a chiamare i soccorsi.

Le dita di Mal'akh urtarono violentemente il muro massiccio, piegandosi fino quasi a spezzarsi. Poi fu la volta della testa, che si schiantò contro una barra d'acciaio. Lui urlò per il dolore mentre si accartocciava a terra. Imprecando, si rimise in piedi aggrappandosi al montante orizzontale che gli arrivava alla vita e su cui Katherine Solomon aveva astutamente appoggiato il cellulare aperto.


Katherine si era rimessa a correre, stavolta senza preoccuparsi del rumore che faceva la sua mano rimbalzando ritmicamente sui bulloni posti a distanza regolare nella parete del modulo 5. Corri! Se avesse seguito il muro tutt'intorno al modulo, prima o poi avrebbe trovato l'uscita.

Dove diavolo è finita la guardia?

Il succedersi regolare dei bulloni continuava mentre lei correva con la mano sinistra incollata alla parete e la destra tesa in avanti per proteggersi. Quand'è che arriverò all'angolo? Il muro sembrava non finire mai, ma all'improvviso la sequenza dei bulloni si interruppe. La mano sinistra trovò una superficie liscia per parecchi passi, poi i bulloni ricominciarono. Katherine frenò subito e indietreggiò, tastando il pannello liscio di metallo. Perché qui non ci sono bulloni?

Sentiva il suo aggressore che adesso la inseguiva con passo pesante e senza più preoccuparsi del rumore, avanzando a tastoni lungo il muro. Eppure fu un altro suono a spaventarla ancora di più: il tonfo ritmico e distante provocato dalla guardia di sicurezza che batteva la torcia elettrica contro la porta del modulo 5.

La guardia non riesce a entrare?

Anche se quel pensiero la terrorizzò, l'aver localizzato la direzione da cui proveniva quel rumore - in diagonale sulla sua destra - l'aiutò a orientarsi. Quel flash visivo portò con sé un'inattesa intuizione: adesso sapeva che cos'era il pannello liscio nel muro.

Ogni modulo era fornito di un dispositivo che consentiva il passaggio del materiale: un gigantesco muro mobile che poteva essere spostato per trasportare dentro e fuori dal modulo le attrezzature ingombranti. Come quelli degli hangar per gli aerei, anche questo portello era enorme, e Katherine non si sarebbe mai sognata che avrebbe avuto bisogno di aprirlo. Al momento, però, sembrava la sua unica speranza.

Ma riuscirò a muoverlo?

Katherine armeggiò, tastando alla cieca finché trovò la grossa maniglia di metallo. L'afferrò e tirò con tutte le sue forze, cercando di far scivolare il portello. Niente. Provò di nuovo. Quello non si mosse.

Sentì il suo aggressore che ora si avvicinava velocemente, orientandosi grazie al rumore che faceva lei tentando di uscire. Il portello sarà bloccato! In preda al panico, fece scivolare le mani su tutta la superficie cercando un chiavistello o una leva. D'un tratto urtò contro quello che sembrava un paletto verticale. Ne seguì la lunghezza fino al pavimento, accovacciandosi, e sentì che era infilato in un buco nel cemento. Una barra di sicurezza! Si alzò in piedi, afferrò il paletto e, facendo forza con le gambe, lo sollevò estraendolo dal buco.

È quasi qui!

Katherine cercò di nuovo la maniglia e tirò più che potè. Il pannello massiccio sembrò non muoversi affatto, eppure uno spiraglio di chiarore lunare penetrò nel modulo 5. Katherine tentò di nuovo. La lama di luce diventò più ampia. Ancora un po'! Tirò un'ultima volta, sentendo che l'aggressore era ormai a pochi passi di distanza.

Katherine si infilò di fianco nell'apertura. Una mano si materializzò nell'oscurità e l'afferrò cercando di riportarla indietro. Lei si gettò dall'altra parte, inseguita da un braccio nudo e robusto ricoperto di squame tatuate. Quel braccio terrificante si dimenava come un serpente che cercasse di catturarla.

Katherine si girò e corse seguendo il lungo muro esterno del modulo 5. Lo strato di ghiaia che circondava l'intero perimetro dell'SMSC le feriva i piedi malgrado le calze, ma lei continuò a correre in direzione dell'ingresso principale. La notte era scura, tuttavia Katherine, con le pupille dilatate per il buio totale all'interno del modulo 5, ci vedeva perfettamente... quasi fosse giorno. Dietro di lei, il portello si aprì con uno stridio e si sentirono dei passi affrettati che la inseguivano lungo il lato dell'edificio. Sembravano velocissimi.

Non riuscirò mai ad arrivare all'ingresso principale prima di lui. Sapeva che la sua Volvo era più vicina, ma non ce l'avrebbe fatta comunque.

Poi Katherine si rese conto di avere un'ultima carta da giocare.

Mentre si avvicinava all'angolo del modulo 5, sentì i passi che si avvicinavano rapidamente. Ora o mai più. Invece di svoltare, tagliò bruscamente a sinistra, allontanandosi dall'edificio, sull'erba. Nello stesso istante chiuse gli occhi, si mise entrambe le mani sulla faccia e cominciò a correre alla cieca attraverso il prato.

Le luci di sicurezza attivate dal movimento che si accesero intorno al modulo 5 trasformarono all'istante la notte in giorno. Katherine udì un grido di dolore dietro di sé quando i riflettori bruciarono le pupille dilatate dell'aggressore con la loro luce da oltre venticinque milioni di candele. Sentì che l'uomo inciampava sulla ghiaia.

Katherine continuò a correre sul prato con gli occhi chiusi. Quando le sembrò di essere abbastanza lontano dall'edificio e dalle luci, li aprì e corresse la direzione.

Le chiavi della Volvo erano esattamente dove le lasciava sempre, nel vano portaoggetti del cruscotto. Senza fiato, le afferrò con mani tremanti. Il motore si accese con un rombo e i fari illuminarono una scena terrificante.

Una figura mostruosa correva verso di lei.

Katherine rimase immobile per un istante.

La creatura catturata dalla luce dei fari era calva, con il petto nudo e la pelle interamente coperta di squame, parole e simboli tatuati. Ruggì mentre correva con le mani sollevate davanti agli occhi, come una belva delle caverne che vedesse la luce per la prima volta. Katherine allungò la mano sul cambio, ma in un batter d'occhio l'animale la raggiunse e colpì il finestrino dalla sua parte con il gomito, facendole cadere in grembo una pioggia di schegge di vetro.

Un braccio massiccio irruppe attraverso il varco, annaspando alla cieca finché trovò il suo collo. Katherine fece retromarcia, ma il suo aggressore le aveva afferrato la gola e la stringeva con una forza sovrumana. Lei voltò la testa per liberarsi da quella morsa, e all'improvviso si ritrovò a guardarlo in faccia. Quattro strisce scure, come graffi di unghie che avessero rimosso il cerone, rivelavano i tatuaggi nascosti al di sotto. Gli occhi erano feroci e spietati.

«Avrei dovuto ammazzarti anni fa» ringhiò. «La sera che ho ucciso tua madre.»

Mentre il significato di quelle parole si faceva strada in lei, Katherine fu assalita da un ricordo raccapricciante: quell'espressione crudele negli occhi... l'aveva già vista. È lui. Si sarebbe messa a gridare se non fosse stato per la morsa che le serrava la gola.

Affondò il piede sull'acceleratore e la macchina fece un balzo all'indietro, spezzandole quasi l'osso del collo mentre lui veniva trascinato di fianco alla portiera. La Volvo salì sbandando su uno spartitraffico erboso e Katherine sentì il proprio collo che quasi si rompeva sotto il peso dell'uomo. A un certo punto la fiancata fu raschiata da rami d'albero, che sbatterono contro i finestrini laterali, e all'improvviso il peso non c'era più.

La macchina passò attraverso i sempreverdi e finì nel parcheggio in cima alla salita. Katherine frenò di colpo. Sotto di lei, l'uomo seminudo si rimise in piedi barcollando e fissò i fari. Con una calma terrificante, sollevò un braccio coperto di squame e lo puntò contro di lei in un gesto minaccioso.

Katherine si sentì gelare il sangue per la paura e per l'odio mentre girava il volante e dava gas. Qualche secondo dopo, si immetteva sbandando su Silver Hill Road.


Nella concitazione del momento, l'agente Nunez non aveva visto alternative e aveva aiutato l'architetto del Campidoglio e Robert Langdon a scappare. Adesso, però, tornato nel nucleo operativo nel seminterrato, scorgeva grosse nubi che si addensavano all'orizzonte.

Il suo capo, Trent Anderson, si teneva una borsa del ghiaccio sulla testa mentre un altro agente stava medicando le contusioni di Sato. Entrambi erano in piedi con i tecnici della videosorveglianza e stavano rivedendo le registrazioni per cercare di localizzare Langdon e Bellamy.

«Controllate ogni corridoio e ogni uscita» ordinò Sato. «Voglio sapere dove sono andati!»

Mentre guardava, Nunez si sentì male. Sapeva benissimo che era solo una questione di minuti prima che trovassero il video giusto e scoprissero la verità. Li ho aiutati io a scappare. Come se non bastasse, era arrivata una squadra operativa composta da quattro uomini della CIA che scalpitava per lanciarsi all'inseguimento di Langdon e Bellamy. Quei tizi non assomigliavano affatto ai poliziotti del Campidoglio. Erano veri e propri soldati: mimetica nera, visori notturni, armi dall'aspetto futuristico.

A Nunez si strinse lo stomaco. Dopo aver preso finalmente una decisione, si avvicinò a Anderson. «Posso dirle due parole, capo?»

«Cosa c'è?» Anderson seguì Nunez nel corridoio.

«Capo, ho commesso un terribile errore» confessò Nunez sudando. «Mi dispiace e do le dimissioni.» Tanto mi licenzieresti comunque fra qualche minuto.

«Scusa?»

Nuñez deglutì a fatica. «Prima ho visto Langdon e l'architetto Bellamy nel centro visitatori mentre uscivano dall'edificio.»

«Cosa?» sbottò Anderson. «E perché non mi hai avvisato subito?»

«L'architetto mi ha ordinato di non dire una parola.»

«Tu lavori per me, maledizione!» La voce di Anderson rimbombò lungo il corridoio. «Bellamy mi ha fatto sbattere la testa contro un muro!»

Nuñez gli consegnò la chiave che gli aveva dato l'architetto.

«E questa cos'è?» gli chiese.

«La chiave del nuovo tunnel sotto Independence Avenue. Ce l'aveva l'architetto Bellamy. È da lì che sono scappati.»

Anderson rimase a fissare la chiave, ammutolito.

Sato sporse la testa nel corridoio, gli occhi indagatori. «Cosa succede qui fuori?»

Nuñez sentì di essere impallidito. Anderson teneva ancora in mano la chiave e Sato naturalmente la vide. Mentre quella donnetta terribile si avvicinava, Nuñez improvvisò meglio che potè per parare le spalle al suo superiore. «Ho trovato una chiave per terra nel sotterraneo. Stavo giusto chiedendo al mio capo se sa quale porta apra.»

Sato si avvicinò e studiò la chiave. «E il tuo capo lo sa?»

Nuñez lanciò un'occhiata a Anderson, che stava evidentemente soppesando tutte le alternative prima di parlare. Alla fine scosse la testa e rispose: «Non così su due piedi. Dovrei controllare il...».

«Lasci stare» disse Sato. «Questa chiave apre l'accesso a un tunnel che parte dal centro visitatori.»

«Davvero?» esclamò Anderson. «E lei come fa a saperlo?»

«Abbiamo appena trovato la registrazione della sorveglianza. L'agente Nuñez qui presente ha aiutato Langdon e Bellamy a scappare e poi ha richiuso a chiave il tunnel alle loro spalle. È stato Bellamy a dare la chiave a Nuñez.»

Anderson si rivolse a Nuñez fulminandolo con lo sguardo. «E' vero?»

Nuñez annuì energicamente, facendo del proprio meglio per tenergli il gioco. «Mi dispiace, capo. L'architetto mi ha ordinato di non dirlo ad anima viva!»

«Non mi importa un accidente di cosa ti ha ordinato l'architetto!» gridò Anderson. «Mi aspetto che...»

«Ma stia zitto!» lo interruppe Sato. «Siete tutti e due dei bugiardi schifosi. Risparmiate il fiato per l'indagine disciplinare che farà la CIA.» Strappò la chiave del tunnel di mano a Anderson. «Non avete più niente da fare qui.»


