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Il Fedro di Platone: bellezza e verità in una discrepanza che rende felici

psicologia



Il Fedro di Platone: bellezza e verità in una discrepanza che rende felici


Siamo partiti domandando in che cosa consista per Nietzsche la discrepanza tra arte e verità. Essa deve spalancarsi per lui in ragione del suo modo di concepire filosoficamente arte e verità. La filosofia di Nietzsche, secondo le sue stesse parole, è platonismo rovesciato. Posto che nel platonismo sussista una discrepanza tra arte e verità, con il rovesciamento che sopprime il platonismo dovrebbe allora scomparire per Nietzsche anche la discrepanza. Ora, si è visto che nel platonismo non sussiste una discrepanza, ma soltanto una distanza. Certo, la distanza non è soltanto quantitativa, ma gerarchica. Ne risulta per Platone la tesi: la verità vale più dell'arte. Evidentemente la discrepanza 515b17f si cela in questa tesi. Se però, a differenza di Platone, il rapporto tra arte e verità si rovescia dal punto di vista gerarchico, e se per Nietzsche questo rapporto è una discrepanza, ne consegue solamente che anche per Platone dev'esserci una discrepanza, ma rovesciata. Sebbene la filosofia di Nietzsche si intenda come rovesciamento del platonismo, ciò non significa che con questo rovesciamento debba scomparire la discrepanza tra arte e verità. Possiamo dire solamente: se nella dottrina di Platone tra arte e verità sussiste una discrepanza, e se la filosofia di Nietzsche rappresenta un rovesciamento del platonismo, allora nella filosofia di Nietzsche questa discrepanza deve comparire in forma rovesciata. Dunque il platonismo può essere per noi un'indicazione per scoprire in Nietzsche (ma in forma rovesciata) la discrepanza e il suo sito, e per condurre così il suo sapere dell'arte e della verità al suo fondamento portante.



Che cosa significa discrepanza?? La discrepanza è lo spalancarsi di 2, i quali vengno divisi. Il semplice spalancarsi non fa certo ancora la discrepanza. È vero che in riferimento allo spalancarsi di 2 rocce sporgenti noi parliamo di una crepa nella roccia; ma le rocce non stanno e non potranno mai stare in discrepanza; a tal fine bisognerebbe che esse, da sé, si riferissero l'uno all'altra. Soltanto le cose che si riferiscono l'una all'altra possono essere l'una contro l'altra. Ma anche l'antiteticità non è ancora discrepanza. L'essere l'uno contro l'altro presuppone certo l'essere riferito l'uno all'altro, cioè il convenire in un riguardo. Un'autentica antitesi politica (non la semplice lite) è presente soltanto dove si vuole l'ordine politico della stessa identica cosa; solo qui le vie, le finalità e i principi possono divergere. Nell'antitesi domina, rispettivamente

in un riguardo l'accordo

in un altro la diversità

Ora, però, ciò che nello stesso riguardo in cui conviene contemporaneamente anche diverge, cade nella discrepanza. Qui l'essere l'uno contro l'altro è scaturito dal divergere di ciò che converge, in modo tale che esso, proprio in quanto divergenza, entra nella somma coappartenenza. Di qui al tempo stesso vediamo però che la divisione è, sì, qualcosa di diverso dall'antitesi, ma che anche la divisione non dev'essere necessariamente discrepanza, ma può essere consonanza. Anche la consonanza richiede la dualità della divisione.

