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Marx

filosofia



Soltanto nell'ed. francese del Capitale si trova il § 1 dedicato al "processo lavorativo" ovvero alla "produzione dei valori d'uso". E' un § strano, che sarebbe stato meglio inserire nel § 2 della I sezione, laddove si parla del "duplice carattere del lavoro", benché qui l'interesse prevalente di Marx sia già rivolto al lavoro "astratto".

Messo invece nella III sezione, questo § ha un senso che si fatica alquanto a comprendere. Ormai infatti il lavoro finalizzato al valore d'uso è stato surclassato dal denaro trasformato in capitale, il quale privilegia il lavoro salariato, volto alla produzione per il mercato.

Un § di questo tipo non avrebbe neppure avuto senso se collocato nella sezione dedicata al salario, poiché esso parla del "processo lavorativo indipendentemente da ogni determinata forma sociale"(p.211).

Dunque la ragione che deve aver spinto Marx a inserirlo in questa sezione non può aver nulla a che vedere con lo schema generale dell'opera, con l'organicità della divisione delle sezioni e dei capitoli. Esso, in effetti, sembra più che altro costituire una sorta di risposta (filosofica, o meglio, antropologica) a una inevitabile obiezione che già la I sezione suscitava relativamente alla poca chiarezza con cui Marx aveva saputo distinguere, nel lavoro umano, la parte "istintiva" da quella "consapevole".

Marx qui esordisce sforzandosi di precisare ciò che differenzia l'uomo dall'animale. Nelle prime due sezioni, infatti, essendo dominate dal primato del valore di scambio, tale differenza si era persa di vista. L'uomo appariva come succube di un meccanismo oggettivo, indipendente dalla sua volontà, cui doveva adeguarsi anche facendo leva sul proprio istinto. Qui invece Marx punta su concetti di tipo filosofico, come "fine", "coscienza", "ideale"...

"Innanzi tutto il lavoro è un processo che avviene tra l'uomo e la natura..."(ib.). E' già un inizio sbagliato. Parlare del lavoro a prescindere "da ogni determinata forma sociale"(ib.) è come parlare del lavoro di un singolo separato da altri singoli: il che è antistorico.



L'uomo che "media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico tra sé e la natura"(ib.), è per Marx una sorta di Robinson che vive in un'isola deserta dopo essersi emancipato dalla sua "rozza" comunità primitiva. "Qui infatti non dobbiamo considerare -dice Marx- le prime forme di lavoro, animalesche e istintive"(p.212).

L'uomo delle comunità primitive viene considerato da Marx alla stregua di un "animale" incapace di trasformare se stesso. Singolare è il fatto che, secondo Marx, quest'uomo ha smesso d'essere primitivo proprio rapportandosi alla na 515h72f tura: "coll'agire tramite questo movimento sulla natura esterna e col trasformarla, egli trasforma allo stesso tempo la sua propria natura"(ib.). Cioè in pratica l'uomo primitivo può trasformare se stesso non tanto rapportandosi alla na 515h72f tura, quanto, nel rapportarsi alla natura, uscendo dalla comunità primitiva, quella stessa comunità che, pur avendo l'identico rapporto con la natura, non riesce a rendere "umano" l'uomo. Infatti, se vi riuscisse, sarebbe impossibile spiegarsi, nell'ideologia marxiana, come, rapportandosi alla na 515h72f tura, l'uomo ad un certo punto smetta d'essere istintivo e diventi consapevole di sé.

Per Marx il lavoro consapevole non è quello che nello stesso tempo si rapporta alla natura e al collettivo, ma quello che supera i limiti di quest'ultimo valorizzando i pregi del singolo, il quale si rapporta in modo individuale alla natura.

Il pregio fondamentale del singolo è il seguente: "al termine del processo lavorativo vien fuori un risultato che, al suo inizio, era già implicito nell'idea del lavoratore, che perciò era già presente idealmente"(ib.). L'uomo collettivo non "pensa", ma agisce istintivamente, al pari degli animali. Solo separandosi dal collettivo, l'uomo si differenzia dall'animale.

A parte questo, Marx non riesce assolutamente a spiegare come, rapportandosi alla sola natura, e non anche al collettivo, l'uomo giunga ad avere coscienza di sé, visto e considerato che è proprio sulla base di tale autoconsapevolezza che l'uomo "non opera soltanto un mutamento di forma dell'elemento naturale [al pari dell'animale], ma contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza, che determina come legge la maniera del suo agire..."(ib.).

Qui non si tratta di risolvere il problema dell'uovo e della gallina. Ciò che è grave è che Marx ha omesso di precisare che il concetto di "fine" trova la sua ragion d'essere, in prima e ultima istanza, nel rapporto sociale tra uomo e uomo, aldilà del quale non è assolutamente possibile non solo distinguere l'aspetto istintivo da quello consapevole, nell'essere umano, ma neppure l'attività umana da quella animale.

Non c'è nessun "ricambio organico" tra uomo e natura che possa sostituire o produrre il rapporto sociale tra uomo e uomo. E' in questo e solo in questo rapporto che si può cogliere la differenza tra uomo e animale. Differenza che -come già più volte si è detto- riposa sul concetto di libertà.

Viceversa, per Marx, come per B. Franklin (che viene citato), l'uomo è "un animale che fabbrica strumenti"(p.215). "L'impiego e la creazione di mezzi di lavoro, sebbene in germe si trovino in alcune specie animali, caratterizzano lo specifico processo lavorativo umano..."(ib.). La differenza, in sostanza, è solo quantitativa, anche se per Marx -sulla scia dell'idealismo hegeliano- le determinazioni quantitative ad un certo punto portano a una nuova "qualità".

Peraltro, se si afferma che lo specifico dell'attività umana (che si suppone lavorativa) è il lavoro, si cade nella tautologia. E' giusto affermare che "le epoche economiche si distinguono non per quello che viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto"(ib.). Ma è sbagliato precisare che "i mezzi di lavoro...servono pure ad indicare i rapporti sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro"(ib.).

In realtà è vero il contrario: sono i rapporti sociali e il senso del valore in cui essi si manifestano (che non è solo per un uso socio-economico: sussistenza, riproduzione ecc., ma per un uso vitale più globale) a farci capire il "come" generale della vita lavorativa e il "perché" la scelta sia caduta su determinati mezzi e strumenti lavorativi.

Questo naturalmente significa che quando una formazione sociale o un'epoca economica viene tragicamente distrutta, nei suoi rapporti sociali, da un'altra epoca o formazione, diventa molto difficile risalire al contenuto di valore ch'essa viveva partendo dagli strumenti produttivi che si sono conservati e che successivamente sono stati raccolti e depositati in qualche museo. Il passato può essere capito solo se il presente, pur mutando i mezzi di lavoro ereditati, ha conservato, in qualche modo, lo "spirito" di cui essi erano espressione.

In caso contrario è utopico pensare che un processo lavorativo possa conservare i valori d'uso prodotti da "precedenti processi lavorativi"(p.217). Non è per nulla vero che "l'unico mezzo per conservare questi prodotti di lavoro passato e per realizzarli come valori d'uso..." sia quello di metterli a contatto "con il vivo lavoro"(p.219). La memoria del valore d'uso non dipende semplicemente dal lavoro, ma dalle scelte che l'uomo compie in riferimento al senso generale della sua vita e soprattutto al modo particolare di vivere il valore della libertà.

Per distinguere l'uomo dall'animale non è neppure sufficiente puntare sul fatto che il prodotto del processo lavorativo "è un valore d'uso, materiale naturale reso conforme a bisogni umani per mezzo del mutamento di forma"(p.216). Forse che gli animali non hanno dei "bisogni"? Forse che essi, sulla base di questi bisogni, non si costruiscono dei "valori d'uso"? Si può forse affermare che il loro lavoro è un semplice "mutamento di forma" e che quando incontrano dei problemi su questa strada non riescono con la loro intelligenza a trovare nuove soluzioni?

Marx, pur rendendosi conto che per recuperare la differenza tra uomo e animale doveva sottolineare l'importanza della produzione di valori d'uso, poiché essa presuppone un "fine consapevole", ha fallito il suo tentativo, anche perché, essendo partito, nella I sezione del Capitale, dal riconoscimento del primato del valore di scambio, egli non poteva più ritrovare la memoria del valore d'uso, che è sempre legata a una formazione sociale determinata, storicamente situata e certamente di tipo pre-capitalistico.

Non a caso Marx tenta di recuperare il valore d'uso solo in maniera astratta, cioè nel rapporto generico che l'uomo ha con la natura, e tralascia completamente la possibilità di reperire dei valori d'uso nella comunità di autosussistenza. Per Marx la produzione di valori d'uso sganciata da quella per il mercato, appartiene all'epoca "animalesca" dell'uomo.

Naturalmente Marx è consapevole che l'individuo non coincide sic et simpliciter con il lavoro che svolge. Ad un certo punto egli non può fare a meno di accennare alla differenza tra "consumo produttivo" (il quale "consuma i prodotti come mezzi di sussistenza del lavoro, vale a dire della forza lavorativa in atto dello stesso individuo"), e "consumo individuale" (il quale "consuma i prodotti come mezzi di sussistenza dell'individuo vivente")(p.219).

Con ciò in pratica Marx ribadiva la differenza tra individuo biologico e sociale, ovvero che il concetto di esistenza non può essere inteso solo in quell'aspetto che accomuna l'uomo all'animale. Ciononostante egli non riesce a spiegare, se non dandolo per scontato, il motivo per cui "il risultato del consumo individuale è il consumatore stesso"(pp.219-20). Di fatto, se c'è una cosa che non fa l'interesse del consumatore è proprio il consumo "individuale", separato da quello "sociale", separato soprattutto dal significato collettivo del consumo sociale.

A forza di analizzare il processo lavorativo "nei suoi semplici ed astratti movimenti"(p.220), Marx è finito col cadere, contro le sue stesse intenzioni, in una serie di ingenuità davvero singolari: 1) il lavoro -egli afferma- "è l'attività che ha per fine la produzione di valori d'uso"(ib.), mentre nel capitalismo la produzione principale è quella di valori di scambio; 2) il lavoro è "adattamento degli elementi della natura ai bisogni dell'uomo"(ib.), mentre nel capitalismo tanto la natura quanto i bisogni sono finalizzati unicamente al profitto, per cui non solo si alimentano "falsi bisogni", ma si trasforma anche la natura in un mero "oggetto di consumo"; 3) il lavoro è "condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura"(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è così alienato dalla natura che il ricambio organico dell'uomo avviene solo attraverso il "macchinismo", cioè tramite tutti quegli strumenti artificiali che mediano il suo rapporto con l'ambiente; 4) il lavoro è "perenne condizione naturale dell'umano esistere"(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è vissuto nelle condizioni più "innaturali", poiché per taluni è "dolce far niente", per molti è "duro sfruttamento", per altri è "tragica emarginazione", infine per non pochi è dovere di conservare con la "forza" questo stato di cose.

E' stato un errore non aver considerato "il lavoratore in rapporto ad altri lavoratori"(ib.), poiché se è vero che "non ci si accorge dal sapore del grano chi l'ha coltivato"(ib.), è anche vero che chi conosce, come Marx, le leggi dello sfruttamento, non si mette a tavola prima d'aver saputo da dove proviene il grano che mangia.


Ormai la teoria del plusvalore, elaborata da Marx, è diventata la cosa meno importante del marxismo, e non perché -come direbbe un popperiano- essa non è suscettibile di confutazione, ma proprio perché, nell'ambito del capitalismo, la sua confutazione è impossibile. E' come se in campo astronomico si avesse la pretesa di rimettere in discussione la teoria copernicana.

La teoria del plusvalore, che mette in luce l'oggettività scientifica dello sfruttamento capitalistico, era già stata elaborata in Per la critica dell'economia politica; la stessa redazione delle Teorie sul plusvalore, considerata come il IV volume del Capitale, precede quella del I volume.

Durante la stesura del Capitale, Marx era così padrone di questa teoria che già alla fine della II sezione l'anticipa completamente nelle sue linee essenziali, mentre nella III sezione la espone in modo dettagliato. Con una precisione sconosciuta all'economia classica, Marx afferma che il plusvalore è prodotto dall'operaio perché il costo della sua forza-lavoro (la capacità lavorativa) non corrisponde al suo valore d'uso.

Come ogni altra merce infatti, la forza-lavoro ha un costo stabilito "in base alla quantità di lavoro incorporato nel suo valore, al tempo di tempo socialmente necessario alla sua produzione"(pp.223-4). Quindi il capitalista, sul mercato, al momento della contrattazione, paga il prezzo che occorre solo alla riproduzione della forza-lavoro, ovvero paga unicamente "il valore giornaliero della forza lavorativa"(p.222), riservandosi nello stesso tempo la facoltà di usarla in fabbrica oltre il prezzo pattuito. Egli sa bene infatti che "lo specifico valore d'uso di questa merce è quello di essere sorgente di valore e di un valore più grande di quanto ne possieda essa stessa"(p.232).

"Il fatto che occorre una mezza giornata lavorativa per farlo vivere ventiquattro ore, non impedisce per niente all'operaio -dice Marx- di lavorare per un'intera giornata. Perciò il valore della forza lavorativa e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze diverse"(ib.). E' la stessa differenza che passa tra il suo valore di scambio (sul mercato) e il suo valore d'uso (in fabbrica).

Il plusvalore quindi è un furto legalizzato sul valore d'uso della forza-lavoro: "il fatto che il valore creato in una giornata dall'uso [della forza-lavoro] superi del doppio il suo stesso valore giornaliero, questa è una fortuna particolare per l'acquirente, ma non è per niente una ingiustizia nei confronti del venditore"(p.233).

Ora, il problema fondamentale che questa teoria suscita non sta tanto nella fondatezza dello sfruttamento economico che si verifica in fabbrica, e che si verificherebbe anche se a livello sociale (previdenza, assistenza, sanità ecc.) l'operaio fruisse di particolari servizi, quanto piuttosto sta nel fatto che Marx dà per scontato che il capitalista, sul mercato del lavoro, paghi effettivamente la spesa per produrre la forza-lavoro: cosa che se non avvenisse -lascia intendere Marx- si ritorcerebbe contro gli interessi dello stesso capitalista.

Non avendo messo in discussione il primato del mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ora Marx non può che limitarsi a considerare giusta la contrattazione e ingiusto il lavoro salariato, nel quale si genera un plusvalore non pagato. Lo sfruttamento della forza-lavoro avviene, per Marx, nel momento in cui l'operaio entra "nell'opificio del capitalista"(p.222). Il lavoro salariato viene rifiutato solo dal punto di vista del plusvalore, o meglio: solo perché esiste un'appropriazione privata del plusvalore che non è quella del lavoratore.

Per Marx "la trasformazione del modo di produzione tramite la subordinazione del lavoro al capitale..."(p.221), non è un presupposto ma una conseguenza del lavoro salariato. Naturalmente Marx non ha mai sostenuto che la contrattazione sul mercato del lavoro potrebbe anche avvenire senza lavoro salariato, però il suo ragionamento porta a questa conclusione. Che poi è stata, in un certo senso, la conclusione del "socialismo reale", il quale, statalizzando l'intera proprietà, aveva impedito la formazione di un mercato del lavoro capitalistico, anche se, nei fatti, non aveva potuto eliminare la necessità di tenere bassi i salari. La contrattazione stava nel fatto che in cambio di questi salari lo Stato garantiva la gratuità di certi servizi o il blocco di molti prezzi. L'esperimento è fallito anche per questa ragione economica: il plusvalore realizzato nella proprietà statale non tornava al lavoratore che in misura ridotta.

Qui Marx si limita ad affermare che "in un primo momento il capitalista deve prendere la forza lavorativa come la trova sul mercato, e così deve prendere anche il lavoro che essa ha portato a termine, come s'era sviluppato in un periodo in cui non esistevano ancora capitalisti"(ib.).

Il che in pratica vuol dire: anzitutto, che il costo della forza-lavoro, cioè il tempo di lavoro "socialmente necessario" per riprodurla, è determinato dalla consuetudine, ovvero dalla tradizione lavorativa di una determinata società: cosa di cui il capitalista deve prendere atto; in secondo luogo, anche le modalità operative dell'operaio non possono essere, nell'immediato, completamente modificate dal capitalista: "la natura generale del processo lavorativo non muta certo perché l'operaio l'effettua per conto del capitalista invece che per conto proprio"(ib.).