Langdon chiuse il telefono sentendosi sempre più in pensiero. Katherine non risponde al cellulare! Gli aveva promesso di chiamarlo non appena si fosse messa in salvo fuori dal laboratorio e fosse salita in macchina per raggiungerlo, ma non l'aveva più sentita.

Bellamy era seduto di fianco a Langdon alla scrivania nella sala di lettura. Anche l'architetto aveva appena fatto una telefonata a un tizio che, secondo lui, avrebbe potuto ospitarli in un posto segreto dove sarebbero stati al sicuro. Sfortunatamente, anche questa persona non rispondeva e così Bellamy aveva lasciato un messaggio in cui chiedeva di richiamare subito sul cellulare di Langdon.

«Continuerò a provare» disse a Langdon «ma per il momento dobbiamo cavarcela da soli. E dobbiamo elaborare un piano per questa piramide.»

La piramide. Per Langdon, lo scenario spettacolare della sala di lettura si era come dissolto e il suo mondo si era ristretto fino a includere soltanto ciò che aveva di fronte: una piramide di pietra, un pacchetto sigillato contenente una cuspide e un elegante afroamericano che si era materializzato dal buio per salvarlo da un sicuro interrogatorio da parte della CIA.

Langdon si era aspettato un briciolo di buonsenso da parte dell'architetto del Campidoglio, invece adesso gli sembrava che Warren Bellamy non fosse molto più razionale di quel folle che sosteneva che Peter era in purgatorio. Bellamy insisteva infatti che quella piramide di pietra fosse, in realtà, la piramide massonica della leggenda. Un'antica mappa che ci guida verso conoscenze straordinarie?

«Warren» disse Langdon in tono cortese «questa idea che esista una specie di antica sapienza in grado di dare agli uomini un grande potere... io sinceramente non riesco a prenderla sul serio.»

Negli occhi dell'architetto c'era un'espressione tanto delusa quanto sincera che rendeva lo scetticismo di Langdon ancora più imbarazzante. «Sì, Robert, avevo immaginato che potessi avere un atteggiamento del genere, ma suppongo che non dovrei esserne sorpreso. Tu consideri la questione dall'esterno. Esistono verità massoniche che percepisci come attinenti al mito perché non sei stato iniziato e preparato a comprenderle.»

Langdon si sentiva trattato con sufficienza. Io non facevo parte dell'equipaggio di Ulisse, ma sono sicuro che quello dei ciclopi è un mito. «Warren, anche se la leggenda fosse vera... questa piramide non può essere la piramide massonica.»

«No?» L'architetto fece scorrere un dito lungo il cifrario sulla pietra. «A me sembra che corrisponda perfettamente alla descrizione. Una piramide di pietra con una cuspide in metallo lucente che, stando alla radiografia di Sato, è proprio quella che ti ha affidato Peter.» Bellamy prese in mano il pacchetto a forma di cubo, soppesandolo.

«Questa piramide di pietra è alta meno di trenta centimetri» ribatté Langdon. «Ogni versione della storia che conosco, invece, descrive la piramide massonica come una struttura enorme.»

Era chiaro che Bellamy aveva previsto quell'obiezione. «Come sai, la leggenda parla di una piramide che si eleva così in alto che Dio stesso può allungare una mano e toccarla.»

«Esattamente.»

«Posso capire il tuo dubbio, Robert, però sia gli antichi misteri sia la filosofia massonica celebrano le potenzialità di Dio all'interno di ognuno di noi. Parlando per simboli, si potrebbe affermare che qualsiasi cosa alla portata di un uomo illuminato... è alla portata di Dio.»

Langdon non fu impressionato da quel gioco di parole.

«Anche la Bibbia concorda su questo» proseguì Bellamy. «Se noi accettiamo, come dice la Genesi, che Dio abbia creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, allora dobbiamo anche accettarne le implicazioni, cioè che l'umanità non è stata creata inferiore a Dio. In Luca 17,20 leggiamo che "il regno di Dio è dentro di voi".»

«Mi dispiace, ma non conosco un solo cristiano che si consideri pari a Dio.»

«Certo che no» disse Bellamy in tono più tagliente. «Perché la maggior parte dei cristiani tiene il piede in due scarpe: vuole poter dichiarare con orgoglio di credere nella Bibbia e al tempo stesso ignorare quelle parti che trova troppo difficili o troppo scomode da osservare.»

Langdon non commentò.

«Comunque» continuò Bellamy «la secolare descrizione della piramide massonica che la raffigura tanto alta da poter essere toccata da Dio ha portato a interpretazioni sbagliate circa le sue dimensioni. Oltretutto, ci fa comodo che induca studiosi come te a insistere che la piramide sia solo una leggenda, così nessuno la cerca.»

Langdon tornò a fissare la piramide di pietra. «Domando scusa se non ti do soddisfazione. Il fatto è che ho sempre pensato alla piramide massonica come a un mito.»

«Non ti sembra perfettamente coerente che una mappa creata da scalpellini muratori fosse intagliata nella pietra? Durante tutte le epoche storiche le nostre più importanti linee guida sono state sempre incise nella pietra, incluse le tavole che Dio diede a Mosè, i Dieci Comandamenti che guidano la condotta umana.»

«Capisco, però si è sempre parlato di leggenda della piramide massonica. Leggenda implica che sia un mito.»

«Sì, leggenda.» Bellamy si mise a ridere. «Temo che tu abbia lo stesso problema di Mosè.»

«Scusa?»

Bellamy sembrava quasi divertito mentre si girava sulla sedia Per indicare il secondo ordine di balconate, dove sedici statue di bronzo li stavano guardando. «Lo vedi Mosè?»

Langdon alzò lo sguardo sulla celebre statua di Mose della biblioteca. «Sì.»

«Ha le corna.»

«Lo so.»

«Ma sai perché le ha?»

Come alla maggior parte degli insegnanti, a Langdon non piaceva che gli si facesse la lezioncina. Il Mosè sopra le loro teste aveva le corna per lo stesso motivo per cui migliaia di immagini cristiane di Mosè le avevano: una traduzione sbagliata del libro dell'Esodo. Il testo originale ebraico diceva che Mosè aveva "karan 'ohr panav", cioè "la pelle del volto che brillava di raggi di luce", ma quando la Chiesa cattolica romana creò la Vulgata, la traduzione ufficiale latina della Bibbia, il traduttore fraintese la descrizione di Mosè e la rese come "cornuta esset facies sua", che significa appunto "la sua faccia era cornuta". A partire da allora, artisti e scultori, temendo ripercussioni se non fossero stati aderenti alle Sacre Scritture, avevano cominciato a raffigurare Mosè con le corna.

«Si è trattato di un semplice errore» ribatté Langdon. «Una traduzione sbagliata da parte di san Girolamo intorno al quinto secolo dopo Cristo.»

Bellamy parve colpito. «Esattamente. Una traduzione sbagliata. E il risultato è... che il povero Mosè sarà per sempre malformato.»

"Malformato" era un modo gentile di esprimere il concetto. Langdon, da bambino, era sempre terrorizzato quando vedeva il diabolico "Mosè cornuto" di Michelangelo, il pezzo forte della basilica di San Pietro in Vincoli a Roma.

«Ho accennato alle corna di Mosè» proseguì Bellamy «per spiegarti come una singola parola, quando venga fraintesa, possa riscrivere la storia.»

E lo vieni a dire a me? pensò Langdon, che aveva imparato la lezione sulla propria pelle a Parigi qualche anno prima. SanGreal: Santo Graal SangReal: sangue reale.

«Anche in questo caso» proseguì Bellamy «la gente ha sentito voci di una leggenda. E l'idea è rimasta. La leggenda della piramide massonica, quindi, è sempre sembrata un mito. Ma la parola "leggenda" si riferiva a qualcos'altro. Era stata fraintesa, proprio come la parola "talismano".» Sorrise. «Il linguaggio può essere molto abile a nascondere la verità.»

«Giusto, ma adesso non ti seguo più.»

«Robert, la piramide massonica è una mappa. E come tutte le mappe ha una legenda, una chiave per capire come leggerla.»

Bellamy prese il pacchetto a forma di cubo e lo terme in mano. «Non vedi? Questa cuspide è la legenda della piramide. È la chiave che indica come leggere il manufatto più straordinario sulla terra... Una mappa che svela il nascondiglio del più grande tesoro dell'umanità: il sapere perduto dei secoli.»

Langdon non fiatò.

«Io affermo umilmente» continuò Bellamy «che la tua torreggiante piramide massonica è... questa... una modesta pietra la cui cuspide d'oro si innalza abbastanza in alto da poter essere toccata da Dio. Abbastanza in alto perché un uomo illuminato possa abbassarsi a toccarla.»

Per parecchi secondi tra i due calò il silenzio.

Langdon provò un inaspettato palpito di eccitazione mentre abbassava gli occhi sulla piramide, vedendola sotto una nuova luce. Il suo sguardo tornò a posarsi sul cifrario massonico. «Ma questo codice... sembra così...»

«Semplice?»

Langdon annuì. «Quasi chiunque potrebbe decifrarlo.»

Bellamy sorrise e recuperò una matita e un foglio di carta per Langdon. «Allora, forse, tu ci potrai illuminare...»

Langdon si sentiva a disagio a leggere quel codice, eppure, considerate le circostanze, sembrava un tradimento minore della fiducia di Peter. Oltretutto, qualunque cosa dicesse l'incisione, lui non riusciva a immaginare che svelasse un qualunque nascondiglio segreto... figurarsi quello del grande tesoro dell'umanità.

Langdon prese la matita e se la batté sul mento mentre studiava il cifrario. Il codice era talmente elementare che quasi non aveva bisogno di scrivere. Tuttavia voleva assicurarsi di non commettere errori, così, ligio al dovere, appoggiò la matita al foglio e iniziò a trascrivere la più comune chiave di decrittazione di un cifrario massonico. Consisteva di quattro griglie - due semplici e due con i puntini - con l'alfabeto che scorreva nell'ordine corretto. Ogni lettera dell'alfabeto adesso era posizionata dentro uno spazio o un "recinto" dalla forma unica. La forma del recinto di ogni lettera diventava il "simbolo" di quella lettera.

Lo schema era così facile da essere quasi infantile.


Langdon diede un'ultima occhiata e poi, sicuro che la chiave di decrittazione fosse corretta, tornò a rivolgere l'attenzione al codice inciso sulla piramide. Per decifrarlo, non doveva far altro che trovare la forma corrispondente sulla chiave di decrittazione e trascriverci dentro la lettera.


Il primo carattere sulla piramide assomigliava a una freccia puntata verso il basso o a un calice. Langdon trovò velocemente il segmento a forma di calice sulla chiave di decrittazione. Era posizionato nell'angolo in basso a sinistra e racchiudeva la lettera S.

Langdon trascrisse " S " .

Il simbolo successivo sulla piramide era un quadrato, senza il lato destro, con dentro un puntino. Questa forma racchiudeva, sulla chiave di decrittazione, la lettera O.

Lui scrisse "O".

Il terzo simbolo era un semplice quadrato che conteneva la lettera E.

Langdon scrisse " E "

SOE...

Continuò, sempre più veloce, finché ebbe completato l'intera griglia.

Alla fine, mentre guardava la trascrizione, Langdon fece un sospiro che esprimeva tutta la sua perplessità. Direi che non è proprio il caso di gridare "eureka".

La faccia di Bellamy mostrava un accenno di sorriso. «Come ben sai, Robert, gli antichi misteri sono riservati solo ai veri illuminati.»

«Giusto» replicò Langdon aggrottando la fronte. A quanto pare, io non ho i requisiti necessari.


In un ufficio nei sotterranei della CIA a Langley, in Virginia, gli stessi sedici caratteri del cifrario massonico brillavano luminosi sul monitor ad alta definizione di un computer. Nola Kaye, analista dell'OS, sedeva da sola nella stanza e studiava l'immagine che le era stata mandata per e-mail dieci minuti prima dal suo capo, il direttore Inoue Sato.

Cos'è, una specie di scherzo? Nola, naturalmente, sapeva che non lo era; Sato non aveva il senso dell'umorismo e i fatti di quella notte erano tutt'altro che divertenti. L'alto grado di security clearance, il nulla osta di sicurezza che Nola aveva all'interno dell'onniveggente Office of Security della CIA, le aveva aperto gli occhi sugli oscuri mondi del potere. Ma ciò di cui era stata testimone nelle ultime ventiquattr'ore aveva cambiato per sempre le sue convinzioni sui segreti custoditi dagli uomini di potere.