La discrepanza è perciò ambigua

divisione che può però essere in fondo consonanza

divisione che deve diventare discrepanza (lacerazione)

Lasciamo ora di proposito la parola discrepanza in questa ambiguità. Infatti, se nel platonismo rovesciato di Nietzsche domina una discrepanza, e se questa è possibile solo in quanto nel platonismo c'è già discrepanza, e se per Nietzsche la discrepanza sgomenta, allora per Platone essa dev'essere, al rovescio, una divisione che è tuttavia consonanza. In ogni caso, ciò che in generale deve poter entrare in discrepanza dev'essere reciprocamente equiparato, deve avere la stessa origine diretta, la stessa necessarietà e identico rango. Inferiore e superiore possono certo stare a distanza e in antitesi, ma mai in discrepanza, poiché manca loro l'identità della misura. Il superiore e l'inferiore, in ciò che rispettivamente sono, sono diversi e non convergono nel riguardo essenziale.

Finché dunque l'arte, secondo l'esposizione della Repubblica, si trova al terzo gradino rispetto alla verità, sussistono, sì, distanza e subordinazione, ma una discrepanza non è possibile. Ora, se ci deve poter essere una discrepanza tra arte e verità, allora l'arte deve prima essere elevata allo stesso e identico rango della verità. Ma c'è una discrepanza tra arte e verità?? Platone parla in effetti con un'oscura allusione, addirittura nella Repubblica, di una certa antica divisione tra filosofia e poesia, cioè tra il conoscere e l'arte, tra la verità e la bellezza. Ma se qui divisione deve voler dire più che differenza (come in effetti è) allora in questo dialogo non si parla né si può parlare della discrepanza; infatti, se l'arte, per essere in discrepanza con la verità, dev'esserle equiparata per rango, si rende necessario considerare l'arte anche secondo un altro riguardo.

L'altro riguardo sotto cui si deve vedere l'arte può allora essere soltanto quello stesso riguardo sotto cui Platone discute la verità. Solo questo stesso e identico riguardo fornisce il presupposto per una divisione. Pertanto dobbiamo ora indagare sotto quale altro riguardo (rispetto a quello che è direttivo nella Repubblica) Platone tratta ancora dell'arte.

Dando uno sguardo breve alla configurazione d'insieme che ci è stata tramandata della filosofia di Platone, notiamo che si tratta di singoli dialoghi nel senso di una costruzione, progettata ed eseguita unitariamente, che abbracci tutte le questioni e le cose essenziali. Lo stesso vale per la filosofia di Aristotele e per la filosofia greca in generale. Le questioni più diverse vengono poste da diversi punti di partenza e su piani diversi, e vengono svolte con diversa ampiezza e risolte in misura diversa. Tuttavia, nel procedere del pensiero di Platone domina un tratto fondamentale: tutto è raccolto nella domanda-guida della filosofia: che cos'è l'ente.

Sebbene nella filosofia di Platone, e per suo tramite, si prepari l'irrigidimento del domandare filosofico in dottrine e in manuali scolastici, dobbiamo guardarci dal ripensare le sue domande seguendo il filo conduttore dei singoli teoremi e delle singole donominazioni dottrinali delle discipline filosofiche successive. Ciò che Platone dice sulla verità e sul conoscere, sulle bellezza e sull'arte, non possiamo concepirlo e aggiustarlo secondo la gnoseologia, la logica e l'estetica venute più tardi. Questo non esclude naturalmente che, in riferimento alla riflessione di Platone sull'arte, noi poniamo la questione di sapere se e dove, all'interno della sua filosofia, si tratti anche della bellezza. Possiamo porre la questione, da tempo divenuta corrente, del rapporto tra arte e verità, a condizione che lasciamo aperto tutto quello che riguarda la loro relazione.



Platone parla spesso nei suoi Dialoghi del bello, senza però trattare l'arte. Ad un suo dialogo la tradizione ha dato esplicitamente il titolo Sul bello. È il dialogo che Platone ha chiamato con il nome del giovane che prende parte alla discussione: Fedro. Ma nel corso della tradizione questo dialogo ha ricevuto altri titoli ancora: Sull'anima, Sull'amore. Già questo esibisce in modo molto chiaro l'insicurezza circa il contenuto del dialogo. Vi si parla di tutti gli argomenti nominati, del bello, dell'anima e dell'amore, e non solo marginalmente; e vi si parla pure, e molto diffusamente, dell'arte; ma anche, e molto a fondo, del discorso e del linguaggio; ma pure, e in un modo essenziale, della verità; e ancora, e in modo penetrante, della follia, dell'ebbrezza, del delirio; e infine, e continuamente, dell'idea e dell'essere.