Marx, tuttavia, non si rende conto di fare delle considerazioni alquanto astratte. Parlare di "tempo di lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza lavoro" potrebbe andare bene in una società basata sull'autoconsumo, dove l'elemento "sociale" o "socializzante" è deciso da tutta la collettività. Viceversa nel capitalismo il tempo di lavoro è "sociale" solo nella misura in cui coincide con gli interessi del capitale. Non è un tempo deciso dalla collettività. Al massimo è un tempo deciso dal mercato, ma qui -come noto- sono gli interessi privati del proprietario dei mezzi produttivi che dettano legge. Ciò che Marx con qualche difficoltà ammetterebbe, poiché nella sua ideologia il mercato è superiore all'autoconsumo. Se vogliamo, al capitalista la riproduzione della forza-lavoro ai livelli della sussistenza indispensabile non interessa più della mera esistenza della stessa forza-lavoro: gli è infatti sufficiente questa per rimpiazzare la forza-lavoro incapace di riprodursi o quella la cui riproduzione non è così indispensabile.

Se il capitalista fosse preoccupato di garantire la minima riproduttività alla forza-lavoro, considerata in senso lato, non sarebbe un capitalista, ma, ai propri occhi, un "benefattore dell'umanità". Di fatto, la riproduzione è un diritto che il lavoratore, soprattutto in regime di monopolio, deve rivendicare ogni giorno, altrimenti il capitalista tenderà a ridurre il costo della manodopera salariata anche al di sotto del minimo vitale di sussistenza. E tanto più lo farà quanto più il mercato del lavoro offrirà la possibilità di sostituirla (vedi del cap.XXIII la parte relativa al cosiddetto "esercito industriale di riserva").

Sotto tale aspetto va detto che il capitalista è unicamente interessato alla riproduzione della forza-lavoro di livello superiore, che esercita un lavoro più complesso, di una maggiore importanza specifica. Tesi, questa, che Marrx rifiuta categoricamente, poiché, a suo giudizio, la "superiorità" di una forza-lavoro del genere non comporta un aumento assoluto del plusvalore ma solo un aumento proporzionato al costo della manodopera.

In realtà il valore di questa manodopera, in una società a capitalismo avanzato, è altissimo, e almeno per tre ragioni: 1) è difficilmente sostituibile, poiché il sistema scolastico-formativo dello Stato non è in grado di produrre operai o intellettuali qualificati: sia perché l'istruzione nazionale è separata dalla produzione industriale, sia perché l'istruzione di massa serve anche per contenere la disoccupazione; 2) è la stessa concorrenza intercapitalistica che impone un tasso elevato di know-how: la concorrenza avviene a livelli sempre più elevati e i primi monopoli ad impiegare le scoperte nel settore "sviluppo e ricerca" sono quelli che realizzano maggiori profitti; 3) i costi di una manodopera specializzata vengono facilmente ammortizzati in un regime di monopolio. Naturalmente qui si dà per scontato che la richiesta di manodopera qualificata parta da imprese le cui merci siano per un vasto mercato, altrimenti avrebbe ragione Marx allorché afferma che nell'Inghilterra del suo tempo il lavoro di un muratore occupava "un posto molto più alto di quello di un tessitore di damaschi"(p.239 in nota).

Lo sfruttamento quindi non avviene solo dentro la fabbrica, ma anche sul mercato, al momento della contrattazione salariale. Infatti, nel contratto (oggi sindacale) l'imprenditore, essendo l'unico a disporre di proprietà, esercita un ruolo predominante, a livello economico, rispetto a quello di ogni operaio che non si oppone politicamente al proprio stato di soggezione. Il valore di scambio della forza-lavoro non è mai effettivamente corrispondente al costo dei mezzi di sussistenza che le occorrono per riprodursi. Tant'è che il "proletariato", per sopravvivere, è continuamente costretto ad abbassare il proprio tenore di vita, a lottare contro l'aumento dei prezzi, a cercare forme di sfruttamento clandestine, parallele a quelle contrattate ufficialmente, ad accettare modalità integrative del salario che spesso sconfinano nell'illecito, nell'illegale, nell'immorale ecc.

Che tutto ciò poi si verifichi di più tra le fila del proletariato "occidentale" o tra quelle del proletariato o sottoproletariato "terzomondista", soggetto a sfruttamento coloniale e neocoloniale, la sostanza non cambia. Quanto più il proletariato occidentale rivendica un maggior valore di scambio della propria forza-lavoro, tanto più il capitalismo sfrutterà il valore d'uso della forza-lavoro terzomondista. E quanto più sfrutterà il valore d'uso di questa forza-lavoro, tanto più rischierà la disoccupazione quella forza-lavoro di livello medio e medio-basso che in occidente rivendicherà maggiore potere contrattuale.

L'impostazione metodologica di Marx è dunque così astratta che con essa si rischia di dimostrare il contrario di quanto s'era prefisso, e cioè che il plusvalore non è intenzionale ma casuale, in quanto solo in fabbrica il capitalista, ad un certo punto, si accorgerebbe di poterlo realizzare. "Fino a che gli affari vanno bene -dice Marx-, il capitalista è troppo preso a fare plusvalore per accorgersi di questa gratuita proprietà del lavoro"(p.249), cioè di "conservare valore aggiungendo valore"(ib.). In realtà il capitalista sa sin dall'inizio che lo sfruttamento di un lavoratore giuridicamente libero (nei cui confronti egli non abbia alcun obbligo, né legale né morale) è in grado di produrre plusvalore. Ciò che non sa è -almeno fino a Marx- come esattamente avvenga questo processo.

Allo stesso modo, il processo lavorativo tradizionale, allorché la forza-lavoro appare come merce sul mercato, è già stato ampiamente modificato. Proprio la trasformazione del lavoratore in operaio salariato, sta ad indicare l'avvenuto trionfo del capitalismo sull'autoconsumo. Un capitalista non acquisterebbe mai sul mercato una forza-lavoro se non sapesse in anticipo di poterle estorcere arbitrariamente ma legalmente un plusvalore. Se così non fosse non sarebbero mai nati né il capitalismo né l'industrializzazione, e il capitale si sarebbe fermato sulla soglia delle due forme tradizionali: commerciale e usuraia.

Ciò significa che se l'imprenditore ritiene che per produrre migliori o maggiori filati, occorre adoperare dei fusi d'oro invece che di ferro, col tempo questi saranno inevitabilmente sostituiti da quelli, e in tutte le fabbriche, nella ovvia consapevolezza di poter così aumentare il saggio del plusvalore. Il taylorismo rappresenta la dimostrazione più convincente che per il capitalista non esiste "il grado medio di abilità, di rifinitura e di celerità", ovvero "l'usuale misura di sforzo" in cui viene impiegata la forza-lavoro di una determinata società (p.236). L'obiettivo del capitalista è proprio quello di modificare costantemente tale "grado d'intensità" (oggi diremmo di "flessibilità", poiché l'automazione ha un ruolo prevalente) a vantaggio del plusvalore.

Paradossalmente, tuttavia, rivalutando il valore d'uso della forza-lavoro, Marx, senza volerlo, ha riaperto la strada alla valorizzazione dell'autoconsumo. Infatti, è solo passando attraverso il valore d'uso che si scopre la presenza (in sé necessaria) di una proprietà personale generalizzata. Nel capitalismo tale proprietà è monopolio di pochi; la maggioranza possiede soltanto la proprietà della propria forza-lavoro (fisica o intellettuale), di cui però non può disporre liberamente, non possedendo l'oggetto su cui e con cui applicarla. L'operaio ha una proprietà che è costretto a vendere quotidianamente alle condizioni del capitalista, finché non reagisce politicamente. Il plusvalore infatti non può essere eliminato né lottando per la riduzione dell'orario lavorativo, né esigendo un maggiore salario. La dimostrazione dell'oggettività del plusvalore è diventata, nel Capitale, la dimostrazione dell'impossibilità di superare tale oggettività restando sul terreno della rivendicazione contrattuale.

Capitale costante e variabile

Nel capitolo VI, intitolato "Capitale costante e capitale variabile", Marx torna a parlare del valore d'uso della forza-lavoro, riprendendo la terminologia della I sezione, riferita al valore d'uso della merce. Essendo ora in gioco la forza-lavoro non sarà inutile cercare, anche da parte nostra, di specificare meglio il senso della nozione di "valore d'uso".

Per Marx il valore d'uso d'una merce è dato dal tempo di lavoro occorso per produrla. Dev'essere però un tempo "socialmente necessario", cioè riconosciuto come tale dalla collettività, secondo una media standard di dispendio di energie. Un lavoro è concreto, cioè utile, se prima è astratto, cioè "sociale lavoro in genere"(p.242). Marx dà per scontato che il valore d'uso di una merce sia sempre determinato dalla considerazione astratta e generale della collettività (che si esprime, per Marx, non nella comunità ma sul mercato) relativamente alla durata del tempo impiegato per produrla.

Se il tempo di lavoro per produrre una merce subisce una modificazione (nel caso p.es. di un cattivo raccolto), "si verifica -dice Marx- una reazione sulla vecchia merce [nel senso che il suo prezzo si modifica], che conta sempre e soltanto come unico esemplare della propria specie, e il suo valore viene misurato sempre in base al lavoro socialmente necessario, ossia necessario sempre, anche nelle attuali condizioni sociali"(p.253).

L'operaio "aggiunge una data grandezza di valore non in quanto il suo lavoro ha uno specifico contenuto utile, ma in quanto dura un certo tempo"(ib.). La qualità di un prodotto dipende dalla quantità di tempo (generalmente riconosciuta) necessaria per fabbricarlo. Naturalmente Marx non affermerebbe mai che un oggetto ha tanto più valore quanto più grande è stato il tempo per realizzarlo. Il tempo in questione è una grandezza media, il che presuppone che la collettività sappia, per esperienza, cioè anche prima che sia costruito un determinato bene di utilità sociale, quanto dispendio occorra a livello psico-fisico e intellettuale. Il valore d'uso d'una merce specifica presuppone il valore generale delle merci riconosciuto dalla collettività sul mercato.

Ebbene, questo modo di vedere le cose oggi appare limitato e come tale va superato. Spieghiamone la ragione con un esempio. Marx impiegò vent'anni a scrivere il Capitale. E' un'opera monumentale, certamente la più importante di tutte quelle che lui ha scritto. Contiene un'infinità di dati, di osservazioni, esprime una notevolissima cultura ed è strutturata in maniera molto organica. Inoltre rappresenta il superamento definitivo dell'economia politica classica.

Lenin invece scrisse Che fare? in pochi mesi, riflettendo non solo sulla società capitalistica ma anche sul movimento rivoluzionario. Sono due opere completamente diverse. Ma se uno oggi dovesse scegliere quale delle due lo potrebbe aiutare di più a superare i limiti del capitalismo, non potrebbe certo scegliere il Capitale. Relativamente all'esigenza di una transizione al socialismo, il Che fare? di Lenin ha ancora oggi un valore enorme, che non può essere paragonato con nessun altro libro della sinistra rivoluzionaria.

Dunque, ciò che dà valore al Che fare? è qualcosa che riguarda, molto da vicino, la coscienza o la cultura del soggetto che vuole uscire dal capitalismo. Se i due libri vengono messi a confronto, sotto tale aspetto, e lo possono essere, visto che entrambi gli autori desideravano la stessa transizione, il valore di Che fare? è decisamente superiore, e lo resterà fino a quando il socialismo non si sarà realizzato.

Qui naturalmente l'ideologo della borghesia potrà obiettare che il valore di Che fare? è relativo alla coscienza del lettore, cioè non è oggettivo. Da questo punto di vista però nessun libro lo sarebbe, neppure il Capitale né lo Zum Abschluss des Marxschen Systems con cui E. von Böhm-Bawerk ha dato il via alla critica del Capitale. E' vero che l'importanza di Che fare? può essere colta solo da una particolare coscienza soggettiva, ma questo non significa che il suo valore sia "soggettivo". Certo, non si può stabilire a priori se una cosa ha un valore oggettivo o soggettivo, ma a posteriori lo si può dedurre. In tal senso è sufficiente costatare l'importanza che la storia (non solo dell'Europa ma del mondo intero) ha attribuito a quel libro, benché non tutto il mondo ne sia stato e ne sia ancora oggi consapevole.

L'esempio surriportato ci insegna due cose: 1) il mercato non è un criterio sufficiente per esprimere il valore delle cose; esso è un criterio per esprimere il valore di scambio delle merci, ma solo in termini di uso pratico, sociale, immediato. Il mercato, astrattamente parlando, dovrebbe limitarsi a riconoscere un valore che gli preesiste; esso al massimo può trasferire il valore da una merce all'altra, ma non può creare alcuna forma di valore. Il mercato che pretende di stabilire il valore d'uso delle merci a partire dal loro valore di scambio, compie un abuso (anche se questo fatto può riflettere la crisi di un sistema sociale), e alla fine impone un valore artificioso, irreale. Il valore di scambio deve dipendere dal valore d'uso, il quale si forma al di fuori del mercato.

Prima e dopo del mercato c'è la comunità, che può decidere il valore d'uso dei propri beni solo se è fondata sull'autoconsumo. Una comunità che producesse solo valori di scambio, anche se fosse fortissima sul piano finanziario, sarebbe debolissima su quello strutturale, in quanto completamente soggetta al trend del mercato mondiale. Molto più forte invece è quella comunità che indirizza verso il mercato solo l'eccedenza dei propri valori d'uso. Naturalmente una comunità del genere non potrebbe sussistere se non fosse in grado di proteggere la propria autonomia, specie nei confronti della produzione straniera per il mercato.

2) Il valore non può dipendere solo dal lavoro, astratto o concreto che sia, poiché il lavoro è una determinazione dell'attività umana che non esprime di per sé il valore delle cose, se non in termini strettamente economici, cioè funzionali alla sussistenza e alla produzione e riproduzione. Il valore delle cose è dato in primo luogo dalla "cultura" della comunità che autoproduce, cioè dal valore ontologico che la comunità vive in rapporto al significato della vita in genere. Le cose hanno un valore (anche pratico) in quanto ha valore il contesto in cui vengono collocate e usate. Non è sufficiente il tempo di lavoro socialmente necessario, occorre che le cose abbiano un'anima, in virtù della quale possano suscitare negli esseri umani il senso della libertà.

La categoria del valore si deve pertanto "spiritualizzare". Questo perché il giorno in cui avremo risolto, nell'ambito del capitalismo, il problema dello sfruttamento sociale che evidenzia la produzione economica del plusvalore, resterà ancora un problema da affrontare: quello di creare nuovi valori culturali nella società socialista.

Da un lato quindi occorre rovesciare politicamente il primato del valore di scambio ripristinando il primato del valore d'uso; dall'altro bisogna estendere il concetto di "valore" a tutto ciò che non riguarda immediatamente la materialità della vita. Quando la merce non costituirà più l'oggetto del contendere umano, forse gli uomini conosceranno altre contraddizioni antagonistiche il cui oggetto sia necessariamente più spirituale, ma può anche darsi che i valori della libertà avranno raggiunto un tale livello di profondità da rendere facilmente smascherabile ogni antagonismo.


Parlando del processo di valorizzazione del capitale, Marx fa una precisa distinzione tra "capitale costante"(fattore oggettivo del processo lavorativo) e "capitale variabile"(fattore soggettivo). Il primo è quella "parte del capitale che si trasmuta in mezzi di produzione, ossia in materia prima, materie ausiliarie e mezzi di lavoro"; questa parte "non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione"(p.252). Nel senso che essa non aumenta il proprio valore, ma si limita a trasferirlo nei beni prodotti.

"Nel processo lavorativo -dice Marx- si verifica un trapasso di valore dal mezzo di produzione al prodotto solo perché il mezzo di produzione perde, oltre il suo indipendente valore d'uso, anche il suo valore di scambio"(p.244). Ciò in quanto la sua "originaria grandezza di valore [è determinata] dal tempo di lavoro occorrente alla sua stessa produzione"(p.248); "se non avesse avuto valore prima di entrare nel processo, non trasmetterebbe al prodotto alcun valore"(ib.).