«Sì, direttore» stava dicendo adesso Nola sistemandosi la cornetta sulla spalla mentre parlava con Sato. «L'iscrizione è davvero il cifrario massonico, tuttavia il testo decrittato non significa nulla. Sembra una griglia di lettere a caso.» Tornò a guardare il testo decifrato.

«Deve pur voler dire qualcosa» insistette Sato.

«No, a meno che non abbia un secondo livello di criptazione di cui non mi sono accorta.»

«Qualche ipotesi?»

«È una matrice con griglia, quindi potrei passarla con i soliti cifrari... Vigenère, altre griglie... ma non le prometto niente, soprattutto se è un OTP, quello che viene definito "cifrario perfetto" .»



«Fa' quello che puoi. Ma fallo in fretta. Cosa mi dici della radiografia?»

Nola si spostò con la sedia davanti a un altro monitor, che mostrava l'immagine di una borsa passata ai raggi X dalla sicurezza. Sato aveva chiesto informazioni su quella che pareva una piccola piramide dentro una scatola a forma di cubo. Normalmente un oggetto alto qualche centimetro non avrebbe scatenato un caso di sicurezza nazionale, a meno che non si fosse trattato di plutonio arricchito. Non era plutonio. Ma era qualcosa di ugualmente sorprendente.

«L'analisi di densità dell'immagine ha dato una risposta definitiva» spiegò Nola. «Diciannove virgola tre grammi per centimetro cubo. È oro puro. Di grandissimo valore.»

«Qualcos'altro?»

«In effetti, sì. Lo scanner della densità ha rilevato piccole irregolarità sulla superficie della piramide d'oro. È saltato fuori che sull'oro sono incisi dei testi.»

«Davvero?» Sato sembrava speranzosa. «E cosa dicono?»

«Non sono ancora in grado di capirlo. L'iscrizione è molto leggera. Sto cercando di aumentare il contrasto con l'uso di filtri, ma la risoluzione ai raggi X non è buona.»

«Okay, continua a provare. Chiamami quando hai scoperto qualcosa.»

«Va bene, direttore.»

«Ah... Nola?» Il tono di Sato diventò minaccioso. «Come tutto quello che hai appreso nelle ultime ventiquattr'ore, anche le immagini della piramide di pietra e della cuspide d'oro sono classificate al più alto livello di segretezza. Non devi consultare nessuno e riferirai a me direttamente. Vorrei assicurarmi che questo sia chiaro.»

«Certo, direttore.»

«Bene. Tienimi informata.»

Nola si strofinò gli occhi e tornò a guardare gli schermi dei suoi computer con la vista annebbiata per la stanchezza. Non dormiva da trentasei ore e sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto riposare finché la crisi non si fosse conclusa.

Di qualunque cosa si trattasse.


Intanto, nel centro visitatori del Campidoglio, quattro agenti della CIA erano in piedi davanti all'ingresso del tunnel e puntavano il condotto poco illuminato come un branco di cani in bramosa attesa di iniziare la caccia.

Sato si avvicinò a loro, dopo avere concluso una telefonata. Teneva ancora in mano la chiave dell'architetto. «Signori, sono chiari i dettagli della vostra missione?»

«Affermativo» rispose il capo della squadra. «Abbiamo due obiettivi. Il primo è una piramide incisa, alta una ventina di centimetri. Il secondo è un pacchetto più piccolo, a forma di cubo, alto circa otto centimetri. Entrambi sono stati visti per l'ultima volta nella borsa di Robert Langdon.»

«Esatto» disse Sato. «Dovete recuperare in fretta questi due oggetti. Intatti. Avete domande?»

«Indicazioni sull'eventuale uso della forza?»

La spalla di Sato stava ancora pulsando nel punto in cui Bellamy l'aveva colpita con un osso. «Come ho detto, è fondamentale che questi due oggetti siano recuperati.»

«Capito.» I quattro uomini si voltarono e si diressero verso l'oscurità del tunnel.

Sato si accese una sigaretta e li guardò scomparire.


Katherine Solomon in genere guidava con prudenza, ma quella sera lanciò la sua Volvo a quasi centocinquanta chilometri l'ora lungo la Suitland Parkway. Andò a quella velocità per un buon chilometro e mezzo , poi il panico cominciò a scemare e capì che non stava tremando solo di paura.

Dal finestrino infranto entrava una corrente di aria fredda che la investiva come un vento polare. Aveva i piedi ghiacciati. Allungò una mano per prendere le scarpe di riserva che teneva sotto il sedile del passeggero e sentì una fitta alla gola, dove quel mostro l'aveva afferrata con la sua mano possente.

La creatura che le aveva mandato il finestrino in mille pezzi non assomigliava per niente al biondo gentiluomo che si era presentato come Christopher Abaddon. Non aveva la sua folta capigliatura né la sua carnagione abbronzata, ma uno spaventoso campionario di tatuaggi sulla testa rasata e sul petto glabro.

Le parve di risentire la sua voce che sussurrava nel vento. Avrei dovuto ammazzarti anni fa. La sera in cui ho ucciso tua madre.

Rabbrividì, senza più alcun dubbio. Era lui. Non aveva mai dimenticato la luce crudele e violenta nei suoi occhi, così come lo sparo di suo fratello. Peter lo aveva ucciso, lo aveva fatto precipitare in un fiume ghiacciato dal quale non era mai più riemerso. La polizia aveva cercato il suo cadavere per settimane e,non trovandone traccia, aveva deciso che era stato trascinato dalla corrente fino alla Chesapeake Bay.

Si erano sbagliati, Katherine adesso ne aveva la certezza. L'assassino di nostra madre è ancora vivo.

Ed è tornato.

Ripensando a quel giorno terribile, Katherine si sentì prendere dall'angoscia. Era successo dieci anni prima, la vigilia di Natale. Tutta la famiglia - Katherine, Peter e la loro madre - era riunita nell'imponente villa di pietra in Potomac, circondata da ottanta ettari di prati e boschi in cui scorreva il fiume.

Come da tradizione, Isabel Solomon era in cucina, felice di preparare la cena natalizia per i due figli. Aveva settantacinque anni, ma cucinava ancora volentieri. Il profumo di arrosto di cervo in salsa di rape e patate all'aglio faceva venire l'acquolina in bocca. Mentre Isabel spignattava, i figli si rilassavano nel giardino d'inverno parlando dell'ultima passione di Katherine, la scienza noetica. Improbabile mix di moderna fisica delle particelle e antico misticismo, la affascinava grandemente.

Fisica e filosofia fuse in un'unica disciplina.

Katherine raccontava al fratello alcuni esperimenti che le sarebbe piaciuto condurre e gli leggeva negli occhi la curiosità. Le faceva piacere essere riuscita a distrarlo, visto che il Natale era una festa triste per Peter, ricordandogli inevitabilmente la terribile tragedia da cui era stato colpito.

Suo figlio,    Zachary.

Morto a soli ventun anni. Era stato un incubo per tutta la famiglia, e Peter stava ritrovando solo adesso la voglia di sorridere.

Zachary era un ragazzo immaturo, fragile e ribelle. Pur cresciuto nell'agiatezza e circondato dall'amore dei suoi familiari, pareva deciso a prendere le distanze dal "clan dei Solomon". Era stato espulso dalla scuola, frequentava cattive compagnie e si rifiutava testardamente di seguire i saggi e affettuosi consigli dei genitori.

Per il padre era un dolore enorme.

Poco prima che Zachary compisse diciotto anni, Katherine, Peter e Isabel Solomon avevano discusso se lasciare che il ragazzo ricevesse il denaro che gli spettava o attendere che diventasse un po' più adulto. Una tradizione vecchia di secoli voleva infatti che al compimento della maggiore età i figli entrassero in possesso di una congrua fetta del patrimonio di famiglia. I Solomon erano convinti che fosse più utile ereditare quando si ha la vita davanti, piuttosto che alla fine. Era anche grazie a questa tradizione che il patrimonio di famiglia era cresciuto tanto nel corso delle generazioni.

Nel caso specifico, tuttavia, Isabel temeva che potesse essere rischioso affidare una somma di denaro così ingente a un ragazzo tanto difficile. Peter, però, non era d'accordo. "È una tradizione che va avanti da secoli" aveva rimarcato. "Non deve essere interrotta. Per Zachary sarà un modo per rendersi conto delle proprie responsabilità e mettere la testa a posto."

Purtroppo, si sbagliava.

Non appena ricevuto il denaro, Zachary aveva rotto i ponti con i suoi ed era andato via di casa senza portarsi dietro neppure una valigia. I Solomon avevano avuto sue notizie solo alcuni mesi dopo, attraverso i giornali scandalistici: Milionario americano fa vita da playboy in Europa.

I tabloid riferivano con dovizia di particolari le scelleratezze del giovane debosciato: le foto del ragazzo con l'aria sconvolta a bordo di yacht o in discoteca erano dure da digerire per i suoi, ma molto più tragico fu leggere che Zachary era stato arrestato alla frontiera turca mentre tentava di far uscire un grosso quantitativo di cocaina: In carcere il rampollo della famiglia  Solomon.

Zachary era detenuto nel carcere di massima sicurezza di Kartal, alla periferia di Istanbul. Peter, preoccupato per la sua incolumità, si era precipitato in Turchia. Lungi dal riuscire a riportare il figlio negli Stati Uniti, non aveva neppure ottenuto l'autorizzazione a vederlo. Per fortuna, grazie ai contatti che i Solomon avevano al dipartimento di Stato americano, sembrava che gli sarebbe stata presto concessa l'estradizione.

Due giorni dopo il suo ritorno in patria a mani vuote, tuttavia, Peter Solomon aveva ricevuto una telefonata che lo aveva riempito di sgomento. La mattina dopo, i quotidiani titolavano: Ucciso in carcere il giovane Solomon.

Le fotografie erano raccapriccianti, ma i media non si erano fatti scrupoli a mostrarle, anche dopo i funerali, avvenuti in forma rigorosamente privata. La moglie di Peter non gli aveva perdonato di non essere riuscito a riportare a casa Zachary e lo aveva lasciato sei mesi dopo. Peter era rimasto solo.

Erano passati alcuni anni dalla morte di Zachary, quando la famiglia Solomon si era riunita nella villa in Potomac per festeggiare il Natale. Erano ancora addolorati, ma per fortuna il tempo aveva lenito la sofferenza. Mentre Isabel preparava la cena in cucina, Peter e Katherine chiacchieravano amabilmente nel giardino d'inverno, gustandosi del brie in crosta.

Ma un rumore improvviso e totalmente inaspettato li aveva fatti sobbalzare.

"Salute a voi, Solomon" aveva sussurrato una voce alle loro spalle.

Katherine e Peter si erano voltati di scatto trovandosi di fronte un uomo grande, grosso e muscoloso, con un passamontagna nero che gli lasciava scoperti soltanto gli occhi, nei quali brillava una luce feroce.

Peter era balzato in piedi. "Chi è lei? Come ha fatto a entrare?"

"Ho conosciuto tuo figlio Zachary in prigione. Mi ha detto dov'era nascosta la chiave." Con un sorriso, aveva sollevato una vecchia chiave, mostrando i denti. "Un attimo prima di dargli il colpo di grazia."

Peter era rimasto a bocca aperta.

L'intruso aveva tirato fuori una pistola e gliel'aveva puntata al petto. "Siediti."

Peter si era lasciato cadere sulla poltrona.

Mentre l'uomo si muoveva per la stanza, Katherine era rimasta come paralizzata. Quegli occhi che spuntavano dal passamontagna erano rabbiosi, crudeli.

"Senta, chiunque lei sia, prenda quello che vuole e se ne vada!" Peter aveva parlato a voce alta, per mettere sull'avviso la madre che era in cucina.

L'uomo aveva continuato a tenerlo sotto tiro. "Secondo te cosa voglio, eh?"

"Me lo dica lei" aveva replicato Peter. "Non ho contanti, ma posso..."

Il mostro era scoppiato a ridere. "Non insultarmi: non sono qui per i soldi, ma per un'altra cosa. Quella a cui Zachary avrebbe avuto diritto in quanto discendente dei Solomon." Aveva sogghignato. «Me l'ha detto. So della piramide."

La piramide? Katherine era terrorizzata e confusa. Quale piramide?

Peter aveva mantenuto la propria imperturbabilità. "Non so di cosa parla."

"Non fare il furbo con me! Zachary mi ha detto cosa tieni nella cassaforte dello studio. La voglio. Ora."

"Ignoro cosa le abbia detto Zachary, ma forse straparlava" aveva replicato Peter. "Non so a cosa si riferisce."