Ciascuno di questi termini potrebbe a pari diritto servire, ma anche non servire, da sottotitolo. Tuttavia il contenuto del dialogo non è una massa confusa. La sua ricchezza è configurata in un modo unico, così che questo dialogo, da tutti i punti di vista essenziali, può essere detto quello più compiuto. Per la stessa ragione non può essere ritenuto il più antico, come voleva Schleiermacher; né appartiene al periodo più tardo, ma agli anni dell'attività di Platone.

Considerando l'intima grandezza di quest'epoca, non possiamo, ancora meno che nel caso della Repubblica, pensare di far vedere in breve il tutto nella sua unità. Già le indicazioni sul contenuto, fornite con i titoli, mostrano che nel dialogo si discorre dell'arte, della verità, del dire, dell'ebbrezza e del bello. Seguiamo ora soltanto quello che si dice del bello nel suo riferimento al vero, per vagliare se, in qualche misura e in che modo si possa parlare di una loro divisione.

Per comprendere rettamente ciò che vi si dice sul bello, è determinante sapere il contesto e l'ambito in cui si arriva a parlare del bello. Per definirlo anzitutto con un'antifrasi: il bello non viene discusso né in connessione con la questione dell'arte, né in connessione esplicita con la questione della verità, ma nell'ambito della questione originaria del rapporto dell'uomo con l'ente in quanto tale. Ma proprio perché si cerca di pensare il bello nell'ambito di questa questione, viene in luce la sua connessione con la verità e con l'arte. Lo si può mostrare muovendo dalla seconda parte del dialogo.

Estrapoliamo dapprima alcune tesi-guida, per rendere visibile l'ambito in cui si discorre del bello

Dobbiamo poi delucidare (nei limiti del nostro compito) quanto è detto sul bello

Infine ci domandiamo quale specie di relazione sussista qui tra arte e verità


Il bello viene discusso nell'ambito della caratterizzazione del rapporto dell'uomo con l'ente in quanto tale. In merito a ciò vale la tesi: ogni anima di uomo ha già scorto, schiudendosi da sé, l'ente nel suo essere, o non sarebbe (altrimenti) mai venuta in questa forma di vita. Per poter essere questo uomo che vive in carne e ossa, egli deve avere già scorto l'essere. Perché?? Che cosa mai è l'uomo?? Non lo si dice in modo esplicito, ma implicitamente lo si presuppone: l'uomo è l'essere che si rapporta all'ente in quanto tale. Ma egli non potrebbe essere questo essere, cioè l'ente non gli si potrebbe mostrare, se prima, già da sempre, non vedesse l'essere per mezzo della teoria. È l'anima dell'uomo che deve aver scorto l'essere, poiché l'essere non è coglibile con i sensi. È dell'essere che l'anima si nutre. L'essere, il riferimento che guarda all'essere, consente all'uomo il rapporto con l'ente.

Se non sapessimo che cosa significano diversità e uguaglianza, non potremmo mai incontrare cose diverse, cioè le cose in generale. Se non sapessimo che cosa significano identità e opposizione, non potremmo mai rapportarci a noi stessi nella nostra rispettiva identità, non saremmo mai presso noi stessi né mai noi stessi. Né potremmo mai esperire ciò che ci sta di fronte e che è così l'altro da noi. Se non sapessimo che cosa significano ordinamento e legge, congruo e congruità, non saremmo allora capaci di connettere ed edificare niente, non saremmo capaci di istituire e di conservare nella sua consistenza niente. Questa forma di vita, chiamata uomo, sarebbe semplicemente impossibile se non vi dominasse già, dal fondamento e al di là di tutto, la vista dell'essere.