Oggettivamente, la perdita di valore è dovuta al "logorio di tutti i mezzi di lavoro"(p.245). Ovviamente "un mezzo di produzione non trasmette mai al prodotto un valore maggiore di quanto ne perda..."(ib.). Calcolare la perdita è relativamente facile: "l'esperienza ci dice quanto dura in media un mezzo di lavoro..."(ib.).

Il capitale variabile invece è "la parte del capitale trasformata in forza lavorativa [che] muta il proprio valore nel processo di produzione. Essa riproduce il proprio equivalente e in più un'eccedenza, il plusvalore, che per suo conto può variare..."(p.252). Questo significa che "un mezzo di produzione entra tutto nel processo lavorativo, ma solo in parte nel processo di valorizzazione"(p.246), poiché questo secondo "processo" viene sostanzialmente gestito dalla forza-lavoro, la quale ha la "proprietà naturale [di] conservare valore aggiungendo valore"(p.249). Per Marx solo il riciclo degli scarti permette a questi di "entrare per intero nel processo di valorizzazione, pur facendo parte solo parzialmente del processo lavorativo", a condizione però che tali scarti -egli aggiunge- non vengano usati per formare "nuovi mezzi di produzione, e perciò nuovi valori d'uso indipendenti"(p.247).

Dopo aver lasciato chiaramente intendere che un modo di produzione basato anzitutto sul valore di scambio è superiore a un modo di produzione basato anzitutto sul valore d'uso (dice infatti a p.244: "pur essendo importante per il valore esistere in qualche valore d'uso, gli è ugualmente indifferente in quale esso possa esistere..."), Marx, a p.250, con un giro di frasi piuttosto involuto, cerca di spiegare la differenza tra valore d'uso e di scambio nei mezzi produttivi capitalistici. In tali mezzi -egli afferma- non si consuma il valore di scambio (non essendo essi permutati con alcunché), ma solo quello d'uso (a causa del logorio). Perciò il valore di scambio non può essere riprodotto, propriamente parlando, nella merce (con un aumento di valore), ma solo conservato così com'è (dal mezzo produttivo alla merce), a differenza del valore d'uso, che invece si trasferisce dalla macchina al prodotto, diventando un nuovo valore d'uso, con capacità di scambio. Il vecchio valore di scambio dei mezzi produttivi, che si era conservato, è riapparso alla fine del processo produttivo, nel nuovo valore d'uso creato.

Così è dimostrato che l'incapacità di creare "valore", da parte dei mezzi produttivi, dipende sia dal fatto ch'essi non possono trasferire più valore d'uso di quanto ne perdano, sia dal fatto ch'essi riproducono il loro valore di scambio solo "apparentemente" o "incidentalmente", poiché in realtà lo trasmettono perdendolo. Dunque chi crea vero nuovo valore (d'uso e di scambio) è solo la forza-lavoro, che riproduce "realmente" il proprio valore, ed anzi produce anche un'eccedenza, il plusvalore, che il capitalista non paga.

Da notare che per Marx la "scambialità" di una merce può essere verificata solo a posteriori, cioè sul mercato. Egli non poteva immaginare che in un regime di monopolio essa è un "a priori" di quell'impresa che non produce semplicemente per vendere (rischiando cioè l'invenduto), ma produce quel che sa in anticipo di poter vendere. Naturalmente la convinzione di poter realizzare determinati profitti presuppone l'investimento d'ingenti capitali.

Ma il difetto principale nell'analisi di Marx è che egli tendeva a considerare in maniera separata la macchina dall'operaio, giacché per lui anzitutto esistevano i mezzi produttivi offerti dalla tradizione lavorativa, i quali successivamente venivano modificati dalle esigenze di profitto del capitalista, il quale costringeva l'operaio ad adeguarsi sic et simpliciter alle capacità della macchina.

Questo modo di vedere le cose, causato da uno scarso affronto culturale della transizione dal feudalesimo al capitalismo, è all'origine del linguaggio poco chiaro ("filosofico") visto sopra. In realtà i mezzi produttivi capitalistici sono nati, sin dall'inizio, in netta antitesi al modo precedente di usarli, al punto che il plusvalore prodotto dall'operaio sarebbe stato impensabile, ai livelli raggiunti nel capitalismo, senza l'apporto straordinario del macchinismo, frutto, a sua volta, di una grande rivoluzione culturale. Successivamente, nel capitalismo monopolistico i mezzi produttivi vengono creati in toto dagli stessi operai che li usano, il cui apporto intellettuale è sempre più rilevante: tra operaio e macchina vi è una connessione molto stretta, che contrasta ancora di più con l'appropriazione privata del plusvalore.

La tesi di Marx secondo cui la facoltà di creare "valore addizionale" è tipica della forza-lavoro in ogni momento del processo produttivo, è giusta appunto perché nel capitalismo i mezzi produttivi permettono all'operaio questa facoltà. Negli altri sistemi produttivi il lavoratore trasforma valori già dati (dalla natura), non crea nuovi valori, proprio perché il valore di scambio non ha un primato su quello d'uso.

Marx dice che se anche l'operaio lavorasse il tempo necessario alla propria riproduzione, egli trasmetterebbe comunque alla merce "una nuova creazione di valore"(p.251), che i mezzi produttivi, da soli, non saprebbero fare. Con il suo "lavoro concreto", l'operaio crea valore d'uso e con il suo "lavoro astratto" crea "nuovo valore", che va ad aggiungersi a quello già esistente.

Tuttavia, se il processo finisse qui -aggiunge Marx, senza accorgersi che il vero limite è un altro-, il valore della merce rappresenterebbe "un semplice equivalente del valore della forza lavorativa"(ib.), in quanto l'operaio avrebbe unicamente rimpiazzato il denaro anticipato dal capitalista per acquistare la forza-lavoro. La nascita del plusvalore avviene quando il capitalista obbliga l'operaio a lavorare "oltre il punto in cui si riprodurrebbe"(ib.). Il plusvalore rappresenta la valorizzazione solo del capitale variabile.

Marx cioè non si è reso conto di un limite ancora più grave del modo di produzione capitalistico, che prescinde in un certo senso dalla realtà dello sfruttamento, e che riguarda inevitabilmente anche il sistema socialista, democratico o burocratico che sia. E' il limite della stessa produzione industriale e del primato del valore di scambio, che uccidono in maniera irreparabile la prassi dell'autoconsumo, il primato del valore d'uso, la tutela dell'ambiente, le tradizioni agricolo-artigianali, il senso dell'autogestione...


Marx distingue anche i "materiali da lavoro" dai "mezzi di lavoro". I primi sono p.es. le materie prime, il carbone con cui si riscalda la macchina, l'olio con cui si lubrifica l'asse della ruota, una macchina in riparazione ecc. (sono esempi di Marx). Il capitale investito in questi materiali e che si consuma in un solo processo produttivo e che quindi entra tutto nel nuovo prodotto, è detto "circolante". I "mezzi di lavoro" propriamente detti sono invece quelli "produttivi": uno strumento, una macchina, l'edificio d'una fabbrica, un recipiente ecc. Il capitale qui impiegato, che trasmette nel prodotto solo la parte consumata (vedi le cosiddette "quote di ammortamento"), è detto "fisso".

La differenza sta nel fatto che i mezzi di lavoro "sono utili nel processo lavorativo solo fino a che mantengono la loro forma originaria e tornano domani nel processo lavorativo nella medesima forma che avevano ieri"(pp.244-5). I "materiali da lavoro" invece servono solo a conservare intatti e utili i mezzi produttivi. Generalmente i materiali da lavoro scompaiono nel processo produttivo; Marx qui aggiunge, ancora ignaro dei problemi dell'inquinamento: "senza lasciar traccia"(p.244). Viceversa, "i cadaveri di macchine, di attrezzi, di opifici ecc. continuano ad esistere separati dai prodotti che avevano concorso a formare"(p.245).

Per Marx era inconcepibile l'idea che nel capitalismo vi fossero degli sprechi. A p.247 fa l'esempio delle grandi fabbriche di macchine di Manchester che riciclano "montagne di scarti di ferro". Il riciclaggio degli "escrementi del processo lavorativo" è una caratteristica tipica del capitalista, che vuole risparmiare su tutto. Marx non poteva neppure sospettare che proprio quei "cadaveri di macchine" rappresentavano la testimonianza più eloquente delle leggi dell'entropia.

Ciò che Marx non avrebbe mai accettato è l'idea che in una moderna società industriale si possano produrre solo valori d'uso e non anche, nello stesso tempo, valori di scambio. L'unità dei due valori, per Marx, non solo è inevitabile in una società in cui i prodotti escono da aziende capitalistiche (e su questo nulla da obiettare), ma sarebbe anche giusta se i prodotti uscissero da aziende socializzate.

Per lui è del tutto "naturale" che un mezzo produttivo perda progressivamente il proprio valore d'uso per trasmetterlo, insieme a quello di scambio, ai prodotti del lavoro. "Se non avesse da perdere alcun valore...non trasmetterebbe alcun valore al prodotto. Esso servirebbe a formare valori d'uso, senza servire a formare valori di scambio: questo è il caso di ogni mezzo di produzione fornito dalla natura, senza che intervenga l'uomo, terra, vento, acqua, ferro nel filone, legname nella foresta vergine ecc."(pp.245-6).

Cioè per Marx il rapporto artificiale dell'uomo con la natura è sostanzialmente da preferirsi a quello meramente naturale: il problema sta semmai nel potenziarlo secondo una regolamentazione sociale e razionale. Per lui quindi non è in discussione la formazione originaria del capitale costante, cioè la nascita dei moventi dell'industrializzazione e il sorgere della legittimità del suo primato sull'agricoltura e sull'artigianato, ma è in discussione la mera distribuzione del capitale variabile. Significativo è il fatto che dopo il cap. VI Marx parli del saggio del plusvalore e non dell'assurdità del sistema capitalista, che è costretto, per sopravvivere, a rivoluzionare continuamente i propri mezzi produttivi. L'analisi del capitalismo fatta nel Manifesto era, in tal senso, più indovinata.

In ogni caso questo modo di vedere le cose, alla luce delle moderne teorie sul degrado ambientale e sull'entropia, va ampiamente rivisto.


Che cos'è dunque il plusvalore? E' una parte di lavoro non pagata. Nel capitalismo, come in ogni altro sistema antagonistico, è sinonimo di "sfruttamento". In nessun capitolo della III sezione Marx ha mai pensato di criticare la formazione in sé del plusvalore; egli si è semplicemente preoccupato di dimostrare che nel capitalismo la sua formazione avviene a spese del lavoratore. Infatti, il problema per Marx era unicamente quello di distribuire in modo equo i frutti del plusvalore. Questo, in sintesi, il significato della sezione in oggetto.

Fino ad oggi la critica borghese ha cercato di confutare l'oggettività del plusvalore scoperto da Marx, ma -bisogna ammetterlo- tutti i tentativi sono falliti. La stessa esigenza degli imprenditori di automatizzare sempre più la produzione nasce proprio dalla necessità di realizzare plusvalore estromettendo la forza-lavoro (che mal sopporta tale sfruttamento) dal processo produttivo.

Tuttavia, la resistenza della teoria del plusvalore alle critiche degli economisti non sta di per sé a significare ch'essa vada considerata come un dogma. Vi sono, in effetti, degli aspetti che vanno approfonditi e altri da sviluppare ex-novo, poiché Marx non li ha neppure presi in considerazione.

Il primo aspetto che bisogna assolutamente affrontare è di natura culturale, ed è inerente alla genesi storica del plusvalore capitalistico. Non dovrebbe essere difficile dimostrare che se non ci fosse stata la possibilità di creare un plusvalore diverso da quello che il feudatario realizzava con i suoi contadini-servi, non sarebbe mai nata alcuna rivoluzione industriale. Essa infatti rappresenta il tentativo (riuscito) di ricostituire, in forme diverse, quello sfruttamento cui il lavoro era fatto oggetto nel sistema feudale, e in cui -a ben guardare- si è sempre caratterizzato dalla fine del comunismo primitivo.

Ma perché ciò potesse avvenire con successo, occorreva che il lavoratore avesse l'illusione della libertà. Cioè da un lato occorreva che il capitalista fosse convinto al 100% che sfruttando la forza-lavoro avrebbe realizzato un profitto di molto superiore al capitale investito; dall'altro occorreva una forza-lavoro disposta a credere che, emancipandosi dallo sfruttamento feudale, non sarebbe ricaduta in uno peggiore.

Gli strumenti con cui realizzare il plusvalore non sono stati solo quelli socio-economici e tecnico-scientifici connessi all'uso della proprietà privata, del capitale, del macchinismo ecc., ma anche quelli di tipo culturale, strettamente legati all'ideologia e ai valori borghesi emergenti (che altro non erano se non una laicizzazione di precedenti valori religiosi). Se non ci fossero stati questi strumenti "invisibili", nessun imprenditore avrebbe mai impiegato ingenti capitali col rischio di ottenere soltanto la loro conservazione originaria, senza ulteriore valorizzazione.

Certo, la rivoluzione industriale sarebbe potuta nascere anche in una società non antagonistica, ma ciò, se lo fosse stato, sarebbe avvenuto in maniera molto più lenta, senza stravolgere il precedente modo di produzione, e soprattutto senza lo sfruttamento della forza-lavoro (né le risorse naturali sarebbero state saccheggiate, né il colonialismo sarebbe mai nato ecc.). La novità della produzione di tipo "capitalistico" è consistita proprio in questo, che si è voluta costruire una società antitetica in tutto e per tutto a quella del passato, conservando però la prassi della sfruttamento del lavoro altrui.

La conseguenza è stata che in virtù del macchinismo si è potuto realizzare un plusvalore assolutamente imparagonabile con quello delle epoche precedenti. Questo fatto da Marx non viene mai problematizzato a fondo. Nel Capitale (ma già nel Manifesto era così) l'industrializzazione viene considerata come uno dei fattori oggettivi di progresso che ha permesso all'uomo di emanciparsi dalla tradizione agraria pre-capitalistica. Marx non ha colto il fatto che il plusvalore che l'operaio, attraverso la macchina, trasferisce alla merce e di conseguenza al profitto del capitalista, viene in un certo senso "pagato", oltre che dallo sfruttamento della forza-lavoro, anche da una progressiva svalorizzazione della macchina, per la cui costruzione era stato speso un certo capitale (risorse materiali e naturali, energie psico-fisiche e intellettuali) che alla resa dei conti ha comportato un impoverimento delle condizioni generali dell'ambiente naturale e quindi un'instabilità e una precarietà sempre più crescente nelle condizioni generali di vita della stessa società umana.

Oggi, dopo aver costatato che nell'esperienza del "socialismo reale" il primato concesso all'industria comporta degli squilibri socio-ambientali anche in assenza della "logica" del capitale, siamo arrivati al punto da doverci chiedere: è veramente necessario produrre plusvalore? In teoria esso serve ad aumentare il livello del benessere; nel capitalismo -come noto- ciò è alquanto relativo, poiché il benessere è accompagnato dallo sfruttamento più o meno "selvaggio" delle risorse umane e naturali e quindi da un'appropriazione privata del plusvalore. Quando tale sfruttamento garantisce in Occidente, nei paesi a capitalismo avanzato, un livello medio o medio-alto di benessere, ciò significa che nel Terzo mondo esiste uno sfruttamento già molto intenso.

In una società senza antagonismi di classe, sarebbe ancora necessario il plusvalore? Ovverosia, cosa dobbiamo intendere con la parola "benessere"? La qualità della vita è forse una grandezza che dipende dalla quantità di beni che possediamo? Cos'è più importante: che l'uguaglianza sociale sia garantita o che la produzione aumenti di continuo? Le due cose infatti paiono escludersi a vicenda.

Probabilmente l'uomo, spinto in questo dalle stesse contraddizioni irrisolvibili del sistema capitalistico, è giunto ad una svolta epocale, in cui è costretto a prendere delle decisioni storiche, che dovranno necessariamente mutare lo scenario del suo futuro. Occorre dunque chiedersi: è preferibile limitarsi all'autoconsumo e alla semplice riproduzione dello standard di vita che garantisce a tutti libertà e proprietà, oppure dobbiamo puntare sullo scambio, sulla produttività in serie, sullo sfruttamento della natura, sulla ristrutturazione tecnologica, ovvero su tutto ciò per cui alcuni fruiscono di elevati livelli di benessere e altri (la maggioranza) non ne fruiscono affatto?

