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INTRODUZIONE ALLA SOCIOLOGIA di CRESPI

sociologia



INTRODUZIONE ALLA SOCIOLOGIA di CRESPI


  1. LA SOCIOLOGIA COME SCIENZA DEI FENOMENI SOCIALI

Coniando il termine "sociologia", nella prima metà dell'800, Auguste Comte intese sottolineare che, accanto alle scienze matematico-naturali già affermatesi nei secoli precedenti, era nata una nuova scienza.

Intento di Comte fu quello di fondare la conoscenza dei fenomeni sociali su basi empiriche oggettive allo stesso modo in cui la fisica, la biologia e la fisiologia studiavano le leggi che presiedevano al mondo delle cose. In un primo tempo, Henry de Saint-Simon aveva suggerito per la scienza del sociale i nomi di fisica sociale e di fisiologia sociale; Comte preferì creare sociologia, un neologismo che sottolineava l'autonomia della nuova disciplina rispetto alle altre scienze. Per lungo tempo, lo studio dei fenomeni sociali era avvenuto all'interno del pensiero filosofico, giuridico, morale e teologico: queste forme di pensiero, però, pur partendo dall'esperienza storica concreta delle diverse forme di vita sociale, non erano orientate all'analisi empirica di queste ultime, ma piuttosto a chiarire i principi normativi atti a fondare una società giusta e un ordine sociale stabile e pacifico.



I.    La nascita della politica.

La parola "politica" nasce in Grecia nel momento in cui si formano le prime città-stato (poleis). Nelle forme precedenti di socialità a carattere tribale non era sorto il problema dei fondamenti dell'ordine sociale, dal momento che quest'ultimo era basato da tempo immemorabile su valori mitologici di tipo sacrale e sulla struttura gerarchica dei vincoli di sangue. In quanto unità sociali a struttura poco complessa, le tribù erano "società" relativamente stabili nel tempo. L'intera vita comunitaria era regolata da norme arcaiche che per il loro carattere sacro non potevano essere messe in discussione, ma anzi erano date per scontate. In questo contesto non sorgeva quindi alcuna presa di coscienza rispetto al carattere convenzionale o culturale degli ordini sociali, né si dava una riflessione critica sul vivere sociale come tale. Il fatto di vivere in società comincia a diventare problematico quando iniziano a formarsi, grazie allo sviluppo della navigazione e degli scambi commerciali, le prime poleis o città-stato (vi° sec. a.C.). Il tipo di organizzazione comunitaria di queste nuove unità sociali è fondato su vincoli di solidarietà e di interesse tra gli individui appartenenti alla stessa città. Nella società arcaica l'ordine sociale veniva vissuto come immutabile e di carattere sacro. Nella società democratica della polis l'ordine sociale comincia invece ad apparire come suscettibile di trasformazione in quanto direttamente dipendente dalle capacità conoscitive e dalle qualità morali dei cittadini stessi. Anche se l'individuo continua ad essere visto come parte di un tutto, nel quale non sorge contrapposizione tra libertà individuale ed interesse pubblico, nella polis le forme politiche specifiche di governo e le leggi che regolano la convivenza diventano passibili di critica e di riforma in base a criteri razionali. Nasce così il problema della "politica" (= ciò che riguarda la polis), ovvero di trovare nuove forme di legittimazione per coloro che devono esercitare le funzioni di governo e di definire nuove regole che siano osservate da tutti i cittadini della polis. Platone e Aristotele costituiscono i primi grandi esempi di filosofia politica che influenzeranno fino ai nostri giorni la riflessione sui problemi dell'ordine sociale. All'interno di questa tradizione, il pensiero politico si svolge perlopiù attraverso concezioni razionali astratte; tale riflessione, progressivamente, si sgancia dalle concezioni astratte e cerca soluzioni sulla base di principi di razionalità concreti. Un punto di riferimento privilegiato in questa direzione è costituito soprattutto dal diritto romano (fine xiii° sec. - inizio xiv°), che avrà grande influenza sul pensiero giuridico e politico sviluppato all'interno della stessa chiesa cristiana. L'esigenza concreta di definire in modo più chiaro le competenze relative al potere temporale rispetto a quelle del potere spirituale e di risolvere le possibili contraddizioni tra legge divina e legge naturale, tra etica e politica, tra politica e religione, tra stato e chiesa, favorisce l'affermarsi di una corrente di pensiero che tende a rendersi autonoma rispetto alla concezione religiosa, dando così inizio ad un graduale processo di laicizzazione della filosofia politica.

II.  Giusnaturalismo e contrattualismo.

Questo processo si afferma già durante il Rinascimento, in particolare in Niccolò Machiavelli, autore che esprime la sua volontà di sviluppare in senso tecnico (= oggettivo) l'analisi empirica delle forme storiche di governo e dei problemi nati nella sua epoca dallo scontro di forze politiche e sociali diverse. Ma la vera svolta è rappresentata dalla crisi aperta dalla Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero. Tale evento storico, dissolvendo l'unità religiosa del mondo occidentale, obbliga a cercare nuovi fondamenti razionali della vita sociale e politica che potessero essere condivisi da tutti indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa. È a partire da tale esigenza che Ugo Grozio cercherà di fondare il diritto pubblico in base ad una scienza razionale e deduttiva, ideata in modo da essere valida anche se Dio non esistesse. Giusnaturalismo è dottrina giuridico-politica che sostiene l'esistenza di norme naturali razionali precedenti alla nascita del diritto positivo e del contratto sociale da cui si origina lo Stato. Su basi simili, Thomas Hobbes fonda la teoria contrattualistica delle origini della società. Il presupposto alla base delle concezioni di Grozio e di Hobbes è che il mondo dell'agire umano sia retto da leggi simili a quelle del determinismo dell'ordine naturale. Nel 600 infatti (con Francis Bacon, Galileo Galilei, fino a Isaac Newton) si afferma la tendenza a considerare il sapere scientifico come un sapere oggettivo e anche la filosofia politica e sociale ne vengono influenzate. È sulla base di questa esperienza che troviamo le prime espressioni dell'idea di una conoscenza scientifica della realtà sociale, che verrà ulteriormente affermandosi nel 700 per arrivare fino al concetto di sociologia di Comte. Considerando la società come il prodotto artificiale di un contratto stabilito alle origini dagli stessi esseri umani, Hobbes spiega le origini della realtà sociale in base all'accordo liberamente espresso dagli individui, i quali, per sottrarsi al disordine dello stato di natura come stato a-sociale, avrebbero preferito sottoporsi al comando di un sovrano assoluto. Ne consegue che la società può apparire come un prodotto storico-convenzionale privo di una necessità ontologicamente fondata. Nasce così l'idea che gli esseri umani possono rivedere il contratto originario e formularne uno nuovo: si apre così la prospettiva di una riforma radicale della società che, a partire da John Locke fino agli Illuministi francesi e a Rousseau, ispirerà sia la rivoluzione inglese sia quella francese. La percezione del carattere storico-convenzionale anziché naturale del sociale che viene affermandosi nel 700 è stata influenzata anche da numerosi altri fattori (conoscenza di altri popoli e di altre culture " importanza data al pluralismo e alla diversità delle forme di società e di cultura esistenti nel mondo " maggiore consapevolezza del carattere storico-relativo dei diversi ordinamenti sociali). Se, quindi, Grozio e Hobbes si basavano su un modello matematico-deduttivo (principi universali " casi particolari), nel 700 si va affermando la tendenza a sviluppare il metodo di analisi induttivo (osservazione dei fenomeni particolari " leggi e principi generali). Sulla base di questo metodo si articolano i discorsi filosofici e critici di John Locke e David Hume. Lungo questa stessa linea si orienta la riflessione di Montesquieu: egli formula il proposito di cogliere la relazione che sussiste tra diritto naturale e forme concrete di società, analizzando direttamente le azioni umane per individuare, attraverso la loro infinita varietà, i principi comuni che le reggono ("Lo spirito delle leggi").

III.  L'illuminismo.

Nella stessa prospettiva inaugurata da Montesquieu si colloca la critica nei confronti dei grandi sistemi metafisici dei secoli precedenti che viene sviluppata dagli Enciclopedisti e dagli Illuministi francesi (Diderot, d'Alambert, Voltaire, ..). Tale critica attribuisce la debolezza dei sistemi metafisici alla prevalenza del momento teorico astratto che li caratterizzava e alla mancanza di un'osservazione diretta dei fenomeni particolari concreti. Dando per scontato che l'intera realtà sia retta da leggi razionali, essi ritengono che queste ultime potranno rivelarsi grazie alla progressiva conoscenza empirica dei fatti. Se in Montesquieu l'analisi del rapporto tra principi razionali e forme storiche concrete della vita sembra risolversi armoniosamente in una visione ancora statica della realtà, in Jean-Jacques Rousseau la distinzione tra ciò che appartiene all'ordine della natura e ciò che è invece il prodotto delle condizioni storiche del sociale pone in evidenza il contrasto tra i 2 momenti, in una prospettiva evolutiva nella quale il sociale svolge un ruolo decisivo nella trasformazione dello spirito umano, che sembra così rendersi sempre più autonomo dalle sue origini naturali. La tendenza a sottoporre al metodo scientifico la conoscenza della storia umana era venuta affermandosi anche in Italia, soprattutto grazie al filosofo Giambattista Vico. Così, l'idea della società costruita razionalmente lascia il posto alla società concreta, quale è venuta storicamente formandosi, entro una sostanziale continuità temporale che va dalle "selve" fino alle città e alle "accademie". Proprio questa sostanziale continuità va portata alla luce, esibendone ordine e struttura, ovvero individuando quelle leggi che ne regolano l'andamento. Ciò però non deve indurre a pensare che i mutamenti storici, linguistici e sociali si sviluppino in modo unilineare; anzi, è vero il contrario, visto che tutte le società sono sottoposte a vicende e mutamenti che le fanno oscillare fra decadenza e progresso, fra disordine e ordine. Vico tuttavia individua lo stesso senso universale che caratterizza, secondo lui, l'ordine e la struttura della storia. L'universalità della mente umana viene a tradursi nell'universalità del linguaggio nella quale essa storicamente si sviluppa, dando luogo a 3 dimensioni fondamentali della storia del linguaggio, ciascuna caratterizzata da una diversa facoltà mentale:

quella degli dei   caratterizzata dalla facoltà del senso (propria dell'infanzia)

quella degli eroi caratterizzata dalla facoltà della fantasia

quella degli uomini caratterizzata dalla facoltà della ragione

Vico scorge nella tappa finale della razionalità il risultato più fecondo dello sviluppo della mente umana. La complessa riflessione sul sapere della storia e della società avviata nella prima metà del 700 ha determinato, nella seconda metà del secolo, il grande sviluppo delle ricerche empirico-sperimentali sulle facoltà fisiche e psichiche dell'uomo storico, sviluppo che troverà la sua consacrazione nel programma della Société des Observateurs de l'Homme, fondata nel 1800 in Francia. In tale programma confluiscono i diversi apporti derivanti dagli studi sui costumi e la cultura dei popoli antichi e dal nuovo interesse per la cultura popolare europea, studi che costituiscono i primi esempi di ricerca etnologica (etnologia = scienza che studia i costumi dei popoli). Nella seconda metà del 700, infatti, il modo di fare storiografia conosce anch'esso una profonda trasformazione. Autori come Adam Ferguson e John Millar possono essere considerati veri e propri precursori dell'analisi sociologica. Se Vico aveva colto nello sviluppo storico l'alternanza di corsi e ricorsi, nella seconda metà del 700 va invece affermandosi la concezione unilineare della storia come continuo progresso.

IV.    L'economia politica e l'utilitarismo.

Un altro settore in cui si afferma il proposito di applicare allo studio dell'agire umano un metodo scientifico è costituito dall'economia politica. François Quesnay, considerato uno dei fondatori dell'economia politica, vuole analizzare le società umane come se fossero degli organismi biologici ed interpretare le leggi che regolano il comportamento sociale secondo il modello delle funzioni fisiologiche. In particolare, i fenomeni economici costituiscono per Quesnay un ordine di fatti che obbedisce a principi oggettivi derivanti dalla natura stessa delle cose e come tali universali ed irrevocabili. Il modello ideale dell'economia di mercato, come luogo nel quale il libero gioco degli interessi egoistici degli individui finisce spontaneamente con il dar vita ad un sistema equilibrato ed omogeneo, sembra in grado di fornire allo scienziato sociale una solida base derivante dalla natura stessa dell'agire umano, in quanto espressione di una razionalità capace di calcolare profitti e perdite. Claude-Adrien Helvétius coglie l'origine dell'agire umano nel rifiuto del dolore e nella ricerca del piacere che accompagnano ogni esperienza. La possibilità di regolare le diverse azioni individuali in modo che non siano contrarie all'interesse comune si fonda infatti sulla capacità di collegare sensazioni piacevoli con quelle azioni che sono più utili per l'intera società (attraverso l'educazione e un sistema di distribuzione delle ricompense e delle pene). Si afferma così il modello dell'utilitarismo che considera la società come una coincidenza tra interesse privato e interesse pubblico. Tale modello avrà una grande influenza lungo tutto lo sviluppo del pensiero sociale dell'800 e troverà nuova espressione fino ai nostri giorni anche in quelle teorie sociologiche che si collocano nell'ambito del cosiddetto individualismo metodologico così come nelle teorie della scelta razionale. Tra i più importanti esponenti di tale corrente di pensiero va ricordato l'economista Adam Smith, che considera la società di mercato fondata sul principio del libero scambio come un sistema in grado di autoregolarsi senza bisogno di interventi esterni di natura politica. Le leggi che regolano il sistema sociale non sono infatti di tipo giuridico, bensì sono intrinseche alla stessa natura dei rapporti economici: tali leggi non possono essere imposte dall'esterno, ma devono essere scoperte in base all'analisi scientifica diretta della realtà concreta. Se l'esperienza del pensiero economico liberalista ha senza dubbio influenzato anche le prime formulazioni della sociologia positivista come di quella che, al seguito di Karl Marx, verrà sviluppata nella prospettiva del materialismo storico, la sociologia, sin dall'inizio, ha preso le distanze dall'economia, sottolineando che non è possibile esaurire la complessità delle dinamiche sociali facendo unicamente riferimento ai fattori economici. L'osservazione empirica della realtà sociale mostra infatti come l'agire degli individui è anche determinato da valori di tipo etico-culturale, da componenti emotive e da credenze di tipo ideologico che hanno ben poco a che fare con il sapere razionale.

V.  La sociologia positivista.

Possiamo ora renderci conto del modo in cui, ben prima di Comte, era venuta elaborandosi l'idea di applicare anche allo studio dei fenomeni storico-sociali lo stesso metodo affermatosi nelle scienze matematico-naturali. Occorre tuttavia tener conto che, rispetto a tale tradizione, erano intervenuti nella prima metà dell800 profondi cambiamenti nel modo di concepire la natura e le funzioni dell'analisi scientifica, soprattutto grazie all'influenza del Romanticismo. L'età dell'Illuminismo, come si è detto, era stata caratterizzata prevalentemente dalla critica dei modelli tradizionali del conoscere e dalla denuncia degli ordini di potere costituiti, ma non si è data importanza ai problemi pratici posti dalla costruzione di un nuovo tipo di società. Quest'ultimo infatti sembrava potesse scaturire spontaneamente dal chiarimento razionale. Ma dopo l'esperienza per molti aspetti traumatica della rivoluzione francese, il problema pratico si ripropone; la nuova situazione appare caratterizzata da un vuoto di valori e dall'accentuazione dei conflitti tra vecchie e nuove classi. In particolare, la violenza indiscriminata conosciuta negli anni del Terrore aveva mostrato che i puri principi della razionalità e della pedagogia, promossi dell'Illuminismo, erano insufficienti a fondare un ordine sociale giusto ed armonico e soprattutto aveva scosso la fiducia nel carattere spontaneo della razionalità umana. Le trasformazioni intervenute nella vita sociale richiedevano più complessi strumenti conoscitivi, che solo la scienza sembrava poter offrire: la scienza tuttavia non viene più concepita soltanto come la messa in evidenza dei meccanismi oggettivi sottintesi ai fenomeni politici e sociali; non avrebbe dovuto tener conto solo delle componenti razionali, ma anche di quelle irrazionali ed emotive che in passato venivano regolate dalla morale e dalla religione. Il termine scienza, così come viene usato da Comte e da Saint-Simon, viene a colorarsi di elementi ideologici diversi, influenzati dalle nuove concezioni romantiche della natura e della comunità sociale (Germania, fine 700). Gli esponenti del Romanticismo tedesco:

consideravano la ragione non tanto come intelletto quanto come principio vitale e forza infinita che, unita all'istinto e al sentimento, era operante dialetticamente all'interno della stessa natura e nella storia umana

esprimendo una notevole diffidenza nei confronti dei progressi della tecnica e del lavoro industriale, volevano anch'essi, come gli Illuministi, promuovere sul piano politico la libertà individuale e collettiva, ma, anziché ispirarsi al modello democratico liberale di stampo anglosassone, erano animati da un ideale nazionalistico e da una concezione di tipo organico, sostanzialmente autoritaria, dello Stato

In questo contesto, il problema della ricostruzione di nuove basi della solidarietà sociale porta Saint-Simon e Comte, nonostante il loro positivismo scientifico, a rivalutare romanticamente l'esigenza di nuove forme di religiosità, anche se di tipo laico, atte a fare appello alle dimensioni affettive, non razionali, dei membri della società. Analogamente, anche il pensiero di alcuni teorici conservatori si muoveva nella stessa direzione: ad esempio, il politico e scrittore inglese Edmund Burke aveva contrapposto alla rivoluzione francese, prodotto dell'orgoglio razionalista e sistema creato a partire da una tabula rasa, la costituzione inglese, la cui profonda saggezza non risiedeva, a suo avviso, semplicemente in qualche regola o principio astratto, ma in un complesso di tradizioni, costumi e istituzioni concrete formatesi attraverso i secoli. Tuttavia, era auspicabile da tutti un rinnovamento totale dell'umanità, anche se tutti si rifacevano a modelli del passato. Al contrario, Comte affronta il problema della ricostruzione di un nuovo ordine proiettandosi verso il futuro. Il suo pensiero appare caratterizzato dalla giusta percezione dell'estrema complessità dei processi sociali, che non sono riconducibili, come avevano pensato Montesquieu e gli Illuministi, a principi semplici di razionalità. In particolare, la sociologia comtiana critica gli schemi riduttivi dell'utilitarismo economicista e sottolinea come nella dinamica sociale intervengano rilevanti componenti di tipo emotivo non-razionale. In questa prospettiva, Comte considera la sociologia come scienza sintetica suprema, in grado di abbracciare nel suo insieme l'intera complessità dei fenomeni storico-sociali, alla conoscenza dei quali le altre scienze analitiche forniscono solo contributi parziali. Il positivismo è qui concepito come una dottrina reale e completa: tale dottrina, se avrà completamente coordinato il presente, l'avrà anche collegato all'insieme del passato, in modo da stabilire un'esatta armonia nel sistema totale delle idee sociali, facendo spontaneamente risaltare l'uniformità della vita collettiva dell'umanità. La nuova armonia che nascerà sarà direttamente collegata con l'ordine naturale, essendo l'ordine sociale, artificiale e volontario, il semplice prolungamento di quell'ordine naturale e involontario verso il quale tendono le diverse società umane. In questi passi si evidenzia l'influenza de:

l'idealismo romantico (Hegel) " Hegel aveva esemplificato il processo di trasformazione storica individuando le diverse epoche storiche come momenti dello sviluppo dell'autocoscienza; tale progressione era concepita in termini dialettici, ovvero come costante superamento di momenti fra loro contraddittori in successive sintesi, le quali danno, a loro volta, luogo a nuove contraddizioni fino al compimento della sintesi finale

le teorie evoluzionistiche (Lamark) " per gli evoluzionisti, invece, la storia viene pensata come un processo vitale che procede irreversibilmente verso sempre più complesse forme di vita

Comte distingue 2 ambiti propri della sociologia:

la statica sociale, che analizza gli elementi e le strutture costanti dell'organismo sociale (famiglia, proprietà, religione, linguaggio, forze sociali, ..)

la dinamica sociale, che si riferisce invece alla costante evoluzione dell'organismo stesso, analizzando le leggi e i fattori del progresso sociale

È in questo secondo ambito che Comte elabora la sua teoria dei 3 stadi della storia dell'umanità, secondo un modello che sembra ricalcare in parte lo schema dialettico hegeliano:

il 1° è   lo stadio teologico, nel quale predominavano i teologi e i militari e nel quale l'interesse prevalente della conoscenza era rivolto alla cause ultime, da cui la finzione della divinità " corrisponde all'epoca medievale; l'accento veniva posto sul problema dell'ordine

il 2° è   lo stadio metafisico, nel quale predominavano i filosofi e gli uomini della legge e nel quale il pensiero tende ad essere critico, razionalista e individualista " corrisponde all'epoca che va dal Rinascimento all'Illuminismo; è invece un momento di progresso che, rompendo l'ordine precedente attraverso una critica delle credenze mitiche e teologiche, definisce realtà che saranno alla base di una grande evoluzione, ma determinano di fatto uno stato di anarchia

il 3° è   lo stadio positivo, nel quale predominano gli scienziati e gli industriali, viene abbandonata la ricerca delle cause ultime, si afferma il relativismo e l'attenzione prevalente è dedicata alle leggi che regolano i rapporti fra le cose " corrisponde all'epoca in cui vive Comte; appare come la piena realizzazione di quello spirito che già si manifestava debolmente ai primi tempi dell'umanità e come sintesi di ordine e progresso

È evidente che Comte attribuisce alla scienza positiva e alla sociologia compiti molto ambiziosi, che vanno ben al di là dello studio dei fenomeni sociali concreti. Comte infatti attribuisce alla teoria un valore preminente e, criticando l'empirismo induttivo caro agli Illuministi, considera improduttiva l'accumulazione di conoscenze basate sulla verifica pura e semplice dei fatti. Comte preferisce il metodo ipotetico-deduttivo, nel quale dovrebbero trovare conciliazione sia l'analisi razionale sia quella sperimentale. Nonostante la concezione comtiana della sociologia sia ancora carica di elementi ideologici che fanno della scienza una sorta di nuovo mito, va riconosciuto a Comte il merito di aver tentato di dare un contenuto e un assetto alla nuova disciplina:

la sua distinzione fra statica e dinamica sociale permette di delineare per la prima volta l'oggetto proprio della sociologia

mentre la sua riflessione sul rapporto fra teoria e verifica empirica mostra come Comte abbia compreso che l'osservazione dei fatti acquista il suo significato solo all'interno di un paradigma teorico in grado di evidenziare le relazioni tra differenti aspetti della realtà sociale

Dopo Comte, la teoria sociologica ridimensionerà l'ambizione comtiana volta ad attribuire alla sociologia un nuovo ruolo fondante di sintesi del sapere, ridefinendo l'identità della disciplina entro i più modesti orizzonti di un sapere parziale che contribuisce, con altre forme di sapere, alla conoscenza della complessità della realtà sociale. All'interno della tradizione inaugurata dal positivismo comtiano, sarà soprattutto merito di Emile Durkheim ridefinire l'ambito della sociologia, contribuendo anche a dare alla disciplina una veste istituzionale nell'insegnamento universitario.

VI.  Il materialismo storico.

Il pensiero di Karl Marx, nel quale sono presenti, oltre alla tradizione dell'utilitarismo e dell'economia politica classica, elementi derivanti sia dalla filosofia di Hegel sia dal positivismo comtiano, ha avuto una grande influenza anche sullo sviluppo della sociologia. Marx intende sviluppare una teoria scientifica delle leggi che presiedono alla storia e alla dinamica sociale. L'idea di scienza come sapere oggettivo e neutrale in grado di rispecchiare la realtà, è in Marx simile a quella di Comte. Tuttavia, anziché ispirarsi all'idea di progresso come sviluppo unilineare, Marx adotta il modello dialettico di Hegel, secondo il quale la storia evolve attraverso costanti contraddizioni e conflitti (fino al raggiungimento della sintesi finale). Se Hegel aveva interpretato tale processo come la manifestazione della progressiva autorealizzazione dello spirito assoluto, Marx interpreta invece la dialettica come un principio attivo operante all'interno delle condizioni materiali e degli oggettivi rapporti economici e sociali. Marx pensa, infatti, che l'evoluzione storica e sociale sia determinata dalle contraddizioni oggettive legate alla forze di produzione (= disponibilità delle risorse materiali e tecniche) e ai rapporti di produzione che, di volta in volta, vengono a stabilirsi nelle diverse epoche storiche. La soluzione finale di queste continue contraddizioni corrisponde alla scomparsa del capitalismo e all'avvento della società comunista, o società dei produttori associati, nella quale l'eliminazione della proprietà privata e dei rapporti di potere crea finalmente una società egualitaria, perfettamente integrata. Dal punto di vista sociologico, la teoria dialettica di Marx si caratterizza quindi per il valore dato alla dimensione conflittuale nella dinamica delle relazioni sociali. Se anche il modello dialettico si articola a partire da un'idea della società come totalità, esso concepisce tale totalità, anziché in modo sincronico (come sistema in equilibrio o struttura immutabile), in modo diacronico (come processo in continua trasformazione, il cui movimento è determinato dalle contraddizioni oggettive che emergono nella realtà sociale tra determinate strutture materiali e determinati rapporti sociali). Le strutture materiali sono rappresentate da:

l'insieme delle forze e dei mezzi di produzione, ossia delle risorse materiali disponibili (forze) e dell'insieme delle conoscenze scientifiche e degli strumenti tecnici (mezzi) presenti, in un dato momento storico, in una determinata società

i rapporti di produzione (proprietà dei mezzi di produzione, tipo di rapporti di lavoro interni all'organizzazione produttiva)

il modo di produzione, ossia dall'insieme delle forze, dei mezzi e dei rapporti di produzione che caratterizza il sistema dominante di produzione di una data società (es: l'agricoltura nelle società pre-industriali, l'industria nelle società capitalistiche sviluppate, ..)

Tali diverse dimensioni costituiscono la struttura portante o infrastruttura del sistema sociale. L'infrastruttura, nella concezione marxiana, viene considerata come determinante le forme della sovrastruttura, ovvero l'insieme de:

le rappresentazioni culturali (immagini del mondo, mito, religione, filosofia, ..)

i sistemi normativi (leggi, istituzioni, apparati statali, politici e amministrativi, ..)

presenti nel sistema sociale, e si riflette anche nei contenuti della conoscenza individuale e collettiva (valori, motivazioni, percezione del sé, dell'altro, ..). I cambiamenti che intervengono nelle forze di produzione per effetto dell'attività umana e dello sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle loro applicazioni tecniche, portano a situazioni di scompenso tra la realtà delle condizioni materiali ed economiche e le forme costituite dei rapporti di produzione. Il cambiamento sociale viene quindi inteso come il risultato dell'esplodere delle contraddizioni oggettivamente createsi tra livello infrastruttuale e livello sovrastrutturale. A parte i problemi che solleva il rapporto di causalità unilineare posto da Marx, a partire dall'infrastruttura nei confronti della sovrastruttura, Marx ha avuto il grande merito di sottolineare l'impatto dei diversi elementi infrastrutturali sui processi di trasformazione e sulle caratteristiche assunte dai diversi sistemi sociali, in particolare sui rapporti che intercorrono tra realtà economica e potere politico. Nella prospettiva marxiana, i veri protagonisti dei processi storici di trasformazione sociale non sono gli individui singoli o i gruppi, ma le classi. Marx intende la classe come l'insieme degli individui che, all'interno del sistema strutturato dei rapporti di produzione, si trovano oggettivamente nella stessa posizione. I membri di una classe e le relazioni tra di essi presentano un'omogeneità che si fonda sulle oggettive possibilità di accesso alle risorse economiche e sociali (quantità di reddito percepito, proprietà o meno dei mezzi di produzione, tipo di lavoro, ..). Su questa stessa base di costituiscono anche le forme culturali o sub-culturali proprie della classe, che definiscono lo stile di comportamento di un individuo e i suoi contenuti di coscienza. L'appartenenza di classe è quindi determinata:

in 1° luogo dalla nascita e dal processo di socializzazione dei primi anni di vita (diversità dei modelli di comportamento assimilati, del tipo di istruzione, ..)

in 2° luogo dalle scelte, più o meno obbligate, che un individuo effettua riguardo alla sua attività lavorativa

In quanto fondata su condizioni oggettive, la classe è una realtà che sussiste indipendentemente dalla coscienza che gli individui possono avere di appartenerle: dal punto di vista dell'osservatore esterno, essa è una classe in sé. Quando gli individui che appartengono ad una stessa classe, diventano coscienti della loro comune appartenenza e percepiscono l'identità dei loro interessi, allora si può parlare di classe per sé. Solo quando si sviluppa la coscienza di classe, la classe può diventare un soggetto politico promotore di cambiamenti anche rivoluzionari dell'ordine sociale. In Marx, la lotta di classe viene percepita nei termini dell'antagonismo tra coloro che hanno la proprietà dei mezzi di produzione, i capitalisti, e coloro che non hanno altro che il loro lavoro, i proletari. Si manifesta qui la presenza di 2 anime nella concezione di Marx:

da un lato  il materialismo dialettico, fondato sull'assoluto determinismo dell'infrastruttura materiale, in base al quale l'evolversi dei processi storici è concepito come una fatalità indipendente dalla volontà degli individui

dall'altro    il materialismo storico, che, senza negare il primato dell'infrastruttura, attribuisce alla classe per sé il ruolo di soggetto attivo nel cambiamento dell'ordine sociale

A partire dal determinismo dell'infrastruttura economica sulla sovrastruttura culturale e politica, Marx sviluppa la sua critica delle ideologie. Il termine ideologia era stato usato, verso le fine del 1700, per designare l'insieme delle analisi riguardanti l'origine delle idee, la grammatica, la logica. In quello stesso periodo vengono chiamati idéologues quei filosofi che criticavano le teorie metafisiche dei philosophes, accusandole di essere astratte e fantasiose, in quanto non fondate sull'osservazione empirica e sul calcolo matematico. Un significato critico diverso ha il termine "ideologia" in Marx: egli lo usa per indicare quelle rappresentazioni e razionalizzazioni illusorie della realtà (religione, filosofia, teorie politiche, morali, economiche) che servono ad occultare le contraddizioni di quest'ultima e a legittimare il potere costituito. Dietro ogni forma ideologica dominante è possibile, secondo Marx, cogliere l'interesse delle classi che sono al potere, ed è solo analizzandolo che si rivela la vera natura delle rappresentazioni e delle spiegazioni della realtà naturale e socio-politica. Al pensiero ideologico, Marx contrappone il sapere scientifico, ovvero la sua stessa teoria, in quanto fondata sull'analisi empirica oggettiva. Il concetto positivistico di scienza impedisce a Marx di riconoscere che anche la sua stessa decisione di attribuire ai fattori materiali un ruolo determinante nei fenomeni storico-sociali deriva da presupposti legati a scelte di valore di natura ideologica. La critica delle ideologie inaugurata da Marx resta tuttavia un momento essenziale per lo studio delle relazioni che intercorrono tra prassi sociale (i bisogni e gli interessi degli individui e delle classi) e forme (ideologiche) del sapere e un contributo importante al successivo sviluppo della sociologia della conoscenza. Un altro concetto importante messo in luce da Marx è quello di alienazione. In Marx il concetto di alienazione assume un significato negativo: la situazione di alienazione in cui l'uomo si trova è il risultato dell'economia capitalista, fondata sulla sostituzione del valore d'uso, legato ai bisogni effettivi dell'individuo, con il valore di scambio, che toglie il carattere immediato del rapporto dell'individuo al suo oggetto, estraniando quest'ultimo in quanto puro mezzo di scambio o merce. La produzione, di conseguenza, finisce per imporsi sull'uomo stesso. Per superare l'alienazione, occorre perciò eliminare la proprietà privata e la stessa economia di scambio, restituire al lavoratore il controllo diretto dei mezzi di produzione, ristabilire un rapporto corretto tra attività produttiva e bisogni umani effettivi. L'influenza di Marx è presente, sin dalla fine dell'800, nel pensiero sociologico; nel corso del 900 la teoria marxiana, attraverso i suoi numerosi interpreti, costituirà la base delle diverse teorie sociologiche che, opponendosi al funzionalismo, hanno messo al centro dell'attenzione il problema dei conflitti sociali. Per comprendere il tipo di influenza esercitato dalla teoria dialettica nella sociologia contemporanea, occorre tuttavia tener presenti la 2 diverse anime del marxismo:

da un lato  le teorie marxiste "ortodosse" di tipo naturalistico e deterministico (principali esponenti: Lenin, Stalin, ..)

dall'altro   le diverse forme del marxismo di tipo storicista, "revisionista" e critico

Sono state soprattutto le seconde a sollecitare la riflessione sociologica, mentre il marxismo ortodosso è rimasto, per la sua natura dogmatica connessa a precisi interessi politici, essenzialmente estraneo allo spirito dell'analisi empirica e critica dei fenomeni sociali.

VII.    Lo storicismo tedesco e la distinzione tra scienze della natura e scienze storico-sociali.

Verso la fine dell'800 e nel 900 sono avvenuti profondi cambiamenti nella concezione stessa di scienza. Capire questi cambiamenti ci permette di comprende meglio lo stato attuale della sociologia e le sue finalità, all'interno di quel decisivo ridimensionamento delle sue funzioni, rispetto alla prima impostazione di Comte. Nel pensiero occidentale moderno è sempre stata presente una tradizione che si contrapponeva al razionalismo e che intendeva limitare le pretese delle scienze di tipo umanistico. Questa tradizione umanistica, che pone in evidenza l'importanza dell'agire pratico come fonte di conoscenza, fa riferimento al senso comune e all'ideale dell'eloquenza come fonti di esperienza conoscitiva e di saggezza contrapposte al carattere astratto del sapere scientifico. Il senso comune va riferito a quella sensibilità per la giustizia e per il bene comune che, essendo presente in tutti gli esseri umani, trova espressione nei diversi ordinamenti sociali. Sul senso comune per il vero e per il giusto, che non è un sapere scientificamente dimostrato, ma che permette di scoprire il verosimile, vengono anche fondati il valore e la funzione conoscitiva autonoma dell'eloquenza, ovvero della capacità di presentare argomenti convincenti che, essendo rivolti piuttosto alla sensibilità, non possono essere sostituiti dagli argomenti scientifici. Si ha quindi un progressivo riconoscimento dell'utilità di forme del sapere non riducibili a quelle delle scienze matematico-naturali. Si è quindi pervenuti alla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito (Wilhelm Dilthey). Le scienze naturali e le scienze storiche devono adottare procedimenti diversi perché diverso è il loro oggetto specifico: le prime devono spiegare in base a connessioni di causa-effetto le leggi generali che presiedono ai fenomeni naturali, mentre le seconde sono rivolte a comprendere eventi particolari del passato, ponendo in evidenza il loro significato per il presente. Dilthey, pur mantenendo sempre come riferimento dell'idea di scienza il modello delle scienze naturali, vuole fondare l'autonomia delle scienze dello spirito, ovvero delle scienze storico-sociali, a partire dalla constatazione dell'essenziale storicità dell'esistenza umana, che configura la specificità degli eventi umani nel loro essere unici, individuali, irripetibili. Dilthey infatti respinge la concezione hegeliana della storia come processo che si evolve dialetticamente in una serie di momenti necessari. Ogni epoca storica ha una sua fisionomia particolare e una coerenza interna di significato che vanno interpretate nel loro senso specifico e irripetibile e non possono essere ricondotte a principi generali astratti. Viene quindi ad assumere una rilevanza centrale il concetto di "erlebnis", ovvero di esperienza vissuta in quanto unità significante conchiusa in se stessa, che costituisce il primo dato, l'unità minima di analisi delle scienze storico-sociali. Viene qui a manifestarsi la profonda differenza dell'oggetto delle scienze storico-sociali rispetto all'oggetto delle scienze naturali: mentre i fenomeni analizzati da queste ultime riguardano cose materiali e organismi viventi che non sono in grado a loro volta di interpretare se stessi, i fenomeni sociali vengono costituiti da esseri umani che sono capaci di riflettere su se stessi attraverso interpretazioni. Ne consegue che nell'osservazione dei fenomeni sociali non si può prescindere dalla dimensione dei significati culturalmente partecipati e delle motivazioni psicologiche che sono all'origine dell'agire umano. L'esperienza effettivamente vissuta dagli individui, in quanto unica e irripetibile, può essere studiata, secondo Dilthey, solo attraverso un processo di comprensione, fondato sull'empatia, ovvero sulla capacità dello storico di rivivere e riprodurre l'esperienza vissuta nella situazione concreta degli stessi soggetti che hanno messo in atto l'evento o vi hanno partecipato. Su questa base, quindi, la distinzione tra scienze della natura e scienze storico-sociali non nasce solo dalla contrapposizione prima segnalata (spiegare/comprendere - leggi generali/eventi particolari), ma anche dalla contrapposizione tra conoscenza dei fenomeni naturali, necessariamente sviluppata da un punto di vista esterno, e conoscenza dei fenomeni umani, necessariamente sviluppata dall'interno.

VIII.  La trasformazione del concetto di scienza.

Lo storicismo tedesco pone quindi in evidenza che la conoscenza è il prodotto dell'incontro tra 2 mondi di significato diversi: quello dell'attore sociale e quello dell'osservatore. Questa constatazione ha avuto conseguenze molto importanti dal punto di vista epistemologico (= riflessione critica sulla validità e i limiti del nostro sapere) e metodologico (= riflessione riguardo agli strumenti usati per conoscere), in quanto mostra che la conoscenza, in ogni sua forma, è sempre condizionata da situazioni storico-sociali particolari. L'osservatore infatti partecipa come l'attore e, quindi, la conoscenza non può più essere pensata come un neutrale e oggettivo rispecchiamento dell'ordine razionale che presiede alla realtà, bensì appare come un'attività altamente selettiva nei confronti di una realtà che, per la sua complessità, non si lascia mai circoscrivere completamente e che quindi, più che un ordine armonico, si presenta come un caos. Così, nel corso del 900, si attenua sempre più la distinzione tra scienze della natura e scienze storico-sociali: paradossalmente, se le seconde si erano all'inizio ispirate alle scienze della natura, il metodo di queste ultime viene ora sempre più ad assomigliare al modello elaborato dagli storicisti tedeschi. Ogni forma di sapere scientifico si rivela, infatti, come parziale, come mediato da concetti vincolati a forme culturali proprie di una determinata epoca, come il risultato di interpretazioni a partire da un punto di vista particolare che affonda le sue radici nel mondo storico-sociale cui lo scienziato appartiene. In questa prospettiva, non si pensa più che sia possibile individuare le vere e proprie leggi che presiedono alla realtà, bensì si cerca di cogliere, di volta in volta, alcune costanti e connessioni tra elementi diversi, suscettibili di continue revisioni. A questo punto, la distinzione tra scienze della natura e scienze storico-sociali non è più basata sul preteso carattere maggiormente oggettivo e neutrale delle prime rispetto alle seconde, ma riguarda semplicemente la differenza tra gli oggetti studiati (esterno/interno).