Ora, però, bisogna vedere anche l'altra determinazione essenziale dell'uomo. Poiché la vista dell'essere è relegata nel corpo, l'essere non può mai essere scorto in modo puro nel suo inoffuscato splendore, ma sempre e soltanto in occasione dell'incontro di questo e quell'ente. Quindi, per la vista dell'essere propria dell'anima umana vale in generale: solo a stento e a fatica scorge l'ente (come tale). Per questo nel sapere dell'essere i più hanno molta pena e dunque: la vista dell'essere, rimane in loro tale che non raggiunge la fine, cioè non consegue tutto quello che all'essere appartiene. Perciò il loro è un semi-guardare, è per così dire strabico. Essendo strabici, i più rinunciano; declinano lo sforzo per arrivare alla vista pura dell'essere, e così desistendo non si nutrono più dell'essere, ma usufruiscono del nutrimento che viene loro da quanto offrono le cose che di volta in volta si trovano di fronte, dalla rispettiva sembianza che giusto in quel momento esse hanno.

Ora, però, quanto più la maggior parte degli uomini soccombe nella quotidianità alla rispettiva sembianza e alle vedute correnti sull'ente, sentendovisi a proprio agio e trovandovi conferma, tanto più l'essere si occulta loro. La conseguenza di questo occultamento dell'essere negli uomini è che essi vengono colpiti da quell'occultamento dell'essere che fa sembrare che esso non ci sia. Il termine dimenticare va pensato in termini metafisici e non psicologici. I più sprofondano nella dimenticanza dell'essere, anche se, anzi, proprio perché essi si danno costantemente da fare solo in merito alle prime cose che si trovano di fronte. Queste non sono l'ente, bensì solamente le cose di cui ora diciamo che sono. Quello che di volta in volta ci riguarda e ci impegna, qui e ora, così o altrimenti, come questo o quello, è, nella misura in cui in generale è, soltanto una somiglianza con l'essere. È soltanto una sembianza di essere. Ma coloro che, decaduti nella dimenticanza dell'essere, vi restano, non sanno neppure che questa sembianza è una sembianza. Poiché altrimenti saprebbero subito anche dell'essere, il quale, sebbene nella sembianza, viene tuttavia in luce, sia pure a mala pena. Sarebbero allora fuori della dimenticanza dell'essere e, anziché essere schiavi della dimenticanza, conserverebbero la (sembianza) nel pensiero memore dell'essere. Rimangono quindi soltanto poche anime che dispongono della capacità di pensare all'essere. Ma anch'esse non sono capaci di vedere senz'altro la sembianza delle cose che incontrano in modo tale che vi appaia loro l'essere. Ci vogliono condizioni adatte. A seconda di come l'essere si dà, gli è propria la potenza del mostrarsi dell'idea, e con ciò la forza che attrae e che vincola.

Non appena l'uomo, nella sua vista dell'essere, si lascia vincolare da quest'ultimo, viene rapito e trasportato al di là di se stesso, di modo che, per così dire, egli si estende tra sé e l'essere, ed è fuori di sé. Solo in quanto l'essere è capace di sviluppare in riferimento all'uomo la potenza erotica, solo in questa misura l'uomo è in grado di pensare all'essere stesso e di superare la dimenticanza dell'essere.

La tesi stabilita inizialmente, secondo la quale la vista dell'essere è propria dell'essenza dell'uomo, del suo poter essere in quanto uomo, si comprende solo sapendo che questa vista dell'essere non è presente nell'uomo come parte di un corredo, ma gli appartiene come quell'intimo possesso che più di tutti può essere disturbato, più facilmente di tutti può essere sfigurato e che per questo dev'essere sempre di nuovo riconquistato. Ne consegue la necessità di ciò che rende possibile la riconquista, il rinnovamento e il mantenimento costanti della vista dell'essere. Può essere tale soltanto quella cosa che più facilmente di tutte le altre, nella prima sembianza di quanto capita di incontrare, fa apparire al tempo stesso l'essere più lontano. Ma questo è, secondo Platone, il bello. Definendo l'ambito in cui si arriva a parlare del bello, in fondo si è già detto che cos'è il bello, in vista di rendere possibile e conservare la vista dell'essere.