Naturalmente le alternative, nella pratica, non sono mai così nette come le formuliamo: sia perché non si può togliere all'uomo la speranza di poter umanizzare o democratizzare un sistema di vita basato sull'uso della tecnologia più avanzata; sia perché non si può togliere all'uomo il diritto di produrre più di quanto abbia effettivamente bisogno.

In questo caso però (che per noi è quello di maggiore interesse), se volessimo considerare positivamente la produzione di plusvalore, si dovrebbe affermare con certezza ch'essa, in una società democratica, non può essere né vietataimposta. Nel senso che la produzione del plusvalore va lasciata alla libera volontà dei cittadini, i quali però devono essere consapevoli che l'autoconsumo produce meno entropia e che il plusvalore va regolamentato con un'efficacia maggiore di quella che occorre per l'autoconsumo.

Ciò che alla comunità locale dovrebbe importare più di tutto è la riproduzione del valore. Il plusvalore non si giustifica col fatto che il capitale costante è soggetto a logorio. E' l'idea stessa d'investire del capitale per produrre solo plusvalore che va superata. Certo, se si dovesse guardare alla possibilità di produrre di più spendendo di meno, ogni innovazione tecnologica, utile allo scopo, dovrebbe essere ben accetta, anche se essa comportasse una contrazione del numero degli operai per ogni unità produttiva, o altri aspetti negativi.

Ma il problema oggi non è più semplicemente quello della maggiore efficienza (la cosiddetta "qualità totale"), del maggior risparmio e così via: sotto quest'unico aspetto sarà difficile contestare le ragioni dei capitalisti, eternamente angosciati, anche nella fase monopolistica, dal problema di battere la concorrenza. In realtà oggi il problema è diventato quello di mettere in discussione la necessità di produrre beni di consumo attraverso, anzitutto, i mezzi industriali, che da almeno 500 anni vengono considerati prioritari rispetto a quelli agricolo-artigianali, al punto che la scomparsa progressiva di quest'ultimi viene ritenuta come un fenomeno non solo inevitabile ma anche legittimo e segno di vero progresso.

Il macchinismo, che avrebbe dovuto garantire ordine e razionalità, ha prodotto invece disordine e arbitrio. Si sono persi i cicli della vita naturale, contadina; usiamo prevalentemente risorse non rinnovabili; i costi economici, per produrre plusvalore, sono sempre maggiori; ogni nuova applicazione tecnologica, fin dal suo inizio, presenta degli effetti secondari imprevedibili, che sono più disastrosi dell'assenza di quella nuova tecnologia, e ai quali, per giunta, si cerca di porre rimedio con un'altra tecnologia, ancora più sofisticata, e tutto ciò in omaggio al fatto che la tecnica non è più un semplice "strumento di lavoro", ma è addirittura diventata un "modello di vita". Il lavoro viene sempre più vissuto come una condanna anche da coloro che fruiscono di una vita relativamente agiata.

Ecco perché l'idea che oggi deve affermarsi è quella di una produzione del plusvalore solo in casi limitati, di stretta necessità. L'eccedenza di beni di consumo deve diventare la risultante naturale, spontanea, del processo produttivo, a meno che essa non nasca da un'esigenza particolare della collettività, soddisfatta la quale tutto deve tornare come prima.

Il difetto del capitalismo, in sostanza, non sta tanto nel voler produrre una merce il cui valore sia in eccesso rispetto al valore consumato nel processo produttivo, quanto piuttosto sta nel voler fare solo questo e ad ogni costo: "la produzione di plusvalore -dice Marx- è il fine specifico della produzione capitalistica"(p.278). Ciò è potuto accadere perché, storicamente parlando, il problema di creare plusvalore si è imposto come esigenza di una persona singola, ostile all'interesse comunitario di "conservare" il valore: ieri questi "singoli" erano gli schiavisti e i feudatari, oggi sono i capitalisti (e nel socialismo amministrato i burocrati dello Stato). In virtù dell'attività imprenditoriale del capitalista, noi oggi diamo per scontato che la produzione di plusvalore sia indispensabile, ma la comunità dovrebbe opporsi a questa cultura rivendicando non solo, come chiede il marxismo, la socializzazione del plusvalore, ma anche quella della sua riduzione al minimo indispensabile.


Torniamo ora alla domanda iniziale: che cos'è il plusvalore? Se la produzione fosse completamente automatizzata ci sarebbe ugualmente il plusvalore?

Marx non si pone questa domanda non solo perché ai suoi tempi l'ipotesi era ancora inverosimile, ma anche perché l'avrebbe considerata mal posta. In effetti, una produzione automatizzata non rappresenta mai un'autoproduzione: le macchine, solo per il fatto di esistere, dimostrano la loro dipendenza dagli operai, dai tecnici, dagli ingegneri o dai progettisti; inoltre esse vanno periodicamente controllate, revisionate, perfezionate, sostituite... Una macchina non è in grado di migliorare, oltre un certo limite, la qualità della propria produzione. Quindi il plusvalore è inevitabile.

Naturalmente un'impresa del genere -che ai tempi di Marx non esisteva- realizza plusvalore più con gli operai intellettuali che non con quelli manuali (almeno nell'area del capitalismo avanzato), e quindi più nel momento della progettazione e del controllo della macchina, che non nel momento della trasformazione della materia prima, ove la manovalanza è ridotta al minimo essenziale.

Tuttavia, in questo caso il plusvalore può essere realizzato a una condizione ben precisa: che le altre imprese non abbiano acquisito il medesimo livello di automazione, ovvero ch'esse impieghino manodopera salariata, senza la quale sarebbe impossibile acquistare le merci dell'impresa automatizzata. Non a caso quest'ultima, per evitare la sovrapproduzione, per realizzare alti profitti e per non costringere le altre imprese -che rischiano d'essere rovinate dalla concorrenza dei suoi prezzi- ad automatizzarsi nella stessa maniera, deve necessariamente puntare sull'export. Se tutte le imprese di una nazione sono automatizzate e l'export non garantisce uno sbocco sicuro, la crisi è inevitabile, poiché la macchina, di per sé, è nulla senza il lavoro vivo dell'operaio.

Un'impresa automatizzata realizza il massimo risparmio sul costo del lavoro (a parte quello intellettuale) con il massimo di efficienza (per quanto la produzione in serie non garantisca di per sé una maggiore flessibilità), ma realizza anche, indirettamente, il massimo di sfruttamento possibile della manodopera salariata delle altre imprese, divenendo così altamente parassitaria nell'ambito del capitalismo. La sostituzione dell'operaio con la macchina avrebbe senso se l'operaio fosse riciclato in un'altra mansione, meno faticosa, meno rischiosa, più gratificante ecc. Ma questo nel capitalismo sarebbe possibile (peraltro relativamente) solo se nel Terzo mondo lo sfruttamento della manodopera salariata avesse raggiunto livelli particolarmente elevati.

Se invece la proprietà della fabbrica fosse statale, si produrrebbe ugualmente pluvalore? Il plusvalore non è solo relativo allo sfruttamento capitalistico, esso è anche oggettivo, a causa della particolare modalità con cui s'investe il capitale costante, finalizzato alla valorizzazione della tecnologia e all'acquisizione di un profitto che incrementi il capitale investito. Questa modalità può avvenire anche in una società socialista.

Se non ci fosse lo sfruttamento, ci sarebbe ugualmente il plusvalore, ma esso, nel socialismo, non sarebbe una parte di lavoro non pagata. In questo senso il cosiddetto "socialismo reale" è fallito anche perché ha preteso di gestire in modo democratico il plusvalore attraverso gli organi statali. Proprio la presenza dello Stato, che deteneva un ruolo egemonico sulla società civile, impediva di garantire un'equa ridistribuzione del plusvalore a livello nazionale.

Se invece la proprietà fosse sociale non ci sarebbe alcun plusvalore "forzato", poiché l'operaio sarebbe pagato per quello che effettivamente produce. Il plusvalore potrebbe esserci solo in forma "liberamente accettata". Ovviamente l'operaio dovrebbe contribuire con le proprie tasse a che la comunità locale disponga di tutte le strutture e i servizi necessari.

Proprietari della fabbrica sono coloro che vi lavorano: essi sono i responsabili ultimi della sua gestione, benché il collettivo dell'impresa, in una società veramente democratica, non possa decidere per suo conto né il tipo delle merci, né la loro quantità e, anche per quanto riguarda la qualità, esso dovrebbe tener conto degli interessi e delle esigenze di tutti i consumatori.

In una società socialista occorrerebbe che tutti avessero consapevolezza che la macchina non può trasmettere al prodotto un valore superiore al proprio, per cui non è indispensabile produrre macchine sempre più sofisticate, costose, capaci di "grandi prestazioni": quanto più s'impiegano macchine di questo tipo, tanto più velocemente esse cedono il proprio valore d'uso al prodotto e quindi tanto prima diventano "cadaveri di macchine". Il capitalismo, che induce, a causa della concorrenza, a perfezionare sempre più la propria tecnologia, finisce col cadere in un circolo vizioso, poiché per integrare i costi coi profitti è costretto ad acuire al massimo le proprie contraddizioni.

Ciò che conta, in definitiva, è solo il "capitale umano", cioè il lavoro vivo dell'operaio, che, se vissuto in un contesto sociale significativo (ontologico), sa conservare l'uso delle macchine in modo conforme alle necessità dell'uomo.


Il capitolo dedicato al saggio del plusvalore è la parte più tecnica di tutta la III sezione, e quindi è anche la meno interessante. Tuttavia, essa era indispensabile nell'impostazione metodologica di Marx, il quale, nel Capitale, ha voluto dimostrare l'oggettività dello sfruttamento partendo non dalle conseguenze sociali del lavoro salariato (come ha fatto, p.es., nel Manifesto), ma dalle contraddizioni matematiche intrinseche allo stesso processo produttivo (di lavoro e di valorizzazione del capitale).

Marx in sostanza ha svolto questo ragionamento: 1) nel capitalismo -come in altre società basate sullo sfruttamento del lavoro- si produce plusvalore; 2) fine ultimo del capitalismo -a differenza delle altre società antagonistiche- è la mera produzione di plusvalore: "la misura del grado della ricchezza -dice Marx- non è dato dalla grandezza assoluta del prodotto, bensì dalla grandezza relativa del plusprodotto"(p.278), che rappresenta il plusvalore. Solo nel capitalismo il plusprodotto -che pur si trova in ogni tipo di società- diventa portatore materiale di plusvalore. Ciò è reso possibile dal fatto che qui diventa merce anche la forza-lavoro dell'individuo; 3) il plusvalore è dunque fonte di sfruttamento perché non pagato a chi lo produce; 4) superare il capitalismo vuol dire socializzare il plusvalore.

Marx non mette mai in discussione il plusvalore come tale, ma solo la sua destinazione privata. Egli non ha mai espresso alcun interesse circa la possibilità di creare un socialismo democratico che si limitasse alla pura e semplice riproduzione del valore.

La parte più difficile da accettare, nel modo di quantificare il saggio del plusvalore, è l'attribuzione di una valore = 0 al capitale costante ("c"). Come noto, per "capitale costante" Marx intende "il valore dei mezzi di produzione consumati" nella produzione (p.256), cioè intende quella quota-parte del capitale complessivo investito che, logorandosi, si trasferisce nella merce.

Ora, Marx sostiene che se "c" fosse = 0 (e ciò è possibile se il capitalista utilizza solo materiali esistenti in natura, come ad es. le risorse rinnovabili, e forza-lavoro), il plusvalore ("p") ottenuto "resterebbe della medesima grandezza che se "c" stesse a indicare la somma massima di valore"(p.257). Questo perché il plusvalore non è prodotto dalla macchina ma dalla forza-lavoro. (Da notare che a Marx non interessa minimamente l'ipotesi di un c = 0, senza formazione di plusvalore).

Se invece il plusvalore fosse = 0, cioè se la forza-lavoro avesse prodotto un valore equivalente al suo prezzo, il capitale anticipato non si sarebbe valorizzato (e -si può aggiungere- il capitalismo non sarebbe mai nato).

Ciò che a Marx interessa mostrare è che, per comprendere l'entità esatta del plusvalore, l'economista deve considerare solo le trasformazioni di valore che avvengono in una porzione del capitale variabile (trasformato in forza-lavoro), e deve fare astrazione dal valore del capitale costante. Il plusvalore infatti non si forma col trasferimento di valore del capitale costante al prodotto, neppure aggiungendo tale valore a quello che crea la forza-lavoro.

Ecco perché è necessario che "c" sia posto = 0, altrimenti si avrà che, a causa dell'aumento del capitale variabile ("v"), alla fine sarà aumentato anche il capitale complessivo anticipato. Il che -secondo Marx- è un modo sbagliato di vedere le cose, essendo il plusvalore un'eccedenza estorta con l'inganno del contratto, per il quale non si paga il "lavoro" bensì la sola "forza-lavoro". Se nel calcolo del plusvalore si conteggia anche il capitale costante, sarà poi impossibile individuare il momento esatto dello sfruttamento; si tenderà infatti a pensare che il plusvalore sia ottenuto in proporzione al capitale anticipato o ch'esso serva a coprire le spese.

Marx non nega l'importanza del capitale costante; qui si limita semplicemente a dire -rimandando al III libro un'esposizione più dettagliata- che se delle "proporzioni" esistono, queste non sono tra capitale costante e plusvalore, ma da un lato tra capitale costante e capitale variabile: "per far che funzioni il capitale variabile, è necessario che venga anticipato capitale costante in corrispondenti proporzioni..."(p.258); dall'altro, tra capitale variabile e plusvalore, nel senso che la grandezza proporzionale del plusvalore, cioè "la proporzione in cui il capitale variabile si è valorizzato, è chiaramente determinata dal rapporto del plusvalore col capitale variabile"(pp.259-60) -il che appunto costituisce il "saggio del plusvalore".

L'altro rapporto che indica la proporzione tra "p" e "v" è quello tra pluslavoro (col quale l'operaio produce plusvalore nel tempo di valoro superfluo alla riproduzione del valore della sua forza-lavoro) e lavoro necessario (alla riproduzione del suo valore).

Marx insomma ha voluto dimostrare che il saggio del plusvalore è molto più grande di quello che il capitalista vuol fare apparire mettendo nel conto il valore del capitale costante. Nelle equazioni di Marx "il lavoratore impiega più della metà della sua giornata lavorativa per produrre un plusvalore che diverse persone si ripartiscono tra loro con vari pretesti"(pp.265-6). Tali persone sono tutte quelle non direttamente coinvolte nel processo di valorizzazione del capitale (politici, burocrati, militari, insegnanti ecc., inclusi ovviamente gli stessi capitalisti!).

Quindi il plusvalore rappresenta la valorizzazione del solo capitale variabile. Esso naturalmente aumenta coll'aumentare del grado di sfruttamento. Negli odierni paesi capitalisti avanzati il saggio del plusvalore è del 300% e oltre. Il tempo necessario per riprodurre il costo della forza-lavoro si è ridotto, in talune imprese automatizzate, a meno di un'ora.


E' una contraddizione in termini quella di sostenere che il valore di una merce "è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla"(p.279). Questa legge non è contraddittoria semplicemente perché sul mercato capitalistico esistono merci che hanno un valore di scambio del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso, o perché esistono merci costosissime pur essendo prodotte in tempi assai limitati (fenomeno, questo, che con l'automazione si va sempre più accentuando): la legge del valore non diventa inattendibile solo perché sul mercato si verificano delle assurdità. Essa, nelle intenzioni di Marx, voleva più che altro indicare una linea di tendenza generale, un "dover essere" astratto.

Tuttavia -è ciò è davvero un paradosso- proprio a causa dei particolari e acuti antagonismi che si verificano in ambito capitalistico, quella legge pare essere formulata apposta per essere applicata in una società che certo capitalistica non può essere. Gli economisti borghesi si sono serviti di questa incongruenza per sostenere che va superato non il capitalismo ma la stessa legge del valore e quindi l'idea di una transizione al socialismo. In tal modo essi non sono riusciti a cogliere i limiti veri di quella legge, che vanno aldilà della semplice sfera economica.