IX.  Il problema della validità del sapere scientifico.

La messa in crisi del concetto di oggettività e neutralità della scienza crea problemi circa la specificità del sapere scientifico rispetto ai discorsi di senso comune. In che cosa consiste la differenza tra una semplice descrizione narrativa di un fenomeno che chiunque di noi potrebbe fare e un'analisi propriamente scientifica?? Il sociologo Max Weber (storicismo tedesco) ha proposto una soluzione al problema. Weber distingue il momento iniziale dell'impostazione di una ricerca, in cui vengono formulate le ipotesi, dal procedimento successivo della ricerca stessa, volto a verificare tali ipotesi. Il momento iniziale, in cui si sceglie il problema da analizzare e si precisa il punto di vista a partire dal quale il fenomeno verrà studiato, contiene sempre una percezione soggettiva di valutazione. Il momento successivo della ricerca, una volta formulate le mie ipotesi e scelti gli elementi o le variabili da considerare, può procedere all'interno dello schema di riferimento che ho adottato, secondo un metodo del tutto oggettivo. I dati raccolti potranno confermare o smentire le mia ipotesi di partenza. La differenza tra un'analisi scientifica e un discorso di senso comune consiste quindi nel fatto che la prima, a differenza del secondo, non è tanto interessata a provare la propria tesi quanto a verificare empiricamente se esistono realmente le connessioni ipotizzate, confrontandosi soprattutto con i dati che sembrano negare queste ultime (tesi del falsificazionismo di Popper). L'osservatore è mosso da un interesse cognitivo, anziché da un interesse pratico. La conoscenza scientifica deve cercare di individuare non i rapporti causali necessari, ovvero le cause determinanti del fenomeno, ma i rapporti di causazione adeguata, ossia le condizioni che contribuiscono, insieme ad altre non conosciute, al verificarsi del fenomeno stesso. Nella tradizione del primo positivismo, pensiero scientifico e senso comune erano concepiti come momenti assolutamente distinti e contrapposti tra loro. L'epistemologia contemporanea della scienza ha invece mostrato che i confini tra questi 2 ambiti non sono affatto chiaramente definiti: il senso comune rappresenta in un certo senso lo sfondo a partire dal quale si articolano le diverse forme di sapere specifico. Questo dato presenta un indubbio interesse dal punto di vista di una corretta impostazione metodologica della sociologia, in quanto sottolinea gli stretti rapporti che intercorrono tra la conoscenza e i contesti sociali concreti in cui essa si sviluppa.


  1. CHE COS'È LA SOCIETÀ?

I.    La società come costruzione della realtà sociale.

La principale difficoltà che si incontra nel definire cos'è la società sta nel fatto che il fenomeno che indichiamo con questo nome non è riducibile ad alcun oggetto di tipo materiale, ma è piuttosto il risultato dei processi interrogativi di comunicazione e di riflessione, ovvero qualcosa che vive nelle menti e nelle rappresentazioni degli individui. Tali credenze e rappresentazioni, che sono strettamente legate all'esperienza pratica dell'agire degli attori sociali, svolgono infatti un ruolo costitutivo nella costruzione della realtà sociale. Dal punto di vista materiale esistono

da un lato individui umani che, nella loro corporeità e nel loro agire pratico, appaiono in relazione tra loro (attraverso il linguaggio)

dall'altro   oggetti prodotti da tali individui (es: utensili, abitazioni, città, fabbriche, ..)

Tra gli elementi materiali potremmo indicare anche il territorio, ovvero quella parte dell'ambiente naturale che viene percepita come appartenente ad una determinata unità sociale; ma anche in questo caso, il territorio non è indipendente dalle rappresentazioni e dall'agire pratico degli attori sociali. Un'unità sociale è un gruppo di individui o una nazione che ci appaiono come degli insiemi di individui che, per avere in comune alcune caratteristiche particolari, possono essere distinti da altri insiemi di individui, da altri gruppi o nazioni. Ma attraverso quali condizioni e quali processi risulta possibile la costituzione di tali unità?? Anzitutto, gli individui umani hanno una base comune: sono dotati di un intelletto che li rende capaci di riflettere su se stessi e sulla loro situazione (= autocoscienza); di conseguenza, l'individuo umano è l'essere che è consapevole di esserci, di essere qui. La dimensione della riflessività segna la differenza dell'animale umano da tutti gli altri animali. Si è studiato che anche nel mondo animale esistono forme di socialità, ma si tratta di meccanismi istintuali. A causa della distanza prodotta dalla riflessività, l'essere umano ha potuto essere definito come un "animale indebolito", dal momento che egli, dopo la presa coscienza di sé, non può più affidarsi semplicemente all'istinto. L'essere umano, a differenza dell'animale, vive in una situazione di mediazione, in quanto il suo rapporto con il mondo e la sua socialità non nascono spontaneamente, ma devono essere appresi attraverso un lungo processo. Ciò che consente all'essere dotato di coscienza tale apprendimento è anzitutto il linguaggio; il linguaggio, con le forme di rappresentazione di sé e della realtà, con le conoscenze e con la definizione delle norme che esso consente, contiene l'insieme delle forme di mediazione simbolica; ovvero ciò che viene indicato con il termine cultura. La cultura appare come un sostitutivo sociale del determinismo istintuale, anche se essa non riesce, in ultima analisi, a riprodurre un automatismo altrettanto forte quanto quello che è proprio dell'istinto. Tenuto conto della dimensione di riflessività degli individui e dell'importanza che, nella costruzione della realtà sociale, hanno le credenze e le rappresentazioni collettive culturalmente espresse, Barry Barnes ha proposto di considerare la società come il risultato della distribuzione di conoscenza. Già all'inizio del 900 William I. Thomas aveva formulato il suo noto "teorema" relativo alla definizione della situazione, affermando che "se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, essi sono reali nelle loro conseguenze". Seguendo questa linea, Barnes considera che "una società è tutto ciò che i suoi membri conoscono, incluso tutto ciò che essi sanno gli uni degli altri e la loro conoscenza reciproca". Sulla base del riconoscimento del carattere originario dell'intersoggettività, la società appare, infatti, come il risultato dei processi di conoscenza autoreferenziali e autovalidantisi che si sviluppano nella comunicazione sociale: "noi validiamo ciò in cui crediamo facendo riferimento a ciò in cui crediamo". La struttura sociale (= il costituirsi di relazioni sociali relativamente stabili nel tempo) è il prodotto delle convinzioni partecipate circa l'esistenza della struttura stessa, che viene, a sua volta, a convalidarsi per l'effetto delle pratiche orientate da tali convinzioni: queste ultime, tuttavia, non precedono le pratiche sociali, ma emergono all'interno delle stesse sulla base del linguaggio e dei processi di apprendimento che si sviluppano nei concreti contesti dell'agire. Sia l'ordine naturale che quello sociale vengono, infatti, appresi inizialmente mediante ostensione, ovvero in base ad esempi pratici su come ci si deve comportare rispetto a oggetti naturali o a situazioni sociali particolari. Se la conoscenza della natura può trovare conferma o smentita nel riferimento della nostra conoscenza, la conoscenza della società deve, invece, essere confermata o smentita, in modo autoreferenziale, "da processi che implicano un riferimento a stati di fatto che esistono solo perché generalmente si presume che la conoscenza sia vera". Anche Simmel, cogliendo la differenza tra le operazioni che caratterizzano la conoscenza della natura e quelle poste in essere dagli attori sociali, aveva sottolineato che l'unità sociale viene realizzata direttamente all'interno dei suoi elementi, rappresentati dagli individui in quanto esseri coscienti ed attivi. Nel riferimento al concetto di profezia che si autoadempie di Robert Merton, ovvero della possibilità che le previsioni degli attori sociali riferite ad una determinata situazione si trasformino in un fatto sociale che influenza l'agire collettivo, Barnes osserva che se "ci concentriamo sulla conoscenza della società quale fondamentale elemento costitutivo della società stessa in quanto distribuzione di conoscenza, la società ci appare come una perfetta e gigantesca profezia che si autoadempie". Conoscere la società vuol dire costituirla e riprodurla, ma anche costantemente cambiarla. Il termine "conoscenza" non ha qui un carattere soltanto razionale, bensì comprende tutti quegli atteggiamenti anche di tipo emotivo, passionale, valutativo. Barnes, a questo proposito, precisa che la conoscenza della società è sempre incompleta, non solo a causa della sua complessità, bensì soprattutto perché essa è sempre di tipo fenomenico, ovvero è il risultato di sempre nuove forme di esperienza pratica. In questa prospettiva, le routine che consentono la stabilizzazione dell'ordine sociale e la prevedibilità dell'agire reciproco sono il prodotto degli "equilibri di coordinazione sociale" posti in essere dagli attori sociali, ovvero sono "schemi di attività dai quali nessun numero significativo di individui desidererebbe deviare a lungo e ai quali la maggioranza delle persone continua a conformarsi". Il perseguimento degli interessi individuali, il calcolo egoistico relativo alle possibilità contenute nella situazione sociale e la stessa conflittualità sociale non sono dimensioni legate alla struttura naturale dell'individuo umano, bensì presuppongono sempre la presenza di una conformità di fatto a regole sociali convalidate da contesti di azione relativamente stabili.

II.  Il concetto sociologico di cultura.

In origine il termine cultura deriva dal latino colere, ovvero stava ad indicare la coltivazione della terra e l'allevamento del bestiame (oggi: coltura del riso, ..). Molto presto, tuttavia, la parola è stata usata in senso metaforico per indicare quel processo di formazione umana attraverso l'apprendimento (tra i Greci, colto era colui che era riuscito, assimilando conoscenze e valori, a tradurli in qualità personali). L'uso traslato dell'originario concetto di cultura trova espressione nel concetto di coltivazione dell'animo o dello spirito; oltre ad indicare la cura delle proprie facoltà intellettuali, il significato del termine verrà ulteriormente allargandosi fino a comprendere anche le forme di espressione oggettivate della cultura: linguaggio, forme di sapere, tecniche, arti, letteratura, .. Verso la metà del 700, con l'affermarsi dell'Illuminismo, il significato di cultura tende ad essere riferito al patrimonio universale di conoscenze e di valori formatosi nel corso della storia dell'umanità. È in questo periodo che si afferma anche il concetto di civiltà o di civilizzazione (dal latino cives: abitante della città), riferito all'affinamento dei costumi in contrapposizione alla presunta barbarie delle origini o a quella di quei popoli stranieri che, avendo culture molto diverse da quelle conosciute in Europa, venivano considerati non civilizzati o selvaggi. Per comprendere il modo in cui viene attualmente usato il termine cultura in sociologia e nelle altre scienze sociali occorre quindi tener presente la progressiva trasformazione del concetto di cultura da attività di trasformazione dello spirito " a insieme oggettivo costituito dalla codificazione del senso comune, dalla rappresentazioni della realtà, dalle forme di sapere in quanto appunto patrimonio o insieme di risorse cui è possibile attingere. Il problema dei diversi significati di cultura usati dagli scienziati sociali ha messo in evidenza

da un lato il suo carattere soggettivo, come espressione di orientamenti, valori, modelli di comportamento, criteri normativi prodotti dall'animo umano

dall'altro   il suo carattere oggettivo in quanto, se la cultura è all'origine prodotta dagli individui, l'insieme delle rappresentazioni, dei valori, delle regole e dei modelli di comportamento, una volta che siano stati formulati nel linguaggio, si cristallizza acquistando per così dire una vita propria

Le forme culturali così codificate vengono trasmesse dalla tradizione, ovvero dalla memoria collettiva, e si imprimono nell'individuo sia dalla nascita attraverso il linguaggio, gli usi e i costumi propri della sua comunità di appartenenza. Entrambi questi aspetti vanno tenuti presenti quando si parla di cultura, dal momento che l'individuo è al tempo stesso un prodotto della cultura, ma anche un'attiva capacità di elaborare gli elementi culturali acquisiti nel processo di socializzazione, creandone di nuovi. La cultura, inoltre, ha

da un lato una funzione descrittiva o cognitiva, in quanto insieme di credenze e di rappresentazioni della realtà naturale e sociale, di immagini del mondo e della vita che contribuiscono a spiegare e definire le identità individuali, le unità sociali e i fenomeni naturali

dall'altro   una funzione prescrittiva, in quanto insieme di valori che indicano le mete ideali da perseguire, di norme che indicano il modo in cui devono comportarsi gli individui sia nella loro vita privata sia in società

Queste 2 funzioni sono quasi sempre intimamente legate, dal momento che l'elemento normativo trova la sua giustificazione nelle credenze e nelle rappresentazioni, mentre queste ultime risultano rafforzate dalla prescrizioni normative. La cultura svolge pertanto una funzione di mediazione simbolica: le diverse forme espressive che, attraverso il linguaggio, si configurano come rappresentazioni della realtà, religione, arte, tecniche, sapere scientifico, filosofia, sistemi di diritto, regole di comportamento, .. costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l'essere cosciente di sé riesce a mediare simbolicamente il rapporto con se stesso, con gli altri e con le cose. In quanto sostitutiva del determinismo istintuale, la cultura non solo assolve funzioni di orientamento dell'individuo, ma anche, in quanto patrimonio comune realizzato attraverso l'esperienza collettiva, fonda la condizione essenziale del vivere sociale che è costituita dalla prevedibilità. Ogni individuo può coordinare le sue azioni con quelle degli altri solo in quanto può ragionevolmente prevedere come si comporteranno gli altri nella stessa situazione. L'ordine sociale si basa infatti su una serie di regole condivise da tutti i membri della società e sulla possibilità che si diano aspettative reciproche: io mi aspetto che gli altri si comportino in un certo modo nei miei confronti così come gli altri si aspettano che io mi comporti in un certo modo nei loro confronti. Quando la prevedibilità dei comportamenti reciproci viene meno, si verificano allora condizioni di incertezza, disorientamento, disordine e, al limite, di vero e proprio caos. Le regole condivise se

da un lato vincolano il nostro comportamento sociale

dall'altro   facilitano le nostre interrelazioni con gli altri

Appare evidente che le diverse forme culturali, in quanto determinazioni rispetto a ciò che per sua natura è indeterminato (le infinite possibilità dell'agire e dell'esperienza), svolgono una funzione di riduzione della complessità, attraverso la selezione solo di alcuni modelli specifici di comportamento tra i molti possibili. Tale funzione è presente anche a livello cognitivo: di fronte alle inesauribili manifestazioni dei fenomeni naturali o agli infiniti eventi che costituiscono la storia dell'umanità, la conoscenza diventa possibile solo in quanto riusciamo ad isolare alcuni aspetti che ci paiono più significativi di altri. Il fatto di determinare nei confronti dell'indeterminata molteplicità della vita alcune forme specifiche, pone in evidenza che le espressioni culturali tendono ad assolutizzarsi. Per ottenere qualcosa di certo, di determinato, debbo escludere un gran numero di altre possibilità (es: la definizione di una verità di tipo filosofico o scientifico tende ad escludere ogni altra interpretazione). Si manifesta così il carattere contraddittorio delle forme culturali: in quanto forme di riduzione di complessità attraverso selezione di certi aspetti piuttosto che di altri, esse non possono che essere parziali, ma, per assolvere la loro funzione di determinatezza, nel momento in cui vengono espresse debbono porsi come assolute, come verità incontrovertibili. È vero tuttavia che il linguaggio ha anche in se stesso inesauribili capacità di espressione e talvolta consente persino di alludere all'indicibile (es: linguaggio poetico, linguaggio dei grandi mistici). D'altra parte, anche nel linguaggio di tutti i giorni, il tono con cui una parola viene detta contiene una gamma di sfumature molto variegate che rivelano stati emotivi difficilmente determinabili a parole. Il carattere contraddittorio delle forme di determinazione culturali spiega l'ambivalenza secondo cui esse, da un lato ci limitano (vincolandoci a modelli di comportamento specifici, già socialmente codificati), dall'altro facilitano la nostra vita sociale (rendendo per lo più prevedibili le diverse situazioni in cui ci veniamo a trovare). Si potrebbe dire che, per quanto riguarda la vita sociale, la cultura assolve tanto meglio la sua funzione di sostitutivo dell'istinto animale, quanto più essa riesce a produrre automatismi, ad essere considerata come qualcosa di "naturale" o di dato per scontato. Tuttavia, proprio perché le forme di determinazione culturale costituiscono riduzioni di complessità, esse tendono a risultare, nel corso della storia dell'umanità, sempre inadeguate rispetto ai continui cambiamenti che si verificano nella nostra esperienza di vita e nelle forme sociali (a causa di eventi legati a trasformazioni naturali, ad eventi storici o a trasformazioni provocate dallo stesso agire umano). Nelle società arcaiche, legate a economie di sopravvivenza, le forme culturali, essendo sacralizzate, erano assai più stabili e meno sottoposte a critica di quanto esse non lo siano nelle società attuali che, grazie allo sviluppo tecnologico e ai progressi dell'attività economica e produttiva, conoscono processi di mutamento sociale incessanti e molto rapidi. Da qui la maggiore consapevolezza, nella nostra epoca, del carattere storico e riduttivo di ogni cultura e il diffondersi del relativismo culturale, ovvero della critica di ogni dogmatismo e della percezione che non esistono più fondamenti e regole assolutamente certi e immutabili. L'ambivalenza tra

esigenza di determinatezza e di prevedibilità E esigenza di adattamento alle mutevoli condizioni

dell'esperienza e di apertura alle innovazioni

costituisce una caratteristica costante della dinamica sociale.

III.  La formazione degli individui.

La società è qualcosa che sussiste soprattutto nella mente degli individui, i quali partecipano tutti più o meno attivamente alla costruzione di quella che chiamiamo realtà sociale. Alla base della vita sociale va innanzitutto riconosciuta una struttura costitutiva degli individui, ovvero il fatto che nessun individuo umano può esistere isolatamente. Possiamo definire tale struttura come la fondamentale intersoggettività che è alla base di ogni possibilità di rapporto umano, di ogni comunicazione degli individui tra loro. Tramite l'esperienza pratica del suo rapporto con gli altri e attraverso il linguaggio, l'individuo assimila modi di rapportarsi alle cose, immagini del mondo, rappresentazioni della realtà sociale, definizioni del sé, ideali e valori di vita, regole di comportamento che sono venute oggettivandosi nel tempo e che si impongono all'individuo stesso. La vita sociale è possibile solo in quanto un insieme di individui condivide rappresentazioni e regole comuni, attingendo al patrimonio di esperienze contenuto nella tradizione, ovvero nella memoria collettiva, che vengono trasmesse con l'agire pratico, attraverso strutture materiali (es: abitazioni, contesti urbani o rurali, ..), e soprattutto con il linguaggio. Per questo la società può essere considerata come il risultato di un processo di costruzione messo costantemente in atto dai membri della società stessa: istituzioni come la famiglia, la fabbrica, lo Stato possono sussistere nel tempo solo grazie al fatto che esistono individui che credono nella loro esistenza. La dimensione di riflessività propria della coscienza permette tuttavia di comprendere che l'individuo è solo "in gran parte" prodotto della cultura e della società. La definizione della mia identità è in gran parte legata ai ruoli che la società mi attribuisce (di padre, madre, figlio, lavoratore, soggetto politico, ..), ma tale identità non esaurisce il mio sé, tanto che posso contestare i ruoli socialmente codificati che pure hanno contribuito al rafforzamento del mio sé, rivendicando la mia originalità (es: movimento femminista). Non è facile definire che cosa sia la coscienza come tale, ma ciò che possiamo dire è che la coscienza è anzitutto la capacità di prendere le distanze da tutte le forme di oggettivazione; per questo Max Scheler ha potuto definire l'essere umano "l'essere che può dire di no". Pur essendo profondamente condizionato dalle strutture sociali che caratterizzano il suo ambiente iniziale di vita e dai modelli culturali che gli sono stati trasmessi, ciascun individuo, nel suo particolare iter biografico, attraversa esperienze di vita che sono del tutto singolari: per questo motivo ogni individuo conserva un certo grado di autonomia rispetto alla società in cui vive. L'autonomia della coscienza, la sua "libertà", può essere colta infatti come capacità di passaggio dall'una all'altra forma di determinazione culturale, in una continua dialettica tra identificazione con tali forme e distanziazione da esse.

IV.  Il rapporto individuo-società.

Uno dei problemi che è stato alla base di tante teorie sociologiche dell'800 e del 900 è questo: l'individuo dipende dalla società o è quest'ultima che dipende dagli individui??

Le teorie che si sviluppano a partire dalla prima ipotesi sono dette olistiche (òlos = il tutto, l'intero), in quanto considerano la società come una realtà sui generis, dotata di vita propria, che si impone sugli individui, formandoli secondo le proprie esigenze. All'interno di questa prospettiva è venuto sempre più assumendo una rilevanza centrale il concetto di sistema sociale come insieme complesso delle relazioni intersoggettive e delle struttura sociali, nonché dei sottoinsiemi all'interno dei quali vengono organizzandosi i diversi ambiti di significato (economico, educativo, giuridico, politico, ..) rispondenti alle funzioni necessarie al mantenimento del sistema stesso. Le teorie sociologiche di Emile Durkheim, di Talcott Parsons e di Niklas Luhmann, come la teoria strutturalista di Lévi-Strauss, risentono dell'influenza di questo modello.

Le teorie che, invece, considerano la società come il risultato delle azioni intenzionali degli individui così come anche degli effetti non-intenzionali del loro agire, appartengono all'individualismo metodologico. Le teorie sociologiche di Max Weber e di Georg Simmel possono essere comprese all'interno di questa tradizione, cui è anche legata la recente teoria della scelta razionale, tra i cui principali esponenti va ricordato il contemporaneo Raymond Boudon.

Entrambi i modelli sottolineano dimensioni importanti della dinamica sociale:

il primo l'impatto che le strutture sociali e i modelli culturali hanno sugli individui

il secondo il fatto che l'agire e le rappresentazioni degli individui sono gli elementi che costruiscono la realtà sociale

Il difetto delle 2 teorie è di considerare i 2 aspetti separatamente invece di metterli in rapporto tra loro; i 2 modelli vanno considerati come complementari. Anziché fare riferimento a schemi di tipo causale unilineare (la società precede gli individui o viceversa), occorre adottare uno schema di tipo circolare. La storia dell'umanità ci appare così come un processo dialettico, senza sintesi finale, nel quale l'agire umano, conservando la dimensione di indeterminatezza che gli è propria, reagisce ai condizionamenti e ne produce di nuovi. In questa prospettiva appare chiaramente che non si potrà mai dare una società perfetta, priva di ambivalenze e di contraddizioni: la società è di per sé una situazione inconciliabile, che va gestita come tale. Le concezioni utopiche volte a promuovere società ideali che abbiano superato in modo definitivo ogni conflitto e ogni disuguaglianza (es: ideologia marxista e ideologia positivista di Comte), hanno sempre prodotto gravi danni. Quando un modello determinato di società viene assunto come l'unico modello definitivo (società teocratiche, comuniste, società nazista, certe forme attuali di globalizzazione tecnologica), si verificano sempre fenomeni di tipo totalitario a carattere dogmatico che sono in realtà espressione di una logica di dominio e di sopraffazione violenta. I sistemi democratici, riconoscendo la pluralità delle componenti sociali e sottoponendo al giudizio collettivo la revisione costante dei risultati conseguiti, hanno, malgrado i loro difetti, una maggiore capacità di tener conto delle diverse esigenze dei gruppi sociali, capacità che li rende molto più adattabili. I sistemi democratici sono caratterizzati dal relativismo culturale e dalla pluralità dei valori: per questa ragione talvolta le masse preferiscono i sistemi totalitari perché non sono in grado di assumere responsabilmente il maggiore grado di indeterminatezza e di complessità che è proprio delle società democratiche. Nel rapporto individuo-società, più che in termini di causa-effetto, è preferibile ragionare nei termini non deterministici di influenze reciproche, di condizionamenti e probabilità, valutando di volta in volta, nei contesti sociali concreti, quando prevale il conformismo passivo o la capacità di innovazione.


  1. GLI ATTORI SOCIALI

Passiamo ora ad un'analisi più particolareggiata del modo in cui la sociologia studia le 2 dimensioni tipiche della dinamica sociale: gli individui e le strutture, nel loro rapporto reciproco. La sociologia è interessata principalmente ad osservare l'agire degli attori sociali: si propone cioè di mettere in evidenza gli atteggiamenti e i comportamenti assunti dagli individui in quanto membri di una determinata società.


Se la psicologia analizza le dinamiche interne al singolo individuo, la sociologia tende piuttosto ad osservare i comportamenti esterni degli individui nei loro rapporti sociali, rintracciando l'influenza che su di essi hanno le strutture e i modelli culturali presenti nel contesto sociale concreto, così come le condizioni che favoriscono i processi di innovazione e di trasformazione di quelle stesse strutture e modelli. Ovviamente, nella pratica dell'osservazione scientifica, i confini tra le discipline sociologiche e quelle psicologiche, in particolare con la psicologia sociale (che studia le interazioni all'interno dei gruppi e l'influenza sociale degli stessi), non sono chiaramente definiti. La sociologia, inoltre, non può prescindere dall'uso di concetti psicologici (motivazioni, intenzioni, emozioni, ..). Ma il loro punto di vista resta, in via di principio, diverso. La sociologia analizza i comportamenti degli attori sociali nel loro insieme, ovvero le tendenze comuni che vengono a determinarsi nell'agire dei membri di una società. Ciò che interessa il sociologo sono i comportamenti che presentano una rilevanza statistica più o meno accentuata.

I.    Attori sociali individuali e collettivi.

Gli individui non possono essere considerati entità indipendenti dalla realtà sociale in cui vivono; in ogni caso, l'analisi della dinamica sociale non può prescindere dal riferimento agli attori sociali individuali e dalle loro interpretazioni sulle diverse situazioni sociali. Nella realtà sociale tuttavia, oltre agli individui singoli, possono essere considerati come attori sociali anche determinate unità sociali come la famiglia, i gruppi, i movimenti, .. Si usa quindi fare riferimento ad un insieme di individui come ad un attore dotato di una propria identità e di una propria volontà, capace quindi di agire in modo unitario. È evidente che l'applicazione del concetto di soggetto collettivo a realtà così diverse fra loro non può che dare luogo a significati molteplici:

In certi casi, l'attribuzione di un'unità di tipo soggettivo è il puro risultato di una generalizzazione usata dall'osservatore sociale per porre in evidenza elementi comuni all'agire di più individui: quando ci si riferisce a categorie sociali (i giovani, le donne, gli anziani, ..), a classi sociali (i lavoratori, la borghesia, ..) o anche alla massa, si pongono selettivamente in relazione alcuni elementi e caratteri comuni, statisticamente rilevanti, delle realtà così indicate, in base ad un modello astratto cui non corrispondono necessariamente concrete interazioni con gli individui

In altri casi, l'attribuzione di un'unità di tipo soggettivo assume una forma giuridica: nel diritto si usa l'espressione personalità giuridica per indicare quelle formazioni (istituzioni, enti pubblici e privati, fondazioni, ..) che possono essere riconosciute come veri e propri soggetti di diritto. Si tratta qui di una finzione convenzionale e, anche in questo caso, gli individui che agiscono nelle istituzioni non stabiliscono necessariamente interazioni dirette tra di loro

Una situazione diversa è rappresentata invece da quegli insiemi di individui che hanno la forma di gruppi in fusione, come nei casi di mobilitazione di una folla, o di gruppi organizzati per la difesa di interessi comuni, oppure di movimenti e di minoranze attive. In questo caso, gli individui implicati sono in relazione diretta tra di loro e sviluppano un'azione collettiva in base a finalità comuni

Occorre tuttavia comprendere il significato di azione collettiva. In senso generale, ogni azione in quanto sociale è un'azione collettivamente qualificata, dal momento che nessun individuo agisce in modo isolato, ma sempre all'interno di una complessa rete di relazioni e in riferimento a valori e modelli collettivamente condivisi. In senso specifico, invece, possiamo considerare azioni collettive solo quelle azioni poste in essere da un numero più o meno ampio di individui che si accordano tra di loro, sviluppando strategie comuni a cui partecipano attivamente. Ciò non toglie, tuttavia, che l'agire non accordato né strutturato di diversi individui che agiscono spontaneamente in modo omogeneo, sulla base di sentimenti o interessi comuni, possa produrre effetti rilevanti per la vita collettiva. Nei primi 2 casi considerati prima, il termine soggetto collettivo è usato soprattutto in senso metaforico, ovvero astratto (concetti usati dallo scienziato sociale) o formale (istituzioni giuridiche), solo nel terzo caso (agire strutturato di individui associati) esso appare riferito ad una realtà di relazioni concrete e, quindi può dirsi usato sociologicamente in senso proprio. Quindi, per poter parlare di soggetto collettivo in senso proprio, si deve tener conto solo di quegli insiemi di individui nei quali i rapporti interni tra gli individui stessi sono organizzati in modo da dare vita ad una qualche forma relativamente stabile di espressione unitaria attraverso scelte, decisioni, azioni che possono essere imputate all'insieme degli individui come tale. I requisiti essenziali sono quindi i seguenti:

a)presenza di rapporti di interazione e di comunicazione diretta (non solo "faccia a faccia", ma anche, ad esempio, via internet) tra gli individui del gruppo in base a valori e obiettivi condivisi

b)partecipazione attiva dei membri del gruppo ai processi di decisione e alla formulazione delle strategie e dell'azione intraprese dal gruppo come tale

c)   esplicita volontà dei membri del gruppo di presentarsi come parti di un soggetto unitario di decisione e di azione

d)rappresentanza di tipo diretto nel caso di delega

Un caso particolare di soggetto collettivo in senso improprio è rappresentato dal concetto di pubblico, che rinvia ad un insieme di persone destinatario di un messaggio ad esso finalizzato: in questo caso, si tratta di un'aggregazione, più o meno duratura nel tempo, di individui che non sono necessariamente in comunicazione fra loro, pur se possono talvolta esprimere gruppi organizzati che li rappresentino. I movimenti, le minoranze attive, la folla, il pubblico sembrano costituire fenomeni che oscillano ora verso il livello di una comunicazione diffusa e di una partecipazione emotiva che non sfocia necessariamente in azioni collettive unitarie, ora verso il livello delle organizzazioni strutturate capaci di dare vita ad azioni collettive in senso proprio. Ovviamente, anche quando non raggiungono quest'ultimo livello, tali formazioni possono avere un notevole impatto nella dinamica sociale. Se non si può sempre parlare a loro riguardo di soggettività in senso proprio, si deve riconoscere che, in molti casi, essi sono all'origine di processi innovativi, dando luogo ad eventi dalle conseguenze molteplici e non facilmente prevedibili. L'agire sociale ha la sua radice nel sostrato affettivo e inconscio comune ai diversi soggetti; di conseguenza, la possibilità di manifestazioni collettive di effervescenza, di sentimenti ed emozioni a carattere diffuso, di isteria, di panico, ove la coscienza individuale sembra cedere il passo alla sensazione di far parte di un tutto, mostra il lato indeterminato dell'agire, la ricchezza e la complessità del vissuto da cui esso emerge.

II.    Il problema dell'identità e del riconoscimento reciproco.

Va prestata attenzione alla rilevanza che, nella dinamica sociale, assume, a livello sia individuale sia collettivo, il problema dell'identità. La ricerca di identità e di riconoscimento da parte degli altri, il bisogno di consolidare la propria stima di sé, costituiscono la motivazione di fondo di ogni agire. La riflessività propria della coscienza si esprime anzitutto come consapevolezza del proprio esserci, ma comporta anche la percezione della possibilità del proprio non-esserci, della propria irrilevanza nel rapporto con gli altri e, in ultima analisi, della propria morte. L'essere umano è spinto a cercare una spiegazione del senso della propria vita: da qui il successo delle grandi religioni che offrono una spiegazione del destino esistenziale dell'individuo umano, aprendo, in modi diversi, una prospettiva di sopravvivenza nell'aldilà. Da qui anche il successo delle grandi ideologie laiche che cercano un senso nella storia dell'umanità e configurano anch'esse una sorta di sopravvivenza nel contributo che ognuno può dare alla costruzione di un mondo migliore per le generazioni future. L'insieme degli interrogativi aperti dalla riflessività cosciente è alla base della fondamentale insicurezza esistenziale dell'essere umano, con i sentimenti di angoscia e di paura che essa comporta. Per superare tale originaria condizione di insicurezza, l'individuo tende a cercare continue conferme del proprio esserci e della propria identità nelle rappresentazioni e nelle spiegazioni che gli sono offerte dal patrimonio culturale. Tuttavia, l'effettiva conferma del proprio essere qui e della coscienza della propria identità non può che essere ottenuta attraverso il riconoscimento degli altri. Ciò che l'essere umano più teme è l'indifferenza degli altri; tale atteggiamento infatti contiene implicitamente il messaggio "tu non esisti". Per questo, sin dai primi mesi di vita, è essenziale per la formazione di una personalità autonoma l'esperienza del riconoscimento incondizionato del proprio esserci. L'amore, nelle sue diverse forme, è l'espressione più alta di tale riconoscimento; il riconoscimento va anche cercato in altre forme, attraverso il successo nella vita, il possesso di ricchezze, il potere, .. Per ottenere un riconoscimento degli altri in grado di rassicurarlo circa la propria effettiva esistenza e la propria identità, ogni individuo è disposto a pagare un prezzo molto alto. Nell'800, Hegel ha messo in rilievo il fatto che quando l'individuo, cercando di realizzarsi tramite il suo agire, attribuisce a qualcosa un valore oggettivo, egli è, in realtà, principalmente interessato non alla cosa stessa (il possesso, il successo), ma a ciò che tramite quell'azione egli diviene per gli altri. Il concetto di interesse come perseguimento della soddisfazione egoistica di un bisogno, quale viene usato nelle teorie utilitaristiche, appare quindi estremamente riduttivo nella spiegazione dell'agire degli individui. Sviluppando una critica del modello utilitarista e delle interpretazioni dell'agire fondate sui criteri della scelta razionale, il sociologo contemporaneo Alessandro Pizzorno si è posto il seguente interrogativo: se l'individuo persegue unicamente il proprio interesse in base al calcolo razionale dei costi e dei benefici, perché mai egli dovrebbe partecipare ad un'azione collettiva, quando, in presenza di grandi numeri, i benefici ottenuti da quell'azione toccheranno senz'altro anche a lui?? Si configura qui il comportamento definito come free rider, ovvero il comportamento egoistico di chi pensa di poter godere dei benefici dell'azione collettiva pur senza parteciparvi personalmente. L'ipotesi formulata da Pizzorno è che l'individuo tragga dalla sua partecipazione all'azione collettiva benefici diversi da quelli derivanti dal conseguimento del bene concreto cui l'azione medesima è indirizzata. Per questa ragione, propone di ricorrere alla categoria dell'identità, a partire dalla constatazione che la partecipazione all'azione collettiva può, quando si diano condizioni favorevoli, rafforzare l'identità individuale, fornendo, di volta in volta, una spiegazione del comportamento dell'attore sociale. Il riferimento all'identità, in quanto condizione per ottenere riconoscimento e consolidare la propria autostima, consente, secondo Pizzorno, di superare il modello troppo riduttivo proposto dall'utilitarismo. Dal momento che i bisogni sono perlopiù indotti socialmente e che la loro fruizione è sempre socialmente qualificata, egli sottolinea che il valore di un bene non riposa solo sulla sua utilità, ma anche sul riconoscimento soggettivo della sua importanza. L'idea di interesse non va quindi riferita solo all'obiettivo di soddisfare desideri, preferenze, bisogni personali, ma anche di difendere la posizione relativa che, sulla base di determinati valori socialmente condivisi, l'attore occupa nel sistema delle relazioni sociali. Diventa, così, più difficile distinguere tra beni tangibili e beni simbolici, mentre assume una rilevanza centrale l'esigenza di mantenere un'identità sociale coerente. Quest'ultima, in questo caso, appare connessa alla possibilità di identificabilità, ovvero al riconoscimento di identità che viene attuato all'interno di un gruppo, di un'entità collettiva. Il riferimento ai benefici di cui parlano le teorie utilitariste può essere così mantenuto solo se si riconosce che tali benefici sono da ricollegare alle funzioni di una collettività identificante. Pertanto, secondo Pizzorno, una teoria della politica "deve essere in grado di dar conto dell'attività di costituzione di collettività identificanti". Azioni diverse, come l'atto di votare o la volontà di essere informati, possono così essere spiegate non sulla base di una teoria dell'utilità, bensì di una teoria dell'identificazione, a partire da una logica fondata su un'azione di appartenenza. Un importante contributo all'approfondimento della dinamica legata al riconoscimento è stato offerto anche dal filosofo contemporaneo Axel Honneth: egli osserva che la fiducia in sé e la stima di sé possono svilupparsi solo grazie ad una reazione di approvazione del partner interagente. Le condizioni nelle quali può realizzarsi l'integrità del soggetto, come possibilità di "sentirsi sorretto dalla società rispetto all'intero arco del suo autoriferimento pratico", vengono analizzate da Honneth nel confronto con 3 fondamentali tipi negativi di spregio o disprezzo, cui corrispondono 3 fondamentali tipi positivi di riconoscimento:



Tra i tipi negativi sono comprese

ad un 1° livello    le forme di coercizione e maltrattamento fisico, che colpiscono l'autonomia più elementare relativa alla disponibilità del proprio corpo

ad un 2° livello    le forme di umiliazione che incidono sulla "comprensione normativa di sé di una persona", tramite l'esclusione dal godimento dei diritti accordati agli altri membri della società

ad un 3° livello    la negazione di ogni valore sociale al proprio modo di essere, alla proprie affiliazioni culturali e ai propri valori, ovvero della possibilità che il proprio ideale di vita sia riconosciuto come valido all'interno della società stessa

I 3 tipi positivi di riconoscimento, invece, riguardano

l'approvazione e l'incoraggiamento affettivo che si realizzano nei rapporti interpersonali di amore, essenziali per la conferma della fiducia in se stessi

la relazione di reciproco riconoscimento di uguali diritti e doveri, che si realizza a livello giuridico e che è fondamentale per l'autorispetto dell'individuo

la reciproca conferma dell'apprezzamento, fondato sulla solidarietà dei diversi stili di vita, ovvero il riconoscimento della legittimità delle particolarità biografiche dei singoli individui, che è una condizione essenziale della stima di sé

Offrendo una valida chiave di lettura delle motivazioni di fondo dell'agire degli attori sociali, la richiesta di riconoscimento permette anche di tener conto delle difficoltà che emergono nell'interpretazione dell'agire a causa dell'ambivalenza contenuta nel concetto di identità, che riflette la generale ambivalenza dovuta al carattere di alleggerimento e, al tempo stesso, di vincolo riduttivo proprio delle forme di determinatezza culturale. Da un lato, infatti, il riconoscimento della propria identità comporta un certo grado di similarità con gli altri: potrò tanto più facilmente essere riconosciuto dagli altri, quanto più mi conformerò all'idea che essi si sono fatta di me o alle aspettative che gli altri hanno rispetto al ruolo che devo giocare nella società. Ma, per essere visto come unità autonoma, l'individuo deve anche chiedere di vedere riconosciuta la sua differenza, ovvero la sua singolarità rispetto agli altri e ai ruoli sociali che gli vengono imposti. I 2 aspetti dell'identità (similarità e differenza) sono all'origine di una dinamica complessa: infatti se l'individuo è troppo dipendente dai modelli culturali proposti dalla società, vale a dire si identifica troppo con questi ultimi, rischia di essere dato dagli altri per scontato e quindi di non essere riconosciuto nella sua singolarità; se invece si differenzia troppo da tali modelli, rischia di compromettere quella similarità che è normalmente condizione del riconoscimento sociale e di essere rifiutato dalla società come eccentrico, estraneo, folle. Ogni attore sociale deve quindi saper gestire le 2 contrapposte esigenze di identificazione con i ruoli socialmente codificati e di presa di distanza dagli stessi: quanto più riuscirà a trovare una sorta di equilibrio, tanto più potrà affermare la sua autonomia e il suo potere individuale. Nel caso del riconoscimento incondizionato, in quanto piena accettazione della differenza o singolarità irripetibile dell'altro, la fiducia in se stessi, ovvero la sicurezza quanto al proprio esserci effettivo, può raggiungere nell'individuo un grado massimo, che lo dispone, a sua volta, a riconoscere l'altro senza condizioni. Al di fuori di questa situazione ideale, si danno, nella pratica, gradi diversi di riconoscimento reciproco, più o meno condizionato. In questi casi, l'individuo dovrà pagare un prezzo più o meno alto, ma potrà anche non essere disposto a pagare tale prezzo. L'integrazione sociale dell'individuo non può quindi essere data per scontata ed è sempre possibile che l'attore ponga in essere comportamenti conflittuali o devianti rispetto all'ordine simbolico-normativo costituito. La possibilità di interpretazione dell'agire si complica ulteriormente se si tiene conto che il riconoscimento sociale può essere ottenuto anche in negativo. Nel rapporto intersoggettivo, cui non è possibile sfuggire, non si può non comunicare e quindi non può mai darsi un'assenza totale di riconoscimento, in quanto persino l'indifferenza è pur sempre un forma di comunicazione, sotto forma del messaggio "agisco come se tu non esistessi". La negazione del riconoscimento è dunque anch'essa una forma di riconoscimento: per evitare di "non essere visto" dagli altri, che equivale per lui ad una sentenza di morte, l'individuo può essere portato a adottare comportamenti violenti e aggressivi, più o meno consci, obbligando così gli altri a prendere atto della sua esistenza. Così l'emarginato, pur di essere visto, può mettere in atto comportamenti criminali e persino cercare il suicidio. Il carattere simbolico che assumono le forme dell'agire all'interno del rapporto intersoggettivo spiega il fatto che una stessa esigenza possa essere soddisfatta attraverso comportamenti contrapposti di consenso o di ribellione. Inoltre, occorre sempre tener conto del fatto che ciascun individuo tende a cercare di essere riconosciuto da parte di determinati individui e gruppi che costituiscono il suo termine di riferimento privilegiato. Nella complessità che presenta, anche sotto il profilo del rapporto tra agire e ordine simbolico, la dimensione dell'identità costituisce un riferimento essenziale per l'interpretazione dell'agire umano. Infatti, comportamenti che dall'esterno possono apparire irrazionali o privi di motivazioni di senso comune, trovano quasi sempre una spiegazione qualora vengano riferiti all'esigenza degli attori o dei gruppi di sentirsi adeguatamente riconosciuti. L'analisi sociologica deve pertanto interpretare le diverse dinamiche in atto nei contesti sociali concreti tenendo conto della rilevanza che assume il problema dell'identità nei suoi aspetti ambivalenti ed evidenziando gli effetti non voluti e le possibili tensioni derivanti dai processi di inclusione/esclusione, di attribuzione di centralità o di emarginazione che si verificano nei rapporti tra attori e gruppi.