"Ah, no?" L'uomo si era girato e aveva puntato la pistola contro Katherine. "Nemmeno adesso?"

Peter era sbiancato. "Mi deve credere. Non ho la minima idea di quello che cerca."

"Mentimi ancora una volta e le sparo" aveva minacciato il bruto, avvicinando la pistola alla faccia di Katherine. Poi aveva aggiunto: "Zachary diceva che tieni più a tua sorella che a tutti i tuoi...".

"Cosa succede qui?" aveva gridato Isabel Solomon. Era entrata nel giardino d'inverno con il Browning Citori di Peter puntandolo al petto dell'intruso. Lo sconosciuto si era voltato verso di lei e l'arzilla settantacinquenne aveva premuto il grilletto. Sotto una pioggia di pallini, l'uomo era arretrato traballando e cominciando a sparare a destra e a manca. Aveva urtato contro una vetrata, mandandola in frantumi, e sfondato la porta, perdendo la pistola.

Peter aveva reagito con grande prontezza e l'aveva raccolta. Katherine era caduta per terra e la madre si era precipitata a soccorrerla. Si era inginocchiata vicino a lei. "Mio Dio! Sei ferita?"

Katherine aveva scosso la testa, ammutolita per lo shock. Al di là della vetrata in frantumi, l'uomo con il passamontagna si era rialzato e si era messo a correre verso il bosco, tenendosi il fianco dolorante. Peter aveva guardato velocemente la madre e la sorella per accertarsi che stessero bene e poi si era lanciato all'inseguimento, con la pistola in pugno.

Isabel aveva preso la mano alla figlia. Tremava. "Grazie al cielo stai bene..." Poi si era staccata da lei. "Ma sanguini! Quanto sangue, Katherine! Allora, sei ferita!" Anche Katherine aveva visto il sangue. Tanto sangue. Ne era lorda. Ma non sentiva male da nessuna parte.

Isabel aveva cercato di capire in che punto fosse ferita la figlia. "Dove ti fa male? Dimmelo!"

"Non lo so, mamma. Non ho niente..."

Poi Katherine si era accorta da dove veniva tutto quel sangue e aveva avuto un mancamento. "Non sono io, mamma..." Le aveva indicato la camicetta di raso bianca. C'era un piccolo foro sul fianco dal quale sgorgava sangue a fiotti. Isabel aveva abbassato lo sguardo, confusa, e aveva fatto una smorfia di dolore, quasi avesse sentito male solo nel rendersi conto di essere stata ferita.

"Katherine" aveva detto con voce calma, ma con tutta la fragilità dei suoi settantacinque anni. "Dovresti chiamare un'ambulanza."

Katherine era corsa nell'atrio a telefonare. Quando era tornata nel giardino d'inverno aveva trovato la madre riversa in un lago di sangue. Le si era accucciata accanto e l'aveva presa tra le braccia.

Non sapeva quanto tempo fosse passato quando aveva sentito lo sparo nel bosco, in lontananza. Dopo un po' sulla porta era apparso Peter, con gli occhi stravolti e la pistola ancora in mano. Vedendo la sorella che singhiozzava con la madre esanime tra le braccia, il suo viso si era contorto in una smorfia di dolore. Katherine non avrebbe mai scordato il grido che era echeggiato fra le pareti del giardino d'inverno.


Mal'akh sentì i muscoli tendersi mentre tornava di corsa verso la porta del modulo 5, che era rimasta aperta.

Devo entrare nel laboratorio.

La fuga della scienziata era, oltre che un imprevisto, un grosso problema. Katherine Solomon sapeva non solo dove lui abitava, ma anche chi era veramente: l'intruso che era entrato nella villa della sua famiglia dieci anni prima.

Neanche lui si era scordato di quel Natale. Era arrivato a un passo dal mettere le mani sulla piramide, ma il destino lo aveva ostacolato. Non ero ancora pronto. Adesso invece sì. Era più potente, più influente. Aveva sopportato incredibili sofferenze in preparazione del suo ritorno, ma finalmente era certo che il suo destino si sarebbe compiuto quella notte. Prima dell'alba, avrebbe visto morire Katherine Solomon.

Raggiunse il portellone scorrevole del modulo, cercando di convincersi che Katherine non gli era veramente sfuggita: aveva soltanto rimandato l'inevitabile. Entrò e camminò sicuro nel buio finché i suoi piedi trovarono la passatoia. A quel punto girò a destra e si diresse verso il Cubo. Nessuno bussava più alla porta: con ogni probabilità la guardia stava cercando di rimuovere la monetina che Mal'akh aveva infilato nella fessura del lettore per bloccare la serratura.

Quando fu davanti alla porta del Cubo, Mal'akh cercò a tastoni il pannello esterno e vi inserì la chiave magnetica di Trish. digitò il codice identificativo ed entrò. Le luci erano accese. Fece un giro, stupefatto di fronte a quelle attrezzature tanto sofisticate. Non era immune dal potere della tecnologia: anche lui effettuava ricerche nello scantinato di casa sua e la sera prima aveva ottenuto risultati importanti.

Aveva scoperto la Verità.

Le condizioni di Peter Solomon, prigioniero di un limbo, né di qua né di là, gli avevano permesso di svelare i suoi segreti. Gli vedo l'anima. Aveva messo a nudo verità che già immaginava e altre che lo avevano colto del tutto impreparato, come il laboratorio di Katherine e le sue sconcertanti scoperte. La scienza si sta avvicinando... Ma io non posso permettere che illumini la via agli indegni!

Katherine stava usando la scienza moderna per rispondere a interrogativi filosofici sorti nella notte dei tempi. C'è qualcuno che ascolta le nostre preghiere? Esiste la vita dopo la morte? L'uomo ha un'anima? Incredibilmente, lei aveva trovato risposta a tutte queste domande e a molte altre ancora. In maniera scientifica e conclusiva, con metodi inconfutabili. I risultati dei suoi esperimenti avrebbero convinto anche i più scettici. Se tutto questo fosse stato reso pubblico, la consapevolezza umana sarebbe cambiata in maniera irrevocabile. Tutti troveranno la via... Mal'akh aveva un compito da portare a termine prima della propria trasformazione: evitare che questo accadesse.

Trovò l'archivio di cui gli aveva parlato Peter Solomon e guardò le due unità olografiche oltre gli spessi vetri. Proprio come me le ha descritte. Stentava a credere che il contenuto di quei due parallelepipedi potesse cambiare il corso dell'evoluzione umana. Ma la Verità è da sempre il più potente dei catalizzatori.

Senza staccare gli occhi dalle due memorie elettroniche, estrasse la chiave magnetica di Trish e la inserì nell'apposita fessura. Con sua sorpresa, il pannello non si illuminò. Evidentemente, Trish non era autorizzata ad accedere ai drive. Provò allora con la chiave magnetica che aveva trovato nella tasca del camice di Katherine. Questa volta il tastierino si illuminò.

Il problema, però, era che Mal'akh non aveva il codice di Katherine Solomon. Digitò quello di Trish Dunne, ma la porta non si aprì. Si grattò il mento e studiò la porta di plexiglas, che era spessa sette centimetri e probabilmente non avrebbe ceduto neppure sotto i colpi di un'ascia.

Si era comunque preparato anche a questa evenienza.

Controllò nel magazzino delle scorte e cercò la rastrelliera su cui erano posati alcuni cilindri metallici simili a bombole da sub, proprio come gli aveva descritto Solomon. Sopra c'erano le lettere "L" e "H" con il pedice "2", oltre al simbolo universale delle sostanze infiammabili. Uno di essi era collegato alla cella a combustibile a idrogeno.

Mal'akh non lo scollegò; prelevò invece con grande cautela una delle bombole di riserva, la posò su un carrello vicino alla rastrelliera, uscì dal locale di alimentazione, attraversò il laboratorio e la portò vicino alla porta di plexiglas che proteggeva le due unità di memoria. Probabilmente sarebbe bastato lasciarla lì, ma Mal'akh notò che fra il pavimento e la pesante porta c'era una sottile fessura.

Si avvicinò, inclinò orizzontalmente la bombola e infilò il tubicino di gomma sotto la porta. Impiegò un po' di tempo per rimuovere i sigilli di sicurezza, ma appena ci riuscì aprì la valvola. L'idrogeno, trasparente, cominciò a uscire gorgogliando dal tubo e a spargersi sul pavimento, oltre la porta di plexiglas. Mal'akh lo guardò espandersi per terra, fra bolle e vapori. L'idrogeno si liquefa a temperature bassissime e quando si scalda passa allo stato gassoso, forma ancora più infiammabile. Questo per Mal'akh era un vantaggio.

Ti ricordi il dirigibile Hindenburg?

Mal'akh corse nel laboratorio a prendere un contenitore di combustibile per il becco Bunsen, un olio viscoso altamente infiammabile, e lo portò vicino alla porta dell'archivio dati. Si rallegrò nel vedere che ormai l'idrogeno ricopriva tutto il pavimento del vano in cui erano contenute le unità olografiche e avvolgeva i piedistalli su cui erano posate: il locale si stava riempiendo di gas.

Mal'akh versò una discreta quantità di olio sulla bombola, sul tubo e nello spazio fra la porta e il pavimento. Poi cominciò ad arretrare verso l'uscita, guardingo, lasciando dietro di sé una sottile scia oleosa.


Gli operatori del 911 di Washington quella sera erano indaffaratissimi. Football, birra e luna piena, pensò l'addetta allo smistamento delle chiamate. Le apparve sullo schermo un'altra telefonata, effettuata dal telefono pubblico di una stazione di servizio della Suitland Parkway, ad Anacostia. Sarà un incidente stradale...

«Nove-uno-uno, mi dica» rispose efficiente.

«Sono appena stata aggredita allo Smithsonian Museum Support Center» disse una voce di donna, terrorizzata. «Mandate la polizia, per favore! 4210 di Silver Hill Road!»

«Si calmi, signora» disse l'operatrice. «Deve...»

«Mandate una pattuglia anche a Kalorama Heights, a casa del dottor Abaddon. Penso che mio fratello sia prigioniero lì...»

L'operatrice sospirò. Luna piena...


«Come cercavo di dirti, la piramide contiene più indizi di quello che sembra a prima vista» osservò Bellamy.

Forse. Langdon doveva ammettere che la piramide di granito nella sua borsa aperta aveva un'aria molto più misteriosa, adesso. Aveva decifrato il codice massonico, ottenendo però una griglia di lettere apparentemente senza senso.

Caos.


Langdon la studiò a lungo, alla ricerca di un indizio - parole nascoste, anagrammi, segni di qualche genere -, ma non trovò niente.

«Si dice che la piramide massonica custodisca i suoi segreti nascondendoli dietro più veli» spiegò Bellamy. «Ogni volta che ne scosti uno, te ne trovi davanti un altro. Tu hai scoperto queste lettere, ma per ora non ti suggeriscono niente: significa che devi scostare un altro velo. Solo chi detiene la cuspide sa come farlo. Immagino che la cuspide contenga la chiave per decifrare il codice della piramide.»

Langdon guardò il pacchetto sul tavolo. Se Bellamy aveva ragione, piramide e cuspide rappresentavano un messaggio cifrato diviso in due. La segmentazione dei codici, frequente nella moderna criptologia, in realtà risaliva ai tempi dell'antica Grecia. Quando volevano tenere segrete delle informazioni, infatti, i greci le scrivevano su una tavoletta di argilla che poi rompevano nascondendo i frammenti in posti diversi. Per recuperare il messaggio, a quel punto, occorreva ricomporre le varie parti. La tavoletta spezzata si chiamava "symbolon", termine da cui etimologicamente deriva il nostro "simbolo".

«La piramide e la cuspide sono state tenute separate per generazioni perché il segreto non fosse svelato» osservò Bellamy in tono preoccupato. «Stasera, invece, sono pericolosamente vicine. Non ho bisogno di dire che è nostro dovere evitare in tutti i modi che i due pezzi vengano assemblati.»

Langdon trovava che Bellamy si esprimesse in modo eccessivamente drammatico. Sembra che stia parlando di una bomba atomica e del suo detonatore... Non capiva il suo turbamento, ma c'erano cose più urgenti a cui pensare. «Ammesso che questa sia davvero la piramide massonica, e che contenga le indicazioni per recuperare antiche conoscenze, com'è possibile che queste conoscenze siano in grado di conferire tanto potere a chi ne entra in possesso?»

«Peter mi aveva avvisato che sei un tipo difficile da convincere, uno studioso che ha sempre bisogno di dimostrazioni.»