Tuttavia, per dirlo più chiaramente basta ora citare solo pochi passi. Essi devono illustrare la definizione dell'essenza del bello e preparare dunque, contemporaneamente, una terza cosa: la discussione del rapporto tra bellezza e verità in Platone. Sappiamo dalla fondazione metafisica della comunità, nella Repubblica, che l'elemento veramente determinante è racchiuso nella congruità congruente con l'ordine dell'essere. Ma questa essenza somma e purissima dell'essere è, vista dall'abituale dimenticanza dell'essere, la cosa più lontana. E in quanto l'ordine essenziale si mostra lontano nell'ente, cioè in ciò che noi così chiamiamo, esso è qui difficilmente visibile. La sembianza è inappariscente. L'essenziale si fa notare meno di ogni altra cosa. Conformemente Platone dice nel Fedro: alla giustizia e alla temperanza, e a quant'altre cose gli uomini devono più di tutto apprezzare, non inerisce alcuno splendore quaggiù dove la si incontra nelle sembianze. Platone prosegue: invece cogliamo l'essere con strumenti ottusi, dunque in modo sfuocato e a mala pena, e pochi, dirigendosi verso la corrispondente sembianza, scorgono l'origine essenziale di ciò che si dà nella sembianza. Nella continuazione di questo pensiero ha luogo una chiara contrapposizione: ma nel caso della bellezza le cose stanno diversamente: nell'ordine essenziale del rilucere dell'essere soltanto la bellezza ha avuto questa sorte, ossia di essere la cosa più appariscente, ma che anche più di tutte rapisce e trasporta. Il bello è ciò che più direttamente ci tocca e ci affascina. Colpendoci in quanto ente, al tempo stesso ci rapisce e ci trasporta nella vista dell'essere. Il bello è questa cosa in sé contro-versa, coinvolta nella parvenza sensibile immediata, ma che al tempo stesso si eleva all'essere: è ciò che affascina e trasporta. È dunque il bello che ci strapa alla dimenticanza e ci consente la vista dell'essere.



Il bello è detto la cosa più appariscente, il cui risplendere accade nell'ambito della sembianza sensibile immediata: il bello stesso è dato in possesso (a noi uomini) mediante il modo di percepire più illuminante di cui disponiamo, e noi possediamo il bello come ciò che brilla più luminoso. Il vedere, il guardare, infatti, è per noi il più acuto dei modi di percepire che si attuano attraverso il corpo. Sappiamo però che il vedere è anche il percepire sommo, il cogliere l'essere. La vista arriva fino alla lontananza somma e più remota dell'essere e al tempo stesso alla vicinanza più prossima e lucente della sembianza. Quanto più la sembianza come tale viene percepita splendente, lucente, tanto più vi appare lucente ciò di cui essa è sembianza: l'essere. Il bello è, nella sua essenza più propria, la cosa più appariscente nell'ambito sensibile, ciò che più di tutto brilla, così che, essendo questa luce, fa che vi riluca contemporaneamente l'essere. L'essere è ciò a cui l'uomo rimane vincolato fin da principio secondo la sua essenza, e ciò a cui l'uomo è trasportato.

Facendo rilucere l'essere, ma essenso esso stesso, in quanto bello, ciò che più attrae, il bello trasporta l'uomo contemporaneamente, passando per sé e andando al di là di sé, fino all'essere stesso. Difficilmente possiamo dire in modo altrettanto pregnante ciò che Platone dice: Platone non vuol dire che il bello stesso è, in quanto oggetto, chiaro e amabile; è la cosa più lucente e, in quanto tale, è ciò che più trasporta e rapisce.