III.  La crisi di identità nelle società contemporanee.

Rispetto alle società tradizionali, caratterizzate da una struttura gerarchica nella quale i diversi ambiti della religione, della politica, del diritto, dell'economia e delle diverse forme del sapere presentavano un maggiore collegamento tra loro, le attuali società sviluppate appaiono invece caratterizzate dalla crescente differenziazione e autonomia di tali ambiti, ovvero dall'articolazione del sistema sociale in diversi sub-sistemi specializzati con il progressivo sostituirsi di una pluralità di formazioni sociali diverse alle vecchie strutture di appartenenza (famiglia, classe, lavoro, politica, ..). La crisi d'identità che ha investito strati, categorie, gruppi sociali e anche intere collettività nazionali (nei paesi in cui il processo di modernizzazione ha avuto uno sviluppo relativamente recente) ha avuto un suo risvolto solo apparentemente insensato nell'accentuazione della differenza tra società e individuo e nell'esaltazione dei valori dell'autorealizzazione individuale, della creatività, dell'immaginario, del privato, .. che caratterizzano la cultura contemporanea. La domanda di identità e la ricerca di identificazione, attraverso l'appartenenza alle più diverse formazioni sociali (movimenti, associazioni, gruppi, ..) aventi come riferimento la razza, le preferenze sessuali, l'età, la professione, lo sport, la musica, la religione, quando non la droga o la violenza, costituiscono per molti aspetti un fenomeno nuovo non solo per sua entità e per le forme che è andato assumendo, ma soprattutto perché in esso il bisogno di identità è venuto esprimendosi in maniera diretta. I diversi movimenti dei giovani, delle donne, degli omosessuali pongono oggi in primo piano richieste di tipo ontologico e di produzione di senso, rivendicando un diritto all'identità, mentre solo in secondo piano appaiono finalizzati al perseguimento di interessi comuni. Le ragioni di tale fenomeno sono da ricollegare

in 1° luogo        all'instabilità e alla precarietà che caratterizzano la definizione delle posizioni e dei ruoli nelle società dette post-industriali, sottoposte a continui, rapidi cambiamenti: società nelle quali sempre più le identità anziché essere date per nascita, appartenenza obiettiva di classe, legami territoriali, sono il risultato di scelte che spesso devono essere effettuate più volte nel corso di una stessa vita

in 2° luogo        alla presenza di una pluralità di valori e di modelli in uno stesso sistema sociale, il che produce un eccesso di alternative che ha come conseguenza una crescente indeterminatezza della cultura collettiva

La complessità di questa situazione spiega le ragioni dell'insoddisfazione che molti studiosi di scienze sociali manifestano oggi per il modo in cui il problema dell'identità individuale e collettiva è stato sinora affrontato. Sembra che in questa situazione il rafforzamento dell'identità non debba essere pensato, in senso tradizionale, come rafforzamento delle identificazioni e del senso di appartenenza, bensì, in modo più problematico, come aumento della capacità dell'individuo di mantenere una relativa distanza dalle diverse forme determinate di identità. Si deve pertanto riconoscere che una certa concezione dell'identità, come forma stabile e continuativa, definita una volta per tutte, è entrata in crisi e che ad essa è subentrata una concezione dell'identità come narrazione che l'individuo, di volta in volta, viene a stabilire tra le sue diverse esperienze, attingendo, a seconda delle situazioni, dall'insieme delle risorse culturali in grado di fornire le diverse forme oggettivate di identità necessarie all'integrazione sociale. La costruzione dell'identità individuale appare quindi come la capacità di negoziare le diverse identità sociali, ovvero come processo esplorativo riguardo a possibilità diverse, risolte, di volta in volta, in maniera pratica.


  1. LE STRUTTURE SOCIALI

Abbiamo constatato come gli attori sociali, sia individuali sia collettivi, non si presentino semplicemente come principi autonomi rispetto ai condizionamenti sociali concreti e alle forme culturali, bensì appaiano anche come il prodotto di tali condizionamenti e di tali forme. Non è possibile isolare una dimensione pura della soggettività: soprattutto nella misura in cui si costituisce come identità sociale, essa è sempre fortemente dipendente anche da fenomeni di tipo strutturale. Dobbiamo quindi parlare di strutture sociali.


Il termine struttura viene usato in sociologia per indicare un insieme di relazioni relativamente stabili tra elementi diversi: la struttura di un oggetto o di un organismo vivente rappresenta i particolari rapporti interni che vengono a stabilirsi tra le componenti di quell'oggetto o di quell'organismo, costituendolo come unità indipendente rispetto ad altri oggetti o organismi. L'unità che risulta dalla particolare composizione degli elementi ha caratteristiche proprie che sono distinte da quelle degli elementi stessi presi singolarmente: ciò significa che le relazioni tra gli elementi hanno un'importanza fondamentale non solo per la caratterizzazione di un oggetto o di un organismo, ma anche per il significato e le funzioni che assumono i singoli elementi, i quali hanno un senso solo se considerati nella posizione che occupano all'interno dell'insieme. La struttura è quindi l'insieme di relazioni stabili tra gli elementi che la compongono e che permettono ad un determinato sistema di funzionare (es della macchina). L'individuazione di elementi oggettivati e strutturati presenti nella realtà sociale non deve tuttavia far dimenticare che le azioni e le rappresentazioni degli attori sociali sono anch'esse elementi costitutivi delle strutture. Nell'analisi dei processi sociali non è possibile prescindere dall'influenza che, sull'agire individuale e collettivo, hanno i condizionamenti materiali di tipo naturale ed economico, né dal carattere oggettivato che assumono le immagini del mondo, i modelli di comportamento, i ruoli, le forme istituzionali, .. che orientano l'agire, ma occorre anche comprendere in che modo tali condizionamenti e oggettivazioni sono a loro volta rappresentati dagli attori sociali e prodotti dal loro agire. Nell'analisi che segue sono state distinte

le condizioni dell'ambiente naturale e sociale  da

le strutture del sistema sociale come tale

Se, infatti, anche le condizioni possono essere considerate come strutture e se vi è un nesso molto stretto tra le prime e le forme sociali, il termine condizioni è volto a sottolineare il carattere esterno e pre-dato, l'esistenza di cose che sono relativamente indipendenti dall'agire degli attori sociali, anche se vengono sempre percepite tramite le categorie culturali che consentono di rappresentarle e di interpretarle. Le strutture organizzative ed istituzionali, nel loro carattere normativo, sono invece più chiaramente il prodotto dell'agire storico-sociale, come delle rappresentazioni e delle credenze condivise dagli attori sociali, anche se, una volta oggettivate, risultano anch'esse quali condizionamenti "esterni" dell'agire sociale stesso.

I.    Le CONDIZIONI dell'ambiente naturale e sociale.

I.I.    Lo spazio.

L'influenza che la natura del territorio e quella del clima possono avere sui rapporti sociali è stata sottolineata in passato da numerosi autori, tra cui Aristotele, Jean Bodin e Montesquieu. In particolare, quest'ultimo riteneva che l'aspetto fisico di un paese, la qualità del suolo, la sua posizione ed estensione, le sue condizioni climatiche costituissero, insieme ai fattori economici, culturali e morali, una delle cause determinanti della forma assunta dagli ordinamenti normativi affermatisi nel paese stesso. L'estensione del territorio viene messa da Montesquieu direttamente in relazione con le forme di governo democratiche o repubblicane, monarchiche, dispotiche, ciascuna di queste 3 forme essendo rispettivamente connessa con territori progressivamente più ampi. Anche Alexis de Toqueville, nella sua analisi sulla democrazia americana, aveva attribuito alla grande estensione del territorio degli Stati Uniti, nel confronto con l'esiguità dei territori nazionali europei, un'importanza fondamentale per spiegare l'affermarsi dello spirito di eguaglianza in quella regione del mondo. Tra i primi sociologi che hanno studiato sia gli aspetti fisici naturali, sia quelli legati all'assetto artificiale del territorio, vanno ricordati Fréderic Le Play e la sua scuola di geografia sociale, Emile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel. Quest'ultimo ha tra l'altro indicato le linee di sviluppo di una sociologia del fattore spaziale, distinguendo tra qualità dello spazio (esclusività, delimitazione, fissazione, distanza) e forme spaziali derivanti dall'agire collettivo. Durkheim, formulando il concetto di morfologia sociale, indicava, accanto alle forme in cui era strutturata la società, una serie di elementi connessi alle caratteristiche dello spazio quale oggetto di studio della morfologia stessa:

il numero e la natura delle parti elementari di cui è composta la società

la maniera in cui esse sono disposte

il grado di connessione a cui sono giunte

la distribuzione della popolazione sulla superficie del territorio

il numero e la natura delle vie di comunicazione

la forma delle abitazioni, ..

Tra i contributi più importanti per lo sviluppo iniziale della sociologia urbana sono inoltre da ricordare le ricerche della Scuola di Chicago, in particolare di Robert Park e di Ernest Burgess; le ricerche dei coniugi Lynd; gli studi e ricerche di William Ogburn, Louis Wirth, Chombart de Lauwe, Lewis Mumford. Se non si può negare che l'ambiente naturale abbia un'indubbia influenza sui caratteri specifici dei diversi tipi di società, è molto difficile isolare gli elementi puramente naturali da quelli artificiali messi in opera dall'azione degli attori sociali e dalle forme culturali attraverso cui gli elementi naturali vengono sempre mediati.

da un lato ciò che viene comunemente indicato come ambiente naturale è già di fatto il risultato di una selezione tra i numerosi aspetti di una realtà complessa, difficilmente circoscrivibile " ogni dato naturale è infatti sempre percepito all'interno di una rappresentazione culturale del mondo e della concezione dell'esistenza umana

dall'altro   lo stesso ambiente naturale è anche, quasi sempre, il prodotto dell'azione diretta di trasformazione posta in essere dall'uomo (delimitazione degli spazi, coltivazioni, disboscamento, creazione di dighe, ..), nonché degli effetti indiretti provocati dallo sviluppo tecnologico che hanno modificato il clima, la temperatura, la qualità dell'atmosfera, ..

Non è quindi possibile interpretare il rapporto uomo-ambiente secondo uno schema deterministico unilineare di causa-effetto, bensì occorre adottare anche qui uno schema di tipo circolare, analizzando il gioco delle influenze reciproche. Anche se Lucien Febvre attribuisce un primato forse eccessivo all'azione umana, non vi è dubbio che non è possibile stabilire in senso univoco il tipo di influenza dell'ambiente naturale sulla realtà sociale, anche perché, a seconda dei casi, condizionamenti simili possono avere effetti diversi e, viceversa, condizionamenti diversi effetti simili: condizioni di particolare facilità ambientale possono costituire fattori di sviluppo come di stagnazione di apatia, mentre condizioni particolarmente difficili, anziché produrre effetti negativi, possono costituire stimoli per la formazione di società attive e di culture molto resistenti nel tempo. Tutto dipende da come i fattori naturali interagiscono, nei vissuti delle diverse esperienze storiche concrete, con i diversi fattori psicologici, culturali e sociali. Per questa ragione, appare corretta l'interpretazione del rapporto uomo-ambiente nei termini di sfida e risposta, proposta da Arnold Toynbee. Adottando tale prospettiva, l'ambiente naturale può essere considerato come un "complesso di possibilità", nei confronti del quale si sviluppa l'azione selettiva degli attori sociali. Analogamente, se si considerano le strutture dell'ambiente di vita prodotte dalle collettività (es: le abitazioni e le articolazioni delle città), possiamo constatare

da un lato che tali strutture riflettono esigenze funzionali di protezione e di difesa ma

dall'altro    sono anche espressione del modo di concepire l'unità familiare, i rapporti tra i sessi, i gruppi di età, le diverse classi sociali, ..

La distribuzione degli spazi all'interno della casa riflette i rapporti di autorità e i criteri di controllo sessuale (es: l'harem) propri di una cultura e di una determinata realtà economica e politico-sociale. Ma, una volta costruita, la struttura dell'abitazione contribuisce a rafforzare le rappresentazioni dei ruoli degli attori sociali, i rapporti gerarchici e quelli sessuali, al punto che le regole culturali potranno essere vissute come regole naturali. Allo stesso modo, le strutture urbane riflettono le esigenze funzionali di difesa, controllo sociale, distribuzione delle classi, esercizio del potere politico, .. ma, una volta impiantate, determinano i comportamenti sociali, contribuendo a far apparire l'ordine costituito come qualcosa di oggettivo e di indipendente dalla volontà umana. Si pensi, ad esempio, quanto i fenomeni di ghettizzazione all'interno delle città abbiano contribuito a rafforzare il pregiudizio sociale nei confronti di minoranze etniche (es: gli ebrei) o verso fasce emarginate della popolazione (es: il sottoproletariato urbano), accentuando la distanza sociale tra i diversi gruppi e tra le classi e favorendo, in quelle stesse zone, lo sviluppo di comportamenti devianti (es: criminalità, droga, prostituzione, ..), con il risultato di un ulteriore rafforzamento dei pregiudizi sociali nei confronti di tali minoranze, in un circolo vizioso apparentemente senza via d'uscita. Le strutture ambientali artificiali presentano anch'esse una profonda ambivalenza: come ha messo bene in evidenza Georg Simmel, la grande città può offrire un aumento delle possibilità di scelta e di comunicazione tra gli individui, ma anche, nel carattere anonimo che la caratterizza, costituire una fonte di solitudine e di alienazione. Un discorso analogo può essere fatto per quelle costruzioni urbane in cui più accentuato è il carattere simbolico di rappresentazione della struttura (es: i palazzi pubblici, le chiese, i monumenti, le piazze, ..): tali costruzioni possono costituire punti di riferimento essenziali per il rafforzamento dell'identità collettiva, incidendo profondamente nelle rappresentazioni dell'ordine sociale, ma, al tempo stesso, sono anche spesso l'espressione di strutture consolidate di dominio.

I.II. Il tempo.

Tra le dimensioni che determinano i caratteri propri dell'ambiente sociale va considerata anche la temporalità, che interviene in tutte le relazioni sociali e negli stessi rapporti con le cose materiali e con le forme istituzionali. Anche se i processi naturali hanno indubbiamente un loro ritmo ed una loro durata indipendente (il giorno e la notte, le stagioni, ..), è, in un certo senso, improprio considerare il tempo come una condizione "esterna" dell'ambiente. In ogni caso, la possibilità di stabilire una continuità narrativa tra passato, presente e futuro ha, come ha mostrato Alfred Schütz, un'importanza essenziale per la comprensione dell'agire umano. Il tempo è anche il risultato delle rappresentazioni culturali e delle aspettative socialmente codificate e, come tale, acquista una valenza oggettiva nella costruzione della realtà sociale. A seconda infatti del tipo di rapporto che gli attori sociali stabiliscono con il loro ambiente, il tempo può essere concepito

come dimensione circolare reversibile, come avveniva nelle società tradizionali fondate sull'agricoltura

oppure

come dimensione lineare irreversibile, come nelle società industriali in cui la produzione, essendo svincolata dai ritmi stagionali, si orienta verso uno sviluppo tendenzialmente infinito

La celerità dei mezzi di trasporto e la velocità delle informazioni e dei mezzi di comunicazione della società attuali hanno contribuito, ad esempio, ad accelerare i ritmi di vita in maniera mai prima conosciuta. Malgrado siamo abituati a considerare il tempo come qualcosa che può essere calcolato (il calendario, l'orologio), il tempo come dimensione del vissuto esistenziale presenta una caratteristica dimensione di indeterminatezza, non solo come riferimento all'imprevedibilità del futuro, ma talvolta anche rispetto alla possibilità che il passato ed il presente presentino degli aspetti inattesi a causa della reinterpretazione di elementi dimenticati o rimossi. L'esigenza di prevedibilità che è una condizione di base essenziale per la costituzione di ogni ordine sociale, passa quindi anche attraverso il problema di una regolazione del rapporto con il tempo, come definizione del passato (es: storiografia), come normativa dell'uso del tempo e fissazione dei ritmi di quest'ultimo, nonché come anticipazione del futuro. Karl Marx, nella sua analisi del modo di produzione capitalistico, ha posto in luce il rapporto tra il valore della forza lavoro ed il tempo necessario per produrre quest'ultima, delineando una concezione del tempo come variabile economica e come risorsa che sottolinea lo stretto legame tra strutture e ritmi della produzione e la percezione del tempo presente in un determinato contesto sociale. Sulla base della distinzione che si verifica nelle società capitaliste tra tempo di lavoro e tempo extra-lavorativo, Marx ha anche posto le premesse per lo sviluppo degli studi sociologici sul "tempo libero". Riprendendo il concetto di tempo sociale di Durkheim, che aveva osservato che "è il ritmo della vita sociale che è alla base del tempo", Coser afferma che "non solo il conto del tempo, ma anche il modo in cui i membri del gruppo si riferiscono al passato e al futuro, cioè la loro prospettiva del tempo, dipende in larga misura dalla struttura e dalle funzioni del gruppo". Nella stessa direzione, Robert K. Merton ha sviluppato la sua teoria delle aspettative sociali di durata, ovvero di quelle aspettative socialmente prescritte o modellate su durate temporali che sono radicate in strutture sociali di vario tipo, per esempio la lunghezza del tempo durante la quale agli individui è istituzionalmente permesso di recuperare status particolari (cariche nelle organizzazioni, partecipazione a gruppi, ..); le probabili durate presunte di diversi tipi di relazioni sociali (amicizia, rapporto tra professionista e cliente, ..); le definizione e le anticipazioni circa la longevità di individui, gruppi, organizzazioni, .. L'interesse, a livello sia teorico sia metodologico, per la dimensione temporale dei fenomeni sociali è andato via via crescendo fino ai giorni nostri. Se in passato, oltre a Durkheim, autori come Halbwachs, Schütz, Sorokin e Gurvitch hanno dato importanti contributi all'approfondimento della nozione di tempo sociale, in anni più recenti possiamo ricordare in particolare la grande varietà di ricerche empiriche sul time budget, ovvero sul modo in cui, nella vita quotidiana, viene usato il tempo.

I.III.     Il corpo.

Nel caso del corpo umano, anche se questa struttura comporta indubbiamente certi caratteri naturali specifici, non può essere considerata indipendentemente dall'esperienza cosciente che l'essere umano ha del proprio corpo, né dall'influenza delle forme culturali e sociali che incidono non solo sulle rappresentazioni di esso nei loro molteplici significati, ma anche sull'evoluzione di alcune caratteristiche fisiche. Il corpo è l'elemento attraverso il quale noi ci apriamo al mondo, stabiliamo i rapporti intersoggettivi e sviluppiamo ogni forma di comunicazione e di riconoscimento reciproco: il corpo si inserisce quindi nella circolazione simbolica che caratterizza la realtà sociale e, come tale, dev'essere principalmente considerato nell'analisi sociologica. Il rapporto con il proprio corpo è un'esperienza del tutto particolare, in quanto, come ha mostrato Paul Ricoeur, il nostro corpo non è un oggetto esterno a noi, non possiamo infatti vederlo in tutte le sue parti, ma non è neppure un soggetto, in quanto il corpo ha una sua consistenza fisica irriducibile alla pura capacità riflessiva. Il tema del corpo evidenzia, secondo Ricoeur, 3 aspetti fondamentali:

l'esperienza del proprio corpo come campo della motivazione, che, rinviando allo spessore e all'opacità dell'ambito pulsionale, mostra come le motivazione del nostro agire non sono puramente dovute a deliberazioni razionali

il proprio corpo come organo della mozione volontaria, che pone in evidenza come ogni fare è sempre sin dall'inizio movimento fisico, gesto, atteggiamento, comportamento

il proprio corpo come ambito dell'involontario, che rinvia al fatto che il corpo, in quanto dimensione che sfugge alle mie intenzioni consapevoli, è sempre anteriore a qualsiasi azione

Si configura qui l'esperienza del ritrovarsi già nato, di essere-nel-mondo come condizione già affettivamente qualificata (angoscia, paura, gioia, ..) anteriore ad ogni consapevolezza cosciente e ad ogni conoscenza, così come anche l'esperienza di avere delle caratteristiche che non abbiamo scelto, di essere portati da un fondo pulsionale inconscio. Il corpo umano va infatti considerato come un'unità nella quale la dimensione fisica e quella psichica sono intimamente intrecciate: tutta la struttura biologica del corpo umano subisce variazioni a seconda degli stati emotivi, i quali non sono solo risposte a stimoli fisiologici, ma nascono anche da problemi di tipo esistenziale culturalmente mediati. D'altra parte, anche la sensibilità, le percezioni del mondo esterno, le emozioni, le forme espressive e gestuali del corpo, il "carattere" di una persona, le stesse forme patologiche della nevrosi e della psicosi sono profondamente condizionati dalle forme culturali e sociali. La profonda incidenza delle forme culturali che, sin dalla nascita, agiscono sull'individuo, condizionano tutti i rapporti con il proprio sé, con il proprio corpo, con gli altri e con le cose, e rende, quindi, problematica l'applicazione all'uomo del concetto di istinto e la stessa possibilità di definire dei bisogni puramente biologici. Anche se l'istinto di conservazione e i bisogni primari legati alla sopravvivenza e alla riproduzione possono essere considerati come strutture naturali originarie, esse non danno luogo nell'individuo a comportamenti univoci. L'essere umano è l'unico animale che può consapevolmente contrastare l'istinto di conservazione in nome di significati ideali, di tipo religioso, ascetico, morale, politico, estetico, affettivo, .. fino alla propria estinzione e addirittura fino all'estinzione della stessa specie umana. D'altra parte, le stesse funzioni biologiche (alimentazione, sessualità, ..) assumono sempre significati simbolici e sono regolate socialmente, al punto che tali funzioni non possono essere interpretate unicamente come determinate dal bisogni fisico, ma diventano espressione dei significati immaginari i più diversi (es: nell'anoressia e nella bulimia il fatto di alimentarsi può esprimere simbolicamente il bisogno psicologico di richiesta di amore o essere una forma di aggressività, di insicurezza circa la propria identità o di ambizione sfrenata di controllo dell'altro, ..). Si mostra qui l'intimo nesso che unisce struttura biologica e dimensione esistenziale legata alla coscienza, così che diventa difficile isolare l'una dimensione dall'altra. Le forme culturali che presiedono alla nascita e all'allevamento del bambino e al tipo di relazioni che egli intrattiene con gli adulti o con i suoi coetanei, le abitudini alimentari e vestimentarie, nonché le forme di socializzazione secondaria (modelli educativi, forme di apprendimento, riti di iniziazione, esperienze lavorative, ..) determinano di volta in volta anche il rapporto con il proprio corpo e con i suoi bisogni. In particolare, le regole riguardanti la sessualità determinano le caratteristiche proprie della mascolinità e della femminilità, incidendo sulla gestualità fisica e sul comportamento. Le abitudini sociali, le credenze pratiche, gli stili di vita incidono così profondamente da essere letteralmente incorporati nel modo di atteggiarsi, parlare, camminare e, di conseguenza, anche sentire e pensare. Le stesse caratteristiche somatiche di un gruppo o di una popolazione possono venire nel lungo periodo modificate per effetto della selezione dettata da regole estetiche o eugenetiche (= che hanno per fine il miglioramento della razza umana), attraverso le scelte matrimoniali, le tecniche di educazione e di cura del corpo, le diete alimentari: basti pensare, ad esempio, all'importanza che hanno assunto nelle società sviluppate di oggi la prestanza fisica, l'ideale della magrezza, dell'altezza, .. Per tutti questi motivi, anche il fenomeno delle differenze razziali non può mai essere riferito soltanto a fattori di tipo biologico, ma è sempre anche il prodotto di un processo la cui complessità va valutata in una prospettiva storico-sociale. La confusione tra dimensione culturale e dimensione razziale operata in passato da numerosi autori è all'origine di ogni moderno pregiudizio sull'inferiorità di alcune razze rispetto ad altre. In questo caso, infatti, si verifica un caratteristico fenomeno di etnocentrismo, ovvero l'atteggiamento di chi, assolutizzando i valori della propria cultura di appartenenza, li usa come criteri di giudizio nei confronti delle altre culture, considerandole inferiori. Tale presunta inferiorità, basata su criteri culturali, viene tuttavia attribuita, in modo incongruo, a fattori biologici. Ciò che è diverso viene automaticamente considerato come "barbaro" o "selvaggio", respingendo nella natura tutto ciò che non si conforma ai modelli secondo i quali si ha l'abitudine di vivere. Nel corpo non solo talvolta si iscrivono anche materialmente (circoncisione, infibulazione, tatuaggi, ..) i segni sociali e culturali, ma esso costituisce anche uno dei luoghi privilegiati su cui si esercitano il controllo ed il potere sociali. Basti pensare alle regole della sessualità che subordinano quest'ultima alle funzioni sociali della riproduzione, al controllo delle tendenze omosessuali, che, a causa del loro carattere polivalente e edonistico, vengono sentite generalmente come una minaccia per l'ordine sociale fondato sulla famiglia e quindi considerate "contro natura". La vulnerabilità del corpo costituisce una delle condizioni più importanti utilizzate dalle diverse forme, più o meno violente, di coercizione sociale.

I.IV. Le risorse materiali.

Le condizioni materiali della sopravvivenza, connesse alle caratteristiche dell'ambiente naturale, possono essere considerate, in astratto, strutture originarie di tipo oggettivo, che condizionano le possibilità dell'agire sociale e hanno un'influenza determinante sulle forme dell'organizzazione sociale. Anche in questo caso, diventa difficile isolare le componenti puramente materiali dall'azione che l'uomo sviluppa nei loro confronti. In un'economia di sostentamento primario, il rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale appare molto dipendente dalle risorse dell'ambiente stesso. Ma anche in tali condizioni le capacità conoscitive dell'uomo e la sua abilità entrano, in una certa misura, come elementi attivi nella determinazione di un dato prodotto naturale in quanto oggetto d'uso. Ciò, ovviamente, diventa ancora più vero quando si passa da un'economia semplice ad una più complessa. Ma è soprattutto quando si considera la capacità di lavoro e di produzione sviluppatasi con le applicazioni industriali, che si deve riconoscere che l'attività dell'uomo assume una dimensione creativa nella produzione di risorse in modo relativamente autonomo rispetto all'ambiente naturale. In questa situazione appare quindi impossibile considerare le risorse materiali come un dato oggettivo indipendente, in quanto l'economia appare come il risultato di capacità connesse alle facoltà conoscitive e simboliche dell'uomo e a scelte che non sono unicamente dettate dal problema della pura sopravvivenza, ma da valori edonistici, estetici, politici, difficilmente riconducibili ad un'ipotetica base economica naturale. Anche in questo caso quindi non è possibile stabilire un puro determinismo di causa-effetto tra struttura economica e forme sociali, in quanto queste ultime appaiono, a loro volta, come produttrici di realtà economica. Se, ad esempio, consideriamo una risorsa naturale come il petrolio, dobbiamo riconoscere che essa diventa un fattore economico solo nel momento in cui l'uomo la inventa come risorsa. Tale invenzione, che tanti riflessi condizionanti ha sulla vita sociale, non è solo il prodotto di una pura ricerca economica, bensì in primo luogo di un cambiamento nell'atteggiamento verso la realtà, che è legato all'esperienza sociale e alle forme di mediazione simbolica. Il passaggio da un atteggiamento di tipo sacrale verso la natura (petrolio come manifestazione di un dio sotterraneo e misterioso) ad un atteggiamento di manipolazione e di sfruttamento di quello stesso elemento naturale (petrolio come fonte di energia) non trova spiegazione in nessun semplice determinismo, ma nella complessità dell'esperienza collettiva, nella quale, accanto ai fattori legati allo sviluppo di condizioni materiali, giocano numerosi altri fattori psicologici e culturali. L'aspetto oggettivo-deterministico legato all'ambiente naturale si rivela quindi puramente nel limite che l'ambiente stesso pone alla possibilità di sfruttamento delle risorse: siamo ben consapevoli del carattere distruttivo che possono avere interventi indiscriminati nell'ambiente ecologico. A questo riguardo è interessante il problema posto dal concetto di scarsità, che è alla base di ogni modello logico dell'agire economico. La scarsità può infatti essere pensata

o  in senso assoluto, come limite esterno posto dall'insieme delle risorse dell'ecosistema, nel qual caso essa appare come una dimensione oggettiva, in ultima analisi, insuperabile

o  invece, più concretamente, come il prodotto del rapporto dell'agire umano con l'ambiente naturale

In questo secondo senso, la scarsità appare in sé come una condizione superabile, a patto che l'attività di sfruttamento delle risorse e quella della distribuzione dei benefici del lavoro vengano ordinate tenendo conto della complessità dei problemi che nascono nel rapporto con l'ambiente naturale e nell'organizzazione sociale. Sotto questo aspetto, la scarsità appare il più delle volte come un effetto perverso non voluto, o talvolta invece provocato intenzionalmente. Non voluto, nel caso in cui la scarsità è la conseguenza di squilibri e di deformazioni connesse all'incapacità di controllo della complessità; intenzionale, quando la scarsità è la conseguenza di una logica di dominio politico o economico (es: monopolio, colonizzazione, ..). Come sottolineano oggi i diversi movimenti ecologisti, il concetto di scarsità, quindi, non può essere utilizzato come riferimento a condizioni oggettive in senso assoluto, che giustificherebbero la disuguaglianza dei rapporti all'interno di una società o tra società diverse, ma dev'essere considerato come effetto dell'agire politico e sociale. Per questa ragione, l'analisi sociologica dei processi economici tende oggi a discostarsi dalla linea di tipo deterministico della tradizione marxista, per orientarsi verso una più complessa valutazione dei fattori in gioco nella dinamica economica, che ha la sua origine nel metodo storico, sviluppato in sociologia soprattutto da Werner Sombart e da Max Weber. Un importante contributo per il riconoscimento dell'incidenza delle componenti sociali istituzionali nella realtà economica è contenuto nelle opere del sociologo Thorstein Veblen. Successivamente Talcott Parsons e Neil Smelser hanno ripresto, nella loro teoria dei rapporti tra economia e società, alcuni elementi weberiani, considerando l'economia come un sottosistema del sistema sociale. Le impostazioni più recenti dell'analisi sociologica sui fenomeni economici concordano nel mostrare l'interdipendenza dei diversi fattori materiali, culturali, sociali, politici e si sono dedicate soprattutto ad interpretare le forme assunte dal capitalismo nelle società più sviluppare.

I.V.    Le caratteristiche demografiche e la stratificazione sociale.

Georg Simmel ha sottolineato l'importanza che le dimensioni quantitative possono avere sulle forme e le strutture della vita sociale: il volume globale delle persone che componono un gruppo sociale può avere infatti un'incidenza determinante sul tipo di relazioni che si svolgono nel gruppo stesso. L'entità numerica totale dei membri di una società ha conseguenze dirette sul grado di complessità strutturale della società stessa: società relativamente piccole dal punto di vista numerico potranno avere strutture più semplici, un grado maggiore di omogeneità e forme di relazione di tipo comunitario, a carattere più direttamente interpersonale; il contrario per società con una popolazione molto numerosa. Oltre al volume totale della popolazione, è ovviamente importante anche il rapporto tra il numero dei membri e l'estensione del territorio, ovvero la densità della popolazione: anche in questo caso, infatti, il grado di densità potrà avere conseguenze dirette sulle relazioni sociali, oltre che sulla disponibilità delle risorse spaziali ed economiche. Parametri rilevanti accanto alla dimensione numerica sono le caratteristiche connesse alla distribuzione dell'età e dei sessi: popolazioni nelle quali vi sia una maggioranza relativa di giovani avranno problemi diversi da quelle in cui vi è una maggioranza relativa di anziani, e così pure possono variare problemi e caratteristiche a seconda del maggiore o minore equilibrio nella distribuzione dei 2 sessi. I caratteri demografici di una popolazione possono inoltre avere influenza non solo sui rapporti interni, ma anche su quelli internazionali, qualora si pensi ai processi migratori, agli scambi commerciali, alla possibilità di conflitti armati, .. Le statistiche demografiche, sia di tipo sincronico (situazioni nel momento dato), sia di tipo diacronico (andamento nel tempo), costituiscono quindi una fonte indispensabile di notizie per il sociologo, qualunque sia il tipo di fenomeno che deve studiare. Accanto ai dati demografici, possono essere considerati, per certi aspetti, come dati "oggettivi" anche quelli relativi alla stratificazione sociale, ovvero alla distribuzione dei diversi status connessi al reddito e all'attività lavorativa. Il fenomeno della stratificazione sociale e della formazione delle classi non può tuttavia essere interamente ricondotto solo alle strutture della divisione del lavoro sociale, ma è anche il risultato delle rappresentazioni degli attori sociali nel loro rapporto con i valori e le istituzioni proprio del loro contesto sociale. Se in Marx le strutture di classe sono riferite direttamente ai rapporti di produzione (occupazione, reddito, proprietà), i diversi livelli della stratificazione sociale appaiono legati anche ad altre dimensioni qualificanti, come la provenienza etnica e familiare, lo stile di vita, il prestigio, il grado di istruzione, i tipi di appartenenza associativa (culturali, politici, ricreativi, ..). La percezione dell'appartenenza ad un determinato strato sociale può avere la sua origine nella tradizione di una posizione sociale precedente a quella attualmente occupata, ed essere legata a criteri di valore, validi nella cultura del passato o nel presente, e ad elementi psicologici connessi al particolare ideale di vita che ciascuno ha, ovvero al gruppo di riferimento in base al quale un individuo determina i suoi criteri. Non si deve inoltre trascurare, nell'attribuzione dello status sociale, il ruolo che vi svolgono i rapporti di potere, spesso relativamente autonomi da quelli di tipo economico. Per questa ragione, appare opportuna la distinzione introdotta da Max Weber, rispetto alla teoria marxiana della classi, tra il concetto di classe ed il concetto di ceto. Per Weber

la classe è espressione di una posizione di tipo puramente economico, che in sé non costituisce una comunità, ma solo un "fondamento possibile" di agire in comunità, secondo un concetto che richiama quello di classe in sé di Marx

il ceto, invece, è di regola una comunità, anche se "spesso di genere amorfo", che si fonda su valutazioni comuni di "onore" e su "condotte di vita" convenzionali (regole dell'educazione, abitudini di consumo, ..): esso pertanto appare molto più indipendente, che non la classe, da elementi di tipo puramente economico

Lo sviluppo successivo della teoria della stratificazione sociale ha tenuto conto della maggiore complessità del fenomeno, mostrando la varietà dei criteri che possono essere assunti dai diversi individui e gruppi sociali, così come dagli scienziati sociali, nel definire lo status sociale e l'appartenenza di classe.

II.   Le istituzioni e le organizzazioni formali. (le STRUTTURE del sistema sociale)

Le istituzioni e le organizzazioni formali possono essere definite sistemi relativamente stabili di relazioni, retti da norme specifiche, che assolvono a funzioni ed interessi della vita sociale come tale. Il concetto di istituzione, se ha assunto un significato preciso nelle scienze giuridiche, non ha un significato altrettanto definito e univoco nelle scienze sociali. Secondo il punto di vista qui adottato, le istituzioni sociali possono essere considerate forme complesse di mediazione simbolica volte alla regolamentazione di funzioni generali della vita sociale (riproduzione, socializzazione, produzione, governo, controllo, ..), mentre le organizzazioni formali (un'azienda, una casa editrice, un ufficio di propaganda politica, ..) sono volte al perseguimento di interessi specifici. Se, tuttavia, le istituzioni presentano caratteri in parte diversi da quelli delle organizzazioni, nei casi concreti non è sempre facile distinguere i confini che le separano. Nella misura in cui le forme organizzative ed istituzionali vengono codificate nell'uso, nel costume o in statuizioni normative di tipo legale, esse assumono una relativa stabilità, che assicura loro una certa autonomia rispetto ai soggetti che contribuiscono a mantenerle in vita. Se di per sé infatti nessuna organizzazione o istituzione può sussistere senza il supporto delle rappresentazioni e delle credenze di attori sociali, che orientino effettivamente su di esse le loro aspettative reciproche e i loro comportamenti, è anche vero che gli attori tendono ad assimilare, tramite il linguaggio e l'apprendimento, le forme consolidate delle rappresentazioni, dei modelli di comportamento, dei ruoli e delle altre regole che costituiscono le organizzazioni o le istituzioni. In questo senso, si può quindi parlare della presenza di strutture che contribuiscono alla formazione dei soggetti sociali e ne condizionano l'agire. Come tutte le altre forme di mediazione simbolica, anche le istituzioni e le organizzazioni formali debbono essere dotate di un certo grado di assolutizzazione, ma se quest'ultimo diventa eccessivo, esse rischiano di cristallizzarsi, venendo meno alle loro funzioni e provocando contraddizioni ed effetti non voluti, che l'agire sociale deve prima o poi cercare di correggere. John Searle ha cercato di comprendere come vengono a costruirsi nella realtà sociale i fatti istituzionali, indicando con l'espressione intenzionalità collettiva la capacità degli individui non solo di cooperare, ma anche di partecipare a desideri, credenza, intenzioni comuni. Vi sono situazioni nelle quali io faccio qualcosa solo come parte del nostro fare qualcosa (es: giocare in una squadra di calcio, suonare in un'orchestra). Persino in molte forme di conflitto si rende necessaria la partecipazione all'intenzionalità collettiva (es: fare una guerra, un processo). In questo caso, la mia intenzionalità è espressa direttamente nella forma "noi intendiamo". L'intenzionalità collettiva è quindi una delle dimensioni costitutiva delle istituzioni sociali. Condizione per l'esistenza di un'istituzione sociale, secondo Searle, è la presenza di regole costitutive. I fatti bruti (es: il fatto che il sole dista tot milioni di chilometri dalla terra) non hanno bisogno di regole costitutive, in quanto tali fatti sono indipendenti da ogni linguaggio o convenzione sociale. Le istituzioni sociali, al contrario, non svolgono una funzione puramente regolativa di fenomeni che già esistono, ma fondano l'esistenza del fenomeno stesso (es: il gioco degli scacchi non esisterebbe senza regole costitutive). Sulla base di questi presupposti, Searle individua i caratteri propri dei fatti istituzionali:

il 1° carattere          è quello dell'autoreferenzialità: il fatto che i pezzi di carta che ho in tasca siano moneta, è basato sulla credenza collettivamente condivisa che essi sono moneta

il 2° carattere          è rappresentato dalla presenza di una componente linguistica, essenziale non solo per rappresentare tali fatti, ma anche per costituirli: in certi casi, i fatti istituzionali dipendono da illocuzioni di tipo performativo (es: la guerra è dichiarata, il processo è aperto, ..)

il 3° carattere          pone in evidenza che un fatto istituzionale non può esistere in maniera isolata, ma è sempre fondato sull'interrelazione con altri fatti istituzionali: il denaro esiste in quanto interrelato con il sistema delle banche, del mercato finanziario, degli scambi commerciali, ..

il 4° carattere          riguarda la circostanza che i fatti istituzionali sono sempre precostituiti dall'agire sociale, in quanto essi hanno origine in atti sociali e la loro funzione è quella di consentire la continuità dell'agire stesso

La realtà sociale appare quindi fondata su costanti processi di creazione e riproduzione di fatti istituzionali, che sussistono sulla base di credenze ed intenzionalità collettive e sull'osservanza, nell'agire pratico, delle regole che li costituiscono

(Verranno ora considerate alcune delle più importanti forme istituzionali e organizzative; le osservazioni formulate si limitano a fornire solo gli orientamenti generali, cercando soprattutto di mettere in evidenza il carattere ambivalente e differenziato delle funzioni istituzionali e le loro trasformazioni nel tempo, quali risultano dalla ricerca sociologica)

II.I. Le istituzioni familiari.