In effetti, dire che il "valore" di una merce è determinato dal "tempo" occorso per produrla, è come dire, in pratica, che il "tempo" rappresenta un "valore". Ora, se c'è una cosa che di per sé non ha valore, questa è proprio il tempo, che può scorrere con una durata più o meno lunga a seconda di chi lo vive. Naturalmente Marx risponderebbe a questa obiezione che il tempo cui occorre riferirsi è quello "socialmente necessario", non quello "soggettivamente arbitrario".

Ma cosa significa "socialmente necessario"? Se il tempo cui ci si riferisce, per determinare il valore di una cosa, è un tempo collettivo, socialmente condiviso, allora esso non ha un valore proprio, ma dipendente dalla collettività che lo vive, e quindi dalla cultura di questa collettività e dalla coscienza con cui essa vive la propria cultura. Il tempo quindi ha un valore solo nella misura in cui qualcuno glielo conferisce. E questo qualcuno deve vivere in un determinato "spazio" (categoria, questa, che nel Capitale viene riempita di pochi contenuti, nel senso che la storicità dell'opera appare più "verticale" e meno "orizzontale").

Stando le cose in questi termini, il valore di un oggetto (di uso comune) non può essere determinato semplicemente dal "suo" tempo, se non in senso "tecnico", "economicistico", ma deve essere determinato anche dal contesto semantico in cui esso è collocato, e quindi in ultima istanza dalla cultura significativa di una determinata comunità, la quale, a sua volta, dà senso alla dimensione del tempo (e dello spazio) in cui vive.

Ma se è l'uomo, come essere sociale, a dare un valore alle cose, il valore di queste cose può anche oltrepassare i limiti della dimensione specifica del tempo (e dello spazio), così come il valore de Il Capitale può crescere o diminuire a seconda della coscienza di quanti, nel corso dei secoli, lo leggono. Marx non riusciva a comprendere perché al suo tempo il Capitale avesse più fortuna fra gli intellettuali progressisti della Russia zarista che non tra le fila del proletariato industriale dell'Europa occidentale. La ragione tuttavia era semplice, anche se, ovviamente, non afferrabile con gli strumenti dell'economia: è la coscienza rivoluzionaria che dà il valore giusto alle cose di valore, che crea cose il cui valore è destinato a rimanere nel tempo, a disposizione di una qualunque altra coscienza in grado di riconoscerlo. Cos'è in fondo la "lotta di classe" se non la testimonianza che di fronte a cose analoghe si possono dare valutazioni opposte?

Ora, se tutto ciò è vero, lo è anche in senso contrario, e cioè in riferimento al fatto che nel capitalismo la legge del valore è continuamente contraddetta dalla "legge dei prezzi", che è quella cui i capitalisti sono più interessati. In tutta la III sezione Marx non ha mai preso in considerazione l'ipotesi del prezzo di una merce che per la sua scarsità o novità sul mercato, sale alle stelle, permettendo al capitale costante di realizzare un valore di scambio della merce di molto superiore al suo valore d'uso, e quindi di acquistare, indirettamente, un valore addizionale particolare, relativo alla favorevole congiuntura o circostanza. Nella nota a p.266 Marx afferma di aver supposto "che i prezzi siano uguali ai valori. Nel terzo libro -egli aggiunge- vedremo come tale uguaglianza non si verifica in maniera così semplice neanche per i prezzi medi".

La differenza tra valore e prezzo obbligherà Marx a rivedere la sua teoria sul plusvalore e a ricomprenderla in quella più generale di profitto, all'interno della quale si opera una rivalutazione del ruolo del capitale costante. In questa sezione Marx rifiuta a priori l'idea di considerare il plusvalore come una necessità per ammortizzare i costi iniziali dovuti all'acquisto non solo di forza-lavoro, ma anche, e soprattutto, di materie prime, macchinari ecc. Di plusvalore "netto", in effetti, si può parlare solo dopo aver "coperto" le spese iniziali.

Naturalmente il capitalista sosterrà sempre che i costi non possono mai essere ammortizzati definitivamente, in quanto il macchinario, essendo soggetto a logorio, necessita di essere periodicamente sostituito o ristrutturato, senza parlare delle necessità di riconversione industriale cui ogni capitalista si sente obbligato a causa della concorrenza altrui.

Marx tuttavia non ha cercato, in questa sezione, di uscire da questo vicolo cieco portando il ragionamento sulle modalità con cui l'imprenditore ha potuto accumulare così ingenti capitale da poterli investire in una grande impresa capitalistica. Egli non è interessato a questo discorso per due ragioni: 1) l'accumulazione originaria non deve mettere in discussione la giustezza della transizione dal feudalesimo al capitalismo; 2) il limite di fondo del capitalismo consiste semplicemente nella gestione antisociale del plusvalore.

Di fatto però la formazione di plusvalore non dipende solo dal capitale variabile ma anche da quello costante, poiché, se è vero che lo sfruttamento sta nel plusvalore, è anche vero che il plusvalore capitalistico è di tipo particolare, in quanto può essere accumulato all'infinito. E questa particolarità non è offerta al capitalista unicamente dal valore della forza-lavoro, ma anche dal macchinismo, nel senso che se il capitale costante non altera la propria grandezza di valore, rende però possibile un plusvalore inedito, senza precedenti storici. E' proprio il capitalismo che costringe il tradizionale capitale costante a trasformarsi in una diversa grandezza di valore, che comporta un mutamento qualitativo di tutta l'attività produttiva.

L'originaria grandezza di valore del capitale costante, nell'ambito del capitalismo, non sta più nel "tempo di lavoro necessario" alla sua produzione, poiché nel capitalismo il concetto di "tempo necessario" non ha più il riferimento oggettivo della socializzazione produttiva. L'unico riferimento (fatto passare per "oggettivo") è quello del mercato, ove dominano gli interessi dei proprietari privati, i quali vogliono realizzare un profitto il più possibile sproporzionato rispetto agli iniziali costi di produzione sostenuti.

Ciò significa che nel costruire il capitale costante il tempo è "necessario" solo nel modo in cui l'intende la classe capitalistica nel suo complesso. La macchina, in tal senso, non ha solo un tempo limitato dal suo progressivo logorio, ma ha pure un tempo "nascosto", che scorre assai più velocemente e che quindi è più corto di quello "ufficiale": è il tempo che le impone una macchina concorrente. Quindi è un tempo "psicologico". L'introduzione del macchinismo ha rivoluzionato la dimensione del tempo, che, nel capitalismo, ha assunto tratti patologici, dovuti appunto allo stress della competizione.

Il capitalista della macchina "A" sa, in anticipo, cioè prima ancora di farla funzionare, di avere meno tempo a disposizione di quello che gli concederà la sua stessa macchina, poiché sa che da un'altra parte esiste un capitalista che, con la sua macchina "B", farà di tutto per rovinarlo o, in attesa di averla, per carpirgli i suoi segreti industriali. Ecco perché il capitalista della macchina "A" non aspetterà ch'essa si logori, prima di ristrutturla, ma farà in modo di farla lavorare al massimo, nel periodo iniziale (senza preoccuparsi della sovrapproduzione), mentre nei periodi successivi cercherà, appena saprà di poterne trarre un certo utile, di sostituirla o di modificarla prima ch'essa ne abbia "fisicamente" bisogno.

Il bisogno di ristrutturare il capitale costante non dipende tanto dal logorio di quest'ultimo, quanto piuttosto dalla necessità che il capitalista ha d'incrementare continuamente il plusvalore. Ad un certo punto, infatti, la necessità di accumulare plusvalore non dipende più dall'esigenza d'imporsi sul modo di produzione precedente, sui consumi tradizionali della gente ecc.: orami questi obiettivi sono stati sufficientemente acquisiti, e il regime monopolistico-statale garantisce una relativa sicurezza. L'esigenza invece è quella di difendersi da altri monopoli che, ostili al protezionismo e favorevoli al libero mercato, minacciano di rovinarlo.

Ecco, in tal senso, si può affermare che nel momento in cui il capitalista introduce una nuova macchina, il valore di quest'ultima è maggiore rispetto a quello che si ottiene dalla divisione del tempo necessario al suo logorio, così come è diverso il prezzo dal valore della merce. Un'innovazione tecnologica permette all'inizio un plusvalore maggiore di quello che si ottiene con la stessa macchina, in buone condizioni, quando la concorrenza si è dotata di una macchina equivalente. Di qui la crescente importanza, soprattutto nell'ambito intellettualizzato dell'automazione, dello spionaggio industriale. Questo significa che il capitale costante non può né essere separato da quello variabile né posto = 0.

D'altra parte ha un che di singolare il fatto che da un lato Marx consideri il capitale costante = 0, quando tale condizione si verifica solo nelle società agrarie basate sull'autoconsumo; e dall'altro pretenda di valutare l'entità del plusvalore, quando tale grandezza presuppone il superamento di quel tipo di società. Marx ha bisogno di credere nel concetto di "tempo di lavoro socialmente necessario" per determinare l'entità esatta (matematica) del capitale costante e soprattutto del plusvalore, e non s'accorge che proprio quel tipo di capitale e di plusvalore, nell'ambito del capitalismo, vanificano l'applicazione del suddetto concetto.

Inoltre, non avendo analizzato in questa sede l'importanza del capitale costante nella formazione del plusvalore, Marx offre l'immagine di un operaio che sembra avere in sé una forza "magica" con cui creare continuamente valore aggiunto.

In realtà è solo nel capitalismo che il valore aggiunto appare nello stesso processo lavorativo; in tutte le altre formazioni esso o non appariva, oppure appariva in un'altra fase del processo lavorativo: quella "forzata" della coercizione extra-economica.

Il lavoratore ha il compito di "riprodurre il valore", o meglio, quello di "trasformarlo riproducendolo", non ha il compito di "aumentarlo", né, tanto meno, quello di "crearlo". Il valore non può essere creato ex-novo, né può essere aumentato più di quanto non possa essere riprodotto, come d'altra parte è impossibile riprodurre un essere umano che abbia caratteristiche sovrumane.

Se nel capitalismo si può costatare un aumento del valore, ciò avviene a scapito della possibilità stessa di riprodurlo usando la medesima energia: questa infatti, nel capitalismo, dev'essere sempre più "potente" perché si possa riprodurre il valore.

Per non parlare delle ricadute negative di questo processo sulla sfera etica. Col macchinismo ci si è illusi che all'aumento del valore economico potesse corrispondere l'aumento del valore etico (intendendo col termine "etica" tutta la sfera sovrastrutturale). Invece il valore dell'etica ha subìto un deprezzamento inversamente proporzionale al valore dell'economia.

L'esigenza del plusvalore -come metodo sistematico di creare valore- può nascere solo in una società antagonistica, dove gli interessi di pochi singoli sono in contrasto con quelli della grande maggioranza. Il singolo, nei confronti della collettività, non potrebbe sussistere limitandosi a riprodurre il valore: egli ha necessariamente bisogno di un'eccedenza che lo tuteli, per ottenere la quale è disposto ad ogni cosa.

La particolarità del plusvalore capitalistico, in tal senso, è offerta, proprio dal fatto ch'essa è sorta dopo la formazione sociale feudale. Il capitalista non poteva tornare allo schiavismo tout-court: là dove l'ha fatto (in Africa e in Americalatina), o le culture locali erano troppo deboli per poterlo impedire, oppure non esisteva ancora quella cristiana, la quale, nella veste cattolico-protestante, tollera sul piano pratico e condanna su quello teorico.


Il presupposto di Marx secondo cui "la forza lavorativa è acquistata e venduta al suo valore"(p.279), nel senso che il suo valore "è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla"(ib.), è un presupposto che avrebbe senso, al limite, in una società dove il valore avesse un senso: non può certo averne in una società dove ciò che ha veramente valore è solo il prezzo di una merce.

Nella società capitalistica tutte le merci sono "equivalenti", cioè senza valore specifico: ciò che le differenzia, in ultima istanza, è solo il prezzo, poiché in virtù di questo ogni merce può essere acquistata. Non esiste alcuna merce che "non abbia prezzo", il cui valore cioè sia "senza prezzo", assolutamente incommensurabile. Nel capitalismo ciò che ha un valore personale (affettivo, sentimentale ecc.), in realtà non ha un vero valore, poiché non viene riconosciuto socialmente. Ciò che ha vero valore è soltanto ciò che sul mercato ha un prezzo, e, paradossalmente, è proprio questo modo di "valutare" che toglie alle cose il loro valore specifico, quello che può essere determinato non dal mercato ma dal contesto sociale che usa quelle cose secondo un preciso significato.

Quindi il presupposto che nel capitalismo la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, non si verifica mai, meno che mai spontaneamente. E' solo attraverso la lotta di classe che la forza-lavoro può sperare di essere acquistata al proprio valore, per quanto una lotta di classe che si limitasse a tale rivendicazione, non uscirebbe -direbbe Lenin- dai limiti del "tradunionismo".

Infatti, il vero valore della forza-lavoro non può essere deciso nella contrattazione, poiché la riduzione dell'uomo a "lavoratore" risente già dei limiti della cultura borghese. E' il capitalismo che costringe l'uomo a far valere il prezzo della propria forza-lavoro, al fine di non essere sfruttato economicamente. Ma ognuno si rende conto da sé che, superati i limiti del capitalismo, non avrà più senso misurare il "valore della forza-lavoro" in termini matematici, poiché questo valore non è misurabile, come non può esserlo quello del coraggio, dell'onore, dei principi ecc.

Il valore dell'essere umano non può essere quantificato, se non facendo astrazione dall'individuo specifico: il che è un controsenso. Il valore dell'uomo può solo essere costatato, osservando con quali capacità ed energie l'essere umano in senso lato (uomo o donna che sia, "produttivo" o "improduttivo", maggiorenne o minorenne ecc.) riesce a realizzare una società democratica, fondata sulla libertà e sulla giustizia.

Una società la cui forza-lavoro ha un altissimo valore, non ci dice nulla sul "valore" dei suoi cittadini. Nella futura società socialista nessun indice economico potrà di per sé indicare il potenziale "etico" di una popolazione. Nessuno è in grado d'individuare quale tipo di libertà vive una nazione, limitandosi ad esaminare i suoi indici produttivi, di consumo ecc.

Peraltro, se si parte dal presupposto che la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, si finisce col considerare il plusvalore come una conseguenza accessoria della contrattazione, che con una buona rivendicazione salariale potrebbe essere risolta. Questo anche se esplicitamente si sostiene che fine del capitalismo è accumulare plusvalore.

In realtà, occorre evitare l'illusione di credere che, eliminato il problema del plusvalore, il capitalismo sia, nel complesso, un sistema accettabile. E soprattutto non si deve alimentare questa illusione facendo credere che sul mercato la forza-lavoro possa essere acquistata al suo giusto prezzo. Il capitalista non parte mai da questo presupposto. Sin dall'inizio, il tempo che occorre alla forza-lavoro per riprodursi appare al capitalista sufficiente anche quando non lo è affatto.


Nel cap. VIII, dedicato alla giornata lavorativa, Marx prende in esame la possibilità da parte del capitalista di estorcere all'operaio un plusvalore assoluto.

Come già visto, Marx è partito dal presupposto che la forza-lavoro viene acquistata e venduta al suo valore. Ciò significa che una parte della giornata lavorativa è caratterizzata dal tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro.

Il plusvalore si realizza nell'altra parte della giornata, quella in cui la forza-lavoro crea un valore superiore al proprio e di cui non può beneficiare. Marx fa l'esempio che se a un operaio occorrono 6 ore per riprodurre il proprio valore, le altre 6 ore costituiscono plusvalore al 100%. Per ottenere un plusvalore superiore a questa percentuale, al capitalista basta prolungare la giornata di lavoro.

Il cap. VIII ha appunto lo scopo di dimostrare che la formazione del plusvalore assoluto può avvenire solo entro un limite massimo di tollerabilità, fisica e morale, relativo all'esigenza di riproduzione della forza-lavoro, altrimenti il capitalismo finisce coll'autodistruggersi, sebbene di questo non si preoccupino affatto i singoli capitalisti, che al massimo sono interessati alla possibilità di sostituire la forza-lavoro logorata con altra in esubero.