Da quanto è stato esposto, risulta chiara l'essenza del bello, cioè il fatto che, e la misura in cui, esso rende possibile riconquistare e conservare la vista dell'essere partendo dalla sembianza immediata, la quale facilmente annuncia la dimenticanza. La nostra saggezza, pur rimanendo riferita all'essenziale, non ha di suo un corrispondente ambito di sembianza che ci faccia direttamente conoscere ciò che essa deve dare, e che contemporaneamente ci elevi a ciò che va in verità compreso.

La terza questione, quella che domanda del rapporto tra bellezza e verità, fornisce adesso da sé la risposta. In realtà, finora non si è propriamente trattato della verità. Eppure, per mettere in chiaro il rapporto tra bellezza e verità, basta ripensare alla tesi capitale introduttiva e leggerla nella versione in cui Platone stesso la introduce. Essa dice: è propria dell'essenza dell'uomo la vista dell'essere, e in forza di essa egli può rapportarsi all'ente e a ciò che gli si presenta come ente apparente. Nel passo in cui questo pensiero viene introdotto per la prima volta, Platone non dice che la condizione fondamentale perché si abbia la figura dell'uomo è che egli abbia in vista fin da principio l'ente in quanto tale, ma dice: l'anima non sarebbe venuta in questa figura, se non avesse prima scorto la svelatezza dell'ente, cioè l'ente nella sua svelatezza.

La vista dell'essere è l'apertura del velato nello svelato, è il rapporto fondamentale con il vero. Quella stessa cosa che la verità, secondo la sua essenza, porta a compimento, ossia lo svelamento dell'essere, la bellezza (rilucendo nella sembianza) la porta a compimento rapendo e trasportando nell'essere che vi balena, cioè nella manifestatività dell'essere, nella verità. Verità e bellezza sono riferite nella loro essenza alla stessa cosa, all'essere; esse si coappartengono, l'una all'altra, nell'unica cosa decisiva: rendere e mantenere manifesto l'essere.

Ma in ciò in cui si coappartengono l'una all'altra, esse devono, per l'uomo, divaricarsi, dividersi; infatti, poiché per Platone l'essere è il non sensibile, ne segue che la manifestatività dell'essere, la verità, può essere solamente il rilucere non sensibile. Poiché l'essere si apre soltanto nella vista dell'essere, e questa deve sempre essere strappata alla dimenticanza dell'essere, e a tal fine ha bisogno dello splendere più immediato della sembianza, l'apertura dell'essere deve accadere là dove, a giudicare dalla verità, è essenzialmente presente il non ente. Ma questo è il luogo della bellezza.

Se, per di più, pensiamo che producendo il bello l'arte si trattiene nel sensibile, quindi a grande distanza dalla verità, allora è chiaro in quale modo verità e bellezza, nella loro coappartenenza in uno, devono tuttavia essere 2, dividersi. Ma questa divisione, la discrepanza in senso lato, non è per Platone una discrepanza che suscita sgomento, ma è una discrepanza che rende felici. Il bello eleva oltre il sensibile e riporta al vero. Nella divisione è preponderante la consonanza, poiché il bello, in quanto splendente, sensibile, ha fin da principio messo in salvo la sua essenza nella verità dell'essere inteso come il soprasensibile.

A guardare meglio, è presente anche qui una discrepanza in senso stretto, ma l'essenza del platonismo sta nell'eludere questa discrepanza, postulando l'essere in modo tale da poterla eludere e da non far vedere questa elusione come tale. Ma dove il platonismo viene rovesciato, deve rovesciarsi altresì tutto quello che lo connota, e ciò che si lasciava occultare e velare e che poteva pretendersi felice deve viceversa venire allo scoperto e suscitare sgomento.







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