Si è più volte sottolineato il carattere non univoco del termine famiglia che, nel corso del tempo e a seconda di diversi luoghi, viene usato per designare i rapporti sessuali, la procreazione, i processi di socializzazione primaria, la successione ereditaria di beni o di cariche sociali. L'importanza di ciascuna di queste dimensioni, d'altra parte, ha subito anch'essa variazioni nel tempo, così che le funzioni della famiglia mutano a seconda del tempo e dei luoghi. Prima che il carattere storico della famiglia venisse riconosciuto, essa tendeva ad essere considerata in modo astratto, come istituzione universale e immutabile. Per Comte, ad esempio, la famiglia è la cellula primaria della società, anche se la dimensione sociale e quella familiare, pure nel riconoscimento della loro intima connessione, vengono considerate da Comte come irriducibili una all'altra. La famiglia, per Comte, costituisce anche una delle principali fonti della moralità sociale. Le teorie evoluzionistiche di tipo etnologico, sviluppatesi nella seconda metà dell'800, hanno contribuito notevolmente ad una prima presa di coscienza delle trasformazioni storiche dell'istituto familiare, anche se, coerentemente con il presupposto del carattere unilineare del processo evolutivo, esse hanno avuto la tendenza a stabilire una continuità fra tali trasformazioni. Nei diversi schemi interpretativi adottati, il tipo di famiglia monogamico nucleare (coppia + figli), che caratterizza le società moderne, viene visto come il risultato finale di un processo che ha alla sua origine forme indifferenziate di mescolanza sessuale, cui seguono fasi successive (poliandria = una donna con più uomini, poligamia = un individuo con due o più individui dell'altro sesso, monogamia = un solo uomo e una sola donna) di sempre maggiore strutturazione e differenziazione dell'unità familiare. In questa prospettiva, è sorto anche l'interrogativo circa il destino futuro della famiglia: quale sarà la tappa evolutiva successiva di questa istituzione?? Le risposte sono state diverse, a seconda che la tesi fosse volta a dimostrare la necessità di una permanenza dell'istituzione familiare, oppure la fatalità, augurata o sperata, della sua scomparsa. Per Friedrich Engels, ad esempio, che si basa sulle teorie di Lewis Morgan, la famiglia borghese è il prodotto della struttura economica fondata sulla proprietà privata: in essa la logica di dominio propria del sistema capitalistico si riflette nel rapporto di subordinazione della donna. Engels immagina la famiglia della futura società comunista come un rapporto libero di coppia fondato sull'amore; la cura dei figli, in tale tipo di società, verrebbe affidata alla comunità. Al di là delle controversie, rimaste in gran parte senza risposta, sul carattere originario o meno della famiglia nucleare, un contributo decisivo all'approfondimento della funzione sociale dello scambio matrimoniale si deve alla teoria strutturalista di Lévi-Strauss, il quale ha sottolineato come le regole che presiedono alla costituzione della famiglia, attraverso lo scambio esogamico (= che impone il matrimonio fuori dal proprio gruppo sociale), abbiano la funzione di estendere i vincoli della solidarietà sociale al di là dei rapporti di consanguineità e di clan. La proibizione dei rapporti sessuali tra consanguinei (tabù dell'incesto) e tra appartenenti allo stesso totem fonda infatti l'esigenza di scambi tra diversi gruppi familiari e diversi clan, stabilendo regole di scambio, che favoriscono le comunicazioni e le alleanze tra i gruppi stessi, e di conseguenza anche la formazione di unità sociali più estese e complesse. Il tabù dell'incesto fonda la costituzione dell'elemento di base della parentela o "atomo di parentela", che si articola differenziando 3 tipi di relazioni familiari:

relazione di consanguineità (da germano a germano)

relazione di alleanza (tra gli sposi)

relazione di filiazione (tra genitori e figli)

Da questo momento, l'unità di base della parentela è formata da marito, moglie, figli e padre o fratello della madre. Tale unità di base, la più elementare ed economica che si possa concepire anche dal punto di vista teorico, è la chiave per interpretare i sistemi di parentela più complessi. Il sistema di parentela, tuttavia, non ha la stessa importanza in tutte le culture: in alcuni casi esso fornisce il principio attivo che regola tutte o quasi tutte le relazioni sociali; in altri, come nelle società contemporanee, tale funzione appare assente o per lo meno molto attenuata. L'impostazione data da Lévi-Strauss al problema della struttura della parentela ha dato avvio a numerosi studi e ricerche su questo tema, anche se alcuni hanno criticato l'eccessivo schematismo del modello. Dal punto di vista sociologico, le trasformazioni delle funzioni sociali dell'istituto familiare, nel passaggio da società di tipo pre-industriale a società di tipo industriale, sono state inizialmente analizzate soprattutto da Max Weber, Ferdinand Tönnies, Emile Durkheim.

Max Weber ha posto in particolare evidenza come la famiglia non sorge solo come "comunità sessuale durevole", ma anche come "comunità economica di sostentamento": le relazioni sessuali e i rapporti tra genitori e figli "acquistano il loro significato normale per la produzione di un agire di comunità solamente in quanto diventano le basi normali, anche se non uniche, di un gruppo specificamente economico: la comunità domestica". La comunità domestica, pur non avendo sempre la stessa posizione all'interno della società, appare come la comunità economica "universalmente più diffusa" ed è la base, secondo Weber, anche dei rapporti di autorità. La comunità domestica comporta una "solidarietà verso l'esterno" e una "comunità di uso e di consumo di beni quotidiani all'interno" e la sua continuità si fonda su una "relazione di rispetto strettamente personale". Con lo sviluppo della società di tipo commerciale e industriale moderna, il potere domestico tende a restringersi e le unità familiari allargate, composte dal gruppo parentale esteso (genitori, figli, nipoti, parenti non sposati, ..) e dal gruppo dei servi, tendono a dissolversi. Esse lasciano il posto alla famiglia caratterizzata dalla separazione contabile dei beni dell'uomo e della donna, dando avvio al processo di emancipazione dei figli, fino alla costituzione del nucleo ristretto dei genitori e dei figli, che diventa la forma normale della famiglia. Anche se questo processo di trasformazione non avviene in eguale misura a tutti i livelli sociali e in tutte le situazioni, il desiderio di autonomia reso possibile da guadagni di tipo individuale, la separazione tra il luogo di abitazione ed il luogo di lavoro, il fatto che la formazione e l'apprendimento siano affidati all'esterno della famiglia, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa tolgono progressivamente all'unità familiare molte delle sue funzioni tradizionali, rendendo anacronistiche le sue strutture di tipo autoritario

In Ferdinand Tönnies, le trasformazioni dell'istituto familiare sono considerate in stretta relazione con l'opposizione tra comunità e società, che è alla base della sua teoria sociologica. La società pre-industriale di tipo comunitario è caratterizzata, secondo Tönnies, dalla volontà organica, ovvero dal predominio dei vincoli naturali connessi alla vita biologica, all'istinto, al piacere e fondati sul sostrato profondo ed inconscio del sentimento e della memoria. Nel regime comunitario la famiglia svolge una funzione essenziale come unità basata sulla comprensione e sulla solidarietà di intenti dei suoi membri. L'economia di tipo comunitario, in cui non esiste lo scambio di mercato, ha anche per Tönnies la sua base nell'economia domestica, che si sviluppa nella casa rurale o urbana, dove convivono il marito e la moglie (o le mogli), i figli e i servitori. Il modello della famiglia serve, in questo contesto, come riferimento per la vita e le strutture del villaggio o della piccola città, dove le norme sono fondate soprattutto sul costume, la tradizione, la religione. Nella società di tipo urbano-industriale invece prevale, secondo Tönnies, la volontà convenzionale o di arbitrio, che è il prodotto delle intenzionalità individuali di tipo riflesso ed egocentrico, orientate dalla razionalità strumentale e dal principio della concorrenza. Nel regime della società le relazioni sono artificiali, basate sul contratto e sul diritto, sulla funzione dello scambio, in base ad un riferimento di valore comune per tutti i soggetti (il denaro). Nella forma societaria prevalgono quindi il regime della separazione dei beni, i valori utilitaristici, il calcolo e la speculazione. In tale situazione la famiglia perde il suo primato e la solidarietà familiare cede il posto all'individualismo e ai gruppi di interesse economico: alla comunità domestica stabile viene sostituendosi la coppia coniugale instabile.

In Durkheim, invece, coerentemente con la sua teoria del carattere originario della società, in quanto fonte primaria della morale e del diritto, la famiglia è il prodotto del processo di sviluppo e di differenziazione progressiva della società stessa. La genesi e le trasformazioni dell'istituto familiare sono ricalcate sul modello evolutivo e appaiono articolate nelle seguenti fasi successive:

clan totemico esogamico amorfo (gruppo sociale, basato su un complesso di norme, credenze, usanze sociali, che impone il matrimonio fuori dal proprio gruppo sociale, e senza una forma precisa) " famiglia di clan differenziata, uterina (della stessa madre, ma di padri diversi) o patrilineare (che segue la linea di discendenza paterna) " famiglia agnatica (parente in linea maschile) indivisa " famiglia patriarcale romana " famiglia patrilineare germanica " famiglia coniugale

Anche in Durkheim tale evoluzione viene vista come passaggio progressivo dalla forma comunitaria alla forma individualistica. Nella prospettiva durkeimiana, la formazione dell'unità familiare ristretta coincide con l'affermarsi della società fondata sulla divisione del lavoro sociale, caratterizzata dalla solidarietà organica e dallo sviluppo delle corporazioni professionali, che tendono a sostituirsi alle precedenti forme familiari di tipo comunitario, anche se, mentre i membri della famiglia mettono in comune la totalità della loro esistenza, i membri delle corporazioni mettono in comune solo le loro preoccupazioni professionali. Se Durkheim ha una visione della società industriale meno negativa di quella di Tönnies, anch'egli riconosce tuttavia che la famiglia è destinata a perdere "l'unità e l'indivisibilità di un tempo e gran parte della sua efficacia". Malgrado ciò la famiglia per Durkheim conserva una funzione essenziale di integrazione come sede di valori morali.

La problematica relativa alle funzioni della famiglia nucleare nella società contemporanea è stata ampiamente ripresa da Talcott Parsons, che ha sostenuto la tesi della progressiva specializzazione della famiglia, come agenzia specifica di socializzazione e di integrazione sociale. Se la famiglia contemporanea ha perso molte delle sue funzioni economiche, educative, assistenziali, ricreative, per l'importanza che hanno assunto le strutture dell'organizzazione produttiva, le scuole, le istituzioni culturali e i mezzi di comunicazione di massa, i servizi sociali pubblici e privati, gli ambiti associativi e i gruppi di coetanei, essa conserva, secondo Parsons, la sua funzione indispensabile riguardo all'integrazione, nei primi anni di vita, dei valori sociali fondamentali, nel campo della formazione affettiva e cognitiva, nonché in quello della promozione dell'autonomia dell'individuo. La famiglia costituisce inoltre, secondo Parsons, un'area nella quale si allentano le tensioni che emergono nel mondo esterno e si rafforzano le capacità di controllo nei confronti dei problemi proprio della vita sociale. Se Parsons rivaluta la famiglia proprio per il suo carattere funzionale al mantenimento del sistema sociale, altri sociologi la mettono, appunto per questo, sotto accusa. Le ricerche di Adorno e di Horkheimer, Fromm, Marcuse denunciano infatti la dipendenza della famiglia dalle forme autoritarie prevalenti nella società e le sue intime connessioni con le strutture della proprietà privata. La società fondata sui valori e sulla struttura di dominio ha impresso la sua fisionomia anche sulla struttura e sui valori di orientamento dei rapporti familiari, ponendo in ombra i valori dell'amore e dell'autonomia personale, e favorendo invece quelli dell'obbedienza e del rispetto all'autorità costituita. D'altra parte, Adorno ha osservato giustamente che la famiglia, per il suo stesso carattere di unità fondata su legami biologici e su intime relazioni personali, riesce spesso a mantenere un proprio spazio autonomo nei confronti di quello pubblico. Nel privato gli individui hanno anche potuto sviluppare dimensioni di indipendenza e di contestazione degli ordini sociali costituiti, sfuggendo, almeno in certa misura, al peso repressivo del controllo sociale. Di fronte all'indebolimento delle strutture della famiglia, Adorno ricorda che la crisi della famiglia non coincide necessariamente con la crisi dell'autorità, ma anzi può costituire un passo ulteriore verso la riduzione dell'individuo ad atomo sociale e a strumento del potere politico. L'individuo, privo della possibilità di identificazione con la figura paterna, sarebbe portato, secondo Adorno, a sostituirla con quella di un'autorità sociale. In questa direzione, numerosi altri autori hanno messo in evidenza le carenze psicologiche che possono derivare da un affievolimento dei modelli superegoici forniti da figure parentali stabili. Il carattere ambivalente della funzione della famiglia mette quindi in evidenza il limite di quelle posizioni che hanno voluto individuare nella famiglia la causa di tutte le deformazioni della psiche individuale. L'approfondimento della diversità delle situazioni e delle forme della vita familiare mostra che non si devono considerare in senso univoco né le funzioni psicologiche e sociali della famiglia, né il significato della sua crisi. Nella progressiva frammentazione degli ambiti sociali che caratterizza oggi le società industriali sviluppate, la famiglia sembra, in diversi modi, mantenere un ruolo importante anche come rete di relazioni che forniscono assistenza e appoggi di tipo economico. La funzione della coppia parentale stabile nei processi di costituzione dell'identità individuale e dell'autonomia del soggetto appare difficilmente sostituibile, anche se, proprio per questo, la famiglia può diventare la fonte di gravi disturbi psichici. Pur riconoscendo quindi l'ambivalenza di fondo della famiglia, si deve osservare che essa rappresenta ancora un ambito privilegiato, nel quale possono svilupparsi quella comunicazione e quel riconoscimento reciproco ed incondizionato che costituiscono un requisito essenziale per il rafforzamento dell'autonomia del soggetto. Il rapporto di amore nelle sue diverse forme sembra possa trovare un adeguato approfondimento (riconoscimento dell'altro non solo nella sua identità, ma anche nella sua differenza o singolarità) solo in una continuità di rapporti, analoga a quella presente della forma familiare. In quanto ambito di vita quotidiana, la famiglia si presenta oggi nella nostra società come una struttura che riesce in molti casi a adattarsi alle diverse esigenze della vita individuale e collettiva, in modo forse più duttile di altre formazioni sociali. D'altra parte profonde trasformazioni del concetto stesso di famiglia sono in corso attualmente non solo nella tendenza che va affermandosi a riconoscere i diritti che emergono nelle coppie di fatto, comprese le coppie omosessuali, ma anche per le nuove possibilità di fecondazione artificiale, ad esempio con l'intervento di persone esterne alla coppia. Se la famiglia non è forse più, come in passato, la principale agenzia di socializzazione, essa continua a costituire un importante filtro delle influenze che provengono dalla scuola e soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa; il nucleo familiare conserva, malgrado tutto, una funzione dominante nella produzione di senso e nelle forme della comunicazione sociale, non solo nei primi anni di vita. Prescindendo pertanto da atteggiamento di tipo ideologico, a favore o contro la famiglia come tale, è preferibile cercare di cogliere, nelle situazioni concrete e ai diversi livelli delle vita sociale, le possibilità e le chiusure che l'istituzione familiare presenta nel suo rapporto con altre istituzioni e con il sistema sociale globale. Come tutte le altre forme istituzionali, anche la famiglia, nella sua profonda ambivalenza, corre il rischio o di costituirsi come una forma di mediazione eccessivamente assolutizzata e rigida, esclusivamente centrata sui propri interessi, oppure di prendere ogni connotazione, provocando un eccesso di indeterminatezza e di imprevedibilità nei rapporti primari. In particolare la ricerca sociologica contemporanea, a causa dei processi sociali che hanno portato i giovani ad assumere le caratteristiche di una categoria sociale autonoma, ha sviluppato numerose indagini sul mondo giovanile e sulle dinamiche che lo attraversano. Mentre negli anni 70 la sociologia si era accostata a questo problema soprattutto in modo teorico, enfatizzando gli aspetti conflittuali e considerando i giovani come portatori di una generale prospettiva di cambiamento, a partire dagli anni 80, si afferma una maggiore attenzione per la ricerca empirica, strettamente legata all'avvio di politiche di intervento pubblico a favore dell'età giovanile. In questo contesto si va affermando il concetto di condizione giovanile e, più in generale di questione giovanile, concetti questi recentemente criticati a seguito dell'affermarsi di processi di differenziazione interna all'universo giovanile, che non permettono più di considerare il mondo dei giovani come omogeneo e compatto.

II.II.     Istituzioni e organizzazioni culturali.

Le istituzioni culturali sono quei sistemi normativi di relazioni che assicurano lo svolgimento di funzioni specifiche connesse alla produzione e riproduzione dei significati, ovvero alla creazione, elaborazione e diffusione dei valori e delle forme di tipo cognitivo, estetico, etico, religioso, nonché all'apprendimento di competenze teoriche e pratiche. Tutte le istituzioni sociali, in quanto forme di mediazione simbolica, sono prodotti culturali che, nella loro interazione con l'esperienza vissuta, producono a loro volta cultura. Qui tuttavia vengono prese in considerazione quelle istituzioni che, come tali, hanno la finalità specifica di produrre forme culturali di tipo espressivo (produzione di significati), strumentale (tecniche di apprendimento), normativo (socializzazione). Nella società contemporanea corrispondono a questa finalità soprattutto le istituzioni educative come la scuola, l'università, gli istituti superiori di specializzazione, i centri di ricerca scientifica, i centri di educazione fisica, .. mentre le strutture che presiedono ai mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio-televisione, ..) e in genere alle attività ricreative sembrano meglio corrispondere alla forma dell'organizzazione connessa ad interessi particolari, anche quando svolgono funzioni pubbliche. Un discorso a parte dev'essere fatto per la produzione artistica (letteratura, arti visive, musica, teatro, cinema d'arte, ..), la quale per la pluralità delle forme e per la dimensione creativa che in essa si esprime è difficilmente riconducibile alla forma istituzionale o a quella delle organizzazioni, ma ha comunque una funzione importante nella produzione e riproduzione di significati. Riduttivo infine potrebbe apparire l'inserimento in questa sezione anche delle istituzioni e organizzazioni di tipo religioso, le quali possono presentare caratteristiche non sempre assimilabili a quelle delle istituzioni puramente culturali. Senza voler pregiudicare la possibilità di considerare le istituzioni religiose in una prospettiva diversa, non possiamo ignorarle qui, per la rilevanza che esse hanno quali agenzie di socializzazione e di produzione di valori e di modelli normativi. Anche per le istituzioni ed organizzazioni culturali vale quanto già detto circa lo stretto rapporto che intercorre tra le istituzioni e le strutture dell'ambiente naturale e sociale: le condizioni economiche, sociali e politiche configurano sistemi concreti di relazione, nei quali la produzione culturale appare, al tempo stesso, come una forma che condiziona l'agire sociale e come il riflesso o lo strumento di quest'ultimo. Dal momento che la continuità della cultura può essere assicurata solo attraverso l'apprendimento e la comunicazione, è necessario tenere in vita in modo costante i processi di diffusione della cultura; ecco spiegato perché nella società vi siano tante forse consacrate alla produzione e riproduzione di cultura. La sociologia della conoscenza ha il compito di studiare i rapporti che intercorrono fra le forme cognitive (filosofia, scienza, storiografia) e i diversi contesti socio-culturali. All'origine di tale disciplina sono soprattutto da ricordare le analisi di Marx, Max Weber, Max Scheler, Karl Mannheim, Adorno, Horkheimer, Benjamin. Progressivamente, il tema dell'interrelazione fra strutture sociali ed attività conoscitiva è uscito dal campo di analisi di una singola disciplina, per diventare un riferimento costante di gran parte delle nuove prospettive teoriche. In questo contesto, il rinnovato interesse per la tradizione della sociologia della conoscenza è venuto in particolare sviluppandosi in studi e ricerche di sociologia della scienza. Se la sociologia della conoscenza offre il quadro di riferimento generale della sociologia dei processi culturali, quest'ultima è venuta specializzandosi soprattutto nelle aree delle istituzioni educative, dei mezzi di comunicazione di massa, della produzione artistica, dell'analisi delle forme religiose.

a.     LE ISTITUZIONI EDUCATIVE. Le istituzioni educative:

hanno la funzione di tramandare il patrimonio culturale accumulato nell'esperienza storica della società, abilitando i nuovi soggetti sociali ad impadronirsi delle capacità teoriche e pratiche consentite da tale esperienza

soprattutto ai loro livelli superiori, possono costituirsi come strutture di rielaborazione critica e di produzione di nuove forme culturali, nel loro rapporto con le strutture e i processi del nuovo sistema sociale globale

per l'importanza che assumono nel processo di socializzazione, possono essere considerate come espressione delle strutture di potere (politico, amministrativo, economico), in quanto volte, in senso funzionale, al mantenimento dell'ordine costituito, alla manipolazione ideologica delle coscienze

La sociologia dell'educazione studia il funzionamento delle istituzioni educative e i problemi che nascono nella dinamica dei loro rapporti con la realtà sociale circostante. I primi sociologi che hanno affrontato questi aspetti hanno messo in evidenza le strette connessioni fra le strutture dell'ambiente sociale e le istituzioni educative. Per Marx la scuola nella società borghese non era che l'espressione delle ideologie delle classi dominanti e non aveva altra funzione che quella della riproduzione dell'ordine costituito, attraverso la formazione di soggetti adattati alle diverse esigenze del sistema di produzione. Non si tratta, quindi, di eliminare l'influenza della società sulla scuola, ma di trasformare tale influenza in modo che essa non sia più l'espressione delle classi dominanti; occorre quindi affrontare il problema di chi educa gli educatori. Weber analizza il rapporto tra i diversi sistemi educativi ed il potere in riferimento alla sua tipologia delle forme di consenso: il potere carismatico, a partire dal riconoscimento che l'eroismo e le qualità magiche non si possono insegnare, tende a risvegliare queste dimensioni, provocando un processo di rinascita dell'intera personalità, attraverso esercizi corporali e psichici particolari. Nel caso del potere tradizionale, l'educazione è invece volta a promuovere personalità colte, nel senso umanistico del termine; mentre il potere legale promuove insegnamenti razionali rivolti al sapere specialistico-burocratico. Dopo gli importanti contributi di autori come Karl Mannheim, Pitirim Sorokin, Talcott Parsons, la sociologia dell'educazione si è venuta sviluppando attraverso studi e ricerche riguardanti in particolare:

il rapporto tra scuola, stratificazione sociale, grado di mobilità sociale e sistema occupazionale

i processi di selezione presenti nella scuola nel loro rapporto con i valori dominanti e le strutture di classe

l'analisi comparata delle relazioni intercorrenti tra forme di istruzione e sistema sociale globale

i problemi relativi all'estrazione sociale e la formazione degli insegnanti

In queste diverse ricerche emerge soprattutto la funzione di riproduzione dei significati, nelle forme di mediazione culturale costituite, nonché la funzione essenzialmente integrativa delle istituzioni educative in rapporto alla esigenze del sistema politico ed economico. La scarsa capacità innovativa dei sistemi educativi spiega la presenza di sfasature e di ritardi culturali nelle forme dell'apprendimento scolastico, rispetto al rapido sviluppo che ha caratterizzato le società industriali, così che il sistema educativo ufficiale appare sempre in certa misura inadeguato rispetto alle esigenze della società in cui opera.

b.     I MEZZI DI COMUNICAZIONE. Le diverse organizzazioni che presiedono ai mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, cinema, stampa, dischi, videocassette, Internet, CD-Rom, ..) riflettono in gran parte gli interessi economici e politici di gruppi pubblici e privati nella diffusione delle informazioni, nell'attività di interpretazione dei diversi processi sociali e degli eventi storici, nella produzione di orientamenti e valori di tipo conoscitivo, morale, estetico, religioso, .. I mezzi di comunicazione di massa hanno quindi acquistato una rilevanza sempre maggiore nei processi di costruzione della realtà sociale e nel fornire forme concrete di mediazione simbolica all'esperienza collettiva. Tali mezzi inoltre non solo trasmettono, in modo implicito od esplicito, le comunicazioni dei diversi gruppi sociali, ma possono costituirsi a loro volta come fonti relativamente indipendenti di produzione di significati, venendo così a configurarsi come centri autonomi di decisione e di potere, ovvero come "terzo potere", accanto a quello politico ed economico. In particolare, occorre tener presente che la diffusione, a livello mondiale, di alcuni prodotti dei mezzi di comunicazione di massa vede svilupparsi l'influenza di questi ultimi anche nei paesi che non hanno raggiunto le stesse condizioni economico-sociali delle società che li hanno originati, creando molto spesso scompensi e contrasti rispetto alle tradizioni delle culture locali, suscitando aspettative che in quei contesti non possono ancora essere soddisfatte e dando luogo ad effetti di anticipazione, le cui conseguenze sono difficilmente prevedibili. Lo sviluppo della sociologia dei mezzi di comunicazione di massa è molto recente: è solo dopo la seconda guerra mondiale che si afferma la cosiddetta cultura di massa. Anche se il problema della propaganda di massa era già stato affrontato in precedenza da Harold Lasswell, le prime tecniche di ricerca sulle comunicazioni di massa vengono precisandosi, soprattutto negli Stati Uniti, a partire dagli anni 50. Sin dall'inizio tali ricerche mostrano un atteggiamento ambivalente nei confronti del nuovo fenomeno dei mass media:

da un lato questi vengono considerati come strumenti per la promozione dell'informazione e della comunicazione sociale, in ordine ad una sempre migliore partecipazione sociale e ad una più omogenea culturalizzazione dei diversi strati sociali

dall'altro lato si tende invece a sottolineare la funzione di manipolazione delle coscienze e di integrazione ideologica dei mass media, in quanto strumenti di controllo esercitati da élite di potere e da gruppi di interesse

La legittimazione dell'ordine costituito e l'induzione nelle masse di atteggiamenti passivi, deresponsabilizzati, superficiali e acritici vengono viste come gli effetti reali del massiccio martellamento di rappresentazioni, idee, notizie messi in opera da quella che viene chiamata l'industria culturale. Questi atteggiamenti contrapposti, se mostrano il carattere complesso del fenomeno delle comunicazioni di massa, nel loro rapporto con le strutture economiche, sociali e politiche del sistema sociale globale, restano ancora ad un livello di notevole astrazione. Più concreto appare invece il tentativo, al di là dello schema lasswelliano ("chi dice cosa, a chi e con quali effetti"), di analizzare il rapporto tra le diverse modalità specifiche di comunicazione ed il contesto entro il quale viene rappresentato il discorso dei media. In questa direzione le ricerche di Lazarsfeld, Katz e Merton hanno mostrato che l'influenza dei mass media è solo una delle componenti dei processi di formazione delle opinioni, che si sviluppano in gran parte piuttosto nelle comunicazioni interpersonali. Spesso l'influenza di opinion leader, presenti in un gruppo, appare più forte che quella più anonima dei messaggi radiotelevisivi o giornalistici. Inoltre tali messaggi vengono recepiti sempre attraverso il filtro delle forme di mediazione culturale proprie dei ricettori, così che il contenuto dei messaggi viene accolto selettivamente e, in genere, ha efficacia solo in quegli aspetti che confermano valori, modelli e giudizi già presenti nella mente di chi li riceve. In questo contesto appare di conseguenza problematica l'attribuzione ai mezzi di comunicazione di effetti specifici direttamente indotti: immagini, ad esempio, di violenza o di comportamenti criminosi sembrano produrre effetti solo in quelle persone che sono già predisposte a comportamenti di tale tipo. Ma forse i contributi oggi più interessanti della sociologia dei mezzi di comunicazione di massa sono quelli che usano tecniche di tipo semiologico e di analisi del linguaggio (quindi non solo lo studio dei contenuti, palesi o latenti, ma anche dei linguaggi fonetici o visivi, del contesto, del rapporto immagine/parola, ..). Almeno in quei paesi in cui sono presenti più centri di diffusione della comunicazione appare attenuarsi il fenomeno, che all'inizio appariva centrale, della monopolizzazione dei mass media da parte del potere politico. Lo sviluppo delle tecniche di trasmissione favorisce la tendenza al pluralismo delle fonti; ma nei casi in cui la pluralità delle fonti è effettiva e non solo apparente, l'eccesso di informazioni e di sollecitazioni potrebbe provocare un eccesso di relativizzazione delle forme di mediazione simbolica, distruttivo della loro stessa funzione di mediazione. Da qui la necessità di sviluppare un aumento della capacità individuale e collettiva di gestire i continui adattamenti che la moltiplicazione dei messaggi comporta. Una prospettiva teorica e metodologica particolarmente attenta alla complessità dei processi posti in essere dalla crescente influenza dei mass media è quella promossa, negli anni 60 in Inghilterra, dal Centre for Contemporary Cutural Studies che, a partire da un concetto di cultura non solo come insieme di significati e di valori, ma anche come insieme delle pratiche affettivamente realizzate, attraverso cui valori e significati vengono espressi, propone di analizzare le comunicazioni di massa nei termini della dialettica che si instaura tra: il sistema sociale, la continuità e le trasformazioni del sistema culturale, le strutture di potere. Le teorie che, in passato, predicevano effetti di massificazione generalizzata hanno dovuto quindi essere sottoposte ad una critica radicale. In questo contesto, sono emersi il carattere polisemico (= che acquista più significati diversi) dei messaggi e la grande varietà dei processi di decodifica di essi, da cui deriva una molteplicità di interpretazioni e usi diversi. All'interno di questa complessa problematica, è stato affrontato l'interrogativo se i mezzi di comunicazione di massa favoriscano la partecipazione sociale e politica, oppure inducano un atteggiamento prevalentemente passivo e assenteista. Il mezzo televisivo presenta una caratteristica ambiguità rispetto al problema della partecipazione, in quanto esso si presenta, nel contempo, come una possibilità effettiva di diffusione di informazioni, di cultura sociale e politica, di educazione civica, ma anche come strumento di manipolazione e di evasione dalla realtà. L'ascolto televisivo, oltre a chiudere l'individuo nella sua casa, diminuendo il suo desiderio di incontri sociali e di partecipazione associativa, può anche porsi come surrogazione di un'effettiva attività di ordine sociale o politico: in tal caso, la stessa presentazione dei problemi più scottanti della collettività ed il dibattito su di essi rischiano di produrre un'illusione di partecipazione, anziché essere di stimolo ad un reale impegno nella vita collettiva. Soltanto in un contesto sociale in cui siano già presenti condizioni favorevoli alla partecipazione, ai diversi livelli dell'atteggiamento individuale (orientamenti prevalenti nella famiglia, nella scuola, nei diversi gruppi di appartenenza), dei valori e dei modelli di comportamento del sistema culturale dominante e delle condizioni politiche istituzionali, lo strumento televisivo può diventare un vero mezzo di partecipazione. Occorre, tuttavia, tener conto che il mezzo televisivo può costituire una fonte di innovazione rispetto alle condizioni sociali: il dibattito televisivo può, ad esempio, presentarsi come un modello chiuso, risolutivo ed esauriente della questione oggetto di discussione o porsi come stimolo di approfondimento di quest'ultima anche in altre sedi. Lo sviluppo dei mezzi tecnici consente oggi, sempre di più, la sollecitazione di feed back, ovvero di reazioni da parte del pubblico in ascolto, attraverso il telefono, la partecipazione diretta alla trasmissione, i sondaggi svolti contemporaneamente ad essa, .. All'interno di questa problematica si è andata anche prestando crescente attenzione alle nuove tecnologie di informazione e di produzione di programmi audiovisivi. Un gran numero di analisi sono state dedicate agli effetti dei diversi media sul modo di fare politica, ponendo in evidenza, tra l'altro, il fenomeno crescente di spettacolarizzazione della politica, ovvero il fatto che sul voto politico influiscono sempre di più le immagini che danno di sé i diversi leader politici, le forme simboliche usate dalla politica e le reazioni emotive prodotte dal mezzo televisivo e dai manifesti. Un importante settore di ricerche è anche quello riguardante l'influenza della televisione sui bambini e gli adolescenti e quella proveniente dai diversi prodotti della fiction, ovvero della narrativa romanzata dei serial radio-televisivi, del cinema, dei romanzi a fumetti, ..

c.     LA PRODUZIONE ARTISTICA. In quanto forma di mediazione simbolica dell'esperienza vissuta, la produzione artistica come tale assolve una funzione che non può essere semplicemente ricondotta alle esigenze del coordinamento dell'agire sociale o del rafforzamento del consenso, ma deve essere considerata nella sua specificità anche come pura espressione della situazione esistenziale dell'uomo nella sua universalità. Nelle forme autentiche dell'arte si esprime sempre anche l'esperienza del rapporto con il limite del simbolico. L'arte pertanto, malgrado sorga anch'essa nella connessione con strutture sociali concrete, è anche la forma che, superando la dimensione della socialità, si disinteressa dei bisogni concreti, per rispondere alle pure esigenze della logica espressiva del simbolico. Se l'arte ha indubbiamente un'influenza sulle rappresentazioni sociali ed è uno degli elementi che contribuiscono alla costruzione della realtà sociale, ciò avviene non intenzionalmente, ma come riflesso di una forma, che ha come suo fine solo il momento espressivo. L'arte si pone quindi come proposta ed invito alla comunicazione-interpretazione, e non come volontà di persuasione o di imposizione. Le diverse teorie di sociologia dell'arte, sviluppatesi nel xx° secolo, hanno assunto come oggetto di studio il rapporto tra l'opera d'arte e le strutture del sistema sociale nel quale essa viene prodotta, cercando in particolare di mettere in luce:

le modalità di formazione dei processi creativi

i condizionamenti sociali della produzione artistica

l'influenza dell'opera d'arte sulle rappresentazioni e i comportamenti sociali

le origini sociali, lo status e le funzioni dell'artista

i processi di mutamento connessi al rapporto di interdipendenza tra forme artistiche e forme sociali

La diversità delle impostazioni teoriche in questo campo riflette la complessità del rapporto tra il carattere di prodotto storico-sociale dell'opera d'arte e la dimensione di creazione, che essa assume per la sua natura, che va al di là della socialità. A grandi linee si possono distinguere, nella sociologia dell'arte, le posizioni che

rifacendosi ai paradigmi di Marx ed Engels, tendono a porre in evidenza soprattutto l'incidenza dei condizionamenti socio-economici sull'opera d'arte, considerata come "rispecchiamento" o riflesso della realtà storica   e

partendo dalla tradizione teorica di Simmel, Weber, Scheler, sottolineano invece soprattutto il carattere relativamente indipendente dell'opera d'arte e le sue potenzialità critiche e rivoluzionarie nei confronti delle reificazioni (= riduzione a cosa materiale) proprie dei sistemi sociali costituiti

Tra le posizioni del primo tipo vanno ricordate le analisi sul problema del realismo in letteratura di György Lukács, nelle quali il giudizio sul valore estetico viene a confondersi con l'impegno ideologico e politico. Tra le posizioni del secondo tipo figurano le opere di Horkheimer e Adorno, Marcuse, Benjamin. Questi autori hanno analizzato soprattutto le trasformazioni che l'opera d'arte subisce nella società di massa e nell'epoca dello sviluppo tecnologico, criticando le tendenze volte a ridurre anche l'arte a prodotto di consumo. In particolare, Horkheimer ha messo in evidenza l'irriducibilità dell'esperienza artistica rispetto all'orizzonte funzionale dell'ordine sociale. Gli sviluppi della sociologia dell'arte sembrano attualmente orientarsi verso un tipo di analisi complessa, che tiene conto, al tempo stesso, del carattere storico-sociale della forma artistica e della sua carica innovativa nei processi di comunicazione e di costruzione della realtà sociale.

d.       LE ISTITUZIONI RELIGIOSE. Le istituzioni religiose (chiese, sette, ..), se considerate unicamente come agenzie di produzione di significati (e non anche come forme associative aventi strutture economiche, gerarchiche, di potere, .. analoghe a quelle di tutti gli altri sistemi sociali), hanno una funzione di mediazione dell'esperienza esistenziale, che, di per sé, dovrebbe andare al di là dell'interesse puramente ideologico-dottrinale. La religiosità può essere vista infatti come l'espressione del contrasto della situazione umana e come tentativo di stabilire un rapporto con il senso che vada al di là dei limiti del dicibile (quindi ~

all'esperienza artistica). Tuttavia il più delle volte l'istituzionalizzazione della religiosità in forme di religione, ovvero in sistemi definiti di verità dogmatiche e di precetti, finisce per produrre la tendenza di ogni ordine sociale costituito ad assolutizzarsi.  L'istituzione religiosa, in questo caso, assume la funzione di diffusione di valori e di modelli di comportamento che possono favorire il consenso e l'integrazione sociale, oppure contrapposti alla cultura dominante, provocando tensioni conflittuali. L'istituzione religiosa si pone allora sullo stesso piano di altri gruppi di interesse; quando poi la fede religiosa non si pone come proposta ed invito, ma si traduce in imposizione dottrinale, essa scade a forma di propaganda ideologica. La sociologia, sin dalle sue origini, ha rivalutato la dimensione religiosa come elemento specifico essenziale per la comprensione dei processi di costituzione dell'ordine sociale. In una prospettiva di trasformazione delle forme religiose tradizionali, a favore di una sorta di religiosità "laica" Saint-Simon, Comte, Durkheim tendono a considerare l'elemento religioso come una componente universale dell'animo umano, che occorre orientare in senso funzionale alla promozione della solidarietà sociale. Anche in Marx e in Feuerbach la religione è una dimensione strettamente connessa alle strutture sociali, ma essa viene vista come una delle cause principali di alienazione dell'uomo. In Weber la religione ha una diretta influenza normativa sulla vita sociale, sul modo di considerare il potere e sulla stessa attività economica. In una direzione analoga, Ernst Troeltsch considera la religione dotata di una "relativa indipendenza", con proprie strutture interne e con una dialettica propria, fattore potenziale di trasformazioni sociali. A partire da queste impostazioni iniziali, la sociologia della religione si è venuta sviluppando prevalentemente secondo 3 orientamenti:

l'orientamento funzionalista considera la religione in riferimento al problema dell'integrazione sociale, da un lato, come forma che offre valori, motivazioni, orientamenti normativi e legittimazioni per l'adattamento degli individui agli ordinamenti costituiti; dall'altro, come potenziale elemento di conflitto e di tensione sociale tra posizioni ideologiche diverse

l'orientamento fenomenologico considera la religione come elemento che, oltre ad avere una sua autonoma esistenza nell'interiorità soggettiva, concorre alla costruzione della realtà sociale

l'orientamento critico, legato alla tradizione marxista, sottolinea invece il carattere ideologico della religione, in quanto funzione sociale corrispondente ad interessi di classe o a esigenze di identità di gruppi particolari

Il problema di fondo cui si trova confrontata la sociologia della religione è la definizione stessa di comportamento religioso: una cosa è infatti considerare come tale la pratica religiosa esterna, legata all'appartenenza a chiese, sette, gruppi sociali, con le sue manifestazioni rituali; un'altra è porsi il problema del carattere religioso delle credenza, delle motivazioni e dei significati che orientano l'agire individuale e collettivo. In questo secondo caso, diventa particolarmente difficile individuare una dimensione specifica del religioso, secondo la distinzione tra religione e religiosità, rispetto ad altri valori e modelli culturali. L'ambivalenza insita nel concetto stesso di religione emerge anche negli studi sociologici incentrati sul problema della crisi dei sistemi religiosi tradizionali e sui processi di secolarizzazione nelle società industriali sviluppate. In effetti, dopo una prima fase in cui alcuni ipotizzavano il progressivo estinguersi della fede religiosa, si è dovuto riconoscere che, a seguito della crisi dei valori delle società del benessere, come pure delle ideologie politiche totalizzanti, vi è stata, anche nelle società più avanzate del punto di vista economico e tecnologico, una vigorosa ripresa di forme associative di tipo religioso.