«Perché, tu ci credi?» Langdon stava perdendo la pazienza. «Con tutto il rispetto, sei un uomo istruito, moderno: come puoi dare credito a certe cose?»

Bellamy gli sorrise, paziente. «La massoneria mi ha insegnato ad avere rispetto per ciò che trascende la comprensione umana. E che non bisogna chiudere la mente e respingere un'idea solo perché sembra prodigiosa.»


La guardia dell'SMSC imboccò di corsa il vialetto di ghiaia che passava intorno all'edificio: aveva appena ricevuto la chiamata di un collega all'interno del complesso, il quale aveva comunicato che la serratura del modulo 5 era stata sabotata e che la spia luminosa dell'uscita di sicurezza indicava che la porta era aperta.

Cosa diavolo sarà successo?

Arrivò al portellone e lo trovò effettivamente socchiuso. Che strano! pensò. Si può aprire soltanto dall'interno. Sganciò la torcia dal cinturone e la puntò nel grande locale buio. Non vide nulla. Non avendo nessuna voglia di addentrarsi in quell'abisso sconosciuto, si limitò ad avvicinarsi alla soglia e illuminò l'interno, prima a sinistra e poi a...

Due mani forzute gli afferrarono il polso e lo tirarono dentro. L'uomo si sentì trascinare da una forza invisibile. C'era odore di etanolo. La torcia gli cadde di mano e, prima di riuscire a capire che cosa stesse succedendo, fu colpito sullo sterno da un pugno violentissimo. Si accasciò a terra, gemendo di dolore, mentre un'enorme sagoma nera si allontanava nell'oscurità.

La guardia era riversa su un fianco e rantolava. La torcia era caduta lì vicino e il fascio di luce illuminava un oggetto metallico. L'etichetta indicava che era un contenitore di combustibile.

La guardia vide brillare la fiamma di un accendino e nel bagliore arancione scorse una creatura a torso nudo che aveva ben poco di umano. Cristo santo! Stava ancora cercando di capire quello che aveva davanti quando il mostro si chinò e avvicinò la fiamma al pavimento.

Immediatamente si accese una scia di fuoco che corse nell'antro buio, allontanandosi da loro. La guardia si voltò e vide che il mostro usciva dal portellone scorrevole e scompariva nella notte.

Cercò di tirarsi su a sedere, nonostante il dolore, senza staccare gli occhi dalla striscia di fuoco. Che cos'era? La fiamma sembrava troppo piccola per costituire un vero pericolo, eppure aveva un che di terrificante. Non gettava più luce soltanto in quel gigantesco antro buio ma, avendolo attraversato ormai quasi tutto, illuminava una struttura tozza, di cemento. La guardia non era mai stata dentro il modulo 5, però sapeva della sua esistenza.

Il Cubo.

Il laboratorio di Katherine Solomon.

La fiamma correva in linea retta verso la porta del laboratorio. L'uomo si alzò faticosamente in piedi, intuendo che la striscia di olio con ogni probabilità proseguiva oltre la porta e arrivava all'interno... Il laboratorio stava per andare a fuoco. Si voltò, preparandosi a correre fuori per cercare aiuto, ma un fortissimo risucchio d'aria lo bloccò sui suoi passi.

Per una frazione di secondo, il modulo 5 risplendette di luce.

La guardia non riuscì a vedere la palla di fuoco che saliva verso l'alto distruggendo il tetto della costruzione e innalzandosi per decine di metri nel buio. Non riuscì più a vedere nemmeno la pioggia di frammenti di rete di titanio, apparecchiature elettroniche e silicio fuso che proveniva dalle unità olografiche.


Katherine Solomon viaggiava in direzione nord quando vide l'improvviso lampo di luce nello specchietto retrovisore. Un terribile boato echeggiò nella notte, facendole fare un salto sul sedile.

Fuochi d'artificio? pensò. Nell'intervallo della partita dei Redskins?

Si concentrò di nuovo sulla strada e ripensò alla chiamata che aveva fatto al 911 dal telefono pubblico della stazione di servizio deserta.

Era riuscita a convincere l'operatrice a mandare la polizia all'SMSC alla ricerca di un uomo tatuato che vi si era introdotto abusivamente e della sua assistente Trish Durine. Sperava proprio che la trovassero. Aveva inoltre chiesto di inviare una pattuglia a casa del dottor Abaddon a Kalorama Heights, dove riteneva che suo fratello fosse tenuto prigioniero.

Purtroppo non era riuscita a rintracciare il numero di cellulare di Langdon. Decise di raggiungerlo alla Biblioteca del Congresso, dove lui le aveva detto di essere diretto.

La scoperta della vera identità del dottor Abaddon cambiava tutto. Katherine non sapeva più cosa pensare. L'unica cosa certa era che l'assassino di sua madre e di suo nipote aveva rapito suo fratello e aveva cercato di ucciderla. Chi è? Cosa vuole? L'unica risposta che le veniva in mente era assurda. Tutto questo per una piramide? Non capiva nemmeno perché quella sera l'uomo fosse andato al laboratorio. Perché non l'aveva uccisa a casa sua quel pomeriggio, se proprio voleva eliminarla? Perché le aveva mandato quell'SMS e aveva corso il rischio di farsi prendere dalle guardie?

I fuochi d'artificio erano stranamente sempre più luminosi: dopo il primo botto, oltre gli alberi era apparsa una palla di fuoco arancione. Che stranezza... C'era anche una nuvola di fumo nero... E lo stadio in cui giocavano i Redskins era da tutt'altra parte. Sbigottita, rifletté su cosa c'era dietro quegli alberi, a sudest della Suitland Parkway.

In quel momento, capì. E fu come se le fosse passato sopra un autotreno.


Warren Bellamy premeva furiosamente i tasti del cellulare, cercando di mettersi in contatto con la persona che avrebbe potuto aiutarli.

Langdon lo guardava, ma i suoi pensieri erano concentrati su Peter e sullo sforzo di capire quale fosse il modo migliore per trovarlo. Mi chiami non appena avrà decifrato la mappa, gli aveva detto il rapitore. Andremo insieme al nascondiglio e faremo il nostro scambio.

Bellamy abbassò il telefonino, affranto: ancora nessuna risposta.

«C'è una cosa che non capisco» disse Langdon. «Anche ammettendo che questa sapienza nascosta esista davvero e che la piramide ci indichi dove è sepolta, cosa devo cercare? Un bunker? Una cripta?»

Bellamy rimase seduto in silenzio per qualche momento, poi fece un sospiro e cominciò a parlare, il più cautamente possibile. «A quanto mi risulta, la piramide dovrebbe guidare a una scala a chiocciola, Robert.»

«Una scala a chiocciola?»

«Sì. Che scende per decine e decine di metri.»

Langdon non riusciva a credere alle proprie orecchie. Si protese in avanti.

«L'antica sapienza sarebbe sepolta lì» aggiunse Bellamy.

Langdon si alzò in piedi e cominciò a passeggiare. Una scala a chiocciola che scende nel sottosuolo di Washington per decine e decine di metri? «E nessuno l'ha mai vista.»

«Si dice che l'ingresso sia protetto da una grande pietra.»

Langdon fece un sospiro. L'immagine di un luogo sotterraneo chiuso da un masso si trovava già nei Vangeli, in relazione al sepolcro di Cristo. Un tipico ibrido archetipo. «Warren, tu credi che questa scala segreta esista sul serio?»

«Io non l'ho mai vista, ma alcuni massoni più vecchi di me giurano che c'è davvero. Sto cercando di contattare proprio uno di loro.»

Non sapendo che cosa dire, Langdon continuò a camminare avanti e indietro.

«Robert, stai rendendo il mio compito ancora più difficile.» Lo sguardo di Bellamy si inasprì. «Io non posso convincere il mio prossimo a credere qualcosa a cui non vuole credere, ma spero che tu ti renda conto delle responsabilità che hai nei confronti di Peter Solomon.»

Sì, ho il dovere di aiutarlo, pensò Langdon.

«Non è indispensabile che tu creda al potere che questa piramide è in grado di svelare, né all'esistenza di una scala a chiocciola che scende fino a chissà dove. Però è indispensabile che tu ti renda conto di avere l'obbligo morale di proteggere questo segreto... qualunque esso sia.» Gli indicò il pacchetto sigillato. «Peter ti ha affidato la cuspide perché si fidava di te e sapeva che gli avresti obbedito, mantenendo il segreto. Ed è questo che devi fare, a costo di sacrificare la vita.»

Langdon si fermò di colpo e si voltò verso di lui. «Che cosa?»

Bellamy rimase seduto. La sua espressione era addolorata, ma risoluta. «Peter vorrebbe così, Robert. Devi dimenticarti di lui. Ormai non c'è più. Ha svolto il suo compito, ha protetto la piramide meglio che poteva. Ora tocca a noi far sì che i suoi sforzi non siano stati vani.»

«Non posso credere che tu mi stia dicendo di abbandonare Peter» esclamò Langdon, furioso. «Anche se questa piramide fosse l'oggetto portentoso che vagheggi, Peter è uno dei tuoi fratelli. Non hai giurato di proteggere i tuoi fratelli prima di Qualsiasi altra cosa, patria compresa?»

«No, Robert. Per un massone i fratelli vengono prima di tutto, a parte il grande segreto che la fratellanza custodisce per l'umanità. Non ha importanza se io credo o no che questa sapienza Perduta abbia il potenziale che la storia lascia intendere, ma ho fatto voto di tenerla lontana da chi non ne è degno. Non lascerò che qualcuno se ne impossessi... neppure in cambio della vita di Peter Solomon.»

«Conosco molti massoni, anche di grado elevato» protestò Langdon. «E sono sicurissimo che non hanno giurato di dare la vita per una piramide di pietra. Sono sicurissimo anche che nessuno di loro crede all'esistenza di una scala a chiocciola che porta a un tesoro sepolto nelle viscere di Washington.»

«Ci sono cerchie all'interno di altre cerchie, Robert: non tutti sanno tutto.»

Langdon sbuffò, cercando di non perdere la pazienza. Aveva sentito parlare anche lui di logge coperte all'interno della massoneria. Ma che esistessero o no gli sembrava irrilevante, al momento. «Warren, se questa piramide e questa cuspide sono davvero la chiave del più grande segreto della massoneria, perché Peter si sarebbe rivolto a me? Non sono massone, e men che meno faccio parte di una cerchia di eletti.»

«Lo so. Penso che ti abbia scelto proprio per questo. E già successo che qualcuno abbia cercato di impossessarsi della piramide, anche persone entrate nella fratellanza per motivi indegni. Quella di affidarla a un profano è stata una scelta intelligente.»

«Tu sapevi che avevo io la cuspide?» domandò Langdon.

«No. E se Peter avesse mai voluto condividere questa informazione, penso proprio che l'avrebbe svelata solo a una persona.» Prese il telefono e riprovò a chiamare. «Ma finora non sono riuscito a contattarla.» Scattò la segreteria telefonica e Bellamy chiuse la comunicazione. «Ho l'impressione che saremo costretti ad affrontare questa situazione da soli, Robert. Devo prendere una decisione.»

Langdon guardò il suo orologio di Topolino: erano le nove e quarantadue. «Ti rendi conto che il rapitore di Peter aspetta che io decifri la mappa e gli dia le coordinate entro stanotte?»

Bellamy si accigliò. «In passato uomini illustri si sono sacrificati per proteggere gli antichi misteri. Anche io e te dobbiamo farlo.» Si alzò in piedi. «Andiamo via: prima o poi Inoue Sato scoprirà dove siamo.»

«E Katherine?» protestò Langdon, che non voleva andarsene. «Non ha più chiamato e io non riesco a contattarla.»

«Sarà successo qualcosa.»

«Non possiamo abbandonarla!»

«Dimenticati di Katherine» ribatté Bellamy in tono imperioso. «Di lei, di Peter, di tutti! Non capisci che ti è stato affidato un compito più importante di noi: di me, di te, di Peter, di Katherine?» Lo guardò negli occhi. «Dobbiamo nascondere piramide e cuspide in un posto sicuro, lontano da...»

Si sentì un fragore metallico.

Bellamy si voltò di scatto. Aveva gli occhi pieni di paura. «Hanno fatto presto.»

Langdon si girò verso la porta. Doveva essere caduto il secchio che Bellamy aveva posato sulla scala a pioli davanti alla porta del tunnel. Ci hanno trovato.

Poi, inaspettatamente, il rumore riecheggiò.

E poi di nuovo.

E ancora.