Se l'operaio si oppone al prolungamento della giornata di lavoro, il capitalista potrà giocare un'altra carta per estorcere plusvalore superiore al 100%: quella dell'intensificazione del lavoro, con la quale cercherà di costringere l'operaio a riprodurre il proprio valore non in 6 ore, ma ad es. in 4 o in 2. Questo plusvalore è detto relativo, ma col termine di "intensificazione del lavoro" Marx non intende qui che la riduzione del tempo di lavoro necessario e non anche l'uso della rivoluzione tecnico-scientifica applicata alla produzione (vedi ad es. la catena di montaggio). Di questo egli parlerà nel cap. X.

"Il capitale -dice Marx- non ha inventato il pluslavoro. In ogni luogo in cui una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al proprio mantenimento un tempo di lavoro eccedente per la produzione dei mezzi di sussistenza del possessore dei mezzi di produzione"(p.285). Infatti, l'assurdità dei sistemi antagonistici è che proprio chi detiene il monopolio dei mezzi produttivi è il più "improduttivo" e deve farsi mantenere dal lavoro forzato di chi è nullatenente.

"Ma è evidente -prosegue Marx, e questo è veramente importante- che se in una formazione sociale prevale il valore d'uso del prodotto più che il suo valore di scambio, il pluslavoro è allora limitato ad una quantità più o meno grande di bisogni, ma dal carattere stesso della produzione non sorge alcun insaziabile bisogno di pluslavoro"(ib.), cioè lo sfruttamento trova un limite nella capacità di consumo dello stesso sfruttatore.

E' appunto questo che, in ultima istanza, fa la differenza tra una formazione sociale antagonistica pre-capitalistica e una capitalistica. Che nella prima prevalga il valore d'uso non significa, ovviamente, che non sia conosciuto e apprezzato il valore di scambio, ma è solo nel capitalismo che questo valore ha una priorità assoluta. Prima del capitalismo il denaro veniva accumulato per acquisire potere politico, economico ecc. Col capitalismo il denaro viene accumulato per se stesso, cioè anche dopo che si è ottenuto il potere politico, economico ecc. Il denaro diventa "padrone" di colui che lo possiede. Non sono tanto i beni acquistati col denaro che vengono accumulati, ma è il denaro stesso che viene accumulato. Il suo potere di astrazione raggiunge, nel capitalismo, la vetta suprema.

"Perciò -dice ancora Marx- nell'antichità il lavoro eccessivo appare in maniera incredibile dove si deve ottenere il valore di scambio nella sua indipendente forma di moneta, ossia nella produzione di oro e di argento. In questo caso, la forma ufficiale del lavoro eccessivo è lavorare sotto costrizione fino a che si muoia"(ib.). Nelle formazioni schiavistiche i metalli pregiati servivano per acquistare, ovvero per soddisfare bisogni di varia natura (materiali, di prestigio, di vanità ecc.); nel capitalismo invece servono per investire in attività produttive (o anche solo finanziarie) con le quali si possono accumulare capitali.

Marx ha colto bene le differenze fenomeniche, ma non ha compreso la causa culturale che le ha generate. Il passaggio da una formazione antagonistica pre-capitalistica a una capitalistica, è dipeso -a suo giudizio- dalla spinta "verso un mercato internazionale"(ib.), cioè dalla costatazione che la vendita dei prodotti all'estero poteva comportare maggiori profitti. Per Marx il capitalismo è nato a causa di un allargamento della sfera commerciale, la quale, a sua volta, presuppone una forte divisione del lavoro ecc. Non ci sono altre spiegazioni genetiche.

Se Marx si fosse preoccupato di analizzare in modo culturale l'origine delle diverse forme dei sistemi antagonistici, non avrebbe considerato la transizione al capitalismo come un evento necessario, ineluttabile. Inoltre avrebbe evitato di mettere sullo stesso piano "l'orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc." con "l'orrore civilizzato dell'eccesso di lavoro"(p.286). La differenza infatti non sta semplicemente nel diverso tipo di sfruttamento, ma anche e soprattutto nel diverso tipo di civiltà.

Marx non trae alcuna positiva conseguenza dal fatto che "nella forma della corvée il pluslavoro è separato completamente dal lavoro necessario"(p.287). In altre parole, a un lavoro chiaramente "forzato" in una metà della giornata e "libero" nell'altra metà, egli preferisce un lavoro "forzato" per tutta la giornata, poiché ciò, a conti fatti, toglie ogni illusione al lavoratore e lo costringe a reagire.

Tuttavia, la figura dell'operaio risulta alquanto controversa nell'analisi del Capitale. Da un lato l'operaio sa sin dall'inizio che il capitalista compra la sua forza-lavoro per sfruttarla al massimo (poiché la forza-lavoro è una merce che crea un valore più grande di quanto essa stessa costi); dall'altro però l'operaio si ribella non tanto alla contrattazione sul mercato e neppure al primato dell'industria sull'agricoltura e l'artigianato, quanto piuttosto al fatto che la distribuzione del plusvalore è ingiusta perché privata, cioè si ribella solo quando s'accorge che il capitalista, per ottenere sempre più plusvalore, fa di tutto per prolungare la giornata lavorativa. "La voce dell'operaio, che s'era zittita nel turbine incalzante del processo di produzione, d'un tratto sorge" -dice Marx (p.282).

Il pregiudizio di Marx nei confronti del mondo contadino-feudale è ben visibile laddove egli parla della servitù della gleba e delle corvées nei principati danubiani. Il pregiudizio non era dovuto solo a una scarsa cognizione scientifica della formazione feudale (l'unico testo citato è quello di E. Regnault sulla Storia politica e sociale dei principati danubiani), ma anche e soprattutto alla convinzione che il mondo contadino, ostile di per sé alla transizione verso il capitalismo, non avrebbe mai potuto collaborare con gli operai per realizzare il socialismo, la cui transizione -secondo Marx ed Engels- presupponeva necessariamente lo sviluppo del capitalismo.

In una nota alla terza edizione, Engels ha evidenziato il proprio pregiudizio riconoscendo che il contadino tedesco, nel sec. XV, era sì obbligato alle corvées, ma per il resto era libero, de facto e, in certi territori, anche de jure. Engels mise questa nota per mostrare che la libertà goduta dai contadini danubiani non era molto diversa da quella dei contadini tedeschi. E tuttavia egli esprime questo giudizio sostenendo che i contadini tedeschi persero la loro libertà a causa della guerra contro i nobili, per cui essi non avrebbero potuto in alcun modo costituire un'alternativa al capitalismo.

Engels qui ha dimenticato di aggiungere che la sconfitta dei contadini, intenzionati a realizzare un comunismo agricolo, fu determinata, in primo luogo, non tanto dalla resistenza dei nobili, quanto piuttosto dall'appoggio che questi ottennero da parte della borghesia. In Germania la borghesia non riuscì a trovare nei contadini un potente alleato contro la nobiltà, perché sapeva che le loro rivendicazioni erano, sin dall'inizio, anche anti-borghesi.

Inoltre Engels non voleva ammettere la possibilità che, ai suoi tempi, in Russia il movimento anticapitalistico potesse trovare nel mondo rurale la sua base sociale prioritaria. Il pregiudizio stava appunto nel fatto che per Engels se i contadini tedeschi, che pur erano liberi, non riuscirono ad opporsi né alla nobiltà né alla borghesia, per quale ragione i contadini russi -per lui meno liberi di quelli tedeschi- avrebbero potuto costituire un'eccezione alla regola?

Per Marx il modo di produzione feudale delle province rumene era "primitivo", ma non come quello della "forma slava o addirittura indiana", che conoscevano solo la "proprietà comune"(p.288) e che, per questo, impedivano all'uomo di formarsi come individuo libero. Tale giudizio era condiviso anche da Engels.

Per Marx non esiste libertà senza proprietà privata. Nelle province rumene "una parte delle terre era coltivata in forma indipendente dai membri della comunità, quale libera proprietà privata..."(ib.). Era questa proprietà che rendeva "liberi" e non quella "lavorata in comune" per avere un "fondo di riserva", in caso di cattivi raccolti, o una sorta di "tesoro pubblico" col quale sostenere "le spese della guerra, della religione e di altri bisogni della comunità"(ib.).

La crisi di queste comunità sorse -secondo Marx- solo nel momento in cui "dignitari militari ed ecclesiastici usurparono la proprietà comune e allo stesso tempo i servizi che le erano connessi"(ib.). Per Marx la differenziazione della libera proprietà privata dalla proprietà comune non era un indice di regresso della comunità bensì di progresso.

Il pregiudizio di Marx nei confronti dei popoli slavi s'accentua proprio laddove egli afferma che fino a quando la "Russia liberatrice del mondo" (detto con ironia) non arrivò nei Balcani, la servitù della gleba era solo di fatto e non di diritto. Fu appunto "col pretesto di abolire la servitù della gleba [che essa] la sollevò a legge"(ib.).

In realtà, rispetto al feudalesimo turco e persiano, quello russo era sicuramente meno devastante, più sviluppato sul piano economico-culturale: non a caso fu accolto, almeno in un primo momento, dai contadini asserviti, come un evento liberatorio. E comunque la Russia intervenne solo in seguito alle sollevazioni dei contadini danubiani.

Quanto alle riforme del conte P.D. Kisilev, proprio con esse si voleva impedire uno sfruttamento dei contadini assolutamente arbitrario, come appunto avveniva nell'impero turco e persiano. Non solo, ma al conte Kisilev, ch'era ministro del demanio statale, si devono far risalire i tentativi, non riusciti, di mediare le esigenze della nobiltà feudale con quelle dell'emergente ceto dei contadini ricchi, che riceveva dall'erario crediti e aiuti agrotecnici.

Dovendo scegliere fra il Regolamento organico del conte Kisilev e i Factory Acts inglesi, Marx non ha dubbi: "queste leggi frenano l'impulso del capitale a sfruttare oltre misura le forze lavorative, tramite la limitazione della giornata lavorativa imposta in nome dello Stato..."(p.290), limitazione -precisa Marx- "imposta dalla necessità", quella di permettere alla forza-lavoro di riprodursi.

Ovviamente sarebbe assurdo sostenere che un qualunque "codice feudale" possa essere considerato più "democratico" di una qualunque legislazione statale sulla regolamentazione dell'orario di lavoro nelle fabbriche capitalistiche; e tuttavia non è meno insensato sostenere che mentre attraverso il Regolamento organico si faceva di tutto per "sfruttare" il contadino, attraverso i Factory Acts invece si cercava d'impedire lo sfruttamento selvaggio degli operai inglesi.

E' davvero singolare che uno storico come Marx non abbia compreso come nel primo caso l'osservatore deve dare per scontata la "libertà" dei contadini, mentre nel secondo caso deve dare per scontata la "schiavitù" degli operai. I nobili infatti non avrebbero cercato di fare l'impossibile pur di sfruttare i contadini se questi non avessero goduto di una relativa libertà. Viceversa, nei confronti degli operai tutto il possibile i capitalisti già l'avevano fatto, per cui agli operai non restava che lottare per avere un minimo di libertà.

Di fatto, il tipo di sfruttamento cui veniva sottoposto il contadino non ha mai conosciuto analoghe forme alienanti, oppressive e distruttive come quelle in cui si caratterizzò lo sfruttamento dell'operaio inglese (poi europeo, americano ecc.) agli albori del capitalismo. Si pensi solo all'impiego massiccio in fabbrica dei bambini, alle tante malattie professionali, alla fame causata dalla disoccupazione, alla breve durata della vita media, ma anche alla stessa intensità della giornata lavorativa, che praticamente conosceva solo le pause previste per il mangiare e il dormire. Le condizioni degli operai inglesi, "liberi cittadini" della loro nazione, non erano molto diverse da quelle degli antichi schiavi del mondo romano o delle civiltà pre-colombiane al tempo di Cortès e Pizarro.

Marx, peraltro, parlando dei Factory Acts, li presenta come se fossero nati da un'idea spontanea del governo inglese e non come il frutto della rivendicazione del movimento operaio. La "voce dell'operaio" -sorta a p.282, per far notare al capitalista, non senza un certo fair-play, che la forza-lavoro è una merce che, creando valore aggiunto, va comprata a un prezzo equo e usata in un tempo di lavoro ragionevole - s'è di nuovo spenta nel corso dell'analisi delle inumane condizioni di lavoro delle fabbriche inglesi.

Praticamente, secondo Marx, è stato "nell'interesse stesso del capitale adottare una giornata lavorativa normale"(p.328), poiché esso s'è accorto che "il prolungamento della giornata di lavoro non produce solo il deperimento della forza lavorativa dell'uomo, derubato delle sue normali condizioni fisiche e morali, di sviluppo e di realizzazione. Essa produce anche l'esaurimento e il precoce spegnersi della forza lavorativa stessa"(p.327). Il che, per un capitalista -dice Marx-, dovrebbe essere un controsenso. E' vero che "al capitale non interessa nulla quanto duri la vita della forza lavorativa"(ib.), ma è anche vero che se questa vita dura troppo poco "si rende necessario un più celere rimpiazzamento degli operai esauriti, perciò si rendono necessari maggiori spese per l'esaurimento della forza lavorativa che si deve riprodurre"(p.328).

In che cosa consistano queste "maggiori spese" Marx non lo dice chiaramente. Esse non stanno, in effetti, nel salario, poiché fino a quando esiste una sovrappopolazione di ex-contadini ed ex-artigiani, i salari saranno tenuti sempre bassi. Esse neppure si riferiscono alla professionalità acquisita dall'operaio nel corso dell'attività lavorativa, poiché Marx aveva già escluso in precedenza la possibilità che esistano all'interno della fabbrica operai più importanti di altri, il cui plusvalore sia decisamente superiore. Le "maggiori spese" non consistono neppure nel fatto che se la forza-lavoro muore troppo velocemente, al capitalista restano invendute le merci con le quali essa dovrebbe riprodursi: infatti le merci del capitale inglese venivano allora vendute prevalentemente all'estero. Come avrebbero potuto acquistarle coloro che avevano salari da fame?

Secondo Marx le suddette spese si riferiscono semplicemente al fatto che con uno sfruttamento eccessivo si genera "un inevitabile spopolamento"(p.333), anche se di questo il singolo capitalista non si preoccupa affatto. Le condizioni del neonato capitalismo erano così dure che la rovina più grave era anzitutto quella dell'annientamento fisico dei lavoratori. Oggi condizioni del genere si ritrovano solo in certe zone del Terzo mondo.

In realtà, la riduzione della giornata lavorativa, oltre ad essere stata l'esito di molte battaglie sindacali, è nata anche dal fatto che i capitalisti inglesi non potevano comportarsi in Europa come i loro colleghi negli Stati americani del sud, ove gli schiavi (già al tempo degli spagnoli) potevano essere tranquillamente rimpiazzati dalle riserve africane. La cultura euroccidentale, per quanto cinica fosse, non avrebbe permesso un trattamento analogo sui propri cittadini, anche se poi, alla resa dei conti, tra lo sfruttamento del libero operaio inglese e quello dello schiavo negro afro-americano la differenza era minima.

Viceversa, per Marx l'adozione di una giornata lavorativa normale è dipesa principalmente dal fatto che la "libera concorrenza" dei capitalisti ha determinato "un intervento coercitivo dello Stato", nel senso che alla volontà dei singoli capitalisti di sfruttare ad libitum, si sono opposte "le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne"(p.334). Cioè a dire, quelle stesse ragioni che avevano portato il capitalista a distruggere il genere umano, per realizzare un profitto, lo hanno altresì portato a conservarlo per realizzare il medesimo profitto. A questo punto però diventa pura retorica sostenere -come fa Marx- che "lo stabilirsi della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta di più secoli tra capitalista e operaio"(p.335).

Dalla sua analisi si può dedurre solo una motivazione alla nascita dei Factory Acts: evitare la strage dei lavoratori, o quanto meno che dalla loro degenerazione psico-fisica si abbiano delle ricadute negative sul piano del profitto economico. Una motivazione, questa, che appare chiaramente di ripiego, conseguente al fatto che i capitalisti inglesi non potevano sfruttare la manodopera salariata con la stessa libertà dei piantatori di cotone americani.