II.III.     Istituzioni e organizzazioni economiche.

Le istituzioni economiche sono quei sistemi normativi di relazione che regolano l'attività di lavoro, nonché lo scambio e la distribuzione delle risorse e dei prodotti. Nelle società industriali contemporanee tra le principali formazioni economiche figurano la proprietà, il mercato, il sistema monetario e finanziario, gli enti pubblici della programmazione, le società di produzione (società anonime, per azioni, a responsabilità limitata), le fabbriche, le banche, le società assicurative, .. Anche in questo caso, il confine tra istituzioni in senso proprio e organizzazioni non è sempre facilmente delimitabile: se la proprietà, il mercato, il sistema monetario, gli enti della programmazione appaiono come vere e proprie istituzioni sociali che regolano in via generale i rapporti economici fondamentali, le società, le fabbriche, le banche appaiono piuttosto come organizzazioni volte al perseguimento di interessi settoriali. Le forme istituzionali e organizzative che presiedono all'attività produttiva e allo scambio commerciale come alla distribuzione dei servizi hanno presentato nel tempo profonde variazioni, a seconda dei diversi contesti sociali. Del resto, anche all'interno di una stessa società possono darsi contemporaneamente forme molto diverse fra loro, in quanto alcune possono derivare da modi di produzione prevalenti in passato (agricoltura, artigianato, ..), mentre altre sono espressioni del modo di produzione prevalente nel presente (industria, organizzazione razionalizzata dei servizi, ..), o anticipano forme di produzione che potranno svilupparsi in futuro (decentramento produttivo, lavoro flessibile, uso dell'informatica, ..). Per determinare le particolari modalità e funzioni che, di volta in volta, assumono le forme della vita economica, occorre quindi considerarle sempre nel loro concreto contesto storico-sociale e nel loro rapporto con le altre istituzioni familiari, culturali, politiche, nonché con le strutture della stratificazione sociale. Un contributo fondamentale per la comprensione dell'importanza del denaro in quanto istituzione sociale è stato dato da Georg Simmel. Per Simmel il denaro è la migliore dimostrazione del carattere simbolico del sociale, ovvero del fatto che la realtà sociale è fondata su credenze collettivamente condivise. La preminenza assunta nella società moderna dello scambio monetario ha avuto conseguenze dirette sullo stile di vita degli individui, favorendo il carattere astratto e anonimo dei rapporti intersoggettivi, aumentando la distanza nei confronti delle cose materiali e della natura, provocando l'accelerazione dei ritmi di vita e accentuando l'autonomia rispetto allo spazio. La diffusione del sistema monetario, da un lato, favorisce l'individualismo in quanto apre a maggiori possibilità di scelte autonome, ma, dall'altro, attraverso una continua oggettivazione dei rapporti, tende ad eliminare "ogni orientamento personale". Se le analisi storiche ed etnologiche hanno favorito un gran numero di elementi per la conoscenza delle diverse forme, nel tempo, della proprietà e dell'organizzazione sociale del lavoro, la sociologia contemporanea, dopo le grandi analisi economico-sociali di Adam Smith e di Karl Marx e le grandi teorizzazioni sociologiche di Max Weber, Durkheim, Tönnies, Veblen, Sombart, Mannhein, si è rivolta principalmente allo studio delle forme del lavoro industriale e alle trasformazioni intervenute nei processi economici a causa della crescente concentrazione di centri di potere economico internazionali.

Max Weber ha messo in evidenza il processo in base al quale l'attività produttiva di tipo capitalistico dà vita alle imprese industriali, ovvero ad organizzazioni formali, caratterizzate da criteri di razionalità funzionale e da strutture burocratiche gerarchizzate, fondate sulla specializzazione delle competenze. Tali organizzazioni sono dotate di una relativa autonomia e segnano progressivamente una netta separazione tra l'ambiente domestico e quello di lavoro: in esse infatti i rapporti sono di tipo impersonale, in quanto regolati a partire dal ruolo svolto all'interno del processo produttivo. Sia Marx sia Weber hanno mostrato inoltre che, nel sistema economico capitalista, la produzione tendeva a svilupparsi secondo una logica ispirata unicamente a criteri di profitto e di accumulazione del capitale, in una progressiva autonomizzazione del processo produttivo rispetto ai bisogni primari della sopravvivenza e al cosiddetto valore d'uso. In questo contesto, anzi, la produzione diventa una delle fonti principali di produzione dei bisogni, così che l'intero sistema sociale rischia di rimanere asservito all'influenza preponderante delle funzioni della produzione stessa e delle leggi dello scambio di mercato.

Una posizione relativamente più ottimista è invece quella assunta da Durkheim, che considera il fenomeno dello sviluppo della divisione del lavoro come base per la costruzione di nuove forme di solidarietà di tipo organico, purché il sistema sociale sia in grado di offrire forme istituzionali di tipo corporativo (associazioni e gruppi professionali) che corrispondano alla nuova situazione, assicurando una normativa adeguata.

I successivi orientamenti della sociologia del lavoro hanno riguardato aspetti più circoscritti, relativi all'ambito dell'organizzazione della produzione e possono essere distinti secondo 3 direttrici principali:

a.   LA TEORIA DELL'ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO (SCIENTIFIC MANAGEMENT).

Affermatasi soprattutto nei primi decenni del 900 negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia, analizza i problemi dell'azienda esclusivamente dal punto di vista dell'imprenditore e in base a criteri razionali di massimizzazione dei profitti e di aumento dell'efficienza produttiva. I lavoratori vengono considerati individui dotati di ragione e mossi unicamente da interessi di tipo utilitaristico e dal desiderio di guadagno. Il problema dell'organizzazione viene impostato prevalentemente in termini di rendimento del lavoratore e come programmazione rigorosa della varie fasi del lavoro collettivo, della divisione del lavoro e dell'assegnazione delle mansioni, delle specializzazioni, dei meccanismi di controllo e di supervisione da parte della direzione, delle incentivazioni salariali (cottimo, premi) e del rapporto uomo-macchina, attraverso un'attenta valutazione dei tempi e ritmi di lavoro. Il teorico più noto di questa scuola è Frederick W. Taylor.

b.   LA TEORIA DELLE RELAZIONI UMANE (HUMAN RELATIONS).

All'origine di questa teoria sono le esperienze di ricerca condotte, agli inizi del 900, da Elton Mayo. Tali ricerche hanno segnato una svolta rispetto al carattere riduttivo dell'impostazione data dalla teoria dell'organizzazione scientifica del lavoro, in quanto hanno mostrato che il problema del rendimento del lavoratore nell'azienda non è unicamente riferibile alle condizioni fisiche dell'ambiente di lavoro, alla distribuzione dei tempi e agli incentivi salariali, ma dev'essere analizzato all'interno di un insieme complesso di relazioni di tipo psicologico e sociale. Il lavoratore non agisce quasi mai come un individuo isolato, mosso da puri calcoli utilitaristici di tipo egoistico, bensì come membro di un gruppo, dal quale provengono motivazioni e criteri, che incidono direttamente sull'atteggiamento riguardo al lavoro e sul rendimento. Fu così coniata l'espressione restrizioni artificiali della produzione, in contrapposizione alle restrizioni naturali legate alle condizioni materiali. Fu possibile mostrate l'importanza che assumono, nell'attività produttiva, i rapporti informali tra i lavoratori e la presenza di leadership informali nel determinare le norme del gruppo e il rispetto di esse, e inoltre la rilevanza delle componenti psicologiche e degli ideali di solidarietà sociale, rispetto alle incentivazioni di tipo puramente monetario. Questi risultati hanno portato la ricerca sociologica sull'azienda a sviluppare soprattutto l'analisi dei sistemi di comunicazione interni all'azienda e degli aspetti psicologici legati al bisogno di identità e di appartenenza, nonché dei sistemi di aspettative dei lavoratori, sottoponendo a critica lo stesso principio della divisione del lavoro e aprendo a nuove interpretazioni circa le cause di alienazione presenti nell'ambito del lavoro. Se il contributo di queste ricerche è stato molto valido per l'approfondimento del fattore umano e dei fenomeni di tipo informale nella dinamica dell'organizzazione, esso presenta tuttavia notevoli limiti dal punto di vista dell'analisi dei fattori strutturali, che incidono sul comportamento aziendale e delle tensioni conflittuali presenti nei rapporti di lavoro. In realtà, questa teoria è rimasta per lo più all'interno di una prospettiva utilitaristico-funzionalista, volta ad ottenere migliori rendimenti nel lavoro ed una maggiore integrazione dell'individuo nell'azienda: in essa la promozione di forme partecipative è spesso solo apparente e orientata unicamente alla produzione del consenso.

c.     LA TEORIA DELLE ORGANIZZAZIONI.

Come si è detto, le organizzazioni formali vengono considerate sistemi concreti di azione, ovvero il risultato dei comportamenti e delle rappresentazioni di un insieme di individui, ciascuno dei quali persegue proprie finalità, servendosi dell'attività degli altri, in base ad una serie si accordi, di relazioni di scambio e di strategie di controllo, che danno vita a strutture particolari di coordinamento dell'azione stessa. In quanto sistemi sociali, le organizzazioni della produzione e dei servizi (trasporti e distribuzione delle merci, informazioni, comunicazioni, ..) possono essere analizzate sia nella loro dinamica interna, sia nel loro rapporto con l'ambiente esterno (il pubblico, i clienti, il mercato, la concorrenza con altre aziende, ..). Ciascuna organizzazione può avere finalità esplicite ed implicite, così come funzioni manifeste e latenti, ed è dotata di propri sistemi normativi e di propri meccanismi di controllo. La struttura dell'organizzazione può variare da forme caratterizzate da rigidi criteri burocratici e gerarchici, fino a forme di tipo associativo spontaneo e partecipativo, a seconda dei diversi tipi di produzione e delle diverse forme di controllo adottate. Le indagini sociologiche sulle organizzazioni produttive si sono avvalse dei modelli di analisi delle interazioni, formulati dalla sociologia fenomenologia e dall'interazionismo simbolico, come dall'etnometodologia e dall'analisi del linguaggio; hanno inoltre posto il problema delle trasformazioni dovute alle nuove forme della progettazione e all'influenza delle nuove tecnologie legate all'automazione e all'informatica. Se nelle sue prime fasi la sociologia tende ad attribuire alla dimensione produttiva una funzione preponderante, successivamente sono soprattutto i problemi della distribuzione e dell'organizzazione dei servizi a formare oggetto di analisi. In questo contesto emergono con particolare evidenza le interazioni tra struttura politica e realtà economica. Così, mentre con Marx la teoria sociologica tendeva ad attribuire all'economico una funzione determinante nei riguardi delle strutture sociali e del potere politico, ora si mostra la relativa autonomia di queste 2 dimensioni rispetto a quella economica e la loro influenza su quest'ultima. D'altra parte, anche la teoria economica va interessandosi sempre di più a problemi e fenomeni considerati tradizionalmente come extra-economici; per questa ragione, anche in sociologia è diventato più difficile distinguere tra le analisi sociologiche di tipo economico e quelle di tipo politico. Gli interessi della sociologia economica si estendono attualmente, al di là del rapporto tra potere economico e potere politico, a:

il campo dei fenomeni occupazionali e della mobilità sociale

gli effetti sociali del processo di modernizzazione e i problemi del sottosviluppo e della povertà

la programmazione

l'assetto del territorio

le forme anomale dell'organizzazione del lavoro, ..

In particolare, le ricerche sul mercato del lavoro nel suo rapporto con le strutture della stratificazione sociale hanno messo in evidenza la progressiva differenziazione in atto, nelle società industriali sviluppate, delle forme dell'attività produttiva e sei servizi, nonché l'aumentata rilevanza che, in tali società, assumono le forme di lavoro non istituzionalizzate e le organizzazioni a struttura decentrata. Le tendenze presenti nelle società di capitalismo maturo rimettono in discussione i modelli troppo semplificati della razionalizzazione, usati all'inizio del xx° secolo per interpretare lo sviluppo delle società industriali, e mostrano nuove direzioni del processo di cambiamento sociale.

II.IV.     Istituzioni e organizzazioni giuridiche e politiche.

Le istituzioni giuridiche e politiche sono sistemi normativi volti ad assicurare le funzioni di amministrazione, di governo, di rappresentanza e di controllo nel sistema sociale globale. Nelle società industriali contemporanee le istituzioni giuridiche e politiche fondamentali sono rappresentate dallo Stato, con le sue funzioni di governo, legislative e amministrative, dagli enti di governo locali, dai partiti politici e dai sindacati. Anche se queste 2 ultime formazioni, in quanto volte per lo più alla rappresentanza e alla difesa di interessi di forze sociali e categorie specifiche, presentano caratteri molto vicini a quelli delle organizzazioni. Organizzazioni in senso proprio dovranno invece essere considerate quei gruppi d'interesse, con strutture più o meno formalizzate e con finalità più o meno manifeste o latenti, che possono agire all'interno dell'ordine costituzionale o anche al di fuori di esso (es: mafia). Non in tutte le forme di società possono essere distinte istituzioni politiche e giuridiche di tipo autonomo: le società arcaiche, ad esempio, sono state organizzate in modo da impedire il costituirsi di un potere centralizzato, distinto e autonomo dall'insieme della comunità. Laddove invece tale struttura si è costituita, la forma dello Stato ha assunto nel corso della storia le forme più diverse, dalla città-stato ai vari tipi di imperi basati sull'unione delle città-stato, agli Stati feudali, agli Stati di tipo asiatico a burocrazia centralizzata, agli Stati nazionali moderni di tipo monarchico, repubblicano, democratico e totalitario. Al contrario, i partiti politici e le organizzazioni sindacali, che caratterizzano la società contemporanea, costituiscono nuove forme specifiche di aggregazione, strettamente legate alle strutture della società di tipo industriale.

Nelle società contemporanee sviluppate lo Stato è venuto assumendo una struttura sempre più complessa: se, infatti, da un lato, esso ha mantenuto la tradizionale divisione delle funzioni legislative, esecutive e amministrative, dall'altro è venuto allargando sempre più l'ambito del suo intervento, svolgendo direttamente funzioni di tipo economico, finanziario, assistenziale, di servizi, secondo il modello del Welfare State, affermatosi all'inizio degli anni 30 negli Stati Uniti. Alle origini della teoria dello Stato moderno è la distinzione tra pubblico e privato, tra Stato e società civile. Si può quindi comprendere come la teoria sociologica si sia occupata, all'inizio, prevalentemente della società civile senza sviluppare vere e proprie analisi della funzione dello Stato e della specificità della dimensione politica. In Saint-Simon, Comte, Durkheim, infatti, la preminenza che assume la scienza, come fondamento delle norme e dei valori etici che regolano la società, tende a ridurre la dimensione politica a mero strumento di applicazione di principi accertati scientificamente e a pura condizione di garanzia dell'uguaglianza, trascurando la funzione specifica di decisione e di gestione delle contraddizioni della vita sociale che è propria del potere. D'altra parte, in Marx lo Stato non è che l'espressione del dominio di classe e, come tale, è semplicemente da eliminare.

È soltanto con Weber che la riflessione sullo Stato moderno comincia a prendere forma nella teoria sociologica, come analisi dei processi di razionalizzazione e burocratizzazione propri della società capitalista. Nella separazione dell'attività produttiva dall'ambito dell'economia domestica, Weber coglie l'origine dell'esistenza di una nuova organizzazione formale unitaria della società, caratterizzata dal centralismo del sistema burocratico, indicandone i tratti principali:

a.   i compiti organizzativi sono distribuiti come "funzioni d'ufficio", sulla base del principio della divisione del lavoro e della specializzazione delle competenze. I dipendenti sono considerati solo per le loro qualifiche tecniche, in quanto esperti, e indipendentemente da ogni rapporto personale

b.   la struttura dell'autorità è gerarchica: ogni funzionario è responsabile di sé e dei suoi subordinati verso il proprio superiore diretto. L'ambito dell'autorità è chiaramente circoscritto

c.   le decisioni e gli atti ufficiali sono regolati da un insieme di norme e regole tecniche, che garantiscono la continuità dell'esercizio delle funzioni

d.   il carattere dei rapporti tra funzionari e pubblico è impersonale, e l'esecuzione dei compiti d'ufficio è di tipo "materialmente utilitaristico"

I criteri formali della razionalità burocratica caratterizzano sia le organizzazioni produttive sia l'apparato amministrativo dello Stato moderno, ma lo Stato come tale ha soprattutto la funzione, per Weber, di esercitare la coercizione fisica. Weber definisce infatti lo Stato come "una comunità umana la quale, nell'ambito di un determinato territorio (e il territorio è un elemento caratteristico) pretende per sé (con successo) il monopolio dell'uso legittimo della forza fisica". I 2 elementi fondamentali che caratterizzano, per Weber, lo Stato sono quindi:

la dimensione territoriale

il controllo legittimo della coercizione fisica

Le forme di legittimazione del potere sono invece da lui individuate nei tipi ideali del potere legale, tradizionale, carismatico. Il problema di fondo posto dallo Stato moderno è rappresentato, per Weber, dalla possibilità di salvare degli spazi di libertà a fronte delle tendenze centralizzanti e gerarchiche proprie dell'organizzazione formale razionalizzata: se nella forma socialista tali spazi sembrano scomparire, nelle forme della democrazia elitaria restano ancora, secondo Weber, alcuni limiti al potere politico centrale, grazie al riconoscimento del pluralismo delle forze sociali e della relativa autonomia dei diversi ambiti delle attività sociali ed economiche. Nello stesso periodo un altro contributo all'analisi della dimensione politica, i cui confini con la scienza della politica non sono sempre facilmente delimitabili, può essere colto nelle teorie delle élite dirigenti di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto e nell'applicazione di tali teorie generali ai rapporti interni ai partiti politici di Roberto Michels. Mosca espone chiaramente la tesi secondo la quale in ogni forma di società è presente la distinzione fra classe dei governanti e classe dei governati: la prima, meno numerosa, ha il monopolio del potere e ne gode i vantaggi, mentre la seconda ne subisce, di buon grado o suo malgrado, la direzione. Ogni classe dirigente si serve di una formula politica, nella quale trovano espressione gli elementi ideologici che servono a giustificare il suo potere e a renderlo credibile per i governati. Un'impostazione analoga è presente nella teoria paretiana, che sottolinea anch'essa il carattere ineliminabile della funzione della classe dirigente, vista l'incapacità delle masse di autogovernarsi. Il termine élite usato da Pareto costituisce un ampliamento del concetto di classe politica o classe dirigente di Mosca, in quanto esso è comprensivo sia dell'élite di governo, la quale svolge effettive funzioni politiche, sia dell'élite di non governo rappresentata da tutti coloro che, per una ragione qualsiasi, hanno una posizione preminente nella società, senza avere funzioni di governo. L'uso della forza è, per Pareto, una dimensione essenziale presente in ogni società e chi riesce a controllarne l'uso assume automaticamente una posizione preminente nella struttura sociale. Nessun governo tuttavia dura esclusivamente grazie all'uso della forza: la legittimazione del potere è sempre anche affidata alla capacità di persuasione delle masse e alle diverse forme delle derivazioni, ovvero dei rivestimenti ideologici mediante i quali i governanti trovano giustificazione presso i governati. La dinamica del potere è interpretata, da Pareto, tramite il concetto della circolazione delle élite. Secondo tale modello, in ogni società vi sarebbe un avvicendamento, graduale o repentino (rivoluzione), delle persone che costituiscono, di volta in volta, la classe dirigente, a causa del normale affievolirsi delle capacità di coloro che per lungo tempo sono rimasti nella posizione dominante, e della naturale tendenza a scalare alle posizioni di governo di coloro che, per doti naturali o per la loro posizione sociale, presentano qualità più adeguate per assolvere alla funzione dirigenziale. In Michels, la teoria delle élite viene applicata alle dinamiche interne dei partiti politici. Se nelle forme della democrazia è presente, secondo Michels, la tendenza generale da parte delle masse a lasciarsi guidare e a disinteressarsi dei problemi della politica, anche nei partiti che le rappresentano si costituisce sempre una minoranza, per lo più esigua, di dirigenti, che tendono a chiudersi in un gruppo oligarchico autoperpetuantesi e inamovibile. In base alla "legge ferrea dell'oligarchia", fondata sul principio che ogni forma di organizzazione richiede sempre un'effettiva struttura centralizzata capace di decisione e di controllo, Michels analizza la dinamica di potere come il risultato dell'impotenza delle masse ad autogovernarsi e come lotta tra i diversi leader politici per impadronirsi delle leve del comando. Anche Michels conclude quindi, come Pareto e Mosca, in senso scettico riguardo alla possibilità di stabilire effettive condizioni di uguaglianza democratica. Le teorie delle élite, che in Italia hanno offerto una base di legittimazione alla formazione dello Stato fascista, possono essere considerate come l'espressione di una reazione critica nei confronti del carattere utopistico delle teorie socialiste rivoluzionarie, orientate verso l'eliminazione del potere politico. Proprio per il loro carattere polemico rispetto a tale orientamento, le teorie delle élite, pur costituendo un valido contributo all'analisi dei complessi problemi legati alla funzione ineliminabile del potere, risentono del limite di una negazione troppo radicale della possibilità di una distribuzione del potere che non sia di tipo centralistico. Di fatto, l'evoluzione delle forme storiche delle società del tardo capitalismo sembra almeno in parte rimettere in discussione il nesso posto da Michels tra organizzazione e oligarchia: il carattere complesso dei sistemi sociali sviluppati mostra che sono anche presenti oggi tendenze verso il decentramento e la differenziazione dei diversi ambiti del politico, del sociale, dell'economico, con un conseguente aumento del grado di pluralismo dei centri di potere e di forme diversificate di contrattazione. È soprattutto in questa direzione che è venuta sviluppandosi negli anni più recenti l'analisi sociologica sul rapporto tra Stato e realtà sociale. I modelli delle teorie elistiche di Pareto e di Mosca sono stati in parte ripresi da C. Wright Mills. La critica serrata che Mills muove al sistema politico americano tende a dimostrare che tale sistema è solo in apparenza democratico, ma si presenta in realtà come il prodotto del potere centralizzato di un gruppo ristretto, che si definisce per la posizione che occupa nella struttura istituzionale della società. L'organizzazione formale dello Stato non sarebbe quindi che il supporto legittimante del dominio effettivo esercitato dal gruppo di potere, costituito dai massimi dirigenti politici, da coloro che controllano la proprietà dei mezzi di produzione e le risorse finanziarie, e dagli esponenti delle massime cariche militari. Per questa ragione Mills preferisce usare l'espressione "élite di potere" piuttosto che quella di "classe dirigente", in genere troppo specificamente collegata ai soli esponenti del controllo economico. Mills ritiene che, accanto al determinismo economico, debbano essere tenuti presente anche il determinismo politico e quello militare, ciascuno dei quali può essere dotato di un grado considerevole di autonomia. Una caratteristica essenziale dell'élite di potere è l'intercambiabilità dei ruoli superiori nelle varie organizzazioni, che permette di mantenere le posizioni dominanti attraverso la pronta sostituzione di un membro con un altro. Intorno all'élite di potere si dispongono i vari consiglieri, portavoce, esperti dell'opinione pubblica, .. che formano una sorta di "stato maggiore", che guida il pensiero e orienta le decisioni dell'élite stessa, la quale è servita direttamente anche dai politici di professione, i quali esercitano il potere nel parlamento e nei gruppi di pressione. Una funzione di consolidamento del potere dell'élite è inoltre anche svolta dalle "celebrità" di ogni tipo (attori, personalità nel campo dell'arte, della scienza, sportivi, ..) che, mentre servono a dare prestigio e credibilità all'azione dell'élite, possono svolgere su di essa anche una loro specifica influenza. Il controllo esercitato dal gruppo dominane, sia direttamente, attraverso le decisioni politiche ed economiche, sia indirettamente, attraverso le varie forme di manipolazione ideologica, favorite dallo sviluppo dei mass media, assume, secondo Mills, le caratteristiche di un monopolio, che vanifica la libertà di mercato e rende illusorie le forme della partecipazione politica. Pur risentendo di una presa di posizione eccessivamente ideologizzata, l'analisi di Mills offre un modello teorico valido soprattutto per la messa in evidenza, oltre che delle trasformazioni in atto nelle funzioni dello Stato nelle società di massa, del divario che quasi sempre sussiste tra le strutture formali delle istituzioni politiche e la dinamica effettiva dei rapporti di potere che determinano la vita concreta di una società. In particolare, l'opera di Mills costituisce una critica radicale di quei modelli funzionalismi che non colgono il carattere violento presente anche nei rapporti di potere istituzionalizzati. Una posizione molto più dettagliata dei rapporti di potere e delle diverse funzioni presenti nell'organizzazione statale è data da Ralph Dahrendorf, che tenta di precisare i caratteri specifici assunti dalla classe politica dirigente nella società industriale contemporanea. Dahrendorf pone in evidenza le particolari forme assunte dal conflitto di classe nelle società che egli definisce post-capitalistiche, sottolineando la progressiva separazione e autonomia del potere politico rispetto a quello economico. Se nel modello della società capitalista analizzata da Marx la proprietà dei mezzi di produzione viene a coincidere con le posizioni del potere politico, nella società post-capitalista si creano nuove forme di legittimazione dell'esercizio del potere. La nuova classe dirigente industriale è infatti rappresentata soprattutto da funzionari, scelti per la loro specializzazione e competenza, il cui potere non è collegato alla proprietà dei mezzi di produzione. Dopo aver definito lo Stato politico come un'organizzazione di ruoli, avente una propria struttura caratterizzata dalla "diseguale distribuzione di autorità politica tra gli individui in quando occupanti determinate posizioni", Dahrendorf osserva che nello Stato attuale si va affermando la forma burocratica di tipo gerarchico, ai cui vertici sono le persone autorizzate ad impartire direttive al personale amministrativo. In questo contesto, il termine classe assume una connotazione diversa da quella marxiana, in quanto esso non viene ricondotto alla stratificazione sociale fondata sui rapporti di produzione e sulla distribuzione del reddito, ma sul diverso grado di partecipazione dei cittadini all'autorità. Per autorità Dahrendorf intende ogni forma di potere di tipo legale. Il potere politico, quindi, a differenza di quanto pensava Marx, non sarebbe un derivato del potere economico, ma al contrario Dahrendorf sostiene che è spesso il potere economico a dipendere dal potere politico. In astratto, la classe politica dominante della società post-capitalista è composta dal personale amministrativo dello Stato, dalle élite di governo che lo dirigono e dalle parti interessate che sono rappresentate da tali élite. In pratica, pur appartenendo in ogni caso alla classe dominante, le burocrazie come tali non sono mai la classe dominante, in quanto la loro autorità è sempre delegata e gli stessi interessi che esse perseguono vengono dettati dall'esterno. La classe dominante effettiva è quindi rappresentata, secondo Dahrendorf, dal gruppo d'interesse al potere, che occupa i vertici delle gerarchie burocratiche (presidente della camera, primo ministro, giudice della corte costituzionale, ..). Pur affermando che il potere detenuto dalla burocrazia non va sottovalutato (in quanto essa non solo può porre intralci alle decisioni del vertice e in certi casi rifiutare di eseguire un provvedimento, ma è soprattutto un organismo che mantiene una continuità nel tempo anche in caso di cambiamento di governo), Dahrendorf ritiene che la burocrazia, come tale, resti essenzialmente uno strumento nelle mani del gruppo d'interesse al potere. Le principali posizioni del ramo esecutivo, legislativo e giudiziario dello Stato costituiscono il luogo cui si deve guardare quando si vuole trovare il fulcro dei quasi gruppi dominanti della società politica. In Dahrendorf l'analisi dei rapporti tra élite di governo, élite capitalista e burocrazia, come dei diversi tipi di conflitto che possono intercorrere tra le diverse posizioni di autorità, pone con maggior evidenza la complessità che sussiste all'interno della stessa classe dominante. L'esclusione dal potere da un dato contesto non implica infatti necessariamente l'esclusione dal potere in un altro ambito; inoltre, vi è una diversità nell'esercizio del potere a seconda che esso abbia luogo a livello dello Stato, o nell'industria, o nell'esercito, o in un'associazione. Le osservazioni di Dahrendorf relative all'autonomia della dimensione politica e alla rilevanza assunta dall'apparato burocratico nelle società industriali sviluppate valgono, nelle intenzioni dell'autore, per ogni forma di sistema politico. Ciò che varia, secondo l'autore, da un tipo di regime pluralistico come quello degli Stati Uniti ad un tipo di regime monistico come quello sovietico realizzato in URSS a suo tempo, è il grado di diversificazione delle istituzioni politiche e il ruolo che vi svolgono i gruppi organizzati. La mancanza di libertà di organizzazione di gruppi per la difesa degli interessi e la presentazione di proposte politiche, e il ruolo solo formale che svolgono i partiti o i sindacati (quando esistono) nei regimi totalitari influiscono direttamente sulle forme del conflitto. Nei regimi di tipo democratico i conflitti possono esprimersi a livello manifesto ed essere regolati istituzionalmente, in quanto sono previste forme specifiche di azione politica (es: scioperi) e ambiti specifici di contrattazione tra le parti (es: rapporto fra governo e sindacati). Nei regimi totalitari invece i conflitti restano per lo più a livello latente. Nel tentativo di superare le contrapposizioni tra il modello teorico di tipo conflittuale della tradizione marxista e quello di tipo funzionalista, che insiste invece sul consenso e sull'integrazione, Dahrendorf propone di considerare come complementari i 2 modelli e di utilizzare entrambi a seconda dell'aspetto che si vuole mettere in luce. Giustamente l'autore osserva che non è possibile concepire una società senza tener conto della dialettica della stabilità e del mutamento, dell'integrazione e del conflitto, del consenso e della coercizione. In questa prospettiva, pertanto, il conflitto appare una dimensione normale della vita sociale, connessa alla diseguale distribuzione dell'autorità politica e agli oggettivi contrasti d'interesse, di tipo sia politico sia economico-sociale, con le loro forme diversificate di azione. Se nelle società di tipo democratico i contrasti ideologici sembrano essersi affievoliti, ciò non significa che non permangano tensioni conflittuali, che trovano espressione in sempre nuove forme. Le analisi di Mills e di Dahrendorf hanno costituito, nella loro diversità, riferimenti importanti in sociologia per le successive analisi del rapporto tra Stato e classi sociali. Sempre nella prospettiva dei rapporti tra Stato e classi sociali, va ricordato anche il contributo teorico di Randall Collins. Anche questo autore sottolinea la presenza costante di elementi conflittuali nei rapporti di classe e nella distribuzione del potere. Per Collins, lo Stato è innanzitutto organizzazione della violenza. La teoria politica deve quindi analizzare e spiegare i modi in cui la violenza è stata organizzata e come si sono venute formando le strutture dello Stato, che cosa determina gli interessi che portano le persone a voler influenzare e controllare le scelte politiche dello Stato e quali le condizioni che determinano l'influenza effettivamente acquisita da gruppi d'interesse particolari. In questo contesto, se l'organizzazione militare appare il nucleo dello Stato moderno, assumono anche particolare rilevanza le tattiche di controllo ideologico e le forme rituali: "la strada maestra verso il potere, che lo si voglia per proteggere certi interessi economici o giusto per il puro piacere di occupare una posizione politica, o, infine, allo scopo di esaltare i propri ideali, consiste nel trasformare un determinato sistema di minacce e ricompense in una comunità rituale che affermi di rappresentare gli ideali morali e i simboli della realtà valevoli per tutti". La dimensione di coercizione, che è propria dello Stato, costituisce la sanzione ultima della proprietà (terre, beni, lavoro umano), in quanto ogni governo centralizzato sarà interessato a favorire e regolare legalmente la circolazione monetaria, il credito e le operazioni di contrattazione commerciale. Vi è infatti, secondo Collins, uno stretto legame tra interessi politici e interessi economici: nei confronti di questi ultimi, lo Stato può essere tanto un potente alleato quanto un pericolo mortale. Gli interessi politici sono quindi presenti in ciascun individuo e in ogni gruppo sociale organizzato e danno luogo a strategie e forme di negoziazione diversificate. Accanto agli interessi politici ed economici, Collins colloca anche gli interessi di status, ovvero quegli interessi che sono connessi alla difesa della propria identità (individuale, di gruppo, ..), con gli ideali, i simboli e i rituali sociali, che essa comporta. È a partire da questi presupposti generali che Collins tenta di derivare una serie di proposizioni empiriche valide per lo studio dei rapporti tra Stato, strutture economiche e forme ideologiche in ogni tipo di società. La sociologia politica, negli anni 70, ha dedicato la sua attenzione soprattutto alle trasformazioni prodotte nelle funzioni dello Stato in conseguenza dei compiti che lo Stato sociale era venuto assumendo tramite i suoi interventi diretti nella programmazione economica, nel mercato e nella produzione, come nella politica dei prezzi e nella regolazione del sistema monetario, nonché nell'assistenza pubblica e nei servizi. Tali nuove funzioni avevano modificato profondamente il ruolo tradizionale dello Stato e la dinamica dei suoi rapporti con le altre istituzioni e con le forze sociali in genere. La sociologia politica si è inoltre occupata del mutamento delle funzioni dei partiti politici e dei sindacati, i quali, oltre all'organizzazione delle forze sociali e la loro rappresentanza, si sono visti attribuire compiti connessi con la partecipazione alla gestione di settori importanti dell'attività economica, assistenziale e dei servizi, con un aumento considerevole del loro potere di controllo e di contrattazione, che ha avuto come conseguenza anche l'indebolimento dello Stato. Questa situazione si è infatti risolta, in molti casi, in una crisi dell'immagine sia dello Stato, sia dei partiti e dei sindacati, che sono apparsi come grandi apparati per la gestione degli interessi e la distribuzione della cariche pubbliche e talvolta anche di quelle private. Inoltre la complessità dei compiti assunti dal Welfare State ha provocato, in molti paesi europei, non pochi problemi nella stessa organizzazione dello Stato, il quale ha spesso dovuto riconoscere la propria inadeguatezza nel far fronte alle aspettative che in un primo tempo aveva esso stesso suscitato. I principali elementi emersi nell'analisi sociologica rispetto alla nuova situazione hanno posto in particolare l'accento su:

il rapporto tra le funzioni politiche e sociali dello Stato e gli interessi dei gruppi imprenditoriali e finanziari

la crisi di governabilità che si era venuta determinando a causa della sempre maggiore complessità del sistema sociale e della sua progressiva diversificazione e frammentazione

il problema delle nuove basi di legittimazione del potere dello Stato

tutti aspetti ovviamente strettamente correlati tra loro.

    Claus Offe ha sottolineato soprattutto le tensioni presenti tra la funzione dello Stato contemporaneo, che è rivolta principalmente agli interessi sociali emergenti, al di fuori dell'ambito strettamente economico, e gli interessi del capitale privato, difesi dagli imprenditori e dagli esponenti della finanza. Si era così creato un contrasto tra i criteri che orientavano la classe politica e quelli legati all'efficienza produttiva e alla competitività del mercato. Tale contrasto ha dato luogo a contrattazioni diverse tra lo Stato, i partiti politici, i sindacati e le associazioni imprenditoriali, volte a gestire le contraddizioni oggettive, emerse negli anni 70 in una situazione economica difficile, tra il problema del mantenimento del consenso collettivo, tramite provvedimenti d'interesse sociale generale e quello di una "corretta" attività economica.

    I problemi di legittimazione dello Stato e della crisi di governabilità che emergevano dal contesto analizzato da Offe erano generalmente interpretati in relazione all'aumento di complessità del sistema sociale. L'aumento del reddito complessivo e del livello d'istruzione, il progressivo differenziarsi delle attività professionali, connesso allo sviluppo del settore terziario (servizi), rispetto alla proporzionale diminuzione dei settori primario e secondario, avevano infatti provocato l'accentuazione del pluralismo e della frammentazione delle diverse forze sociali.

da un lato erano venute acquistando importanza nuove categorie sociali, non direttamente (o solo in parte) collegate con il mondo del lavoro (i giovani, le donne, gli anziani)

dall'altro   nello stesso mondo del lavoro, erano venute sempre più costituendosi, per effetto dell'aumento del grado di qualificazione, posizioni tra loro differenziate e relativamente eterogenee anche all'interno di uno stesso strato sociale, così da rendere problematica la tradizionale divisione delle classi

l'aumento della varietà degli elementi del sistema sociale (categorie professionali, minoranze attive, gruppi d'interesse economico, associazioni di tipo ricreativo, culturale, politico, religioso, assistenziale, di difesa dell'ambiente, ..)

la diffusione di modelli culturali di riferimento non più fondati principalmente sui valori del lavoro e dell'etica professionale

l'aumento della possibilità delle scelte aperte a ciascun individuo contemporaneamente o successivamente nel corso della vita

configurano il carattere specifico assunto dal fenomeno dell'accresciuta complessità del sistema, che ha messo in crisi i paradigmi concettuali e le strategie della politica tradizionale, così come le forme della sua legittimazione. In particolare, l'aumento della complessità sociale aveva suscitato anche nuove riflessioni sulle funzioni dei partiti politici e sul problema della rappresentanza nelle società democratiche. Alessandro Pizzorno ha identificato 2 variabili fondamentali nell'azione dei partiti:

la prima    definita come trasmissione della domanda, indica i modi attraverso i quali i partiti fanno proprie e trasmettono nella sede politica competente le richieste di provvedimenti

la seconda    definita come delega, riguarda i modi attraverso i quali i membri di una società si identificano con i partiti in quanto soggetti di azione politica e diventano solidali con essi

La funzione di trasmissione della domanda politica non è affidata solo alla struttura dei partiti, ma può essere svolta anche da gruppi d'interesse o di pressione, dai sindacati, dalla stampa, da settori della stessa pubblica amministrazione. Se da un punto di vista astratto i partiti dovrebbero presentare le domande in termini più generali degli altri gruppi, tenendo conto dell'insieme delle esigenze legate al bene comune, in realtà anche i partiti propongono spesso domande improntate al bene di alcuni, non ricavate direttamente dal loro programma politico, ma legate ad esigenze del momento e ad interessi particolaristici. Questo aspetto rende problematica la definizione stessa della specificità dell'azione dei partiti e può compromettere la loro legittimazione e credibilità nei confronti della loro base sociale. Anche per quanto riguarda la delega, i partiti presentano modalità molto diverse, a seconda del loro tipo di struttura e delle situazioni concrete. Le forme della partecipazione politica (elezioni, iscrizione al partito, frequenza alle assemblee, ..) variano in base a molti elementi. Inoltre, una volta che la delega è stata conferita, variano i modi di controllarla, cioè i modi di conoscerne gli effetti e produrre sanzioni, positive o negative, in base al giudizio di questi effetti. È ovvio che il tipo di partecipazione e il controllo della delega sono elementi determinanti quando all'effettiva rappresentatività dei partiti, alla loro credibilità, al tipo di potere da loro esercitano nel rapporto con lo Stato. Dopo il declino dei vecchi partiti di rappresentanza individuale e clientelare dell'inizio del xx° secolo e l'evoluzione del partito moderno, nella fase caratterizzata dal rapido sviluppo industriale, con l'allargamento del suffragio a tutti, sono venuti costituendosi i grandi partiti di massa, contraddistinti da:

alta partecipazione

organizzazione permanente e capillare nella società civile

possesso di un programma sociale sistematico, scaturito da un'ideologia coerente

sottomissione al partito e al programma di rappresentanza parlamentare

Ora tuttavia i partiti, anche per effetto della differenziazione e frammentazione degli strati e delle categorie sociali, tendono a formulare programmi sempre più generici e a trasmettere domande sempre più particolaristiche, connesse a gruppi d'interesse, in vista del mantenimento di rapporti clientelari con le proprie forze elettorali attuali e potenziali, assumendo così la forma di "partiti pigliatutto". Le tendenze individuate da Pizzorno sembrano trovare conferma nella riduzione delle funzioni dei partiti e nel declino delle grandi ideologie totalizzanti della politica. Le scelte associative sembrano, infatti, attualmente orientarsi piuttosto verso gruppi non direttamente qualificati in senso politico, ma di tipo corporativo, o volti ad interessi di tipo edonistico, ecologico, religioso, culturale, ricreativo, .. mostrando una progressiva disaffezione nei confronti della politica da parte di strati sociali sempre più vasti.