Il senzatetto sulla panchina davanti alla Biblioteca del Congresso si sfregò gli occhi e osservò la strana scena.

Una Volvo bianca era appena salita a gran velocità sul marciapiede e aveva inchiodato davanti all'ingresso della biblioteca. Una bella donna mora era scesa di corsa, si era guardata in giro e, vedendolo, gli aveva chiesto: "Ha un telefono, per cortesia?".

Non ho neanche tutte e due le scarpe...

La donna, capita la situazione, salì su per le scale.

Arrivata in cima, afferrò la maniglia e cercò disperatamente di aprire le tre enormi porte.

La biblioteca è chiusa, signora mia.

La donna non demordeva. Si aggrappò a uno dei maniglioni rotondi, lo sollevò e lo sbatté con forza contro la porta. Lo fece una volta, due, tre...

Porca miseria, pensò il senzatetto. Deve aver proprio una gran voglia di leggere...


Quando Katherine Solomon vide finalmente aprirsi il pesante portone di bronzo della biblioteca, si sentì travolgere dalle emozioni. La paura e lo smarrimento che si era tenuta dentro fino allora ebbero il sopravvento.

Nell'atrio c'era Warren Bellamy, amico e confidente di suo fratello. Ma dietro di lui, nell'ombra, c'era la persona che più le faceva piacere incontrare. Evidentemente, la cosa era reciproca: anche Langdon sembrava sollevato di vederla lì, che entrava nella biblioteca e... gli si gettava fra le braccia.

Mentre i due vecchi amici si stringevano, Bellamy chiuse la porta. Katherine udì scattare la serratura e si sentì al sicuro. Per quanto si sforzasse, non riuscì più a trattenere le lacrime.

Langdon la rassicurò. «È tutto a posto» le sussurrò. «Sei in salvo...»

Mi hai salvato tu, avrebbe voluto dirgli Katherine. Quel mostro mi ha distrutto il laboratorio. Anni di ricerca andati in fumo... Avrebbe voluto raccontargli tutto, ma le mancava il fiato.

«Troveremo Peter.» La voce profonda di Langdon la confortò. «Te lo prometto.»

So chi è stato! avrebbe voluto gridare. Lo stesso che ha ucciso mia madre e mio nipote! Prima che potesse parlare, però, un rumore ruppe all'improvviso il silenzio della biblioteca.

Era forte, e la sua eco proveniva dal basso. Era il rumore di un grosso oggetto di metallo che cade su un pavimento di piastrelle Langdon si irrigidì.

Bellamy fece un passo avanti, con aria turbata. «Andiamo via. Presto!»

Katherine seguì Langdon e l'architetto del Campidoglio fuori del grande atrio, in direzione della famosa sala di lettura, che era illuminata. Bellamy chiuse a chiave le due porte: quella esterna e quella interna.

Poi li fece andare al centro della sala, verso un tavolo da lettura. Katherine vide che vi era posata sopra una borsa di pelle con accanto un pacchetto di forma cubica. Bellamy lo prese e lo mise nella borsa, insieme a...

Katherine non credeva ai suoi occhi. Una piramide?

Sebbene non l'avesse mai vista, la riconobbe subito. Lo sapeva: era l'oggetto che le aveva rovinato la vita. Katherine Solomon aveva davanti a sé la leggendaria piramide massonica.

Bellamy chiuse la cerniera e consegnò la borsa a Langdon. «Non perderla di vista neppure per un attimo.»

Le porte esterne vibrarono per un'esplosione. Pochi istanti dopo si sentì un rumore di vetri infranti.

«Da questa parte!» Bellamy si voltò di scatto, spaventato, e corse verso il banco della distribuzione al centro della sala ottagonale. C'erano otto postazioni di lavoro intorno a un grande mobile centrale. Bellamy indicò loro una porticina nel mobile. «Infilatevi lì dentro!»

«Lì dentro?» chiese Langdon stupefatto. «Ci troveranno di sicuro!»

«Fidati di me» replicò Bellamy. «Non è come pensi.»


Mal'akh lanciò la limousine verso Kalorama Heights. L'esplosione nel laboratorio di Katherine Solomon era stata più devastante del previsto, e lui era stato fortunato a uscirne indenne. Aveva approfittato della confusione per fuggire indisturbato ed era sfrecciato come un razzo oltre la guardiola, dove l'addetto alla sicurezza parlava concitato al telefono.

Devo togliermi dalla strada, pensò. Anche ammesso che Katherine non l'avesse ancora chiamata, la polizia sarebbe di certo intervenuta. E uno che guida una limousine a torso nudo non passa inosservato.

Dopo tanti anni di preparazione, gli sembrava incredibile essere arrivato alla sera fatidica. Era stato un percorso lungo e difficile. Il viaggio iniziato tanti anni fa nella disperazione stasera finirà in gloria.

Era cominciato tutto ai tempi in cui lui non si chiamava ancora Mal'akh. Quella sera non aveva neppure un nome: era semplicemente il detenuto numero 37. Come quasi tutti gli altri prigionieri del brutale carcere di Kartal, a Istanbul, era stato condannato per possesso di sostanze stupefacenti.

Era steso sulla branda in una cella di cemento, affamato, infreddolito, al buio, e si chiedeva quanto tempo ancora sarebbe dovuto rimanere lì dentro. Il suo nuovo compagno di cella, conosciuto solo ventiquattr'ore prima, dormiva nella branda sopra di lui. Il direttore del carcere, un ciccione alcolizzato che detestava il proprio lavoro e sfogava la frustrazione sui detenuti, aveva appena spento le luci per la notte.

Erano quasi le dieci quando il detenuto numero 37 aveva sentito l'eco di due voci nel condotto di ventilazione. Una era chiaramente quella stridula e prepotente del direttore, che non doveva aver gradito di essere stato scomodato a quell'ora da un visitatore. "Ho capito che ha fatto un sacco di strada, ma per tutto il primo mese le visite sono vietate" stava dicendo. "E il regolamento, e non si fanno eccezioni."

L'altra voce, bassa e raffinata, era piena di angoscia. "Vorrei che mio figlio non corresse rischi."

"È un drogato."

"Lo state trattando bene?"

"Abbastanza. Non siamo al grand hotel."

C'era stata una piccola pausa. "Il dipartimento di Stato americano chiederà l'estradizione, lei lo sa."

"Sì, sì. Succede sempre. Verrà concessa, ma la pratica richiede quindici giorni, un mese... dipende."

"Da cosa?"

"Be', sa, il personale è insufficiente" aveva risposto il direttore. E, dopo un attimo di silenzio, aveva aggiunto: "Naturalmente, a volte le persone come lei fanno una piccola donazione, per incentivare i dipendenti ad accelerare le procedure".

Il visitatore non aveva risposto.

"Signor Solomon, per uno come lei, che non ha problemi di soldi, la soluzione si trova sempre" aveva continuato il direttore, abbassando la voce. "Io ho dei contatti. Se ci mettiamo d'accordo, io e lei, potrei far uscire suo figlio... anche domani, come se niente fosse successo. Prosciolto completamente. Non verrebbe processato nemmeno in patria."

La risposta dell'altro era stata immediata. "A parte il fatto che quello che lei mi sta proponendo è illegale, mi rifiuto di passare a mio figlio il messaggio che il denaro possa risolvere qualsiasi problema. Bisogna imparare ad assumersi le proprie responsabilità, specie in casi gravi come questo."

"Vuole lasciarlo qui?"

"Voglio parlargli. Subito."

"Gliel'ho detto, è vietato dal regolamento. Suo figlio non può avere contatti con lei... a meno che lei non voglia negoziare la sua scarcerazione immediata."

C'era stato un lungo silenzio. "La contatterà il dipartimento di Stato. Mi aspetto che Zachary non corra alcun rischio. Prevedo che tornerà in America entro una settimana. La saluto."

E aveva sbattuto la porta.

Il detenuto numero 37 non credeva alle sue orecchie. Che razza di padre lascia il figlio in questo posto infernale per dargli una lezione? A Peter Solomon era stata offerta la possibilità di far prosciogliere Zachary e aveva detto di no.

Quella notte, mentre vegliava insonne nella sua cella, il detenuto numero 37 aveva ideato un piano per riconquistare la libertà. Se fra lui e la scarcerazione c'era di mezzo soltanto una mazzetta, allora sarebbe uscito presto. Peter Solomon non aveva voluto pagare, ma chiunque leggesse i giornali sapeva che anche suo figlio Zachary era ricco. Il giorno dopo chiese un colloquio privato con il direttore e gli suggerì un piano. Era un'idea un po' azzardata ma geniale, ed entrambi avevano tutto da guadagnarci.

"Zachary Solomon dovrà morire, ma noi scompariremo subito dalla circolazione" aveva spiegato il detenuto numero 37. "Lei potrebbe ritirarsi su qualche isola greca e non tornare mai più qui dentro."

Il colloquio era andato avanti ancora un po' e si era concluso con una stretta di mano.

Zachary Solomon presto morirà, aveva pensato il detenuto numero 37. E aveva sorriso all'idea che sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Due giorni dopo, il dipartimento di Stato aveva informato i Solomon della terribile tragedia. Le foto scattate nel carcere mostravano il cadavere, massacrato di botte, piegato su se stesso nella cella, la testa sfondata da una sbarra di acciaio, il corpo martoriato dalle percosse, irriconoscibile. Il ragazzo doveva essere stato torturato a lungo, prima di morire. I maggiori sospetti si appuntavano sul direttore del carcere, che era scomparso nel nulla, probabilmente con tutti i soldi del giovane. Prima di morire, infatti, Zachary aveva firmato un'autorizzazione al trasferimento della sua intera fortuna su un conto privato, che era stato subito svuotato. Non si sapeva dove fossero finiti tutti quei soldi, ma si presumeva che li avesse intascati il direttore prima di fuggire.

Peter Solomon era partito immediatamente per la Turchia con un jet privato e aveva riaccompagnato in patria la salma del figlio perché venisse seppellita nella tomba di famiglia. Il direttore del carcere non era stato più ritrovato. E mai lo sarebbe stato, come il detenuto numero 37 ben sapeva. Il suo cadavere era finito in fondo al Mare di Marmara, in pasto ai granchi azzurri che migravano lì dal Bosforo. La fortuna di Zachary Solomon era stata versata su un conto cifrato irrintracciabile. Il detenuto numero 37 era di nuovo libero. Libero e ricco.

Le isole della Grecia gli erano parse un paradiso. La luce, il mare, le donne...

Con i soldi si può comprare qualsiasi cosa: nuove identità, nuovi passaporti, nuove speranze. Si era scelto un nome greco, Andros Dareios. Andros significa "guerriero" e Dareios "ricco". Le lunghe notti in prigione gli avevano messo paura e Andros aveva giurato a se stesso di non tornarci mai più. Si era tagliato i capelli e aveva smesso di assumere qualsiasi tipo di droga. Aveva cominciato una nuova vita, scoprendo piaceri inimmaginabili. Veleggiare in solitaria nelle acque blu dell'Egeo gli dava più soddisfazione dell'eroina, addentare arni souvlakia direttamente dallo spiedino gli procurava più piacere dell'ecstasy e tuffarsi dalle scogliere più alte di Mykonos gli dava più brivido della cocaina.

Sono rinato.

Aveva acquistato una splendida villa sull'isola di Syros, dandosi alla bella vita nell'esclusiva Posidonia. Quel nuovo ambiente era frequentato da gente facoltosa che apprezzava anche la cultura e la bellezza fisica. Le persone curavano molto sia il corpo sia la mente, e questo atteggiamento era contagioso. Andros faceva jogging sulla spiaggia, prendeva il sole e si dedicava alla lettura. Aveva divorato l'Odissea di Omero rimanendo affascinato dagli epici duelli tra valorosi guerrieri in armatura. Aveva allora cominciato ad allenarsi con i pesi e si era stupito nel vedere quanto si tonificavano e si ingrossavano i suoi muscoli. Ben Presto le donne avevano iniziato a guardarlo in modo diverso. Essere ammirato era una sensazione inebriante. Andros ambiva a diventare ancora più forte, e lo era diventato. Attraverso l'uso massiccio di anabolizzanti e di ormoni della crescita comprati sottobanco, unito a ore e ore di pesi, era riuscito a trasformarsi in quello che mai aveva creduto di poter diventare: un perfetto esemplare di maschio. La massa muscolare del suo corpo, che manteneva costantemente abbronzato, era aumentata.

Lo guardavano tutti, ora.