Considerare la legislazione sulle fabbriche inglesi del sec. XIX come più "democratica" rispetto agli statuti del lavoro inglesi dei secoli XIV-XVIII, semplicemente perché qui si cercava di "prolungare" la giornata lavorativa, mentre là di cerca di "abbreviarla", significa non avere un elevato senso di storicità (cioè di obiettività) delle cose.

Nei secoli XIV-XV avvenne in Inghilterra, a causa della nascita dei rapporti mercantilo-monetari, il tentativo da parte del ceto feudale e imprenditoriale di costringere i contadini e gli operai salariati a produrre più corvées o ad accettare bassi salari. Cioè la coercizione extra-economica era dettata da fattori esogeni, che non dipendevano dall'economia feudale in sé, per quanto proprio le contraddizioni del servaggio inducessero molti a cercare delle alternative nei commerci e nell'attività imprenditoriale a scopo di lucro.

Viceversa, nel secolo di Marx il capitalismo è stato costretto a diminuire il tempo della giornata di lavoro a causa degli squilibri ch'esso stesso aveva provocato, e non perché da qualche altra parte esisteva un modo di produzione alternativo che con tutti i mezzi cercava di farsi strada.

"Occorrono dei secoli -dice Marx-, affinché il "libero" lavoratore, in seguito allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, si adatti di propria volontà, cioè affinché sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi normali mezzi di sussistenza tutto il periodo attivo della propria vita..."(p.335). Ciò è vero, ma è singolare che qui Marx faccia coincidere la necessità sociale di vendere sul mercato la propria forza-lavoro con la libera volontà di farlo. E' forse mai esistito un momento, nella storia del capitalismo, in cui la forza-lavoro si sia venduta sul mercato soddisfatta di sé, cioè nella consapevolezza che in tal modo essa avrebbe sicuramente e definitivamente superato i limiti del modo di produzione pre-capitalistico? Limitandosi ad osservare la resistenza degli operai al capitalismo, Marx non è mai riuscito ad accorgersi di quella del mondo contadino.

"Non appena la classe operaia, frastornata dal fracasso della produzione, cominciò in qualche maniera a riaversi, dette inizio alla sua resistenza..."(pp.346-7). "Frastornata dal fracasso della produzione"? In realtà il contadino era diventato operaio dopo che per secoli aveva disperatamente lottato contro il capitale. Sì, era "frastornato", ma per essere uscito pesantemente sconfitto da quella guerra. Sconfitta dovuta -qui ha ragione Marx- al proprio "isolamento": "il lavoratore isolato, il lavoratore quale "libero" venditore della propria forza lavorativa, soccombe irrimediabilmente quando la produzione capitalistica è giunta a un certo livello di maturità"(p.375). Solo che tale "isolamento" -e questo Marx non l'avrebbe mai ammesso- non era affatto una caratteristica della società agricola, ma una conseguenza del capitalismo (nelle campagne).

Il fatto che, dopo essersi "riavuto", il contadino, in qualità di "operaio", abbia ricominciato a lottare contro il capitale, esigendo almeno una giornata lavorativa normale, ci aiuta senz'altro a capire lo scarso livello di consapevolezza politica del "mondo" che aveva lasciato, ma non ci autorizza a pensare che non vi fu alcuna forma di "resistenza" prima del lavoro in fabbrica. Non foss'altro perché proprio questo tipo di rivendicazione viene considerata, dallo stesso Marx, come il primo esempio di lotta operaia contro il capitale.

Ciò che più stupisce però è che Marx, dopo aver fatto un elenco incredibile di casi in cui il capitalismo mostra tutta la propria disumanità, considera l'adozione di una giornata lavorativa normale (il Bill delle 10 ore del movimento cartista) come una misura convincente per la risoluzione del problema dello sfruttamento capitalistico, quando tale riduzione -a detta dello stesso Marx- tornava utile proprio al capitalismo! Marx qui sembra farsi portavoce non degli interessi del proletariato, ma della borghesia imprenditoriale più progressista o più illuminata, la cui "scienza economica" aveva superato i limiti individualistici dell'economia politica classica (che portavano alla figura del "capitalista-vampiro").

Quale borghesia, infatti, non ha accettato il Bill delle 10 ore? Quella più ottusa e rapace, quella che si è difesa riducendo i salari del 10%, ripristinando il lavoro notturno, eliminando gli intervalli legali per i pasti ecc., quella che ha provocato la disfatta del partito cartista, mettendo al bando la classe operaia: in sostanza quella stessa borghesia che alla fine ha dovuto adattarsi all'inevitabile, mettendosi "l'animo in pace"(p.371).

La prima edizione del Capitale è stata scritta nel 1867. Marx può qui costatare che dopo il 1860 "la forza di resistenza del capitale s'andava gradualmente indebolendo, mentre allo stesso tempo la forza d'urto della classe operaia s'ingradiva col numero degli alleati che s'era procurata negli strati della società che non erano interessati direttamente"(p.371). E così "si verificò un progresso relativamente rapido"(ib.).

Senza saperlo, Marx stava assistendo al passaggio del capitalismo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica e imperialistica. Purtroppo egli non s'era reso conto come al miglioramento delle condizioni lavorative degli operai inglesi, dopo il 1860, avesse fatto seguito il netto peggioramento delle condizioni lavorative del sottoproletariato delle colonie inglesi. A suo parere, il progresso era avvenuto perché il capitale aveva accettato i propri limiti, permettendo alla lotta di classe di conseguire i suoi obiettivi. Infatti, anche se negli Stati Uniti il movimento operaio stava già lottando per una giornata lavorativa di 8 ore, il problema di far passare una posizione di principio il proletariato europeo l'aveva risolto: "è impossibile riuscire a compiere ulteriori avanzamenti verso la riforma della società, se dapprima non viene limitata la giornata lavorativa e non viene imposta obbligatoriamente l'osservanza della limitazione stabilita"(parole dell'ispettore di fabbrica inglese, R.J. Saunders, fatte proprie da Marx, p.379).

In sé la considerazione era giusta. Il guaio però è che l'analisi di Marx, in questo capitolo, si ferma qui, lasciando così credere che la transizione al socialismo potesse avvenire in maniera graduale, di riforma in riforma. Con ciò, in sostanza, non si riesce a intravedere la consapevolezza che le riforme solo utili solo se aiutano gli operai ad acquisire quella maturità politica sufficiente a capire che una riforma senza rivoluzione non fa che perpetuare, razionalizzandola, la loro condizione di schiavitù salariata.


Marx conclude la III sezione, dedicata al plusvalore assoluto, sintetizzando nel cap. IX i risultati fin qui raggiunti. L'argomento in questione è il saggio e la massa del plusvalore. La determinazione del saggio del plusvalore, partendo dal valore costante della forza-lavoro, nonché dalla grandezza costante della giornata lavorativa, appare, nell'analisi di Marx, come un'operazione matematica relativamente facile, ed in effetti lo è, se si considera la forza-lavoro e la giornata lavorativa in una maniera astratta.

In realtà, né l'una né l'altra sono costanti, ma sempre soggette a un movimento reciprocamente opposto. Il capitalismo è come un letto di Procuste che incessantemente cerca di diminuire il valore della forza-lavoro e di allungare il tempo di lavoro per estorcere plusvalore. In tal senso, stabilire con gli strumenti della matematica un saggio regolare del plusvalore è quanto di più inutile si possa fare. Il calcolo razionale, economico, può avere una qualche ragione scientifica solo in un contesto sociale ove la produzione sia tenuta sotto controllo dagli stessi produttori e consumatori.

Anche nei confronti della massa del plusvalore, Marx è costretto a ipotizzare un valore medio della forza-lavoro, ovvero un operaio medio, che nella realtà non esiste. Si può parlare di "valore medio" in riferimento a una singola unità produttiva, ove gli operai fanno cose equivalenti. Ma appena ci si allontana dalle mansioni prevalentemente manuali e ci si avvicina a quelle intellettuali, ecco che il concetto di "valore medio" perde di ogni significato, e non solo mettendo a confronto le due diverse mansioni, ma anche all'interno della mansione intellettuale, ove la possibilità, per un tecnico, di distinguersi da un collega è assai maggiore di quella che può avere un operaio nei riguardi di altri operai. Persino tra quest'ultimi la possibilità di distinguersi è strettamente correlata all'applicazione di un ragionamento logico-funzionale a mansioni standardizzate, cioè ripetitive, al fine di modificarle in maniera creativa. La possibilità di modificare il valore delle cose, trasformandolo, è prerogativa della forza-lavoro appunto in questo senso, che è poi quello che frena il desiderio del capitalista di sostituire in toto l'operaio con la macchina.

Ciò ovviamente non significa ch'esiste la possibilità, nell'ambito del capitalismo, di pagare l'operaio o il tecnico per il plusvalore che produce. La forza del capitalismo sta proprio nella capacità che ha di estorcere un plusvalore maggiore sfruttando le doti intellettuali dei lavoratori.

Dunque è impossibile determinare il saggio medio del plusvalore nel lungo periodo. Non solo per le ragioni viste sopra, ma anche perché, sotto il capitalismo, nessun imprenditore può mai controllare al 100% le condizioni del mercato. Un capitalista avrebbe tutto l'interesse ad avere valori costanti che gli permettessero di realizzare un determinato profitto costantemente, ma siccome sa quanto ciò sia relativo, egli preferisce, anche in regime di monopolio, fidarsi dei risultati immediati, per i quali l'uso di ogni mezzo gli pare giustificato. Temendo l'incostanza del plusvalore, egli cerca di estorcerne, nel breve periodo, quanto più possibile.

Con la sua analisi economica, Marx ha offerto al capitalista l'illusione di poter razionalizzare il processo produttivo, evitando sprechi e investimenti sbagliati. Ma in tal modo egli non ha fatto che insegnare ai capitalisti come sfruttare al meglio gli operai. A forza di parlare dei "limiti tecnici" della produzione capitalistica, egli ha finito col proporre delle soluzioni che gli stessi capitalisti non potevano trovare che alquanto vantaggiose.

In tal senso, le tre leggi ch'egli delinea nel cap. IX, e che qui non val neppure la pena di esaminare, relativamente ai rapporti tra saggio e massa del plusvalore, numero degli operai e grandezza della giornata lavorativa, fanno certo più "comodo" al capitalista che all'operaio. Quale operaio, infatti, potrà esultare sapendo che "la offerta di lavoro che il capitale può estorcere diviene indipendente dalla offerta di operai"(p.384)? Quale operaio potrà mai consolarsi sapendo che tale estorsione non può avvenire oltre "certi limiti"? Non si fa forse un favore al capitalista spiegandogli nel dettaglio il modo in cui può ovviare al peso di questi "limiti"? Non è singolare che sia stato proprio Marx a mostrare ai capitalisti come per ottenere maggiore plusvalore bisogna puntare di più sul capitale variabile e meno su quello costante?

All'operaio, in sostanza, non resta che prendere atto di un'amara verità: "non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l'operaio. Piuttosto che essere consumati da lui come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale, e il processo vitale del capitale non è altro che il suo movimento di valore che valorizza se stesso"(p.392).

A questo punto, come non rimpiangere quell'epoca in cui "le corporazioni medievali cercavano d'impedire con la forza la trasformazione del maestro artigiano in capitalista, limitando a un massimo assai ristretto il numero dei lavoratori che il singolo maestro aveva il diritto di occupare"(p.390)?

Qui però Marx ha ragione: piuttosto che un capitalismo "strozzato" è meglio un capitalismo "libero", anche perché il primo sarebbe destinato con certezza ad essere superato dal secondo. Il fatto è che Marx, ogni volta che mette a confronto capitalismo e feudalesimo, riporta sempre degli esempi a favore del capitalismo. Questo accade perché egli intende riferirsi sempre al "basso Medioevo", allorché le pressioni del capitalismo commerciale erano già così forti da indurre, ad es., le autorità corporative a reagire con la forza. Marx non vede in tale "reazione" il tentativo di salvare un ideale, ma il tentativo di comprimere la libertà.

Marx non ha mai analizzato il momento di passaggio dall'alto al basso Medioevo, cioè la transizione dall'economia di autoconsumo alla lotta di tale economia contro quella basata sullo scambio. Non a caso egli considera la nascita del capitalismo come una semplice conseguenza della possibilità, da parte del possessore di denaro o di merci, di anticipare una somma minima per la produzione, che superasse di molto il massimo medievale consentito. E qui Marx si avvale della legge hegeliana, secondo cui "variazioni meramente quantitative, giunte ad un certo grado, si riducono a differenze qualitative"(p.390). Legge che, in ultima istanza, rifiuta di prendere in considerazione proprio il valore della libertà.

Esiste forse qualche legge cieca della storia "che obbliga la classe operaia ad effettuare un lavoro maggiore di quello che richiede la ristretta cerchia dei suoi bisogni essenziali"(p.392)? Marx ovviamente risponderebbe di no, ma perché allora considerare "ristretti" i "bisogni essenziali"? Forse grazie al fatto che il capitalismo "supera in energia, smodatezza ed efficacia tutti i precedenti sistemi di produzione basandosi sul diretto lavoro forzato"(ib.), i suddetti bisogni si sono fatti meno "ristretti"?

IL LAVORO ASTRATTO

L'idea di voler considerare "sociale" la produzione capitalistica e "individuale" quella pre-capitalistica fu un errore che Marx si trascinò sino agli ultimi anni della sua vita, allorquando il contatto col populismo russo (non dimentichiamo che, nel momento in cui venne pubblicato, il Capitale ebbe più successo in Russia che in Europa occidentale) gli fece aprire gli occhi sul valore delle risorse umane e sociali di un'esperienza rurale come quella dell'obscina.

In effetti, l'aver basato la socialità della produzione capitalistica sul "lavoro astratto" fu un'operazione più filosofica che non storiografica.

La socializzazione dei produttori, inerente al fatto che si trovano insieme a lavorare in fabbrica, è solo una maschera strumentale alla realizzazione di un profitto privato, e se vogliamo considerare "sociale" il fatto che i produttori vengono trasformati in ingranaggi che devono far funzionare la macchina che fa accumulare capitali, allora bisogna dire che i sistemi schiavistici dell'età pre-cristiana erano non meno "socializzanti" dell'attuale capitalismo.

La cosiddetta "cooperazione dei produttori" è contingente alla loro specifica mansione, tant'è che in occasione delle crisi periodiche di sovrapproduzione il loro licenziamento tronca di netto ogni forma di socializzazione produttiva. Il capitalismo, seguendo in questo la dottrina calvinista, ha posto il lavoro al di sopra dell'uomo perché ha posto il profitto al di sopra del lavoro.

E i lavoratori occidentali riescono a sopportare questa situazione disumana solo perché, mentre pensano di non avere alternative, il capitale riesce a dare loro, per sopravvivere, quello che riesce a togliere ai lavoratori del Terzo Mondo.

Marx aveva ben capito che dietro la merce - che gli economisti borghesi volevano far passare come un prodotto neutro, frutto di una libera contrattazione - c'era un rapporto sociale basato sullo sfruttamento e che tale sfruttamento trovava degli addentellati nell'alienazione religiosa. Tuttavia, il pregiudizio che nutriva nei confronti della religione lo indusse a scorgere come unica vera forma di socializzazione, nelle economie pre-capitalistiche, quella della fase dello scambio dei prodotti, che inevitabilmente era ben poca cosa rispetto a quella borghese vera e propria, in quanto basata sulle eccedenze o comunque sull'acquisto di beni particolari, che non potevano essere autoprodotti dalla comune agro-artigianale.

In sostanza egli guardava il pre-capitalismo non come realtà a sé, coi suoi pregi e difetti, ma come una realtà del tutto inferiore a una che in virtù della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico era riuscita a trasformare completamente lo stile di vita a milioni di persone.

Quando Marx diceva che se nel capitalismo la socializzazione è un a-priori della merce, nel pre-capitalismo è invece un a-posteriori, non si rendeva conto di attribuire al concetto di "socializzazione" una valenza meramente economico-produttiva, tralasciando di considerare gli aspetti socio-culturali.