    Con la fine del 900, la riflessione sociologica sulle istituzioni politiche è passata ad analizzare soprattutto i processi di trasformazione che hanno investito tali istituzioni in conseguenza del fenomeno della globalizzazione.

lo sviluppo dell'economia di mercato

l'interdipendenza, a livello mondiale, degli scambi finanziari

la diffusione delle diverse tecnologie

la crescente influenza delle imprese multinazionali e delle organizzazioni internazionali

l'affermarsi della cooperazione nel campo della ricerca scientifica pura ed applicata

l'impatto dei mezzi di comunicazione di massa e delle nuove tecniche informatiche

sono tutti elementi che spiegano il processo di trasformazione oggi indicato con il termine globalizzazione, ovvero la "concreta strutturazione del mondo come un tutto". Anche se tale termine è suscettibile di assumere significati diversi e anche se persistono numerose differenze legate ai diversi contesti nazionali e culturali, non vi è dubbio sulla presenza, nelle società attuali, di componenti unificanti che, operando su scala mondiale, modificano profondamente gli equilibri interni dei diversi Stati.

Un primo elemento di omologazione può essere colto nel fatto che, da un lato, l'obiettivo del benessere materiale costituisce una meta ideale predominante per la generalità della popolazione mondiale, e, dall'altro, che vi è una diffusa fiducia nella possibilità di conseguire tale meta grazie ai progressi del sapere scientifico e tecnologico, allo sviluppo delle forme di produzione e di distribuzione di tipo industriale, nonché all'estendersi del capitalismo finanziario. L'immagine ideale del benessere appare operante anche nei paesi più arretrati ed è alla base del fenomeno sempre più accentuato delle spinte migratorie verso le aree sviluppate.

Un secondo elemento di omologazione è il progressivo consolidarsi di strutture di tipo transnazionale a livello sia economico sia politico. Non solo assistiamo alla crescente concentrazione dell'attività di produzione e di distribuzione in compagnie a carattere multinazionale, ma va anche aumentando sempre più la tendenza a costituire grandi aggregazioni relative ad aree commerciali e monetarie, come l'Unione Monetaria Europea. Sul piano politico-sociale, accanto all'ONU (= Organizzazione delle Nazioni Unite) e alla WTO (= Organizzazione Commerciale Mondiale), sono sorte numerose iniziative volte a sviluppare l'assistenza tecnica, la tutela dei diritti, l'unificazione della formazione scolastica e universitaria, .. L'importanza assunta dal "capitale globale", caratterizzato da ingenti spostamenti di flussi finanziari che attraversano le diverse aree geografiche, e la rilevanza delle istituzioni trasnazionali vanno profondamente ponendo in crisi alcune funzioni tradizionali dei diversi Stati nazionali, dal momento che le decisioni più importanti per la vita collettiva vengono sempre di più prese a livello internazionale. Come ha giustamente osservato Niklas Luhmann, il termine internazionale non è, qui, più riferito, come in passato, ai rapporti tra 2 o più nazioni, bensì ai problemi del sistema globale. La rilevanza dei centri di potere economico e politico operanti a livello mondiale sta trasformando le forme di appartenenza nazionale e i rapporti tra sfera pubblica e sfera privata. Occorre inoltre non sottovalutare l'impatto che hanno le forme della criminalità organizzata e, in particolare, il mercato della droga.

Un terzo elemento omologante è legato alla diffusione su scala mondiale dei mezzi di comunicazione di massa e delle nuove tecniche informatiche. L'informazione sugli eventi che si verificano nelle parti del mondo più distanti tra loro avviene ormai in tempo reale, mentre la pubblicità e i diversi prodotti della fiction costituiscono una fonte costante di modelli omogenei relativi ai consumi e agli stili di vita in tutte le società: un esempio particolarmente significativo è rappresentato dalla formazione di una cultura giovanile che travalica ogni confine nazionale.

Il problema che si pone a questo punto è se la globalizzazione contribuisca positivamente alla formazione di nuove identità, di nuove forme di appartenenza e di solidarietà a livello mondiale, oppure se i suoi effetti siano prevalentemente quelli negativi di un diffuso senso di disorientamento e di impotenza degli individui e delle istituzioni tradizionali di fronte alla difficoltà di comprendere e padroneggiare la crescente complessità che è venuta così determinandosi. Pur senza escludere che vada maggiormente sviluppandosi nelle coscienze la percezione di una responsabilità collettiva nei confronti del sistema mondiale (es: problemi della fame, della salute, degli squilibri dell'ecosistema, ..), sembra che attualmente tendano a prevalere soprattutto gli aspetti di segno negativo. D'altra parte, è noto che, sia per effetto diretto o attivo sia per effetto indiretto o reattivo, le condizioni della globalizzazione hanno provocato l'accentuazione del ruolo dei movimenti sociali particolaristici di tipo etnico, religioso, nazionalistico o comunque legati alla difesa di interessi locali o settoriali.

L'effetto attivo della globalizzazione, di tipo storico-culturale, può essere colto nella diffusione dei principi del multiculturalismo, ovvero nella presa di coscienza da parte di ogni cultura ad essere riconosciuta con pari dignità, quale naturale conseguenza della diffusione dei principi universali di uguaglianza.

L'effetto reattivo, di tipo prevalentemente psicologico, va invece cercato nella diffusa crisi d'identità e nel generale disorientamento provocati dallo stesso processo di globalizzazione che, attraversando le realtà nazionali e locali e indebolendone le strutture, tende a distruggere ogni possibilità di immediato riferimento identitario o valoriale.

La relativa omogeneità non appare sufficiente a fondare nuove condizioni di solidarietà generale attraverso la condivisione di valori universali, in una situazione nella quale sembrano scomparsi i riferimenti a fondamenti tradizionali. Il disorientamento provocato da questa situazione ha portato gli individui e le collettività a cercare forme più immediate di appartenenza nei vincoli etnici, religiosi, nazionalistici, nel genere e nelle preferenze sessuali, nel volontariato di tipo assistenziale, nella difesa dell'ambiente e della salute, .. Sia gli effetti attivi dei principi del multiculturalismo che quelli reattivi di ricerca di identità più immediate hanno favorito l'accentuarsi di politiche identitarie che tendono a rinchiudere gli individui all'interno di minoranze tanto più intolleranti nei confronti dei loro membri e tanto più aggressive quanto più rivendicano i principi di tolleranza generale. Come ha mostrato Richard Sennet, il fenomeno del multiculturalismo, quale è venuto diffondendosi soprattutto negli Stati Uniti, porta in pratica al fatto che "ogni gruppo si chiude nelle proprie appartenenze identitarie e nei propri stili di vita ed è assolutamente indifferente alla condizioni della vita degli altri. Così il multiculturalismo decreta la fine del discorso pubblico". Si manifesta in tal modo il dilemma di fondo delle nostre società, che sembrano oscillare tra forme di appartenenza troppo locali e particolaristiche, per potere rispondere alle esigenze dell'integrazione sociale e della solidarietà generale, e forme di appartenenza sovranazionali troppo astratte e universalistiche, per poter garantire una vera identità culturale. Il rischio della separazione tra un mercato mondiale globalizzato e le comunità locali rinchiuse in se stesse porta al declino del prestigio degli Stati nazionali in Europa. Sulla base dei diversi elementi posti in luce dall'analisi sociologica, la riflessione attuale sul rapporto tra pubblico e privato deve prendere atto della compresenza di tendenze contrapposte.

Da un lato, la tendenza da parte della sfera pubblica ad assumere funzioni tradizionalmente considerate come proprie della sfera del privato.

l'impatto delle decisioni economiche e politiche prese a livello di centri di potere a livello globale, con la promozione di modelli di consumo e la presenza di tecniche di manipolazione dell'opinione pubblica sempre più sofisticate ed occulte

la diffusa tendenza a regolare i rapporti interpersonali in termini giuridici

l'intromissione dell'autorità pubblica nelle scelte riguardanti la salute

il progressivo aumento del controllo sanitario

sembrano dissolvere ogni autonomia e resistenza del privato. Infatti, nella società di massa la sfera pubblica tende ad essere deformata dall'industria culturale e si costituisce come strumento di manipolazione che invade anche il privato.

Dall'altro, occorre riconoscere la tendenza della sfera privata ad assumere funzioni tradizionalmente attribuite alla sfera pubblica: accanto al permanere di forme tradizionali di gestione privata del pubblico legate alla corruzione e al clientelismo

l'accresciuta coscienza della propria autonomia da parte dei movimenti sociali, dei gruppi di interesse particolaristici e delle minoranze attive

l'accento posto sui valori dell'autorealizzazione individuale in una situazione nella quale il singolo tende ad anteporre il proprio orizzonte esistenziale ad ogni altro vincolo di tipo sociale

il favore nei confronti dell'associativismo di tipo volontaristico e comunitario

la diffusa sfiducia nelle istituzioni politiche e sociali tradizionali posta in evidenza da tante ricerche sociologiche sviluppate, in Italia e all'estero, soprattutto riguardo al mondo giovanile

sembrano orientare una logica del "fai da te", che spinge ad assumere funzioni di surrogazione nei confronti dei problemi collettivi di assistenza, difesa dell'ambiente, strutture urbane, controllo della devianza e autodifesa.

Come ha mostrato Ulrich Beck nella sua interpretazione del rifiuto della politica da parte dei giovani, "i figli della libertà odiano i formalismi delle organizzazioni e il loro modello di impegno costruito sull'imperativo del sacrificio della singola individualità". D'altra parte, lo stesso autore sottolinea che i valori della solidarietà interpretata nel senso dell'aiuto reciproco, la disponibilità e la ricerca del bene comune vengono posti sullo stesso piano dell'autorealizzazione, del successo professionale e dell'ampliamento della libertà personale. Sulla base di queste considerazioni, sembra si debba prendere atto della fine della sfera pubblica intesa come ambito omogeneo nel quale è presente un centro politico ben definito, con una chiara distinzione tra sfera politica e sfera tecnico-economica. L'affievolimento delle istituzioni statali nazionali per effetto dell'intromissione delle scelte di potere effettuate a livello globale, rende molto più difficile un riferimento sociale unitario e, d'altra parte, la frammentazione di quella che tradizionalmente veniva considerata la società civile, vede diminuire la capacità della sfera pubblica a recepire ed elaborare riflessivamente l'enorme flusso di comunicazione che la investe. Una possibile soluzione a questo problema è stata indicata da Beck in direzione di un allargamento dei confini tradizionali della politica e nell'idea di una molteplicità di sfere pubbliche parziali e specializzate, in grado di gestire aree specifiche di competenza. Un altro orientamento pone invece l'accento sul ruolo insostituibile delle istituzioni; altre proposte ancora riguardano la possibilità di costituire una sfera pubblica sovranazionale, possibilità che appare oggi ancora molto remota. In ogni caso, sembra che ci si debba orientare verso una riformulazione della struttura delle istituzioni politiche, sulla base di una loro aumentata capacità politica di dare ascolto alle istanze molteplici che emergono nel contesto sociale. Occorre infatti che le risorse presenti nelle forme di partecipazione "impolitica" trovino canali di espressione non solo privatistici, ma anche a livello del discorso politico generale sulla società, riconoscendo la legittimità dei nuovi ambiti di produzione di senso e delle nuove forme di partecipazione volte alla difesa dai rischi ambientali, della salute e degli interventi genetici, e in generale delle istanze di cui si è fatto promotore, nelle sue forme non violente, il nuovo movimento anti-globalizzazione. Senza una ridefinizione politica dei criteri di costituzione e delle funzioni di una pluralità di sfere autonome e specializzate del pubblico si corre il rischio di riprodurre forme autoreferenziali che finirebbero con l'ostacolare la possibilità di rifondare le basi della solidarietà generale. Ciò sembra richiedere una nuova cultura politica in grado di far fronte alle esigenze contraddittorie di mantenimento della solidarietà generale e rispetto del pluralismo dei gruppi sociali, tra responsabilità generale e difesa dell'autonomia e dell'autorealizzazione individuali.


  1. IL RAPPORTO SOGGETTO-STRUTTURA E LA FUNZIONE DEL POTERE.

L'analisi dei processi di formazione della soggettività, e delle strutture ambientali ed istituzionali, ha posto n evidenza l'interazione costante tra dimensioni "soggettive" e "oggettive" della realtà sociale. Su questa base trovano conferme le critiche rivolte sia a quelle teorie (individualismo metodologico, teorie della scelta razionale) per le quali l'agire degli attori sociali viene spiegato unicamente con le finalità razionalmente perseguite da questi ultimi o con gli effetti non voluti che ne possono risultare; sia a quelle teorie che tendono invece a spiegare i comportamenti degli attori esclusivamente a partire dai condizionamenti materiali e strutturali, come accade nelle forme tipiche del marxismo o dello strutturalismo, nonché in tutte quelle posizioni che cercano la causa dell'agire soltanto nei fattori biologici e ambientali oppure considerano l'agire degli individui come il semplice risultato delle regole e delle reti di relazioni. Il sociologo Raymond Boudon ha chiamato il primo tipo di paradigmi "interazionisti" e il secondo paradigmi "deterministici". Se i paradigmi interazionistici tendono a sottovalutare l'incidenza dei condizionamenti strutturali sull'azione, quelli deterministici li sopravvalutano, considerando l'azione come semplice effetto delle funzioni del sistema sociale, dei valori, delle norme interiorizzate, delle strutture. Diversi altri sociologi contemporanei, tra i quali Alain Touraine, Pierre Bourdieu, Anthony Giddens e Margaret Archer, hanno del resto rivolto critiche sia al soggettivismo che al determinismo di tipo strutturale, cercando un superamento della dicotomia soggettivismo-strutturalismo. Come si è visto, il rapporto tra azione e struttura può essere compreso solo se ci si riferisce al rapporto ambivalente stabilito dagli individui e dalle collettività tra l'esigenza di determinatezza (identità, prevedibilità, ordine) e l'esigenza che nasce dall'insofferenza per i limiti della determinatezza stessa (differenza, adattamento, trasformazione). Le strutture sono quindi il prodotto che nasce dal bisogno di determinatezza dei soggetti, anche se, una volta costituite, esse influenzano profondamente gli orientamenti degli attori sociali. Tuttavia, proprio in quanto determinate, ovvero forme di riduzione di complessità, le strutture, se consentono di muoversi più facilmente e in modo più economico nell'interazione sociale e nel rapporto con l'ambiente naturale, tendono a cristallizzarsi e a vedere accentuata la loro inadeguatezza rispetto all'esperienza vissuta, che rivendica allora le sue esigenze. La capacità di negazione delle oggettivazioni, propria della coscienza, è la condizione che consente la relativa autonomia dell'agire nei confronti delle strutture, e la possibilità della trasformazione di queste ultime. Non si tratta di pure decisioni libere del soggetto, ma piuttosto di una capacità di progressivi spostamenti da una forma di mediazione simbolica all'altra. L'errore dell'oggettivismo come pure del soggettivismo è pensare la coscienza come qualcosa di radicalmente diverso dalla struttura, mentre in realtà la coscienza non può fare a meno delle strutture, come non può fare a meno di differenziarsene: non può mai liberarsi totalmente delle strutture, né aderire totalmente ad esse. Il rapporto soggetto-struttura non può quindi essere inteso come un rapporto dialettico suscettibile di superamento finale: non vi è, infatti, alcun superamento progressivo di una coscienza che si realizza nella sua autonomia, ma soltanto una continua oscillazione, sena risoluzione, tra le opposte esigenze di determinatezza e prevedibilità, da un lato, e di adattamento e trasformazione, causa di indeterminatezza e imprevedibilità, dall'altro. Per evitare di cadere nel carattere riduttivo proprio delle teorie sia "oggettivistiche" sia "soggettivistiche", occorre quindi tener conto di tali presupposti, mostrando la complessità dei processi di costituzione delle unità soggettive e delle strutture ambientali ed istituzionali, ma anche analizzando la dinamica dei rapporti che intercorrono tra queste diverse dimensioni nelle situazioni concrete, nelle quali tanto le unità soggettive quanto le strutture appaiono come già date.

I.    Integrazione, conflitto, devianza.

Il rapporto dei soggetti con le strutture sociali appare sostanzialmente ambivalente e non dà mai luogo a forme di perfetta integrazione, né di perfetto equilibrio, anche perché sono le strutture stesse a provocare, nella loro riduttività, condizioni di disuguaglianza, effetti non voluti, contraddizioni. Per intendere la complessità di tale rapporto, può essere utile distinguere tra strutture simbolico-normative interne interiorizzate a livello individuale (insieme delle rappresentazioni, valori, regole, .. assimilati nel processo di socializzazione ed elaborati riflessivamente dall'individuo) e strutture simbolico-normative esterne, proprie del sistema sociale come tale (insieme delle forme di mediazione simbolica oggettivate in strutture ambientali ed istituzionali, di classe, dell'organizzazione produttiva, dei sistemi normativi legali, dei valori e delle ideologie dominanti, ..). Strutture "interne" ed "esterne" non hanno una diversa natura e si rinviano di continuo l'un l'altra reciprocamente; ma tale distinzione può risultare utile per spiegare i contrasti che possono sorgere a causa della non corrispondenza, in una situazione concreta, dei 2 momenti interno-esterno. Il divario può sorgere, ad esempio, a causa della compresenza di tradizioni culturali diverse in un medesimo contesto sociale, come nel caso di minoranze etniche, religiose, ideologiche, .. che possono aver interiorizzato strutture diverse da quelle esterne dominanti. Vi è quindi la possibilità che, in uno stesso individuo o in un gruppo, si abbia uno sdoppiamento nel rapporto con le strutture esterne: individui o gruppi possono, infatti, mantenere rapporti differenziati con queste ultime, a seconda che esse corrispondano più o meno con quelle che hanno interiorizzato, senza per questo porre necessariamente in discussione in modo esplicito le strutture che percepiscono come estranee. In questa prospettiva, il rapporto tra gli attori sociali individuali e collettivi ed il sistema sociale può essere analizzato dinamicamente nei termini delle forme dell'integrazione, del conflitto e della devianza.

Nell'impossibilità di una piena integrazione, ovvero di un'assoluta identità dei valori e dei fini individuali e di quelli dominanti nel contesto sociale, vi sarà sempre uno scompenso più o meno grande nel rapporto tra le aspettative soggettive e le gratificazioni che offre il sistema sociale, tra la pluralità e specificità dei diversi tipi di esperienza e il carattere generalizzante dei valori e dei fini codificati nel sistema sociale. Dal momento che è la stessa determinatezza delle forme di mediazione simbolica che crea disuguaglianza, la realizzazione di un consenso generalizzato incontra un ostacolo permanente nell'impossibilità di attuare un ordine di significati socialmente codificato, che sia rispondente, allo stesso modo, per i diversi soggetti sociali. Il grado di relativa integrazione di un sistema sociale concreto va inteso pertanto come il risultato di un equilibrio instabile tra le spinte verso la determinatezza, dettate dal bisogno di ordine, solidarietà, prevedibilità sociale, e quelle contrapposte, portatrici di indeterminatezza e di disordine, derivanti dalla diversità delle posizioni, degli interessi, dei tipi di esperienza. Nei casi concreti avremo quindi gradi di integrazione più o meno elevati, senza che venga mai raggiunto l'ideale della società perfettamente integrata.

Dalle oggettive condizioni di disuguaglianza derivano i conflitti, attuali e potenziali, manifesti e latenti, legati agli interessi economici, ai contrasti ideologici, alla ricerca di potere, che nascono non solo dai bisogni soggettivi, ma sono anche il prodotto delle condizioni strutturali del sociale. La presenza di conflitti appare come una condizione normale della vita sociale: da qui l'importanza di prevedere gli spazi e le regole per la manifestazione della conflittualità in modo che essa non sia distruttiva dell'intero ordine sociale (es: nelle società attuali, contenzioso giuridico e amministrativo, sindacati, diritto di sciopero, possibilità di trattative e di compromesso). In assenza del riconoscimento della normalità dei rapporti conflittuali, come avviene nelle società di tipo totalitario, i conflitti tendono ad esplodere in modo incontrollato e distruggere l'ordine costituito.

Il concetto di devianza può essere utilizzato in questo contesto per indicare tutte quelle forme di agire che, in una determinata situazione storico-sociale, manifestano, in forme indirette di tipo reattivo e sintomatico, sensi di disagio, disturbi più o meno gravi della comunicazione, tensioni latenti, proteste, attraverso comportamenti o atteggiamenti che si discostano dai modelli che, in base a leggi, costumi tradizionali, usi, .. vengono considerati dalla maggioranza dei membri di una società "normali". Il fenomeno della devianza comprende quindi sia aspetti legati al comportamento individuale sia procedure di etichettatura (labelling), ovvero di definizione, intersoggettivamente condivisa, di un dato comportamento come "deviante".

Anche in questo caso non si può attribuire il fenomeno della devianza unicamente a problemi di tipo soggettivo, ma sono molto spesso le stesse strutture sociali a favorirla o a indurla negli individui. Come ha mostrato il sociologo Robert K. Merton, quando nelle società capitaliste sviluppate, come gli Stati Uniti, vengono proposte mete di benessere e di successo economico talvolta senza offrire i mezzi necessari per conseguirle, sono le stesse strutture del sistema sociale ad indurre situazioni di disorientamento e di frustrazione e quindi di devianza. In quanto forma indiretta, la devianza si differenzia dalle forme dirette della ribellione e della protesta volontarie. In riferimento al divario tra i valori e le rappresentazioni soggettive interne e le strutture e le rappresentazioni sociali codificate esternamente e in relazione ai concetti di integrazione, conflitto, devianza, si possono distinguere vari tipi di rapporto tra i soggetti individuali e collettivi ed il sistema sociale, a seconda del grado di convergenza o divergenza tra mondo soggettivo interno e mondo sociale esterno, e della presenza, nei soggetti, di atteggiamenti attivi o passivi, di accettazione delle strutture e dei valori dominanti o di opposizione di essi, nonché del grado di rigidità-flessibilità delle strutture stesse. Le strutture che rispondono in modo più adeguato alla loro funzione sono quelle che non sono né troppo rigide, rischiando di imprigionare l'esperienza in forme codificate divenute astratte e anacronistiche, né troppo flessibili, con il pericolo di portare alla dissoluzione gli ordini di prevedibilità. Le strutture rigide generano infatti situazioni di alienazione che danno luogo, prima o poi, a reazioni violente da parte dei soggetti, o a forme di apatia e di dipendenza, che privano di vita i processi sociali; mentre le strutture troppo flessibili generano insicurezza nei soggetti, situazioni di anomia o di mancanza oggettiva di orientamenti e, ancora una volta, reazioni violente che finiscono con il favorire tendenze di tipo assolutistico, ovvero la richiesta di strutture rigide.

II.    Le teorie del potere.

Per passare da un livello prevalentemente descrittivo dei possibili comportamenti che si sviluppano all'interno del rapporto tra soggetti e strutture, ad un livello interpretativo, che consenta di approfondire maggiormente la conoscenza delle dinamiche che sono alla base del rapporto stesso, occorre far riferimento alla dimensione specifica del potere, analizzandolo come

a)  capacità intrinseca dell'attore sociale individuale

b)  funzione attribuita collettivamente dall'esterno

c)   struttura e funzione del sistema sociale stesso

Questi diversi livelli di analisi dovranno essere posti in relazione con i processi di cambiamento sociale, in modo da avere una comprensione soddisfacente del significato che il potere come tale viene ad assumere nelle dinamica dell'esperienza vissuta e dell'agire pratico. Non è possibile sviluppare qui neppure in via di prima approssimazione un'analisi critica delle diverse teorie sociologiche del potere, ma in modo molto schematico si può tentare di individuare le principali posizioni circa il modo in cui il problema del potere è stato affrontato in sociologia:

a)  Alcune teorie tendono a cogliere empiricamente il carattere specifico della relazione di potere in quanto distinta da altri tipi di relazione. Sono queste le teorie che rispondono alla domanda circa le condizioni in base alle quali un determinato rapporto può essere definito come rapporto di potere. Generalmente le teorie comprese in questa categoria tendono a sottolineare il carattere di "produzione intenzionale di effetti" e di intervento attivo nei processi di decisione che presenta il potere, nonché il suo carattere di condizionamento, di controllo e di coercizione nei confronti del comportamento di altri ("si dice che A esercita potere su B quando A produce effetti in B in maniera contraria agli interessi di B" oppure "A ha potere su B nella misura in cui A può far fare a B qualcosa che egli altrimenti non farebbe"). Grosso modo possono essere fatte rientrare in questo modello le posizioni di Dahl, Lasswell, Kaplan, Wright Mills, Blau. Restano inoltre in questo stesso ambito anche quelle teorie che sottolineano come il potere venga spesso esercitato non soltanto attraverso la produzione di decisioni, ma anche impedendo di prendere delle decisioni a quegli individui o gruppi i cui interessi siano in contrasto con quelli dei detentori del potere.

Questo tipo d'impostazione, che delinea soprattutto il potere come capacità di far fare o impedire di fare, indipendentemente dagli interessi e dalle volontà dei subordinati, mette certo in evidenza un aspetto essenziale del modo in cui il potere può manifestarsi, ma non dice nulla sulle ragioni per le quali si dà la possibilità di un tale rapporto. Ponendo l'accento sul carattere coercitivo del potere, tali teorie tendono infatti a sottovalutate il carattere di negoziazione che è proprio di ogni rapporto sociale di potere, e non danno il necessario spazio alle ragioni per le quali in ogni società vi è da parte della maggioranza una richiesta di individui che gestiscano il potere. Inoltre queste teorie non tengono conto del fatto che la funzione di potere possa essere necessaria in quanto riduzione di complessità anche quando non vi è contrasto d'interesse tra coloro che esercitano il potere e coloro che sono ad esso subordinati.

b)  Un'indicazione sulle condizioni che fondano le relazioni di potere su una base consensuale è invece data dalle teorie che analizzano il potere soprattutto nei termini delle sue forme di legittimazione. Per Max Weber la legittimazione consiste nella credenza che colui che esercita il potere sia, per una qualunque ragione, abilitato all'esercizio del potere stesso. Solo quando tale credenza è presente si può infatti parlare in senso specifico di autorità anziché genericamente di potenza. Distinguendo 3 forme prevalenti di legittimazione, Weber ha costruito la sua tipologia del potere secondo 3 diverse possibilità:

potere tradizionale, fondato sulla credenza della continuità dei detentori del potere (es: monarchia ereditaria)

potere carismatico, fondato sulla credenza dei caratteri eccezionali del capo (es: dittature di Hitler, Stalin, Mussolini, ..)

potere legale, fondato sulla credenza della rispondenza dell'esercizio del potere con un ordine normativo predefinito (es: democrazie costituzionali)

Come per le teorie precedenti, anche queste mettono in evidenza un aspetto essenziale di esso, ma, al di là delle diverse forme concrete che razionalizzano l'assenso al potere, restano da cogliere le ragioni profonde dell'esigenza che tale assenso manifesta di credere nel potere e di sostenerne il rapporto.

c)   Un altro importante gruppo di teorie è rappresentato da quelle impostazioni che mostrano il potere come funzione del sistema sociale e garanzia della sua efficienza. Nel modello funzionalista viene soprattutto sottolineato il carattere consensuale del potere, in quanto strumento per il conseguimento di fini condivisi. In questo modello, quindi, anziché relazione asimmetrica e conflittuale, il potere tende ad apparire come "azione concertata" (= accordata) o come "mezzo di comunicazione".

L'accentuazione del carattere funzionale del potere, che rinvia certamente ad un aspetto reale di esso, tende qui a mettere in ombra un aspetto altrettanto essenziale per la comprensione del potere, ovvero la possibilità che esso assuma un carattere repressivo e distruttivo. Se il modello funzionalista ha il merito di porre in evidenza il carattere relazionale del potere e il suo ruolo positivo di determinazione e di decisione all'interno del sistema sociale, esso non ha strumenti concettuali altrettanto adeguati a rappresentare l'ambivalenza del potere, che può anche diventare, nelle sue tendenze assolutizzanti, una causa di indeterminatezza, di conflitto e di blocco della stessa possibilità di prendere decisioni.

d)  Le teorie, prima ricordate, che pongono l'accento sui soggetti del potere, in termini di élite di potere, pur sottolineando l'importanza delle qualità personali dei membri dell'élite, finiscono in sostanza per sottolineare anch'esse il carattere funzionale del potere, giustificando così la disuguaglianza delle posizioni e l'asimmetria dei rapporti.

Il difetto di queste ultime teorie è soprattutto quello di assumere come un dato naturale ciò che è in realtà il prodotto storico di forme sociali concrete: se tali teorie hanno ragione nel riconoscere il carattere insostituibile del potere e la fatalità, per certi aspetti, della tendenza elitistica, esse non danno sufficiente spazio alla possibilità di controllare e modificare le forme concrete del potere, proprio a partire da una migliore conoscenza delle sue funzioni e dei suoi meccanismi.

e)  Contrapposte per molti aspetti alle teorie elitistiche sono invece quelle teorie che considerano il potere soprattutto in termini di struttura e di conflitto tra interessi oggettivi contrapposti. Negli autori che si collocano nella tradizione socialista e marxista il potere è visto come il puro prodotto di condizioni storico-sociali, suscettibili di venire radicalmente trasformate fino alla totale eliminazione della disuguaglianza e delle forme di concentrazione di potere. I soggetti del potere tendono in questo contesto ad apparire come il semplice supporto di strutture oggettive date, anche se in Marx esiste la possibilità di ridare importanza alla dimensione soggettiva a partire dal concetto di coscienza di classe.

Le teorie strutturaliste di tipo marxista mettono in evidenza anch'esse alcune componenti essenziali del fenomeno del potere, in particolare per quanto riguarda il suo rapporto con le condizioni materiali e il suo carattere repressivo, ma ciò che in questo modello tende a restare in ombra è la relativa autonomia del potere politico rispetto a quello economico o sociale e soprattutto il carattere di decisione, che è proprio della funzione specifica del potere. Considerando inoltre il potere politico come dimensione eliminabile, queste teorie cadono nell'eccesso opposto rispetto a quelle elitistiche: il fatto che le forme del potere siano sempre il prodotto di contingenze storico-sociali non comporta la possibilità di eliminare il potere, che è legato costitutivamente alla dimensione della mediazione simbolica, ma semmai soltanto la possibilità di controllarlo e di modificarlo.

Il presupposto delle riflessioni che seguono nasce dalla convinzione che per mostrare la fondamentale ambivalenza del potere (come consenso e coercizione, come mediazione e repressione, come fonte, al tempo stesso, di determinatezza e di ordine, come di indeterminatezza e di disordine) e per individuare il carattere specifico delle sue funzioni, occorra analizzarlo in relazione alla dinamica del rapporto determinato-indeterminato che abbiamo colto alla base della situazione sociale, in quanto costitutivamente costruita attraverso le forme di mediazione simbolico-normativa.

III.  Il potere intrinseco degli individui.

Un primo aspetto utile a mettere in evidenza la natura del potere individuale può essere colto in relazione alla dinamica del rapporto tra identità come similarità e identità come singolarità, che caratterizza i processi di costituzione del soggetto individuale. Sin dall'inizio della sua vita, l'infante appare dotato di un certo potere di, nel senso che egli ha la possibilità di far valere, nei confronti degli adulti, le pretese legate al suo bisogno di sopravvivenza e, inoltre, che egli ha la capacità di sviluppare progressivamente, all'interno della comunicazione intersoggettiva, un'elaborazione della sua esperienza a partire dalle sensazioni primarie di piacere e dolore, attraverso processi di identificazione e di negazione che sono alla base del suo costituirsi come individuo dotato di autocoscienza. Come mostrano le analisi di Melanie Klein, il bambino è capace di instaurare, fin dai primi giorni di vita, strategie difensive che, con il tempo, finiscono con il costituire strutture stabili che consolidano e limitano la sua particolare personalità. Sulla base della continuità narrativa delle esperienze, l'individuo elabora un suo proprio sistema di significati e di simboli che funziona da filtro dei diversi stimoli che provengono dal mondo esterno, condizionando le sue esperienze successive. Come si è accennato prima, tra il mondo interno dell'attore (proprio dell'individuo) e il mondo esterno dei rapporti che il soggetto intrattiene con gli altri, con le cose e con le diverse istituzioni sociali, si viene a stabilire una relativa discontinuità o separazione, che consente al soggetto stesso di comunicare con i suoi simili conservando tuttavia la propria differenza. Riprendendo quanto detto a proposito del problema dell'identità, un grado maggiore o minore di autonomia individuale viene raggiunto nella misura in cui ogni soggetto riesce a bilanciare le esigenze di essere riconosciuto dagli altri, assumendo un'identità fondata sulla similarità comunemente accettata nel suo contesto sociale di appartenenza, e le esigenze di essere riconosciuto dagli altri come identità fondata sulla differenza della propria singolarità. Senza un certo grado di similarità con gli altri non è possibile alcuna comunicazione sociale: l'eccesso di singolarità (es: il folle) porta ad una totale incomunicabilità, che si risolve necessariamente in una forma di emarginazione dell'individuo e quindi, di fatto, alla sua perdita di potere come soggetto sociale. Ma anche l'eccesso di similarità produce un effetto analogo di perdita di potere, in quanto la totale adesione al ruolo socialmente codificato, eliminando ogni imprevedibilità dell'agire individuale, porta l'individuo stesso ad essere dato per scontato, ovvero ad una totale dipendenza e, quindi, ancora una volta, a non essere riconosciuto come soggetto di potere. A questo riguardo il concetto di distanza dal ruolo di Ervin Goffman, indica che l'attore è sempre in grado di proteggere se stesso dal pericolo di un'identificazione eccessiva con i modelli socialmente codificati, conservando almeno un certo grado di prevedibilità. È proprio questa capacità di gestire le contraddizioni del rapporto determinato-indeterminato che configura il potere intrinseco del soggetto, che può essere definito, in particolare, come la capacità di far uso dell'identità come similarità senza peraltro assolutizzarla, riconoscendo al tempo stesso la necessità e il limite di quest'ultima. (es: no identità come similarità = il folle; no identità come singolarità = lo schiavo; grado minimo di potere intrinseco = l'impiegato; grado massimo di potere intrinseco = il genio innovatore) A livello psicologico, la progressiva crescita del potere intrinseco del soggetto è stata descritta da Freud nei termini del rapporto tra Io e Super-io.  Freud attribuisce, infatti, al Super-io (valori e modelli sociali) una funzione essenziale nella strutturazione dell'Io nel suo rapporto con l'Es (le pulsioni) da una parte, e il Super-io (valori e modelli sociali) dall'altra. Il Super-io (valori e modelli sociali) consente l'abbandono della vaga posizione infantile, assicurando il consolidamento di un'unità individuale coerente e strutturata. Freud osserva, tuttavia, che l'eccessiva dipendenza dell'Io dal Super-io (valori e modelli sociali) costituisce un ostacolo al pieno sviluppo dell'Io stesso. Una vera autonomia individuale viene conquistata solo nella misura in cui il Super-io (valori e modelli sociali), una volta interiorizzato, può venire ridimensionato, aprendo ad altre possibilità di realizzazione del sé. Una dinamica analoga è stata posta in evidenza da George Mead nei termini del rapporto tra Io e Me. L'individuo si forma, in una prima fase, imparando a vedere se stesso con gli occhi degli altri o, meglio, nel riferimento all'altro generalizzato, in quanto insieme dei modelli culturali e delle attese socialmente condivise (Me). In questa fase, l'Io non è distinto dal Me, in quanto è totalmente identificato all'immagine del sé socialmente codifica. La crescita e la maturazione dell'Io avvengono soltanto quando l'individuo riesce ad andare al di là del Me, costituendosi come singolarità relativamente autonoma. L'Io non può mai essere colto direttamente, ma solo come "Io di un Me"; dell'Io, quindi non può mai essere data una definizione precisa. Se il Me è l'insieme organizzato degli atteggiamenti degli altri, l'Io è la risposta personale a tali atteggiamenti. La creatività dell'Io si configura, quindi, come capacità di ridurre al minimo la forma convenzionale del Me e come capacità di modificare gli stessi modelli sociali. Un effetto del potere consiste proprio nella capacità di produrre nuove forme di mediazione simbolica che ridefiniscano, sia per sé sia per gli altri, l'ambito delle possibilità dell'agire. Anche se a partire da presupposti in parte diversi, le analisi di Freud e Mead pongono, quindi, entrambe in evidenza che il potere intrinseco dell'Io è la capacità di fare uso delle forme di determinazione (Super-io e Me) in quanto prodotti socio-culturali della comunicazione intersoggettiva, senza assolutizzarle, riconoscendone, quindi, al tempo stesso sia la necessità sia i limiti. Tanto il riconoscimento della necessità della determinazione quanto quello del suo carattere riduttivo comportano un rischio per il soggetto (eccessiva identificazione/svanire nell'indeterminatezza); lo sviluppo del potere intrinseco permette, appunto, di affrontare entrambi tali rischi. In questo contesto, la forza dell'Io appare connessa alla capacità di gestire l'inconciliabilità e l'ambivalenza che sono proprie della situazione esistenziale. Ovviamente, nella pratica, il potere intrinseco, una volta che è stato acquisito, può essere usato tanto per affermare il proprio dominio sull'altro, quanto per promuovere l'autonomia e il potere intrinseco altrui. In via di principio, tuttavia, l'individuo che è riuscito a sviluppare il proprio potere intrinseco raggiunge, appunto perché non ha rimosso l'insicurezza fondamentale della sua situazione, una sorta di interna sicurezza, che dovrebbe consentirgli di riconoscere l'altro, rendendosi immune dalla ricerca di rassicurazione attraverso il dominio degli altri. La logica del dominio, ovvero dell'illimitata affermazione di sé a danno dell'altro, rivela infatti una profonda insicurezza sia nel soggetto che esercita il dominio sia in colui che accetta la posizione di subordinazione. Nella reciproca dipendenza che viene così a stabilirsi non emerge nessuna vera possibilità di reciproco riconoscimento, ma ciascuno vive la sua esperienza chiuso nel proprio immaginario, nel quale l'altro è ridotto a pura giustificazione. Il dominio può quindi essere considerato come il tipo ideale del rapporto tra individui ugualmente privi di potere intrinseco, in quanto ugualmente dipendenti. Il grado di potere intrinseco raggiunto da un individuo non può ovviamente essere misurato direttamente, ma solo dedotto dai suoi effetti: in via di principio, una sua logica conseguenza dovrebbe essere lo sviluppo della phronesis, in quanto saggezza e senso pratico, in grado di valutare le componenti contraddittorie delle diverse situazioni concrete, impegnandosi nelle determinazioni delle vita quotidiana, effettuando scelte e prendendo decisioni e, al tempo stesso, aprendosi alle evenienze imprevedibili, senza restare vittima dei processi di assolutizzazione delle determinazioni e delle proiezioni illusorie che tale assolutizzazione sempre comporta. Al potere intrinseco sembra inoltre dover essere congiunto il senso di responsabilità, ovvero la disponibilità a farsi carico per gli altri della gestione delle contraddizioni, così come la capacità di amare l'altro in maniera incondizionata.