Lo avevano avvertito che anabolizzanti e ormoni avrebbero agito non solo sui muscoli, ma anche sulle corde vocali. Gli era venuta una strana voce sussurrata, che contribuiva a dargli un'aura di mistero. Il tono sommesso ed enigmatico, il fisico atletico, le risorse economiche e il suo misterioso passato erano irresistibili per le donne, tutte desiderose di gettarglisi fra le braccia: modelle in trasferta di lavoro, studentesse americane in vacanza, mogli frustrate dei vicini... talvolta perfino qualche ragazzo. Andros era l'amante che tutti cercavano.

Sono un capolavoro.

Con il passare degli anni, però, quel genere di avventure aveva cominciato ad annoiarlo. Come tutto il resto, peraltro. Gli squisiti sapori della cucina greca erano diventati insipidi, i libri si erano fatti meno interessanti e perfino i tramonti dalla terrazza della sua villa avevano perso colore. Com'è possibile? Non aveva ancora venticinque anni e già si sentiva vecchio. Cos'altro può offrirmi la vita? Aveva scolpito il proprio corpo trasformandolo in un capolavoro, si era fatto una cultura, era andato a stare in un paradiso e poteva avere tutte le donne che desiderava.

Eppure, incredibilmente, si sentiva vuoto come quando era in prigione in Turchia.

Che cosa mi manca?

Aveva avuto la risposta diversi mesi dopo. Era notte, e Andros, solo nella sua villa, faceva distrattamente zapping quando si era imbattuto in un documentario sulla massoneria. Non era di grande livello e sollevava interrogativi più che dare spiegazioni, ma Andros era rimasto affascinato dalla pletora di teorie e illazioni riguardanti la fratellanza. Il commentatore illustrava leggenda dopo leggenda.

I frammassoni e il nuovo ordine mondiale...

Il Gran Sigillo massonico degli Stati Uniti... La loggia P2...

Il segreto perduto della massoneria... La piramide massonica...

Andros si era fatto più attento. La piramide? Il documentario narrava la storia di una misteriosa piramide di pietra dalle iscrizioni cifrate che sì diceva potesse condurre a formidabili poteri e conoscenze perdute. Benché poco plausibile, quella storia aveva fatto riaffiorare nella memoria di Andros un ricordo, risalente a tempi ben più oscuri. Gli era venuto in mente che Zachary Solomon aveva sentito suo padre parlare di una piramide misteriosa.

Possibile? Andros si era sforzato di ricordare.

Alla fine del documentario, era uscito sulla terrazza per prendere una boccata d'aria e concentrarsi meglio. Più ci pensava, più quella leggenda assumeva consistenza. Se la sua intuizione era giusta, Zachary Solomon, benché morto da tempo, aveva ancora qualcosa da offrirgli.

Cosa ho da perdere?

Tre settimane più tardi, dopo aver pianificato tutto con cura, Andros spiava dalla vetrata del giardino d'inverno della villa dei Solomon in Potomac, nel freddo intenso. Peter Solomon chiacchierava e rideva con sua sorella Katherine. Avete fatto presto a dimenticare Zachary, pensò.

Prima di calarsi il passamontagna sul volto, Andros si era fatto una pista di coca, la prima dopo tantissimo tempo, e si era sentito invadere da una familiare sensazione di invincibilità. Impugnata la pistola, aveva aperto la porta con una vecchia chiave ed era entrato nel giardino d'inverno. "Salute a voi, Solomon."

Purtroppo, la serata non era andata come Andros aveva previsto: anziché ottenere la piramide che cercava si era beccato una scarica di pallettoni e aveva dovuto darsi alla fuga, attraversando il prato innevato per rifugiarsi nel bosco. Con sua sorpresa, Peter Solomon lo aveva inseguito, con la pistola in mano. Andros si era infilato fra gli alberi e aveva imboccato un sentiero che correva lungo un burrone. In quel punto il fiume formava una cascata. Aveva oltrepassato un gruppetto di querce e aveva preso il sentiero alla sua sinistra. Pochi secondi dopo, si era fermato appena in tempo sull'orlo del precipizio, rischiando di scivolare sul ghiaccio.

Oh, mio Dio!

Il sentiero finiva lì. Parecchi metri più in giù scorreva il fiume, coperto da uno strato di ghiaccio. Su un masso, lì vicino, era incisa una scritta con mano infantile:

Il ponte di Zach


Dall'altra parte del fiume, il sentiero proseguiva. Dov'è il ponte? L'effetto della cocaina si era esaurito. Sono in trappola! In preda al panico, Andros si era voltato per tornare sui propri passi, ma si era ritrovato di fronte Peter Solomon, con il fiato grosso e la pistola in mano. Vedendolo, Andros aveva fatto un passo indietro. Il fiume doveva essere almeno quindici metri più sotto. Dalla cascata si alzava una nebbia sottile.

"Il ponte di Zach è marcito tanti anni fa" aveva detto Solomon, ansante. "Lui era l'unico a venire fin quaggiù." Solomon teneva la pistola con mano sorprendentemente ferma. "Perché hai ucciso mio figlio?"

"Non valeva niente" aveva risposto Andros. "Era un drogato. Gli ho fatto un favore."

Solomon si era avvicinato, puntandogli la pistola al petto. "Forse dovrei fare lo stesso favore anche a te." Lo aveva detto in tono spietato. "L'hai massacrato di botte. Come può un essere umano fare una cosa del genere?"

"Gli uomini fanno le cose più impensabili quando vengono spinti al limite."

"Tu hai ucciso mio figlio!"

"No" aveva risposto Andros, accalorandosi. "Sei stato tu a ucciderlo. Che razza di padre lascia il proprio figlio a marcire in galera quando ha la possibilità di farlo uscire? È stata colpa tua, non mia."

"Tu non sai niente!" aveva urlato Solomon, la voce piena di dolore.

Ti sbagli, aveva pensato Andros. Io so tutto.

Peter Solomon si era avvicinato ancora di più. Ormai era a pochi metri di distanza da lui, la pistola sempre puntata al suo petto.

Andros provava un bruciore fortissimo al torace e sanguinava. Sentiva scorrere il sangue sull'addome. Aveva guardato il burrone alle sue spalle. No, saltare era impensabile. Si era voltato verso Peter Solomon. "So più cose sul tuo conto di quanto non immagini" aveva sussurrato. "So che non sei uomo da uccidere a sangue freddo."

Peter Solomon aveva fatto un altro passo avanti, prendendo bene la mira.

"Ti avverto" aveva ammonito Andros. "Se premi quel grilletto, non avrai pace."

"Già ora non ho più pace" aveva detto Solomon. E aveva sparato.


Mentre sfrecciava a bordo della sua limousine nera diretto a Kalorama Heights, l'uomo che ora si faceva chiamare Mal'akh rifletteva sulle straordinarie coincidenze che lo avevano salvato da una morte certa. Quell'evento lo aveva completamente trasformato. L'eco dello sparo era durata solo un attimo, ma i suoi effetti si ripercuotevano ancora in quel momento, dopo anni. Il corpo di Mal'akh, un tempo abbronzato e perfetto, era rimasto segnato dalle cicatrici di quel Natale, adesso nascoste sotto i simboli tatuati della sua nuova identità.

Io sono Mal'akh.

Questo è il mio destino.

Aveva attraversato il fuoco, era stato ridotto in cenere ed era risorto... ancora una volta trasformato. Quella sera lo aspettava l'ultima tappa di quel lungo e magnifico viaggio.


L'esplosivo chiamato in gergo Key4 era stato messo a punto dalle forze speciali allo scopo specifico di abbattere porte senza causare troppi danni collaterali. Composto da ciclotrimetilentrinitroammina e dietilesilftalato, un plastificante, era in sostanza un foglietto sottilissimo di C-4 che si poteva inserire negli stipiti delle porte. Nella sala di lettura della biblioteca, funzionò alla perfezione.

Il caposquadra Turner Simkins superò i resti della porta distrutta e osservò la grande sala ottagonale, attento a cogliere il minimo movimento. Nulla.

«Spegnete le luci» ordinò.

Uno dei suoi uomini cercò il pannello degli interruttori e fece precipitare la stanza nell'oscurità. I quattro agenti si abbassarono sul volto i visori notturni, sistemandoseli sugli occhi. Immobili, si guardarono intorno: la sala di lettura appariva adesso di un verde brillante.

Tutto fermo. Nessun movimento.

Nessun tentativo di fuga nel buio.

Nonostante stesse cercando persone che con ogni probabilità erano disarmate, la squadra era entrata nella sala con i fucili spianati. Nel buio, i sottili raggi rossi dei mirini laser apparivano ancora più minacciosi. Si muovevano in tutte le direzioni, sul pavimento, lungo le pareti e le balconate, sondando l'oscurità. Spesso il ricercato, appena li vedeva balenare nel buio, si arrendeva.

Non quella sera, però.

Immobilità assoluta.

L'agente Simkins alzò una mano, ordinando ai suoi di avanzare in ordine sparso. Gli uomini obbedirono in silenzio. Simkins si diresse cauto verso il bancone centrale, premette un interruttore sul visore e attivò il più recente dispositivo aggiuntosi all'armamentario della CIA. La termografia era nota da anni, ma i recenti sviluppi in fatto di miniaturizzazione, sensibilità differenziale e integrazione a doppia sorgente avevano reso possibile una nuova generazione di strumenti capaci di conferire agli agenti sul campo un'acuità visiva che rasentava il sovrumano.

Vediamo nel buio. Vediamo attraverso le pareti... e ora vediamo anche nel passato.

Le apparecchiature di imaging a infrarossi erano ormai così sensibili ai differenziali termici che riuscivano a stabilire non soltanto dov'era una persona, ma anche dove era stata fino a poco prima. La possibilità di "vedere nel passato" era utilissima. E tale si dimostrò anche quella sera. L'agente Simkins individuò una traccia termica su uno dei tavoli della sala di lettura. Due sedie di legno risultavano luminescenti, di un rosso violaceo, segno che erano più calde delle altre. La lampada era arancione: evidentemente i due uomini si erano seduti lì. Il problema era capire dove fossero andati dopo.

Simkins trovò la risposta sul bancone intorno al grande mobile di legno al centro della sala: un'impronta di mano color porpora.

Si avvicinò, con il fucile spianato, ed esplorò con il laser tutta la superficie del mobile. Vi girò intorno finché trovò una piccola porta. Si sono nascosti in un armadio? Controllò la zona circostante all'apertura e vide un'altra impronta luminescente: qualcuno si era appoggiato allo stipite mentre si infilava dentro.

Non era più il caso di stare attenti a non fare rumore.

«Traccia termica!» urlò Simkins. «Convergete tutti qui!»

Gli uomini si avvicinarono e si disposero intorno al banco della distribuzione.

Simkins avanzò verso la porticina e vide che lo spazio al di di essa era illuminato. «La luce è accesa!» urlò, sperando che bastasse farsi sentire per convincere Bellamy e Langdon a uscire con le mani alzate.

Non successe niente.

E va bene, faremo nell'altro modo...

Simkins si avvicinò ulteriormente alla porticina e udì una specie di brontolio che proveniva dall'interno: sembrava esserci un macchinario in funzione. Si fermò e cercò di pensare a cosa potesse produrre quel rumore in uno spazio così limitato. Accostò l'orecchio e sentì delle voci. Poi, appena varcata la soglia, la luce si spense.

Grazie mille, pensò, sistemandosi il visore notturno. Così ci date un vantaggio.

Guardò all'interno e si trovò di fronte una vista inaspettata. Quello che gli era sembrato un armadio nascondeva la scala che scendeva in un vano sottostante. Simkins scese, imbracciando il fucile. Il ronzio del macchinario si faceva sempre più forte.

Cosa cavolo è questo posto?

Il vano tecnico sotto la sala di lettura era piuttosto piccolo. A produrre il rumore che Simkins aveva sentito era effettivamente un macchinario. L'agente non sapeva se fossero stati Langdon e Bellamy ad attivarlo o se rimanesse in funzione ventiquattr'ore su ventiquattro. Non che fosse importante accertarlo. I fuggitivi avevano lasciato tracce termiche sull'unica uscita presente: una pesante porta di acciaio sul cui tastierino apparivano quattro chiare impronte rosse. La porta era contornata da un bagliore arancione, a indicare che dall'altra parte la luce era accesa.

«Abbattete la porta!» ordinò Simkins. «Sono scappati di qua!»

Ci vollero otto secondi per inserire e far detonare il Key4. Quando il fumo si disperse, gli agenti si trovarono di fronte a quello strano mondo sotterraneo conosciuto come "il deposito".

La Biblioteca del Congresso aveva chilometri e chilometri di scaffali, la maggior parte dei quali sottoterra. Le lunghissime file di tomi che si diramavano in ogni direzione come un gioco di specchi davano un senso di vertigine.

Un cartello annunciava:

AMBIENTE A TEMPERATURA CONTROLLATA
TENERE LA PORTA CHIUSA


Simkins scavalcò la porta distrutta. Nel sentire la corrente di aria fredda che lo investiva, sorrise. Sempre più facile... Negli ambienti a temperatura controllata le tracce termiche erano luminose come brillamenti solari, e il suo visore già evidenziava una ditata rosso fuoco su una ringhiera a cui Bellamy o Langdon dovevano essersi aggrappati correndo.

"Correte, correte, tanto non vi potete nascondere" sussurrò.

Mentre avanzava con i suoi uomini in quel dedalo di scaffalature cariche di libri, pensava che le condizioni erano talmente favorevoli che probabilmente sarebbe riuscito a catturare le sue prede anche senza visore. A un primo sguardo il deposito della biblioteca poteva sembrare un nascondiglio di tutto rispetto, ma per motivi di risparmio energetico vi era stato installato un sistema di illuminazione a sensori di movimento, per cui la strada percorsa dai fuggitivi risultava adesso luminosa come la pista di un aeroporto. La vivida scia si estendeva serpeggiando tra gli scaffali, fino in lontananza.

Gli agenti si tolsero il visore e si misero a correre lungo la traccia, zigzagando in quel labirinto apparentemente infinito. Dopo un po', Simkins cominciò a vedere davanti a sé un balugino di luci. Stiamo per raggiungervi! Accelerò ancora, finché sentì un respiro affannoso e vide il fuggitivo.

«Avvistato!» urlò ai suoi.

Warren Bellamy doveva essere allo stremo delle forze: barcollava senza fiato tra gli scaffali, in giacca e cravatta. Non puoi farcela!

«Si fermi, signor Bellamy!» urlò Simkins.

Bellamy continuò a correre tra le file di libri. A ogni curva, nuove luci si accendevano sopra la sua testa.

Quando gli agenti furono a una ventina di metri da lui, gli gridarono un'altra volta di fermarsi, ma Bellamy li ignorò.

«Bloccatelo!» ordinò Simkins.

L'agente che imbracciava il fucile non letale prese la mira e fece fuoco. Il "proiettile" che raggiunse Bellamy e gli immobilizzò le ginocchia si chiamava Silly String ed era stato inventato ai Sandia National Laboratories. In schiuma di poliuretano, a contatto con il bersaglio si induriva immediatamente. Veniva definito "inabilitante" e, su un bersaglio in corsa, aveva l'effetto di un bastone fra i raggi di una ruota. Bellamy perse l'equilibrio e cadde faccia a terra, scivolò in avanti ancora per qualche metro e poi si fermò. Le luci sopra di lui si accesero.

«Io penso a Bellamy» urlò Simkins. «Voi cercate Langdon. Dev'essere più avanti...» Si interruppe nel vedere che le luci oltre quel punto erano tutte spente. Evidentemente nel deposito non c'era nessun altro. Bellamy è solo?

L'architetto era bocconi, con ginocchia e caviglie bloccate, e respirava affannosamente. L'agente gli si avvicinò e lo voltò a faccia insù con un piede.

« Dov'è? » gli chiese.

Nella caduta, Bellamy si era tagliato un labbro. «Chi?»

L'agente Simkins alzò il piede e lo posò sull'elegante cravatta dell'architetto del Campidoglio. Si piegò in avanti, premendogli lo scarpone sul petto. «Mi creda, Bellamy, non le conviene fare il furbo con me.»


Robert Langdon aveva la sensazione di essere sepolto vivo.

Era supino, con le braccia incrociate sul petto, nascosto in uno spazio angusto e nel buio più totale. Katherine era poco lontano, più o meno nella stessa posizione, ma lui non la vedeva. Teneva gli occhi chiusi: non voleva sapere cosa aveva intorno.

Era infilato in un cunicolo.

Un cunicolo strettissimo.

Sessanta secondi prima, mentre le porte della sala di lettura della biblioteca venivano abbattute, lui e Katherine avevano seguito Bellamy dentro il mobile al centro del bancone ed erano scesi nel locale sottostante.

Langdon aveva capito subito dove si trovavano. Nel cuore del sistema circolatorio della Biblioteca del Congresso. Il centro di distribuzione dei volumi sembrava la sala dove si ritirano i bagagli in aeroporto, con una serie di nastri trasportatori che scomparivano in direzioni differenti. Poiché la biblioteca occupava tre edifici diversi, i libri da consegnare nella sala di lettura spesso venivano trasferiti grazie a una rete di tapis roulant in tunnel sotterranei.

Bellamy era corso verso una porta di acciaio, aveva inserito la sua chiave magnetica e premuto una serie di tasti per far scattare la serratura. I sensori di movimento, rilevando l'apertura della Porta, erano subito entrati in azione, comandando l'accensione delle luci più vicine.

Quando Langdon aveva visto quello che c'era oltre la porta, aveva capito di avere di fronte qualcosa che solo a pochissimi era concesso vedere: il deposito di libri della Biblioteca del Congresso. Il piano di Bellamy gli era piaciuto subito. Esiste nascondiglio migliore di un labirinto gigantesco?

Bellamy, però, non li aveva invitati a seguirlo. Aveva messo un libro a terra per tenere aperta la porta e si era voltato verso di loro. "Speravo di potervi dare qualche spiegazione in più, ma non c'è tempo." Aveva consegnato a Langdon la sua chiave magnetica. "Questa vi servirà."

"Non vieni con noi?" gli aveva domandato Langdon.

Bellamy aveva fatto cenno di no con la testa. "Se non ci dividiamo, ci prenderanno. La cosa più importante è che piramide e cuspide siano in mani sicure."

Langdon, però, non vedeva altra via di uscita che le scale per tornare nella sala di lettura. "Tu dove vai?"

"Li attirerò nel deposito, lasciando via libera a voi" aveva risposto Bellamy. "Almeno così potrete fuggire." Senza lasciare a Langdon il tempo di chiedere come, aveva tolto una pesante cassa di libri da un nastro trasportatore. "Sdraiatevi qui" aveva detto "e tenete le braccia lungo i fianchi."

Langdon aveva sgranato gli occhi. Non parlerà sul serio? Il nastro trasportatore scompariva in un buco nero nel muro. L'apertura era grande abbastanza da permettere il passaggio di una cassa di libri, non di più. Aveva lanciato uno sguardo disperato verso il deposito.

"No" l'aveva preceduto Bellamy. "Le luci sono attivate da sensori di movimento: non è possibile nascondersi là dentro."

"Traccia termica!" aveva urlato una voce di sopra. "Convergete tutti qui!"

Katherine aveva deciso che non c'era altro tempo da perdere, era salita sul tapis roulant e si era sdraiata con la testa a poca distanza dall'apertura nel muro. Poi aveva incrociato le braccia sul petto, come una mummia nel suo sarcofago.

Langdon era paralizzato.

"Robert!" lo aveva incalzato Bellamy. "Se non lo vuoi fare per me, fallo per Peter."

Le voci al piano di sopra erano sempre più vicine.

Langdon si era avvicinato al tapis roulant, come in trance, ci aveva posato sopra la borsa e ci si era sdraiato, con la testa vicino ai piedi di Katherine. Il nastro di gomma era freddo.

Aveva fissato il soffitto, sentendosi come un paziente che sta per fare una risonanza magnetica.

"Tieni acceso il cellulare" gli aveva detto Bellamy. "Ti chiamerà una persona per offrirti aiuto. Ti puoi fidare."

Mi chiamerà una persona? In effetti Bellamy aveva cercato di mettersi in contatto con qualcuno e gli aveva lasciato un messaggio. Poco prima, mentre scendevano giù per la scala a chiocciola, Langdon aveva visto che l'architetto riprovava un'ultima volta e lo aveva sentito parlare brevemente, sottovoce.

"Restate sul nastro fino alla fine" aveva aggiunto Bellamy. "E scendete di corsa prima che torni indietro. Per uscire, usate la mia chiave magnetica."

"Uscire da dove?" aveva chiesto Langdon.

Ma Bellamy stava già azionando le leve dei nastri trasportatori, mettendoli in moto. Langdon aveva sentito vibrare la gomma sotto la schiena e aveva visto il soffitto muoversi.

Che Dio mi aiuti...

Prima di venire inghiottito dal buco nel muro, aveva lanciato un'ultima occhiata a Bellamy, che varcava di corsa la porta del deposito e se la chiudeva alle spalle. Un attimo dopo era scivolato nelle viscere buie della biblioteca, proprio mentre sulle scale cominciava a danzare il primo raggio rosso del laser.


La guardia giurata dell'istituto di vigilanza Preferred Security controllò l'indirizzo di Kalorama Heights scritto sul modulo. Qui? Il cancello che aveva davanti dava accesso a una delle proprietà più grandi e belle del quartiere: sembrava strano che il 911 avesse appena ricevuto una chiamata urgente che la riguardava.

Quando le segnalazioni non erano confermate, prima di chiamare la polizia il 911 allertava i vigilanti di zona. La guardia lavorava per uno stipendio da fame per una ditta il cui motto era: "La vostra prima linea di difesa", ma che avrebbe benissimo potuto essere: "Falsi allarmi, mitomani, animali smarriti e lamentele di vicini rompiscatole".

Quella sera, come al solito, era intervenuta sul posto senza essere stata informata del motivo della chiamata. Non è di mia competenza. Il suo lavoro consisteva nel presentarsi con i lampeggianti accesi, dare un'occhiata in giro e riferire eventuali anomalie. Nella stragrande maggioranza dei casi qualcosa di assolutamente innocuo aveva fatto scattare l'allarme e bastava resettarlo con un passe-partout. In quella villa, però, non stavano suonando allarmi. Non c'erano luci accese e, dalla strada, sembrava tutto tranquillo.

La guardia suonò il campanello, ma non ottenne risposta. Digitò il codice di emergenza per aprire il cancello ed entrò nel vialetto. Lasciò la macchina in moto con il lampeggiante acceso e si avviò verso la porta principale. Suonò il campanello. Nessuna risposta. Era tutto buio e sembrava non ci fosse nessuno.

Di malavoglia, accese la torcia e si preparò a fare il giro della casa, come voleva la procedura, per controllare porte e finestre e vedere se ci fossero segni di effrazione. Aveva appena svoltato l'angolo, quando sulla strada passò una limousine nera, che rallentò un istante e poi proseguì. Vicini ficcanaso!

La donna completò lentamente il suo giro senza notare niente di strano. La casa era più grande di quanto immaginasse e durante la ricognizione le era venuto un freddo cane. Come aveva previsto, poi, era chiaro che dentro non c'era anima viva.

«Centrale?» disse al walkie-talkie. «Sono all'indirizzo di Kalorama Heights. In casa non c'è nessuno e sembra tutto a posto. Ho appena finito di controllare e non ci sono segni di effrazione. Falso allarme.»

«Ricevuto» rispose il collega. «Buonanotte.»

La guardia si rimise il walkie-talkie alla cintura e si affrettò a tornare alla macchina, infreddolita. Dopo qualche passo, però, si accorse di un particolare che prima le era sfuggito: un barlume di luce azzurrognola sul retro della villa.

Si avvicinò, incuriosita, e notò che proveniva da una finestrella bassa, a lunetta, che con ogni probabilità dava luce allo scantinato. Al vetro era stata applicata una mano di pittura opaca dall'interno. Sarà una camera oscura? Il bagliore azzurrognolo filtrava da un angolino del vetro da cui si era staccata la vernice.

La guardia si accucciò a sbirciare, ma non riuscì a vedere niente. Bussò sul vetro.

«C'è nessuno?» gridò.

Non ottenne risposta. Bussò di nuovo e questa volta dal vetro si staccò una chiazza di pittura più grande, lasciandole vedere l'interno. La donna si protese in avanti, avvicinando la faccia alla finestrella per controllare meglio. E rimpianse subito di averlo fatto.

Oddio! Che roba è?!

Scioccata e inorridita, rimase li ferma ancora un attimo a guardare la scena, poi cercò il walkie-talkie con la mano che tremava.

Non fece in tempo.

I dardi di uno storditore la colpirono alla nuca e tutti i suoi muscoli si contrassero. In preda a un dolore lancinante, cadde a faccia in giù, senza neppure riuscire a chiudere gli occhi.







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