IV.  Il potere come attribuzione.

A livello sociale, il fenomeno del potere si manifesta come

timore nei confronti della capacità coercitiva dell'altro oppure come

credenza nella legittimità di colui che esercita il comando, ovvero come attribuzione di potere fondata sia sulla percezione di determinate qualità del capo sia sulla base di convenzioni sociali. Molto spesso, nella pratica, timore e credenza possono essere congiunti: la legittimazione, in questo caso, appare come una forma di razionalizzazione che consente di meglio accettare un dato di fatto. Il potere attribuito o estrinseco, pur potendo anch'esso essere riferito alla capacità di gestire le contraddizioni, non ha in sé alcuna corrispondenza necessaria con il potere intrinseco: al contrario, la ricerca di supremazia che è legata alla mancanza di potere intrinseco è spesso una condizione dell'attribuzione di potere sociale ad un determinato individuo, in quanto quest'ultimo tende a cercare tale attribuzione, sfruttando le condizioni e le risorse che sono a sua disposizione per ottenere la posizione di comando. Più difficile sembra la spiegazione delle ragioni per le quali tanti individui si rivelano disposti ad attribuire potere ad altri individui. La spiegazione dev'essere cercata nella funzione svolta dal potere come gestione delle contraddizioni. A livello sociale, le forme di mediazione simbolico-normative costituiscono una condizione indispensabile della convivenza sociale, ma, al tempo stesso, per il loro carattere riduttivo, non esauriscono la complessità dell'agire. Da qui l'esigenza di un continuo riadattamento e trasformazione delle rappresentazioni e delle regole, nonché dell'esercizio di una capacità discrezionale nell'applicazione di queste ultime. La gestione della contingenza sociale trova quindi nel soggetto (individuo, gruppo, istituzione sociale, ..) cui, per una qualsiasi ragione, è stato attribuito il potere un meccanismo essenziale di riduzione della complessità e di adattabilità del sistema, che consente di economizzare energie nel mantenimento del consenso e nel coordinamento dell'agire. Il potere, a questo livello, si configura quindi come funzione sociale che consente di ridurre la complessità, assicurando, al tempo stesso, la normale oscillazione tra determinatezza e indeterminatezza, ovvero tra l'osservanza e l'inosservanza delle regole. Il potere attribuito si articola nelle funzioni di:

a)  definizione degli ordini normativi, che garantiscono le condizioni di prevedibilità (potere legislativo)

b)  interpretazione e applicazione discrezionale di tali ordinamenti, nonché controllo della loro osservanza (potere amministrativo e giudiziario)

c)   decisione, in tutte quelle situazioni nelle quali occorre formulare progetti ed effettuare scelte anche contro le regole costituite o in mancanza di esse (potere esecutivo)

Quest'ultimo aspetto è stato posto in risalto da Carl Schmitt nella sua definizione del potere come "decisione nel caso di eccezione". La situazione di eccezione di Schmitt è quella che rende palese il limite delle forme di mediazione simbolico-normative ogni qualvolta la gestione delle contraddizioni emergenti dal rapporto tra determinatezza e indeterminatezza manca di riferimenti a modelli normativi già codificati. Nelle situazioni eccezionali (guerre, catastrofi naturali, ..) infatti le forme normative usuali non sono sufficienti a dare indicazioni sul comportamento da tenere e occorre ricorrere ad una capacità di decisione che va oltre la norma. L'ambivalenza del rapporto tra l'agire e l'ordine simbolico si riflette direttamente nella funzione ambivalente del potere: il potere politico esecutivo presenta, infatti, una caratteristica dualità, nel senso che esso si pone, nel contempo, come garante della norma e normale trasgressore di quest'ultima. Il potere, infatti, assicura le condizioni di prevedibilità, gestendo, nel contempo, l'imprevedibile. Indipendentemente quindi dal problema circa il potere come struttura e funzione sociale e circa i limiti posti alla dimensione di trasgressività del potere, è importante riconoscere che tale trasgressività è una componente essenziale, che qualifica la specifica funzione del potere nel suo rapporto con le forme di mediazione simbolico-normative. Questo carattere permette anche di comprendere la differenza tra l'influenza esercitata dall'uomo di fede e il potere dell'uomo politico: ad esempio, colui che, come Gesù Cristo, crede profondamente nelle verità e nei valori che annuncia, può ottenere un'enorme adesione da parte di grandi masse e influenzarne il comportamento in modo determinante per molti secoli, ma non ha alcun potere politico in senso stretto. Chi invece non crede (o crede limitatamente) nelle certezze, che però comunica e fa valere per gli altri servendosi delle ideologie in modo talvolta spregiudicato, ha la possibilità di esercitare un potere politico, come hanno dimostrato dittatori come Lenin e Stalin. Non si tratta ovviamente qui di dare un giudizio morale; certamente si potrà, nei casi concreti, verificare se l'inosservanza della norma sia giustificata da esigenze contingenti di funzionalità o, al contrario, abbia assunto proporzioni tali da produrre un eccesso di indeterminatezza, distruttiva del potere stesso. In via di principio, il tipo ideale del titolare del potere attribuito è, quindi, rappresentato da individui o gruppi in grado di dare certezza e stabilità all'assetto sociale, assumendo su di sé le responsabilità, i dubbi e i rischi propri delle decisioni contingenti, ovvero di consentire l'adattamento e la trasformazione dell'ordine sociale pur mantenendo la sua continuità. L'esercizio del potere attribuito, di conseguenza, comporta sempre l'assunzione di un compito rischioso che solo pochi sembrano disposti ad assumere: si spiega così la ragione per la quale la maggioranza dei membri di una società tende a delegare ad altri la responsabilità del comando. L'attribuzione di potere può essere dettata dalle più diverse motivazioni, ma in esse possono essere distinte 2 componenti costanti:

la prima    di ordine oggettivo, appare connessa all'esigenza collettiva di riduzione di complessità, che si configura come interesse generale al mantenimento di quelle regole di base che assicurano, per così dire, la possibilità di giocare tutti gli altri giochi. Rispetto a tale interesse generale, i conflitti di interessi particolari, salvo i casi limite delle rivoluzioni, vanno in secondo piano

la seconda    di ordine soggettivo, oltre a riferirsi alla tendenza a scaricare sul titolare del potere le responsabilità e i rischi della decisione, deve anche tener conto dei processi, inconsci e consci, di identificazione con la figura del capo; tale identificazione infatti ha spesso come risultato l'esaltazione del senso di unità e di potenza della collettività

L'ambivalenza propria della funzione sociale del potere spiega, inoltre, la compresenza di aspetti contrapposti nell'immagine del potere: da un lato, l'aspetto rassicurante di un potere che mantiene l'ordine e protegge, sollevando dalle responsabilità e risolvendo problemi collettivi; dall'altro, l'aspetto inquietante di un potere sempre suscettibile di trasformarsi in puro arbitrio, producendo livelli insostenibili di imprevedibilità e di indeterminatezza. Da un lato, il potere come prodotto del consenso collettivo; dall'altro, il potere come funzione di coercizione e di violenza. In via di principio, tali aspetti non sono scindibili tra loro. Il carattere consensuale e coercitivo del potere deriva anch'esso della sua funzione: nella pratica, nessun potere può venir esercitato senza un minimo di consenso, per quanto dettato dalla paura; il rifiuto di ottemperare ai comandi, anche se a rischio della propria vita, rimane pur sempre una possibilità. D'altra parte, la presenza dell'elemento coercitivo è parte integrante, anche nei sistemi più democratici, della funzione di conferma della prevedibilità che è propria del potere: in assenza di sanzioni, la determinatezza dell'ordine normativo verrebbe gravemente indebolita. Nelle situazioni concrete, consenso e coercizione sono strettamente interrelati all'interno di un continuum, compreso tra il polo del massimo consenso e quello della massima coercizione. Questo spiega anche perché è così difficile discernere, nei casi concreti, se il consenso è frutto di una manipolazione collettiva, oppure se è effettivamente espressione di una libera adesione. Allo stesso modo in cui il potere intrinseco ottimizza la sua funzione quando si mantiene equidistante dai poli opposti della determinatezza dell'identità-similarità e dell'indeterminatezza dell'identità-singolarità, così il potere attribuito o estrinseco ottimizza la sua funzione sociale quando si mantiene nell'equidistanza tra la determinatezza del momento normativo e l'indeterminatezza derivante dalla continua esigenza di adattamento che emerge dalla complessità dell'agire. Se troppo dipendente dalle assolutizzazioni cui tendono le dimensioni della determinatezza, il potere manca alla sua funzione di adattamento e di decisione, perdendosi nella routine e nei ritualismi di tipo burocratico che paralizzano la vita sociale; se, al contrario, accentua la sua funzione di decisione e di trasgressore delle norme codificate, il potere rischia di costituirsi come puro arbitrio, diventando, a sua volta, una fonte di eccessiva indeterminatezza, distruttiva dell'ordine sociale. Il riconoscimento del carattere ambivalente del potere permette di risolvere il problema se si debba considerare il potere come senz'altro funzionale al mantenimento dell'ordine sociale, oppure se si debba additarlo come dominio repressivo. Se è vero che il potere attribuito comporta sempre un certo grado di concentrazione di potere nelle mani di coloro cui viene affidato, è anche vero che esso può sia accentuare il mantenimento della dipendenza dei subordinati in funzione degli interessi dei detentori del potere stesso e, quindi, attraverso un'effettiva sottrazione del loro potere, come accade nei regimi di tipo autoritario; sia, nel caso ideale in cui il potere viene esercitato in funzione degli effettivi interessi dei subordinati, esso può costituire un fattore di incremento generale del potere intrinseco, individuale e collettivo, accrescendo concretamente le possibilità di partecipazione ai processi decisionali. Tutto dipende, pertanto, dalle forme specifiche di negoziazione sulla base delle quali viene a costituirsi la relazione del potere e dai modi in cui vengono istituzionalizzate la rappresentanza e le condizioni generali della comunicazione sociale, tramite la quale vengono vissuti ed interpretati, dai soggetti della relazione stessa, gli interessi individuali e collettivi. Un potere appare, quindi, tanto più autonomo e consolidato quanto più riesce ad allargare la base del suo consenso o a far giocare, a suo vantaggio, gli interessi di gruppi contrapposti. Gli elementi che determinano l'esito della negoziazione per l'attribuzione del potere possono essere molto diversi, a seconda delle contingenze storico-sociali; a questo proposito non è possibile individuare le qualità proprie dei soggetti di potere, a parte forse quella di apparire più capaci di altri di affrontare il rischio come tale. Le personalità dei leader politici, ai diversi livelli e nelle diverse epoche, non hanno caratteristiche omogenee e, d'altra parte, se in alcuni casi le qualità del leader sembrano determinanti, in altri esse appaiono secondarie rispetto all'interesse volto a costituire comunque una figura di capo. Tale interesse è in ogni caso una dimensione essenziale del rapporto "contrattuale" che è sempre alla base del potere politico-sociale. Anche se le caratteristiche generali del potere attribuito sembrano trovare la loro naturale applicazione nelle forme concrete del potere politico, tali caratteristiche possono anche essere colte in ambiti specifici più circoscritti, come nel caso di un gruppo, di un'organizzazione produttiva, di un'istituzione amministrativa, .. In questa prospettiva, è possibile riformulare la distinzione tra potenza e potere: quando ci si riferisce alla potenza di un gruppo (gruppo d'interesse, associazione, mafia, terrorismo, ..) o anche di una nazione, si fa riferimento all'impatto che l'azione di tali soggetti può avere nelle trasformazioni dell'ambito sociale. La potenza dei gruppi o delle nazioni, tuttavia, è necessariamente subordinata all'efficacia con la quale, all'interno di tali unità, la funzione di potere verrà esercitata secondo le modalità sopra descritte: ovviamente, quanto più operativa sarà la gestione interna del potere, tanto più forte sarà l'impatto esterno dell'unità particolare, la sua effettiva potenza. Questa analisi, pur offrendo la possibilità di dedurre criteri di valutazione su quali siano le forme migliori di esercizio del potere, è volta semplicemente a descrivere le condizioni nelle quali un qualsivoglia potere può funzionare. Se un potere politico, di fatto, riesce a mantenersi in vita, ciò significa che, almeno in certa misura e a costi più o meno alti, ha corrisposto alle esigenze di gestione delle contraddizioni sopra indicate. Il carattere tautologico di questa affermazione permette di comprendere perché un potere mosso, in teoria, dalle migliori intenzioni possa nella pratica essere meno efficace o, al limite, più distruttivo di un potere mosso da ideali meno nobili. Tutto dipende dalla capacità concreta di riduzione della complessità e di gestione delle contraddizioni che un potere particolare riesce ad attuare. Ciò non significa che il potere costituito sia senz'altro il migliore: è solo quello che, nella circostanza contingente, è riuscito, di fatto, a mantenere la credenza, più o meno libera, che lo legittima ad esercitare il potere; il successo pratico del potere è una condizione necessaria, anche se non sufficiente. La possibilità di definire istituzionalmente il ruolo del potere configura il terzo aspetto che prenderemo, qui di seguito, in considerazione.

V.    Il potere come struttura e come funzione.

La definizione del potere come attribuzione di determinate facoltà di decisione e controllo a determinati individui o gruppi permette di cogliere certe caratteristiche fondamentali del potere stesso, ma la sua distinzione dal potere come struttura è puramente di tipo analitico: nella realtà i processi di attribuzione del potere sono strettamente collegati con le strutture materiali, ovvero con le condizioni oggettive della distribuzione delle risorse e dei rapporti di produzione, nonché con le strutture istituzionali, ovvero con le forme organizzative di tipo amministrativo e con gli ordinamenti normativi che definiscono le competenze e regolano le procedure di attribuzione del potere (carte costituzionali, carriere burocratiche, sistema elettorale, ..). Le oggettivazioni materiali ed istituzionali prodotte, in origine, dall'agire sociale determineranno in modo rilevante i processi di attribuzione del potere. Sotto questo aspetto, i soggetti di potere appaiono piuttosto come i supporti o il prodotto di una struttura già data, che non come leader carismatici. La rilevanza delle qualità personali di coloro cui viene attribuito il potere non è mai assente dall'attribuzione di potere e determina quasi sempre il grado di prestigio e di influenza che il soggetto di potere può esercitare all'interno delle posizioni conseguite in base a procedure codificate, ma senza queste ultime egli non potrebbe esercitare il potere. Per questa ragione il potere, piuttosto che come un oggetto di possesso individuale, può essere considerato un effetto delle strutture sociali e un meccanismo interno di regolazione del sistema sociale, ovvero una rete e un insieme di determinazioni che, dominando l'intenzionalità dell'agire, producono sia i soggetti sia l'ordine sociale. Anche in questo caso, la funzione del potere rimane quella della gestione delle contraddizioni che sono proprie della situazione sociale come tale. La funzione specifica che il potere assume nel sistema istituzionalizzato può essere vista come la trasposizione codificata nell'ordine simbolico-normativo della gestione del rapporto tra la determinatezza delle forme di mediazione e l'indeterminatezza che deriva dalla complessità dell'esperienza pratica. La tendenza delle forme di mediazione a porsi come assolute, proprio per corrispondere alla loro funzione di determinazione, rischia di compromettere la necessaria flessibilità del sistema sociale e pertanto, per sussistere, quest'ultimo deve disporre anche meccanismi atti a limitare tale tendenza: questi meccanismi sono appunto le procedure che fondano la dimensione strutturale del potere. La capacità di gestire contraddizioni proprie del rapporto tra determinatezza e indeterminatezza, che in un primo momento abbiamo considerato come facoltà (intrinseca o attribuita) del soggetto, appare ora oggettivata all'interno dell'ordine simbolico-normativo in modo che l'eccezionalità del potere del soggetto si trasforma nel carattere quotidiano del potere come struttura e funzione del sistema sociale. L'istituzionalizzazione della funzione del potere può allora essere vista come l'avvertenza da parte della stessa mediazione simbolico-normativa della necessità di un meccanismo di regolazione del suo rapporto con la complessità dell'agire pratico e, quindi, anche come riconoscimento del suo debito nei confronti dell'agire stesso. Il fatto che le diverse forme concrete di società funzionino attraverso la soluzione, sempre parziale, della contraddizione che emerge dalle opposte esigenze di determinatezza (identità, prevedibilità) e di indeterminatezza (differenziazione, adattamento) spiega i diversi gradi di rigidità e di flessibilità che presentano i sistemi sociali.

L'origine della disuguaglianza.

L'analisi del potere come struttura permette di comprendere che la disuguaglianza sociale non è riferibile soltanto a componenti legate a qualità soggettive, e neppure è dovuta soltanto a distorsioni connesse con l'ordine sociale, ma è anche una conseguenza diretta dal carattere di riduzione delle forme di mediazione simbolica. La determinazione, nel suo carattere necessariamente normativo, non può costituirsi che attraverso la selezione di alcune possibilità dell'agire e la negazione di tutte le altre. Ogni sistema di determinazione si sviluppa attraverso differenziazioni oppositive (sì/no, dentro/fuori, prima/dopo, giusto/ingiusto, ..) e si articola distribuendo l'identità dei soggetti, in relazione alle funzioni codificate e agli elementi di caratterizzazione che sono propri del sistema stesso (età, sesso, attività, proprietà, classe, ..). L'identità personale dei soggetti non coincide mai totalmente, come si è visto, con la loro identità sociale: dalla particolarità delle loro situazioni individuali di relazione e dei loro rapporti materiali, i soggetti singoli possono derivare altre forme di mediazione, costruendosi un'identità personale diversa da quella loro attribuita dal sistema dominante. Nascono così sub-sistemi, individuali, di gruppo, di classe, differenziati e al limite contrapposti alle forme del sistema delle determinazioni prevalente nella situazione concreta, fino a diventare talvolta essi stessi sistemi dominanti. A seconda quindi dell'esperienza dei soggetti, si determina una differenziazione dovuta non solo all'articolazione del sistema dominante di distribuzione delle identità, ma anche al diverso grado di corrispondenza tra questo sistema e le forme di determinazione elaborate dai soggetti. Si creano in tal modo posizioni concrete di centralità e di marginalità, di inclusione ed esclusione dei soggetti rispetto alle possibilità offerte dal sistema. L'origine della disuguaglianza va quindi ricondotta direttamente al carattere riduttivo della determinazione, la quale non può in alcun modo corrispondere universalmente alle diverse esigenze di tutti gli attori sociali. Se i soggetti coincidessero perfettamente con le loro identità sociali, il problema della disuguaglianza non si porrebbe neppure, dal momento che si avrebbero solo diversità oggettive, identificandosi con le quali ciascuno sarebbe pienamente realizzato. Tale disuguaglianza non può tuttavia essere considerata come un fatto puramente funzionale, in quanto costituisce anche una fonte di continue tensioni e una causa di distruttività, sul piano sia individuale sia collettivo. Da qui l'importanza di sistemi di mediazione che siano in grado di attenuare tale disparità, dando il massimo spazio alla differenza dei soggetti, anche se il problema non appare risolvibile, ma tende a ripresentarsi ogni volta di nuovo, in quanto intrinseco al limite della determinazione. Tale limite spiega infatti perché ogni forma di giustizia sociale è suscettibile di produrre anche ingiustizia e perché ogni ordine fondato dal potere provoca contraddizioni che finiscono poi per rimettere in discussione il potere stesso.

Potere e rapporti di classe.

L'analisi delle forme concrete di distribuzione del potere nel sistema sociale deve, in particolare, tener conto delle strutture legate alla stratificazione sociale e alle forme dell'organizzazione produttiva. L'azione che una classe può svolgere e il significato che essa può assumere all'interno di un sistema sociale devono essere infatti considerati sia in relazione alla posizione che tale classe occupa all'interno dei rapporti di produzione, sia in relazione alla presenza di gruppi attivi, più o meno organizzati, che traggano dalla classe stessa la loro forza la loro motivazione all'agire, rappresentandone concretamente gli interessi sul piano sociale a politico. Le diverse modalità della presenza di una classe nella dinamica dei rapporti di potere e il diverso grado di organizzazione dei gruppi che la rappresentano possono essere ricondotti alle differenziazioni che derivano dalla posizione di centralità o di marginalità della classe stessa all'interno del sistema dominante di produzione. In ogni sistema sociale esiste infatti un modo di produzione dominante, che è il risultato non solo dei processi economici di sviluppo o di regressione, ma anche della dinamica delle relazioni di potere e dei processi di costruzione simbolica della realtà sociale. Dal momento che:

a)  ogni rapporto sociale si attua concretamente all'interno del rapporto dell'uomo con le cose

b)  ogni rapporto con le cose si attua concretamente all'interno dei rapporti sociali

c)   tutti questi rapporti sono simbolicamente mediati

si può considerare, al tempo stesso, l'economico come una delle forme di espressione del potere o il potere come una delle forme di espressione della realtà economica. La presenza di un modo di produzione dominante (es: quello di tipo industriale-capitalistico) non esclude peraltro la contemporanea presenza di altri modi di produzione, legati al passato o di tipo nuovo che, restando in posizione subordinata al modo di produzione prevalente, intrattengono con esso collegamenti diversi. Le diverse posizioni di classe o di frazioni di classe (categorie professionali specifiche), nonché dei gruppi che le rappresentano (gruppi d'interesse, di pressione, partiti politici, movimenti, minoranze attive, ..), possono essere quindi riferite alla diversa incidenza dei modi di produzione presenti e ai diversi rapporti che intercorrono tra di essi (classi coinvolte nel modo di produzione dominante " posizione di centralità all'interno della struttura di potere). Le forze sociali direttamente collegate al modo di produzione dominante sono maggiormente consapevoli della loro importanza vitale per il sistema globale, sono relativamente più omogenee e hanno di conseguenza maggiore facilità nel trovare la loro identità sociale e maggiore forza contrattuale, a livello sia economico sia politico. Le classi o le frazioni di classe che si trovano invece in posizione esterna o marginale trovano più faticosamente la loro identità sociale, percepiscono meno chiaramente la loro funzione e i loro interessi, sono relativamente più frammentate, incontrando di conseguenza maggiori difficoltà ad esprimere gruppi organizzati e attivi che le rappresentino e ne difendano gli interessi. In realtà, l'importanza oggettiva di queste ultime forze sociali appare maggiore della loro influenza: il carattere marginale di una classe o di una frazione di classe non esclude infatti il ruolo funzionale che essa ha quasi sempre anche per il sistema costituito intorno all'asse portante del modo di produzione dominante e la classi che sono in posizione di centralità non possono alla lunga non tenerne conto. Inoltre, le forze sociali che sono in posizione di marginalità possono sempre consolidare per contrapposizione il loro senso di identità, qualora si sentano minacciate nei loro interessi vitali: in questo caso esse possono sviluppare una vigorosa azione a tutti i livelli, politico, economico, ideologico, o soltanto ad alcuni di essi, attraverso gruppi più o meno organizzati, movimenti, azioni collettive di protesta, .. influendo talvolta in modo determinante sull'equilibrio del sistema. Si può comprendere quindi che, nel sistema capitalistico, le principali forze polarizzanti sono rappresentate dalla classe borghese e dalla classe operaia. In questo caso, a livello economico, come a quello politico-sociale, la classe subordinata ha visto accrescere la sua forza contrattuale, così da potersi costituire come un concreto limite all'egemonia della classe dominante. La rilevanza di entrambe le classi per il funzionamento del sistema sociale, date le specifiche condizioni storico-economiche in cui esso si era costituito, ha reso d'altra parte il loro conflitto più un fattore di trasformazione graduale del sistema, grazie ad una serie di continui adattamenti, che non un fattore di rivoluzione. Il conflitto ha incontrato infatti un suo limite nell'interesse di entrambe le classi al mantenimento del sistema di produzione, creando le condizioni di un rapporto simmetrico produttivo di "dipendenza antagonistica" e favorendo un "equilibrio di compromesso". La posizione di marginalità di altre classi non dev'essere confusa con l'effettiva irrilevanza di tali classi rispetto alla dinamica dei rapporti di potere presente nel sistema sociale, in quanto anche tali classi contribuiscono in vario modo al sostegno della struttura politica ed economica dominante. Il sistema dominante pertanto si regge solo perché riesce a soddisfare almeno in certa misura le esigenze delle classi marginali, ammettendole in parte a godere dei benefici di cui godono le classi in posizione di centralità. Non si deve neppure trascurare l'importanza che possono assumere certe classi marginali come supporto degli interessi di classi dominanti, da cui l'articolarsi di una serie di rapporti di solidarietà di tipo clientelare o contrattuale, tramite i quali le forze marginali vengono strumentalizzate dalle classi dominanti nei conflitti di potere che intervengono tra queste ultime. Il sistema dominante come tale e i gruppi che rappresentano le classi dominanti favoriscono pertanto il mantenimento della marginalità di altre classi e la continua riproduzione delle loro condizioni, in quanto esse sono funzionali al mantenimento del sistema costituito, anche se, per ottenere questo scopo, è necessario operare continui aggiustamenti, atti a mantenere l'equilibrio all'interno e all'esterno del sistema, e scendere a continui compromessi. Il conflitto tra classi esterne al sistema dominante e classi interne ad esso può infatti, diversamente dal conflitto tra classi interne, essere causa di distruzione del sistema stesso, in quanto le classi marginali non hanno lo stesso interesse delle classi in posizione di centralità al mantenimento dell'ordine costituito. Le rivoluzioni sono quasi sempre il prodotto dell'azione di classi marginali, nel momento in cui queste si sentono minacciate nella loro sopravvivenza, o perdono la speranza di entrare a far parte del sistema dominante. La dicotomia borghesia/classe operaia appare peraltro inadeguata a comprendere la dinamica dei rapporti di potere tra le classi nelle società industriali sviluppate o di "capitalismo maturo" in quanto occorre tener conto che sono venute sempre più accentuandosi le differenziazioni interne tra le diverse categorie che compongono sia la borghesia sia la classe operaia (nuova classe manageriale, "aristocrazia operaia" o livelli dell'alta qualificazione, livelli intermedi, ..). Inoltre, sempre maggiore importanza sono venute assumendo le categorie impiegatizie, in connessione con lo sviluppo delle attività del terziario e dell'organizzazione dei servizi. Va infine ricordata l'importanza che sono venute oggi assumendo categorie sociali che non sono riconducibili al modello tradizionale della struttura di classe; si tratta di categorie che attraversano verticalmente la stratificazione sociale, in quanto hanno il loro punto d'incontro nell'età, nel sesso, o in attività non direttamente riconducibili al sistema produttivo: i giovani, gli studenti, le donne, gli anziani svolgono, nelle società di capitalismo maturo, un ruolo diverso da quello delle classi, che trova espressione nello sviluppo di nuove forme di aggregazione, nella produzione di nuove attività, nella diffusione di nuove forme culturali e ideologiche. Tale processo di frantumazione e di differenziazione è del resto venuto ancor più accentuandosi con il processo di globalizzazione, caratterizzato sempre più dall'anonimato dei centri trasnazionali di potere economico-finanziario e da ingenti processi migratori. Tutto ciò ha reso oggi molto più problematica la lettura dei rapporti di classe e di potere. Se si tiene conto inoltre delle trasformazioni in atto nello stesso modo di produzione industriale, dovute non solo all'intervento pubblico e alle innovazioni tecniche, ma anche ad una diversa organizzazione del lavoro, si può comprendere come la sociologia si sia attualmente orientata verso la ricerca di schemi interpretativi più aderenti alla complessità delle diverse formazioni sociali e dei rapporti che intercorrono tra di esse. Occorre poi ricordare che la struttura di potere di un sistema sociale determinato non è mai soltanto il risultato dei rapporti di produzione, ma anche delle forme di mediazione istituzionalizzate. La dimensione culturale-normativa, che nasce dalla necessità di una mediazione nel rapporto dell'uomo con la realtà, naturale e sociale, se è inscindibile dalla dimensione del potere e dalla dimensione dell'economico, ha, come queste 2 dimensioni, anche una sua relativa autonomia. La macchina dello Stato, con le sue strutture politiche, burocratiche ed economiche, ha finalità proprie, che non coincidono sempre con gli interessi delle classi dominanti. Vi è pertanto, tra strutture di potere dello Stato e strutture di potere di classe, un reciproco condizionamento, le cui caratteristiche sono di volta in volta da verificare nelle singole situazioni concrete. Il potere delle forze sociali può essere esercitato solo facendo i conti con le concrete strutture di potere dell'apparato di Stato e i suoi condizionamenti istituzionali. La struttura di potere di una determinata formazione sociale è il risultato della dinamica di questi rapporti. Tuttavia il problema è ancora più complesso, in quanto in questi rapporti interviene un'altra dimensione essenziale, la cui presenza oggi è sempre più sensibile, e cioè la dimensione dei rapporti di potere a livello internazionale. L'affermarsi del processo di globalizzazione, con la sempre più accentuata internazionalizzazione dei rapporti economici e di quelli politici, mostra che la struttura dei rapporti di potere a livello internazionale viene ad attraversare in modo determinante la struttura dei rapporti di potere a livello nazionale, modificando profondamente l'equilibrio di questi rapporti.

Il carattere coercitivo e consensuale del potere.

Il potere in quanto funzione propria dei sistemi istituzionali comporta sempre una dimensione, attuale o potenziale, di coercizione, qualunque sia il tipo di istituzione considerata (famiglia, istituzioni culturali, economiche, politiche). La possibilità di fare uso della forza, attraverso minacce o l'applicazione diretta di sanzioni, è un elemento proprio della funzione di potere, come gestione del rapporto determinato-indeterminato. Il potere deve assicurare infatti il funzionamento dell'ordine normativo proprio dell'istituzione, anche quando vi è un conflitto tra gli interessi dell'istituzione come tale e l'interesse dei suoi membri oppure quando vi è un conflitto tra questi ultimi suscettibile di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell'istituzione stessa. La funzione di garante delle norme, il potere decisionale e la funzione arbitrale del potere non avrebbero senso senza almeno un minimo di possibilità di ricorrere alla coercizione. La relazione di potere, d'altra parte, anche quando è fondata su condizioni oggettive di disuguaglianza, è pur sempre almeno in parte anche fondata su un rapporto di negoziazione, ovvero sull'interesse dei subordinati a delegare il rischio e le responsabilità dell'esercizio del potere. I conflitti d'interesse particolari vengono quindi normalmente in secondo piano rispetto all'interesse generale del mantenimento del sistema e rappresentano solo un aspetto, più o meno accentuato a seconda dei casi, del rapporto di potere. Il caso limite della pura coercizione mediante la forza (es: l'uso di armi) segna in realtà la fine del rapporto sociale, immobilizzando la vita di relazione e distruggendo quindi anche l'istituzione di governo. Ma intanto che il sistema continua a funzionare, ovvero i membri di esso continuano ad ottemperare alle norme, anche se sotto la minaccia delle armi, vuol dire che l'interesse al mantenimento del rapporto, anche se nella minima espressione della conservazione della propria sopravvivenza, è ancora in gioco. Una volta riconosciuto che nella relazione di potere vi è sempre almeno un minimo di dimensione consensuale, il problema dovrà essere posto nei termini del costo della funzione di potere, che può essere valutato o in base alle percezioni e alle aspettative degli stessi subordinati, o in base ai criteri di un osservatore esterno, e non mai quindi in modo puramente oggettivo, in quanto il prezzo che ogni subordinato è disposto a pagare è da porsi in riferimento ad una serie molto complessa di fattori (materiali, psicologici, socio-culturali, ..) presenti nella situazione concreta e da verificare, di volta in volta, empiricamente. La funzione sociale del potere sussiste quindi sia quando si verifica una coincidenza degli interessi, in quanto tale coincidenza non elimina i problemi specifici di riduzione della complessità nei rapporti di decisione e di controllo normativo, che sono alla base dell'attribuzione-accettazione della funzione stessa, sia quando si è in presenza di una contrapposizione di interessi, fino al limite della rottura, pacifica o violenta, del rapporto stesso. Il carattere violento che è sempre almeno implicitamente presente nella relazione di potere non è d'altra parte che il riflesso del carattere "violento" di ogni forma di determinazione, in quanto prodotto della necessità di ridurre la complessità, escludendo elementi dell'esperienza vissuta, sia individuale che collettiva. In situazioni "normali", il potere dev'essere considerato, al tempo stesso, nei suoi aspetti sia coercitivi sia consensuali, lungo un continuum, che può andare da un massimo di coercizione e un minimo di consenso, ad un massimo di consenso e un minimo di coercizione, secondo condizioni che dovranno di volta in volta essere accertate empiricamente. La funzione del potere comporta in ogni caso un elemento, almeno allo stato potenziale, di decisione, ma alcuni autori hanno sottolineato che il potere viene spesso esercitato non attraverso la produzione di decisioni, ma impedendo di prendere decisioni a quegli individui o gruppi che siano in contrasto con i suoi interessi. Il controllo coercitivo del potere appare infatti tanto più efficace quanto meno esso appare come tale. Quando il potere vuole mantenere la dipendenza dei suoi subordinati e strumentalizzare questi ultimi, esso ha tutto l'interesse a indurre motivazioni e ad orientare i comportamenti, in modo tale che i membri della società siano così identificati con le finalità che esso persegue da essere convinti di agire per propria volontà. Questo aspetto mostra come sia talvolta difficile distinguere tra coercizione e consenso, tra consenso e motivazioni autentiche e falso consenso o pseudo-motivazioni. Se Pareto teorizzava positivamente la manipolazione del consenso e se Luhmann la considera un fatto funzionale scontato, numerosi autori, tra cui Adorno, Horkheimer, Habermas e Foucault, hanno indicato in tale fenomeno una delle dimensioni più inquietanti del potere.

Potere e autorità.

Le forme di legittimazione del potere, come ha mostrato Max Weber, possono avere diversi fondamenti (tradizionale, carismatico, legale) così come diverse possono essere le motivazioni psicologiche che sono alla base dell'accettazione del potere: senso del dovere, paura, abitudine, calcolo di interessi, identificazione con il capo, .. Se s'intende con autorità la forma che assume il potere quando appare legittimato agli occhi di coloro che lo accettano, non può esservi una netta contrapposizione tra potere e autorità, in quanto ogni forma di potere ha sempre di fatto anche una qualche legittimazione, così come anche il potere più legittimato conserva una certa dimensione di coercizione e di violenza. È pur vero che un potere ha tanta più autorità quanto più appare alla maggioranza degli attori sociali come rispondente a principi dettati dall'interesse sociale. La credenza nella legittimità del potere è relativamente indipendente dal contenuto dei comandi del potere stesso, ma si fonda generalmente su segni che permettono di individuare il soggetto degno di autorità. Tali segni dipendono dall'insieme del contesto culturale e dalla gerarchia di valori che, nelle diverse situazioni storiche, vengono ad instaurarsi in una società determinata: l'età, il sesso, la forza fisica, l'ordine di genitura all'interno della famiglia, la status sociale, il ruolo svolto nell'organizzazione produttiva, lo stesso conseguimento di fatto di una posizione di supremazia, la rispondenza all'ordine costituzionale, .. possono essere gli aspetti che fondano la credenza della legittimità. Ovviamente le forme di legittimazione potranno variare anche in relazione al tipo di potere:

la legittimazione del potere economico sarà il più delle volte connessa ad effettive posizioni occupate nel controllo delle risorse e dei mezzi di produzione e potrà trovare più facilmente espressione in valori di efficacia produttiva e distributiva, così come in interessi di tipo strumentale, ovvero orientati razionalmente in vista di uno scopo

la legittimazione del potere ideologico sarà il più delle volte il prodotto dell'identificazione con un ideale (estetico, etico, religioso, politico, ..) e avrà per base interessi orientati razionalmente rispetto a valori

la legittimazione del potere politico sarà per lo più riferita all'effettiva rappresentanza, a ordinamenti legali e a interessi collettivi

La distinzione dei tipi di potere ha un significato soltanto analitico, in quanto nella pratica le diverse dimensioni del potere sono quasi sempre frammiste, così come lo sono anche le motivazioni consce ed inconsce che sono all'origine della credenza nella legittimità del potere. Analizzando le diverse posizioni teoriche nei confronti del problema dell'autorità, Steven Lukes ha distinto 4 diverse concezioni di essa, a seconda che essa sia esercitata sulla base di credenze, oppure venga fondata su convenzioni o su imposizioni, o infine si tenti di conciliarla con la libertà.

il 1° tipo di autorità        autorità fondata su credenze, la legittimazione sorge in base ad una fede di tipo religioso, su convinzioni fondate sulla tradizione, su valori comuni condivisi, o sulla fiducia nella competenza di un esperto. Questa concezione dell'autorità è presente soprattutto nelle teorie di tipo funzionalista (Durkheim, Parsons), che tendono ad interpretare il potere come funzione di esecuzione dei valori collettivi. Questo tipo di autorità non prevede che colui che obbedisce possa dissentire sul contenuto dei comandi, dal momento che egli ha fiducia nell'autorità del capo.

il 2° tipo di autorità        autorità fondata su convenzioni, l'autorità trova la sua legittimazione in un accordo e in una delega dei membri della società in vista dell'utilità del coordinamento dell'agire sociale per il perseguimento di finalità collettive. Questo tipo di legittimazione non comporta omogeneità di credenza e, a differenza del primo tipo, è compatibile con il dissenso interno di colui che obbedisce. Questa concezione è presente in vario modo soprattutto nelle teorie contrattualistiche e in quelle de liberalismo classico (Hobbes, Locke, Stuart Mill, ..).

il 3° tipo di autorità        autorità in base a imposizione, contempla il caso in cui la detenzione di una posizione di egemonia determina uno pseudo-consenso, prodotto delle manipolazioni ideologiche: in questo caso, l'autorità appare intimamente legata al carattere coercitivo del potere e alla volontà di mantenere la dipendenza e le condizioni di disuguaglianza. Questa concezione, scettica e pessimistica, è quella condivisa dai teorici delle élite (Pareto, Mosca, Michels), nonché, in senso critico, da Marx, Weber e dagli autori della Scuola di Francoforte.

il 4° tipo di autorità        unione di autorità e libertà, è rappresentato dalle concezioni utopistiche, che tentano di conciliare l'autorità con la libertà, teorizzando la possibilità della formazione di una volontà generale e di un consenso omogeneo di tutti i membri su una base di uguaglianza, che renderebbe superfluo il carattere coercitivo del potere e configurerebbe l'autorità come semplice espressione di una realtà associativa unitaria. Questa impostazione del problema dell'autorità, che ha le sue origini in Rousseau, trova espressione, oltre che in Hegel, anche in Marx e nelle prospettive anarchiche di Proudhon e di molti altri.

Si può osservare che le concezioni relative alla prima e alla terza posizione analizzate corrispondono a forme storiche effettive di esercizio totalitario dell'autorità, fondate su forme di assolutizzazione, che non riconoscono il limite degli ordini simbolico-normativi, mentre la seconda posizione, anche se mai interamente realizzata, corrisponde alla forme storiche delle società democratiche di tipo liberale e, nelle sue linee generali, imposta correttamente il problema della funzione del potere, esplicitandone la dimensione negoziale e fissando al potere precisi limiti. L'ultima concezione appare al contrario mai storicamente realizzata, neppure in modo parziale: essa è infatti fondata su un'erronea valutazione delle possibilità di costituzione degli ordini normativi e delle condizioni di uguaglianza. Il carattere riduttivo delle forme di mediazione simbolica mostra che non è possibile pervenire ad un consenso universale, né eliminare in modo assoluto la produzione della disuguaglianza. Il tentativo di realizzare una forma di società assolutamente paritaria sfocia fatalmente, come dimostra la storia, in forme assolutistiche simili a quelle della prima e della terza concezione. La forma di legittimazione ha un'influenza diretta sull'estensione del potere e sulla continuità nel tempo. Come ha osservato Weber

la legittimazione fondata sulla credenza nelle qualità eccezionali del capo o nella sua rispondenza a dimensioni magico-sacrali (capo carismatico) consente una grande estensione del potere, anche al di là dei limiti posti dalla legge o dalla tradizione, ma è anche particolarmente fragile, in quanto è legata solo all'effettiva capacità del capo di mantenere in vita la credenza nel suo carattere eccezionale, anche in presenza di eventi che sembrano smentirlo

la legittimazione tradizionale o quella legale fissano generalmente delle limitazioni abbastanza precise all'esercizio del potere, ma appaiono in compenso più solide nel tempo e meno legate a fattori contingenti di prestigio personale

nel caso di forti mobilitazioni di tipo ideologico-utopistico, quali quelle che si fondano sull'idea di una conciliazione tra libertà e autorità, il potere può raggiungere livelli molto elevati di forza e di concentrazione, ma sarà minacciato da conflitti e tensioni allo stato latente, dato che tali forme di legittimazione non riconoscono il carattere normale della dimensione conflittuale

La valutazione globale del grado di forza e di stabilità del potere dovrà essere riferita, oltre che alle forme di legittimazione, anche ad una serie molto complessa di fattori (legati alle strutture materiali, alla stratificazione sociale, alle strutture della comunicazione e dell'informazione, ..), considerati nelle loro interrelazioni reciproche e nel loro rapporto con le forme di potere, così da potere valutare il grado di equilibrio raggiunto, nel sistema considerato, tra rigidità e flessibilità delle strutture, tra dimensione di consenso effettivo e coercizione, .. Il potere ci appare infatti come una delle componenti costitutive del processo di costruzione della realtà sociale, ma anche come un suo prodotto. In questa direzione, l'analisi del potere deve pertanto rifarsi ai processi di trasformazione sociale che verranno considerati qui di seguito.

Potere e cambiamento sociale.

Fintanto che il sistema delle mediazioni simbolico-normative costituite regge l'impatto delle contraddizioni provocate dalla sua stessa determinatezza riduttiva o provenienti da eventi congiunturali esterni, esso riesce a mantenersi attraverso successivi adattamenti, integrando gli eventuali nuovi elementi che possano essere emersi. In questo caso si può parlare di stabilità del sistema: una stabilità che può essere compresa secondo il modello dell'ordine per fluttuazioni, in quanto essa si sostiene grazie al grado di flessibilità che il sistema è riuscito a raggiungere nella gestione del rapporto tra indeterminatezza e determinatezza e grazie al controllo che esso riesce a mantenere, aumentando la propria complessità, nei confronti delle spinte verso l'instabilità. Quando invece le dimensioni emergenti dall'esperienza vissuta e i conflitti interni, o le pressioni provenienti dall'esterno, provocano tensioni che il sistema non riesce a contenere, allora il sistema sociale entra in crisi, in quanto si verifica uno scarto eccessivo tra la capacità di gestione istituzionale del sistema stesso e le forme effettive dell'agire sociale presenti in esso. Se il sistema raggiunge un punto critico, a partire dal quale non è più possibile tornare allo stato precedente, può verificarsi una rottura irreversibile della stabilità strutturale del sistema o catastrofe, che può dare luogo ad una fase di alta indeterminatezza e anomia (assenza di orientamenti) della situazione sociale. Si verifica, infatti, un eccesso di complessità, che per essere superato deve condurre ad un'azione di riduzione tramite nuove forme di mediazione. Queste, a loro volta, produrranno prima o poi effetti non voluti e contraddizioni, che potranno riportare il sistema ad un punto critico e così di seguito. Normalmente nella vita delle società, anche in situazioni di grande cambiamento (es: rivoluzioni, guerre), non tutte le strutture del sistema mutano, e quelle che mutano non mutano tutte contemporaneamente. La possibilità di un totale rivolgimento del sistema sociale appare di difficile realizzazione, anche perché tutte le istituzioni possono continuare a funzionare anche in presenza di profonde trasformazioni a livello politico. Non si dà quindi frequentemente una rottura totale tra l'ordine precedente e quello susseguente, ma forme diverse di adattamento e gradi diversi di contituità-discontinuità nel tempo, di capacità di cumulazione delle esperienze precedenti con quelle nuove e fenomeni di ibridazione, ovvero di compresenza di forme di mediazione e strutture istituzionali attuali con quelle legate al passato. Sulla base di questo schema generale della dimensione processuale del mutamento del sistema sociale, possono essere studiati tipi diversi di equilibrio instabile e di trasformazione in relazione alle diverse cause di cambiamento. Ovviamente tale schema si contrappone ai modelli evolutivi unilineari, che interpretano i processi di trasformazione della società, da stadi organizzativi più semplici e omogenei e stadi più complessi e differenziati, quasi fossero provocati da un principio di sviluppo interno alla storia dell'umanità. Esso esclude, allo stesso tempo, l'idea di progresso, in quanto processo di crescente razionalizzazione delle forme di vita sociale. Secondo questo modello, il cambiamento in sé dev'essere considerato come uno spostamento oscillatorio, tra esperienze diverse e tra diverse forme di mediazione simbolica, in una situazione che è in sé senza soluzione definitiva. Coerentemente con questo paradigma, il progresso (sviluppo verso gradi di maggiore razionalizzazione e differenziazione) o la regressione (ritorno a gradi meno razionalizzati e meno differenziati), così come lo sviluppo o il sottosviluppo di una società, possono essere valutati solo relativamente a parametri specifici assunti arbitrariamente dall'osservatore, sia nell'analisi delle trasformazioni nel tempo di uno stesso sistema, sia nella comparazione fra sistemi diversi (es dello sviluppo della tecnologia e della capacità individuale di vivere in un rapporto diretto e armonioso con la natura). Non si può quindi parlare in senso assoluto di progresso storico, ma occorre riconoscere il carattere soggettivo delle valutazioni che si danno dei mutamenti sociali. Tali mutamenti del resto riescono ad essere percepiti sempre solo nel riferimento, relativamente arbitrario anch'esso, a strutture considerate stabili: la percezione del movimento infatti è possibile solo se si mantiene un punto fisso e l'interpretazione del significato storico-sociale di un cambiamento è sempre necessariamente legata a criteri interpretativi di tipo valutativo. Possiamo quindi considerare una serie di possibili modelli di mutamento del sistema sociale, tenendo presenti i tipi di cause, il tipo di trasformazione intervenuta, i particolari significati attribuiti al processo stesso, il grado di flessibilità-rigidità dei sistemi sociali:

a)  CAUSE: una volta stabilito che le ragioni profonde del mutamento dei sistemi sociali sono da riferire soprattutto al carattere riduttivo della forme di mediazione simbolica nel loro rapporto con la complessità dell'esperienza e la riflessività della coscienza, si possono distinguere le cause contingenti di mutamento, a seconda che esse siano interne o endogene al sistema sociale, o esterne ovvero esogene ad esso. È molto difficile isolare una sola causa di un processo di mutamento, dato che questo è generalmente l'effetto di una combinazione di fattori diversi.

I tipi di cause endogene possono essere generalmente ricondotti ai conflitti che emergono, nella situazione di disuguaglianza economica, socio-culturale e politica che caratterizza ogni ordine sociale, a causa:

della carenza di riconoscimento sociale di categorie, classi, gruppi etnici presenti nel sistema

di crisi interne alle diverse organizzazioni o istituzioni sociali

dell'emergere di nuovi movimenti ideologici, di nuove esperienze conoscitive, di nuove applicazioni tecniche, di nuovi modi di produzione, ..

I conflitti di classe emersi in seguito alle trasformazioni indotte dal modo di produzione capitalistico, il movimento della Riforma protestante o quello studentesco del 68, le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche dei secoli xix° e xx° (elettricità, petrolio, energia nucleare, ..) sono esempi significativi. A questo livello, si può discutere l'incidenza che sulla trasformazione possono avere fattori "soggettivi" (desideri, aspettative, decisioni di attori individuali o collettivi, azioni di élite politiche o culturali, personalità d'eccezione, minoranze attive, ..) oppure fattori "oggettivi" (aumento demografico, divisione del lavoro, sviluppo della produzione, ..), anch'essi in relazione di interdipendenza circolare.

le cause esogene del mutamento sociale possono derivare invece da eventi naturali (siccità, terremoti, inquinamento, ..) oppure da eventi storici esterni (guerre, invasioni, emigrazioni, ..).

b)  TIPI DI TRASFORMAZIONE: si può andare lungo un continuum che va da dinamiche di adattamento del sistema sociale, senza sostanziali cambiamenti delle sue strutture portanti o dei valori e norme dominanti, a radicali mutamenti strutturali del sistema prodotti da rivolgimenti culturali, economico-sociali, politici, di tipo rivoluzionario.

c)   SIGNIFICATI: in base all'interpretazione che viene data ai processi di cambiamento, in termini di evoluzione, progresso, regresso, sviluppo, sottosviluppo, .. Del carattere valutativo proprio di tali interpretazioni, si è già detto sopra.

d)  FLESSIBILITA'-RIGIDITA' DEI SISTEMI SOCIALI:

Il sistema rigido è caratterizzato dal predominio delle funzioni di mantenimento della stabilità e di controllo delle spinte verso il cambiamento, dalla chiusura verso le sollecitazioni che possono provenire dall'ambiente esterno e da altri sistemi sociali. In tale tipo di sistema il grado di assolutizzazione delle forme di mediazione simbolico-normativo appare massimo, i valori di consenso sono esaltati e il potere viene considerato come espressione di esso in ordine al raggiungimento di fini collettivi, mentre è occultata la sua dimensione coercitiva. Le contraddizioni, i conflitti, le forme di comportamento deviante vengono considerati elementi patologici da controllare e da eliminare. Tale sistema tende a considerare le strutture costituite come senz'altro valide e indiscutibili, senza riconoscere in esse anche una causa di produzione di contraddizioni, conflitti, anomia, devianza. Di conseguenza si tende a considerare il tessuto sociale come almeno potenzialmente omogeneo e non si ammettono differenziazioni che non siano legate alla differenziazione delle funzioni e dei ruoli sociali codificati. Il dogmatismo che caratterizza tali sistemi, negando spazio al pluralismo dei sottoinsiemi culturali e attribuendo alle tensioni conflittuali una valenza soltanto patologica, si risolve in un esercizio del potere come repressione e dominio. L'ideale astratto del modello di sistema rigido e chiuso non ha una perfetta corrispondenza nella realtà, in quanto non potrebbe sussistere, dato che le sue forme di mediazione, proprio a causa della loro eccessiva assolutizzazione, non potrebbero assolvere la loro funzione nel rapporto con le esigenze mutevoli dell'esperienza vissuta. I sistemi rigidi e chiusi effettivamente presenti nel contesto storico funzionano in realtà solo grazie ad un divario tra le loro forme ufficiali e le effettive dinamiche internazionali, che scavalcano o passano attraverso le strutture istituzionali. In realtà, quindi, anche nei sistemi apparentemente più rigidi è presente un certo grado di flessibilità, pur se le tensioni, i conflitti, le contraddizioni, le devianze vengono tenuti allo stato latente. La debolezza insita nei sistemi totalitari è tuttavia dovuta proprio alla negazione istituzionale delle contraddizioni stesse, che determina una scarsa capacità di valutazione delle tensioni conflittuali e dei processi di cambiamento: tali tensioni e processi, in quanto si sviluppano in modo latente, finiscono per dare luogo a situazioni esplosive difficilmente prevedibili. Per questa ragione, i sistemi rigidi sono costretti a rafforzare la loro coesione interna, ponendo continuamente l'accento sulle minacce che possono provenire dall'esterno, o sotto forma di concorrenza economica o di attacco ideologico, o come vera e propria guerra. Tutto ciò rende molto difficili, in questi sistemi, i processi di adattamento graduale e talvolta anche minime trasformazioni possono condurre a punti critici di non ritorno.

I sistemi flessibili sono invece quei sistemi che, prendendo atto del carattere sempre contraddittorio della realtà sociale, riconoscono la relatività delle forme di determinazione simbolico-normativa e la pluralità della forze sociali, da cui derivano necessariamente costanti conflitti d'interesse. Tali sistemi prevedono che le tensioni possano esprimersi a livello istituzionale, dando spazio alla dialettica e al confronto tra le diverse classi, i diversi gruppi e movimenti sociali. I processi di strutturazione e destrutturazione costituiscono una modalità continua di funzionamento e una garanzia del mantenimento dell'equilibrio dinamico del sistema stesso. In questo contesto, la devianza, sia come elemento sintomatico che può rivelare una patologia del sistema, sia in quanto dimensione attiva, esplicitamente assunta, di contestazione dell'ordine costituito, viene considerata un fattore di trasformazione del sistema. Il tipo di struttura flessibile e aperta consente al sistema sociale di mantenere continui scambi con l'esterno e di riconoscere al proprio interno l'eterogeneità attuale o potenziale delle diverse forze sociali, costituendosi come un sistema pluralistico, articolato e differenziato. Inoltre, il potere viene riconosciuto non solo come prodotto del consenso, ma anche come dimensione coercitiva, considerata come un male minore da limitare e controllare a sua volta, attraverso la divisione dei poteri e la vigilanza continua nei confronti delle spinte verso la concentrazione del potere stesso. Se la forza dei sistemi flessibili si fonda su una più consapevole capacità di gestire le contraddizioni, la loro debolezza è dovuta all'eccesso di complessità che la flessibilità tende a produrre. Anche in questo caso vi è un divario tra ciò che viene affermato in via di principio e ciò che in effetti viene attuato nella pratica politica: i sistemi flessibili conservano, nella pratica, un grado di rigidità maggiore di quanto non venga riconosciuto a livello formale.

Le forme storiche concrete di società possono essere disposte lungo un continuum tra i 2 poli contrapposti rappresentati dal tipo ideale di sistema assolutamente rigido (sistemi totalitari) e da quello di sistema assolutamente flessibile (sistemi democratici): i sistemi effettivamente funzionanti sono sempre il prodotto di quella commistione di gradi diversi di rigidità e flessibilità, che configura appunto la funzione del potere in quanto gestione del rapporto tra indeterminatezza e determinatezza.

Movimento e istituzione.

Un'ipotesi utile ad interpretare i processi di trasformazione delle strutture in relazione alle forme mutevoli dell'esperienza collettiva è stata formulata da Francesco Alberoni nei termini della dinamica del rapporto tra movimento ed istituzione. Il movimento viene definito di Alberoni "il processo storico che ha inizio con lo stato nascente e che termina con la ricostituzione del momento quotidiano istituzionale". Lo stato nascente viene a sua volta definito "un'esplorazione delle frontiere del possibile, dato quel certo tipo di sistema sociale, al fine di massimizzare ciò che di quell'esperienza e di quella solidarietà è realizzabile per se stessi e per gli altri in quel momento storico". L'istituzione rappresenta invece il momento nel quale determinati tipi di relazione vengono codificati e resi stabili nel tempo. La dinamica sociale sarebbe quindi caratterizzata, secondo Alberoni, dall'alternanza tra una fase nella quale prevalgono la dimensione del cambiamento e la spontaneità creativa, e un'altra nella quale invece predominano l'ordine e la prevedibilità istituzionale. Le condizioni prestrutturali che sarebbero all'origine del fenomeno dello stato nascente, caratterizzato come momento eccezionale di discontinuità rispetto alla continuità delle istituzioni e della routine quotidiana, vengono colte nello scompenso che viene a crearsi tra lo sviluppo delle forze di produzione e le forme di mediazione istituzionale, mentre le condizioni psicologiche dello stesso fenomeno vengono colte nello stato di "sovraccarico depressivo", causato nei soggetti sociali dalle frustrazioni provocate dalle istituzioni stesse. Si tratta quindi di un'ipotesi che, fondandosi sull'interrelazione tra elementi strutturali e fattori psicologici, tenta una spiegazione delle cause del processo di alternanza tra la fase spontaneistica e la fase istituzionale. Alberoni sottolinea l'ambivalenza che caratterizza le 2 fasi:

da un lato la situazione di stato nascente appare come una dimensione creativa, un momento assoluto di verità o almeno di "intravisione della verità"

dall'altro   lo stato nascente si rivela, in ultima analisi, un inganno allucinatorio in quanto pensa di potere risolvere i problemi della convivenza sociale superandone le contraddizioni attraverso il mantenimento di uno stato fusionale che non tiene conto delle esigenze strutturali e organizzative del sistema sociale

All'opposto, l'istituzione, che appare inizialmente come momento di razionalità che dovrebbe corrispondere alle istanze presenti nel movimento, non mantiene in realtà le promesse di continuità con quest'ultimo, ma ne è in un certo senso il tradimento, in quanto appunto struttura che permette di evitare le tendenze totalizzanti dei movimenti, mantenendo un equilibrio fondato su una più articolata differenziazione delle diverse istanze sociali. Se ha ovviamente il merito di non cadere nell'equivoco di connotare univocamente, in senso solo positivo o negativo, l'uno o l'altro dei 2 stati del sociale, l'ipotesi di Alberoni non consente tuttavia di trar partito, proprio dalla riconosciuta ambivalenza dei 2 stati, per una critica sociale che, a partire dalla smitizzazione e dello stato nascente e dell'istituzione, sia volta a contenere le potenzialità distruttive presenti in entrambi. Anziché accettare l'alternanza tra istituzione-tradimento e movimento-illusione, in quanto risultato dello sviluppo dialettico-evolutivo della vita sociale stessa, sembra essere possibile, una volta riconosciute le ragioni di tale alternanza, gestirne più consapevolmente le contraddizioni. Gli interrogativi aperti dal modello teorico di Alberoni sembra possano trovare risposta, anche in questo caso, solo attraverso l'analisi della particolare natura della funzione svolta dalla mediazione simbolica nel suo rapporto con l'esperienza cosciente e la fondamentale insicurezza ontologica che caratterizza quest'ultima. È in tale funzione e in tale rapporto infatti che appare il carattere, al tempo stesso, riduttivo e necessario della forma istituzionale. In questi termini, l'analisi della dinamica movimento-istituzione può trovare spiegazione sia nell'intrinseca inadeguatezza delle forme di mediazione istituzionali, sia nel carattere insostituibile della loro funzione, nonché dare ragione delle spinte verso il superamento delle contraddizioni in forme univoche di assolutizzazione, che può animare gli attori sociali quando si rivelano incapaci di assumere le contraddizioni proprie della vita sociale. Ora, se è vero che la situazione sociale è in sé senza soluzione definitiva, è anche vero che possono darsi soluzioni parziali. Occorre quindi orientarsi verso la promozione di un'accresciuta consapevolezza individuale e collettiva rispetto alla natura complementare dei movimenti e delle istituzioni, stabilendo così un diverso atteggiamento verso le tendenze assolutizzanti presenti in entrambe le forme. La forza dei movimenti nasce infatti dal loro essere un'espressione reattiva nei confronti del limite delle forme istituzionali, limite che viene accentuato dalle pretese di eccessiva strutturazione delle istituzioni, mentre la forza delle istituzioni si basa sulla necessità delle forme di mediazione, necessità che è messa in risalto dalle destrutturazioni provocate dai movimenti.

Rivoluzione.

Sono stati rilevati i significati diversi che il termine "rivoluzione" ha assunto nel corso della storia e, in particolare, nella cultura occidentale degli ultimi 2 secoli. Nell'epoca antica infatti esso viene usato per indicare il movimento ciclico degli astri intorno alla terra, mentre nell'epoca moderna esso ha assunto invece il significato di una rottura del presente, di un'apertura al futuro, secondo una concezione lineare del tempo. Inizialmente la rivoluzione viene pensata come un fatto naturale e l'azione rivoluzionaria come avente per scopo il ripristinare un ordine sociale che è andato degenerando. In seguito invece la rivoluzione viene pensata come un progetto volontario, un programma "artificiale" volto alla razionalizzazione di un ordine sociale nuovo, più razionale e meglio organizzato. In quest'ultima prospettiva, il concetto sociologico di rivoluzione è sempre volto ad indicare un cambiamento rapido, di natura violenta, che trasforma radicalmente l'intero ordine sociale, creando nuove condizioni di vita, nuove strutture, nuovi valori, nuove basi di legittimazione del potere. Tale cambiamento può essere provocato da un'élite o da un gruppo di potere che, facendo uso illegale della violenza, s'impadronisce dell'apparato militare e burocratico dello Stato, oppure da forze sociali, la cui azione dal basso, parimenti violenta, finisce per investire in modo definitivo i vecchi fondamenti del potere costituito. Nella realtà spesso le 2 componenti s'incontrano dando luogo a esiti diversi del processo rivoluzionario. Le interpretazioni oggi prevalenti tendono infatti a considerare la rivoluzione come il prodotto, al tempo stesso, dell'azione congiunta di élite e masse sociali, sorrette da una comune ideologia e da un comune progetto di ristrutturazione dell'ordine sociale. Il concetto sociologico di rivoluzione in senso proprio non comprende altri possibili usi del termine. Allo stesso modo, vanno distinti i concetti di rivolta e di moto rivoluzionario, in quanto episodi parziali in sé circoscritti, che non sfociano necessariamente in processi rivoluzionari di tipo globale. Le cause profonde che sono alla base di cambiamenti rapidi e radicali possono essere individuate come il prodotto delle tensioni e dei conflitti che ogni ordine costituito, in quanto forma di riduzione della complessità, finisce sempre per provocare, nonché dell'incapacità dei soggetti che detengono il potere di gestire le contraddizioni che sono emerse

o a causa di un'eccessiva assolutizzazione degli ordini costituiti, forme ipertrofiche, che impediscono processi di adattamento del sistema sociale

oppure a causa dell'indebolirsi delle forme di mediazione simbolico-normative, al punto di provocare un eccesso di indeterminatezza e di insicurezza nella vita sociale, creando l'esigenza di un ordine sociale più definito

In realtà le 2 contrapposte alternative sono spesso congiunte fra loro. Entrambi i casi possono essere considerati come momenti di uno stesso processo, che deriva dall'incapacità di gestire il rapporto determinato-indeterminato, fino a condurre i detentori del potere in una via senza uscita: ricerca di rafforzamento del potere " assolutizzazione degli ordinamenti istituzionali " si accentua il divario tra il momento istituzionale e la realtà sociale " il potere accentua il suo carattere decisorio e coercitivo per venire incontro alle nuove richieste sociali " vengono minacciate le basi tradizionali della legittimazione del potere " si apre la via a nuovi soggetti di potere. Se tuttavia l'indebolimento oggettivo della capacità di gestione del potere costituito appare una delle condizioni necessarie dell'esplosione rivoluzionaria, esso non ne è una causa sufficiente. L'evento rivoluzionario vero e proprio è un fenomeno molto raro, soprattutto se si considerano i fenomeni storici senza trasfigurarli attraverso interpretazioni di tipo ideologico. Il più delle volte una classe dirigente che appare incapace di gestire le contraddizioni presenti in una situazione sociale viene integrata da nuovi elementi, anche provenienti da altre classi, e può essere così gradualmente sostituita, pur con qualche episodio di tipo violento, senza però che si diano rivolgimenti globali del sistema. D'altra parte, anche nel caso di vere e proprie rivoluzioni (rivoluzione inglese del 1688, francese del 1789, sovietica del 1917, ..) il sistema sociale non viene quasi mai interamente rinnovato: spesso le strutture sopravvivono nonostante il cambiamento della classe politica dirigente. Come mostrano i tentativi di analisi storica comparata degli eventi rivoluzionari nelle varie epoche, la volontà di individuare le cause di tipo strutturale e soggettivo che sono alla base del processo rivoluzionario difficilmente riesce a tradursi in un paradigma teorico generale, in quanto il numero e la natura dei fattori in gioco e il rapporto tra di essi producono una grande variabilità delle situazioni, sia per gli aspetti interni al sistema sociale, sia per quelli esterni. Parimenti problematica appare la valutazione degli effetti delle rivoluzioni, non solo per il fatto che quasi sempre i processi rivoluzionari conseguono risultati non previsti e non voluti, persino talvolta opposti a quelli formulati nelle ideologie che hanno ispirato la rivoluzione, ma anche perché raramente il processo rivoluzionario può essere considerato un tutto unitario. Spesso, sussistono varie fasi nello sviluppo delle rivoluzioni, in un gioco di azioni e reazioni e in una successione di gruppi di potere che controllano tali fasi, così che l'esito del processo è fino alla fine molto incerto e molto spesso è il frutto di un compromesso tra opposte fazioni. In particolare l'eccesso di indeterminatezza provocato dall'esplosione rivoluzionaria pone ad un certo punto il problema della ricostituzione dell'ordine sociale come un fatto primario, per il quale gli attori sociali individuali e collettivi possono essere disposti a pagare un prezzo anche molto alto, rinunciando a molte delle aspettative iniziali. Dal punto di vista degli attori collettivi (movimenti, gruppi, classi) che mettono in moto il processo rivoluzionario, risulta anche in questo caso difficile individuare le motivazioni e i significati che sono alla base del loro comportamento. Si deve innanzitutto distinguere fra i teorici della rivoluzione e le forze sociali che pongono in essere effettivamente il movimento rivoluzionario: non sempre infatti tali motivazioni e significati sono gli stessi. In generale, sembra si possa ipotizzare che la rivoluzione si manifesta per lo più in situazioni nelle quali il divario tra le forme istituzionalizzate dell'ordine sociale costituito e le effettive interazioni sociali è così accentuato da far apparire la sostituzione violenta di altre forme di mediazione e di altre strutture di potere come l'unica via d'uscita possibile. La rivoluzione potrebbe quindi essere interpretata, dal punto di vista degli attori sociali, come un comportamento reattivo, che nasce nel momento in cui le vecchie forme di mediazione simbolico-normativa non sono più adeguate a fornire identità e possibilità d'espressione a determinate forze sociali e però già s'intravedono le nuove forme di mediazione. Ciò che sembra prevalere nelle motivazioni rivoluzionarie è in ogni caso il desiderio di un superamento definitivo, e quindi illusorio, delle contraddizioni presenti nella situazione storico-sociale: l'ideale anarchico, ad esempio, è solo apparentemente orientato ad una destrutturazione totale, mentre in realtà esso persegue una forma suprema e incorruttibile di unità vitale, intesa come liberazione di una spontaneità immediata, priva di vincoli. La spinta anarchica o quella che, all'opposto, rivolge le masse verso l'esaltazione di un capo carismatico hanno una stessa radice nel desiderio di unità e di liberazione dai mali dell'esistenza ed esprimono una stessa impotenza di fronte al rischio rappresentato dal riconoscimento della tragica inconciliabilità delle contraddizioni sociali. La carica rivoluzionaria è il più delle volte nutrita dall'utopia secondo cui il risultato finale ottenuto sarà sottratto ai limiti della situazione presente ed è proprio tale carica utopica a giustificare l'uso della violenza: la violenza viene usata infatti quando si ritiene che essa sarà l'ultima arma per conquistare il superamento definitivo della violenza, il sacrificio a prezzo del quale sarà possibile una redenzione definitiva. Questa componente psicologica, che vede nella rivoluzione una liberazione dal passato e dal presente, spiega perché l'esperienza rivoluzionaria, nel momento in cui la si vive, possa essere così esaltante: è come se in quale momento venisse messa tra parentesi la complessità della situazione reale e sospesa l'oscillazione delle istanze contraddittorie, nella fusione semplificatrice di tutte le diversità, in ordine al fine comune perseguito. È ovvio che tale esperienza non possa che sfociare nella delusione, quando, passata la prima fase dell'azione, si devono riconoscere nuovamente la complessità e le contraddizioni inevitabili di una realtà sociale che è in sé senza soluzione definitiva. La considerazione delle componenti illusorie che caratterizzano la scelta rivoluzionaria e l'alto costo di violenza e di distruzione che essa generalmente presenta non tolgono comunque alla rivoluzione il suo carattere di reazione vitale, in taluni casi necessaria per far compiere al sistema sociale un salto di livello, in risposta ad esigenze storiche di destrutturazione e ristrutturazione rese inevitabili dalla degenerazione del rapporto tra esperienza vissuta e forme di mediazione simbolica.

L'emancipazione dalle strutture di dominio.

L'esigenza di determinatezza che è propria degli ordini sociali, e che viene soddisfatta attraverso un certo grado di assolutizzazione delle forme di mediazione simbolica, va in direzione dell'accentuazione della disuguaglianza e favorisce la concentrazione del potere, ovvero le forme di dominio. D'altra parte, il carattere riduttivo di ogni determinazione provoca, quanto più essa è assolutizzata, la reazione dell'esperienza vissuta che, tramite la negazione delle forme costituite di mediazione, rivendica la propria libertà di espressione e di azione, dando luogo a spostamenti da una ad un'altra forma di mediazione e a trasformazioni dell'ordine sociale. È all'interno di questa dinamica che va studiato il problema dell'emancipazione, ovvero delle condizioni che consentono il maggior grado di uguaglianza sociale e di autonomia di scelta e di decisione dei membri di una data società, la possibilità generalizzata dell'aumento del potere intrinseco degli attori sociali individuali e collettivi e della loro capacità di controllo del potere attribuito nei suoi aspetti strutturali e funzionali. La prospettiva emancipativa si pone, quindi, in primo luogo come problema della relativizzazione delle forme di mediazione, pur nella conservazione degli ordini di prevedibilità, nonché della limitazione della tendenza del potere a porsi come dimensione normativa e centro di decisioni di tipo assoluto e insindacabile. Il potere, quindi, incontra sempre un suo limite proprio nel suo bisogno di legittimazione: ciò comporta che chi detiene il potere può difficilmente sviluppare autonomamente una funzione veramente innovativa, se non è spinto in questa direzione da coloro che lo sostengono. Il potere è infatti una realtà difficilmente modificabile dall'interno, in quanto la detenzione del potere non consente che un numero limitato di scelte. Il tentativo di modificare le condizioni su cui si basa il mantenimento del potere può essere realizzato solo rinegoziando il rapporto di potere, attraverso l'ampliamento della base sociale che lo sostiene, oppure attraverso la sostituzione della base precedente con altre forze sociali. In caso contrario, il tentativo di andare al di là dei limiti previsti dal rapporto che originariamente ha fondato il potere comporta sempre il rischio della perdita di potere stesso. Per questa ragione una riforma radicale dei rapporti di dominio non può mai essere ottenuta attraverso la presa di potere, neppure quando questa viene motivata come momento transitorio verso l'eliminazione o la riduzione del potere stesso. Infatti, una volta preso il potere, coloro che lo detengono si troveranno di fronte al dilemma fra dover conservare il potere, attraverso il rispetto delle condizioni negoziate che lo legittimano, oppure perdere il potere stesso, con il risultato di non poter attuare il proprio progetto iniziale. Il superamento della struttura di dominio va perseguito quindi non prendendo il potere, ma attraverso l'uscita dalla logica del dominio e l'erosione delle strutture che ne costituiscono il fondamento. Il carattere strutturale del potere politico ed economico rende molto improbabile l'eventualità che il potere, una volta costituito, si faccia promotore di un processo di emancipazione collettiva, ovvero dell'aumento del potere intrinseco dei diversi soggetti sociali. Ogni struttura infatti è di per sé orientata alla propria conservazione e tende a produrre e riprodurre se stessa. Nel rapporto interpersonale, meno rigidamente strutturato, è quasi sempre possibile un esercizio del potere che sia promotore del potere intrinseco dell'altro (tipo ideale del rapporto padre-figlio), o di un rapporto negoziato di attribuzione all'altro di potere estrinseco. Nel sistema strutturale del potere invece, anche se possono darsi importanti differenze tra un sistema sociale e l'altro, il rapporto tende a rimanere fissato nella posizione asimmetrica che lo costituisce, modificandosi solo se vi è costretto dall'azione di coloro che fondano la sua legittimazione o dalla trasformazione delle condizioni materiali e sociali su cui esso si è inizialmente basato. Vi è quindi una caratteristica rigidità nella struttura del potere, un tendenziale processo di reificazione di esso, che fanno sì che il problema dell'emancipazione collettiva debba assumere sempre l'aspetto di un conflitto nei confronti delle posizioni assolutizzate del potere, ovvero della forma di dominio. In via generale quindi, il problema dell'emancipazione sembra dover essere affrontato nei termini di un'azione dal basso che consenta di rinegoziare i rapporti di potere in condizioni più favorevoli per i subordinati, riducendo o, al limite, eliminando la concentrazione del potere, anche attraverso la realizzazione di forme collettive più o meno estese di autogoverno o di autogestione. Occorre peraltro non trascurare la rilevanza che assumono, riguardo alla concreta possibilità di emancipazione individuale e collettiva, anche gli elementi psicologici e culturali: un effettivo cambiamento nella distribuzione del potere dev'essere cercato tramite la presa di coscienza da parte degli stessi attori sociali individuali e collettivi del proprio potere circa una più diretta assunzione della loro responsabilità sociale e politica. Bertrand de Jouvenel afferma che in ogni società esistono individui che non si sentono abbastanza protetti, i "securitari", e individui che non si sentono abbastanza liberi, i "libertari". Ora, se è vero che nella realtà possono darsi individui più disposti a rischiare nella lotta per la libertà e altri che manifestano maggiormente il bisogno di rassicurazione, è anche vero che entrambe le tendenze sono presenti in ciascun soggetto sociale, il quale è di per sé preso nell'oscillazione tra le 2 opposte esigenze. Dal punto di vista soggettivo quindi, il problema dell'emancipazione, ovvero di un accrescimento dell'autonomia e di una maggiore assunzione di responsabilità critica nei confronti degli ordini sociali costituiti e della struttura di dominio, si pone nei termini del rafforzamento della capacità di affrontare il rischio implicito nel carattere contraddittorio della dinamica sociale. Solo tramite l'accresciuta facoltà di gestire le contraddizioni della situazione esistenziale può prodursi, in ultima analisi, un cambiamento sostanziale nei rapporti di potere, che venga a rompere il semplice alternarsi dei sistemi di potere diversi. Se, infatti, sia nelle tendenze di tipo libertario sia in quelle di tipo securitario, si manifestano effettive esigenze vitali di rinnovamento o di stabilizzazione, entrambe essenziali alla sopravvivenza dell'ordine sociale, esse esprimono anche una fondamentale inadeguatezza nei confronti di una reale capacità di gestione dell'equilibrio instabile del sociale, inadeguatezza che è sempre fonte di una più o meno grave distruttività. D'altra parte, la sostituzione dei detentori del potere con altri soggetti che nella situazione concreta appaiono più capaci, non sarà a sua volta immune dai pericoli di una medesima involuzione. L'alternarsi conflittuale di forme di potere diverse non può quindi essere visto in sé come un processo dialettico di sviluppo, secondo una linea univoca, ma è il risultato di un'oscillazione che è connessa a processi di adattamento in una situazione che, come tale, non può essere superata. Il problema delle condizioni ideali che possono favorire un progetto di tipo emancipativo, appare estremamente complesso e non può essere qui affrontato in tutte le sue dimensioni. Ci limiteremo ad accennare un aspetto particolarmente difficile che si apre di fronte alla prospettiva teorica dell'emancipazione. L'identità degli attori sociali è strettamente dipendente dalle forme di determinazione sociale e mostra l'esigenza di ordini simbolici di rappresentazioni e di norme relativamente coerenti e consistenti. D'altra parte, il limite legato al carattere fatalmente riduttivo di tali forme di determinazione, rispetto all'esperienza vissuta del soggetto, sottolinea anche la necessità di condizioni che consentano ai soggetti di conseguire una sicurezza del proprio esserci relativamente indipendente dalle forme di costituzione dell'identità sociale. La possibilità di offrire uno spazio più adeguato all'emergere di una soggettività nel suo senso più proprio, sembra dover appoggiare su un riconoscimento sociale dell'esserci del soggetto che si anticipi in modo incondizionato ad ogni richieste di adattamento del soggetto stesso alle forme codificate della prevedibilità sociale (ruolo, funzione, ..) " NO "ti riconosco nel tuo esserci solo se ti adegui alle norme previste", MA "dal momento che ti riconosco nel tuo esserci inoggettivabile, ti invito a adeguarti alle norme onde poter costituire insieme un ordine sociale". A livello sociologico, il modello più elevato della possibilità di una conferma dell'esserci dell'altro, deve tradursi in forme collettive, di tipo rituale e giuridico-istituzionale, di riconoscimento sostanziale dell'identità e dell'appartenenza. In tal caso la conferma dell'identità non occulterebbe la dimensione della differenza, nella quale più propriamente si aprono le possibilità della soggettività e del suo potere. È qui che nasce tuttavia la maggiore difficoltà di ordine teorico oltre che pratico: se l'aumento del potere intrinseco dei soggetti comporta l'indebolimento delle regole sociali, attraverso il riconoscimento del loro carattere convenzionale, esso si rivela allora difficilmente universalizzabile, in quanto si dovrebbe supporre in partenza, in tutti i membri della società, un'uguale maturità nella gestione delle contraddizioni sociali. Questa condizione appare utopistica, non solo perché il riconoscimento della convenzionalità radicale incontra grandi resistenze ad essere accettata, scatenando ansie esistenziali che favoriscono la regressione verso ordini assolutizzati, ma anche perché, pur ipotizzando una società di adulti tutti "maturi", resterebbe sempre il problema degli infanti  degli adolescenti. Questa considerazione mostra l'inconsistenza di un modello ideale di società senza differenziazioni tra chi sa e chi non sa, tra la consapevolezza di chi dirige e l'inconsapevolezza di chi viene diretto, tra chi ha la capacità di relativizzare e chi invece ha bisogno di assolutizzare: anche sotto questo aspetto il progetto di una totale eliminazione del potere appare improponibile. La prospettiva di un'emancipazione universale, di fronte al carattere tragico ovvero insolubile della situazione sociale, sembra dover lasciare il posto ad un atteggiamento maggiormente pragmatico, volto a cercare forme parziali di equilibrio instabile e di limitazione delle tendenze assolutizzanti presenti sia nella natura delle forme di mediazione simbolica, sia nelle dinamica del dominio, nonché nelle pulsioni psicologiche individuali e collettive. Pur dovendo accettare la fatalità della disuguaglianza nel grado di potere intrinseco dei soggetti e quindi, in un certo senso, pur non potendo prescindere del tutto da atteggiamenti di tipo elitistico, si può sempre tendere a forme democratiche di società, a sistemi sociali aperti, dalle strutture flessibili, nei quali l'assolutizzazione sia riservata solo a certi valori e a certe regole fondamentali della convivenza, che consentano il maggior grado possibile di pluralismo delle scelte. Ma anche in questo caso non possiamo dimenticare che non esiste alcuna dimensione che garantisca una piena immunità dai rischi del dominio. Quindi, il soggetto non si può realizzare senza la società, ma la profondità della sua esperienza esistenziale è legata al modo in cui egli riesce ad elaborare riflessivamente nel suo vissuto le componenti culturali e sociali. La capacità della coscienza di prendere le sue distanze dalle oggettivazioni è infatti una dimensione che la pone al di là dell'orizzonte sociale, anche se non può prescindere da esso. Il discorso sulla società incontra quindi un limite di fronte alla dimensione etica dell'esistenza.




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