Nel mondo rurale del feudalesimo ci si sentiva socializzati anche quando si svolgevano mansioni isolate o di poche persone. Non era tanto (o solo) il lavoro che teneva uniti, quanto il valore che si attribuiva allo "stare insieme": era la vita che dava un significato al lavoro. E questo nonostante la tristissima esperienza del servaggio e l'insopportabile peso del clericalismo.

Marx non ha compiuto una vera rivoluzione culturale, in quanto si è servito della falsa rappresentazione capitalistica della socializzazione per screditare non solo l'esperienza religiosa pre-borghese (il che si può capire), ma anche l'esperienza sociale sottesa a quella religiosità.

Eppure proprio quell'esperienza ci fa capire che un lavoro non acquista il carattere della "socialità" nel momento stesso in cui si diventa "macchine umane" a fianco di altre "macchine fisiche" o nel momento in cui il bene prodotto viene scambiato.

Un lavoro è "sociale" se lo è l'esistenza in cui esso si manifesta. E' la pratica del valore sociale delle cose che dà al lavoro un carattere di socialità, a prescindere dall'effettivo scambio dei prodotti e dal fatto stesso di lavorare più o meno insieme.

Infatti, se in una società è assente il concetto di proprietà privata (che comunque nel Medioevo esisteva, ma in forme molto più sopportabili di quelle odierne, in quanto la capitalizzazione delle derrate era vincolata al consumo che se ne poteva fare e l'accumulo di terre aveva più che altro lo scopo di soddisfare ambizioni di potere politico o di prestigio personale), ogni bene prodotto è prodotto per tutti, è "sociale" per definizione, come un aspetto immanente alle cose.

Viceversa, nel capitalismo un bene diventa sociale solo quando si trasforma in merce, cioè quando viene scambiato contro denaro sul mercato. Se, per un qualunque motivo (p.es. la sovrapproduzione o la concorrenza di un prodotto analogo), non potesse esserci lo scambio, il bene resterebbe invenduto e, benché frutto di un collettivo di produttori aziendali, esso non avrebbe alcun carattere di socialità; il che dimostra, in maniera evidente, come lo scambio serva per realizzare un'attività antisociale per antonomasia: l'accumulo privato di capitali.

E' stata proprio la trasformazione del concetto di valore da etico a economico (p.es. ha valore solo ciò che ha un prezzo o che permette di realizzare profitti) che ha distrutto ogni forma di socializzazione. Se Marx avesse analizzato senza pregiudizi ideologici le formazioni pre-capitalistiche si sarebbe accorto che la misura del valore delle cose non sta tanto (o solo) nel tempo socialmente necessario per produrle, quanto piuttosto nell'importanza etica, culturale che la comunità attribuisce loro. Una cosa può avere molto valore anche se per produrla è occorso un tempo relativamente breve, non viene venduta sul mercato e i mezzi impiegati per produrla non sono di gran pregio: è il caso del vino per i contadini romagnoli, simbolo principale di un intero stile di vita.

Il tempo di lavoro socialmente necessario è una definizione astratta se applicata al sistema capitalistico, in quanto la determinazione dei prezzi delle merci tiene conto solo in minima parte di quella definizione. Non essendoci un valore "etico" delle cose l'instabilità, inclusa quella economica, è la regola sotto il capitale (lo dimostrano continuamente la sfrenata concorrenza, l'inflazione, i licenziamenti in caso di sovrapproduzione, il ricorso all'avventurismo bellico ecc.)

Oggi non è più così pacifico che una libertà formale sia sempre meglio di una servitù reale.

FETICISMO DELLE MERCI

Isaak Rubin, nel 1928, disse che "la teoria del feticismo della merce di Marx non è mai stata valutata adeguatamente nell'ambito dell'economia marxista"(Saggi sulla teoria del valore di Marx, ed. Feltrinelli, Milano 1976, p.5). Ebbene, da allora non sono stati fatti molti progressi. Il motivo è semplice: è impossibile formulare un'ipotesi alternativa al sistema capitalistico senza recuperare il meglio della società agricola feudale.

Marx si rese conto che un valore di scambio staccato dal suo valore d'uso è il sintomo di una società divisa in classi antagonistiche. E si rese anche conto che se avesse puntato la sua attenzione sul recupero, mutatis mutandis, del valore d'uso, non sarebbe uscito dall'empasse in cui era finito il socialismo utopistico, il quale s'illudeva di poter conservare, nel particolare, il valore d'uso, mentre a livello di società generale dominava quello di scambio.

Tuttavia, piuttosto che uscire dall'ambito dell'economia politica ed entrare in quello dell'organizzazione politico-rivoluzionaria del passaggio al socialismo, Marx ha preferito analizzare in profondità i meccanismi del valore di scambio e le sue interne contraddizioni. Questa scelta di campo lo ha portato a credere, da un lato, che nel sistema capitalistico esistono delle leggi obiettive che lo portano al crollo (cosa insostenibile sul piano logico e che non si è verificata storicamente); e, dall'altro, che, in ultima istanza, il valore di scambio non deve sottostare a quello d'uso, ma solo a una programmazione razionale di tutte le risorse, resa possibile dalla socializzazione dei mezzi produttivi.

Il feticismo delle merci, in tal senso, è sì una conseguenza del primato del valore di scambio, ma se questo primato esistesse in una società socialista -sembra dire Marx- non si avrebbe alcun feticismo. A riprova di ciò si deve sottolineare che quando Marx parla di feticismo delle merci, i protagonisti in gioco sono sempre dei produttori privati indipendenti, i quali sono, a loro volta, reciprocamente consumatori del prodotto altrui. Il feticismo è sì una conseguenza dell'indipendenza dei produttori privati, ma in ciò Marx non considera la contemporanea espropriazione del produttore diretto dalla proprietà dei mezzi produttivi. Questo aspetto verrà analizzato in un secondo momento.

Il primato del valore di scambio, in sostanza, va superato semplicemente perché esso presuppone un tipo di rapporto sociale alienato (che trova un riflesso nel feticismo); non va superato recuperando, senza il servaggio, il primato del valore d'uso della società agricola feudale. Marx era così contrario a questa società che preferì piuttosto pensare a un socialismo quale ripetizione "socializzata" del modo di vivere "individualistico" di Robinson.

L'economista sovietico Rubin era convinto che il capitolo sulla merce non lo si poteva comprendere se prima non si leggeva l'ultimo § dedicato al feticismo. Solo in questo § infatti si elabora una soluzione alternativa al capitalismo. Tuttavia Rubin non capì che Marx non potè elaborare un'alternativa al valore di scambio proprio perché rifiutava il primato del valore d'uso. Il capitolo sul feticismo, in tal senso, offre un'alternativa al capitalismo, ma, conservando i pregiudizi nei confronti del mondo contadino, finisce anche coll'aprire le porte alla trasformazione del feticismo da economico a politico-ideologico.

La possibilità di conservare il primato del valore di scambio in una società socialista, in virtù della pianificazione generale (statale) di tutte le risorse, può dipendere, in effetti, soltanto dal consenso che le masse manifestano nei confronti di un ideale politico. In tal modo però si finisce col sostituire al feticismo delle merci quello del "piano".


"Il carattere mistico della merce [ovvero la sua natura "sensibilmente soprasensibile"] -dice Marx- non deriva dal suo valore d'uso"(p.70). Finché una merce soddisfa dei bisogni umani o è semplicemente il prodotto di un lavoro umano, non c'è nessun mistero da svelare.

L'enigma "non deriva neanche dal contenuto delle determinazioni di valore"(ib.), cioè "sostanza" e "grandezza" di valore, poiché da sempre gli uomini si sono interessati a distinguere la quantità di lavoro occorsa per produrre una merce dalla sua qualità.

Il prodotto di lavoro diventa "una cosa intricatissima" quando assume "forma di merce". Per quale ragione? "Il segreto della forma di una merce -spiega Marx- sta nel fatto che tale forma ridà agli uomini [dopo avergliela tolta], come uno specchio, l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose [cioè nascondendo il lato antagonistico, "innaturale", di quelle proprietà: quel lato che l'economia politica classica non è mai riuscita a individuare], e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esiste al di fuori dei produttori", cioè al quale essi sono soggetti (p.71). Nell'economia mercantile è "il processo di produzione che regola gli uomini"(p.82).

Ma perché avviene questo "qui pro quo"? Perché da un lato i produttori eseguono dei lavori privati "gli uni indipendentemente dagli altri"(p.72); dall'altro "solo tramite lo scambio dei prodotti del loro lavoro stabiliscono un contatto sociale"(ib.). In altre parole, le relazioni sociali dei loro lavori privati non sono "rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori, ma rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose"(ib.).

Là dove gli uomini credono di avere, tra loro, un rapporto sociale, in realtà hanno solo un rapporto "reificato", nel senso che il rapporto sociale è mediato anzitutto dalla compravendita di una merce; viceversa, là dove credono di avere un rapporto naturale con le cose, in realtà hanno un rapporto "artificiale", poiché le merci, in un certo senso, si "personificano", permettendo agli uomini d'incontrarsi solo in una determinata maniera: quella fra produttore e consumatore. Questo tipo di relazione, essendo l'unico dominante a livello sociale, è in grado d'influenzare ogni aspetto della vita pubblica e privata, sociale e personale, anche gli aspetti non direttamente legati al luogo fisico del mercato o del negozio.

In sintesi dunque la merce nasce da un rapporto sociale alienato ed essa stessa, a sua volta, riproduce questo rapporto. La merce esiste anzitutto non per l'uso ma per essere venduta e comprata, esiste non per le sue intrinseche qualità, che aiutano a rendere migliore l'esistenza, ma per la quantità di denaro che permette di guadagnare. Essa domina incontrastata, nella società mercantile, non solo perché è frutto di una separazione tra produttore e proprietà dei mezzi lavorativi, ma anche perché il consumatore s'illude, comprandola, d'aver acquistato un bene utile, indispensabile.

Il rapporto sociale che trasforma un oggetto d'uso in merce è già di per sé un rapporto alienato, diviso, antagonistico. La merce è un modo per giustificare la propria alienazione. L'illusione del produttore alienato è quella di superare la propria alienazione nella misura in cui produce quante più merci può. L'illusione sta nel credere che un processo meramente economico e quantitativo possa superare una forma di alienazione sociale di tipo qualitativo (cioè ontologica).

Marx constata che questa illusione si verifica anche nel mondo religioso, allorché "i prodotti della mente umana [ad es. gli dèi] sembrano essere dotati di una propria vita"(p.71). La merce dà l'illusione di un rapporto sociale diretto tra gli uomini, così come i sacramenti danno l'illusione di un rapporto mistico, non meno diretto, tra gli uomini e la divinità. Essendo i rapporti sociali della borghesia basati sull'antagonismo di classe (in una maniera ancora più accentuata che nel Medioevo, poiché ora l'accumulazione e il profitto non conoscono limiti naturali), l'alienazione viene semplicemente trasferita dal rapporto dell'uomo col "cielo" al suo rapporto con la "terra". La borghesia non ha fatto che secolarizzare una mentalità e un comportamento che nel Medioevo erano religiosi.

Tuttavia Marx non arriva a concludere che il feticismo delle merci sia la conseguenza di un certo modo di vivere l'ideologia religiosa. Nella sua analisi, al massimo, i due "feticismi" procedono parallelamente, influenzandosi a vicenda, ma la ragione ultima di quello religioso sta sempre in quello economico. E' il cristianesimo che "corrisponde" al capitalismo. A tale proposito viene detto in una nota a p.85: "il Medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. Al contrario, la maniera di guadagnare la vita rende chiaro perché la parte più importante era rappresentata là dalla politica, qua dal cattolicesimo". Col che Marx considera la sovrastruttura in un rapporto solo passivo, di mero rispecchiamento, rispetto alla struttura correlata, e si è lasciato così sfuggire l'occasione di conoscere il modo come questa sia influenzata da quella.

D'altra parte Marx non va a cercare il motivo del feticismo nella sfera dell'ideologia ma in quella dell'economia: "gli uomini equiparano gli uni con gli altri i loro diversi lavori come lavoro umano, equiparando nello scambio gli uni con gli altri, come valori, i loro eterogenei prodotti. Ignorano di fare questo, ma lo fanno"(p.73).

Detto altrimenti: il feticismo dipende dal fatto che l'uguaglianza dei lavori e quindi dei produttori viene fatta risalire, magicamente, all'uguaglianza delle merci sul mercato. E tale uguaglianza, a sua volta, parte dal presupposto che i lavori tra loro siano socialmente uguali, in quanto tutti riconducibili all'astratto lavoro umano (quello che l'economia classica non riuscì a capire).

L'illusione quindi si pone a un duplice livello: da un lato si deduce l'uguaglianza sociale dall'equivalenza delle merci sul mercato; dall'altro si deduce che l'indipendenza dei produttori privati, ovvero la loro uguaglianza, possa riflettersi nell'equivalenza delle merci. La "socializzazione" del lavoro non si verifica "a monte", cioè sul luogo produttivo, che resta individuale, ma "a valle", cioè sul mercato, e si verifica solo in rapporto alla compravendita delle merci.

Nel capitalismo l'oggettività di valore socialmente uguale dei prodotti avviene solo nello scambio, senza che vi sia necessità -come nel valore d'uso- di paragonare, fra loro, tempo di lavoro, dispendio d'energia psico-fisica e senso sociale dell'uso. Una cosa ha valore non perché anzitutto serve alla propria "sussistenza", ma se è scambiabile con altre cose, cioè se può essere acquistata sul mercato, se di essa esiste un equivalente in denaro. Gli altri significati della merce sono conseguenti a questo.

L'uguaglianza dei produttori -come si può notare- non è di tipo sociale ma giuridico. Il produttore "finge" di sentirsi uguale al consumatore, il proprietario dei mezzi produttivi "finge" di sentirsi uguale al lavoratore, semplicemente per indurlo ad acquistare sul mercato ciò che permette a tale uguaglianza formale di riprodursi. Nel momento in cui "acquista", il consumatore, cioè il lavoratore senza proprietà, avverte, per un attimo, che la merce lo rende uguale al produttore: è questa l'illusione dell'uguaglianza sociale che crea il feticismo delle merci.

Naturalmente sarebbe impossibile per un produttore realizzare ingenti profitti senza dimostrare che la merce serve a qualcosa. Il problema tuttavia è un altro. Se il produttore ha la facoltà d'imporsi sul mercato, egli ha anche la capacità d'indurre il consumatore a considerare "utile" (anche se veramente utile non è) una determinata merce. Il valore d'uso infatti non è più determinato da un rapporto sociale a misura d'uomo, in cui i soggetti si controllano a vicenda e sanno in anticipo quello di cui hanno bisogno, ma dalla disgregazione di questo rapporto.

Per cui il vero valore d'uso, sotto il capitalismo, non esiste più, né potrebbe esistere, essendo tutto assorbito nel valore di scambio. Un valore d'uso (minimo) può esistere quando il capitalismo è emergente, quando esso cioè ha bisogno di spazzare via le forme sociali pre-capitalistiche con la forza qualitativa e quantitativa delle proprie merci. Ma appena il capitalismo s'è imposto su queste forme il valore d'uso tenderà progressivamente a scemare: le merci saranno sempre meno valide sul piano qualitativo, proprio perché l'esigenza sarà quella di venderne il più possibile. La qualità sussiste quando permane la concorrenza tra i monopoli di uno stesso settore, ma anche qui intervengono facilmente altri fattori (tecnologici soprattutto) per rendere precaria la qualità dei prodotti. Le merci non sono fatte per durare ma per deperire ed essere riacquistate.

Dunque un oggetto è utile nella misura in cui è scambiabile contro il denaro, vendibile sul mercato. In teoria è il mercato che stabilisce se una cosa è utile o no. In pratica sono i capitalisti che si servono del mercato solo come un indicatore di massima e che ritengono di poterlo strumentalizzare come meglio credono (ad es. attraverso la pubblicità). L'utilità è un sofisma, un pretesto per accumulare profitti e capitali privatamente. Nel mercato infatti non agiscono persone socialmente equivalenti, ma produttori di merci e meri consumatori. Se la produzione resta in mano a singoli privati, e non è soggetta al controllo popolare della comunità locale, i consumatori non potranno che subire forti discriminazioni.

Nello scambio si ha solo l'illusione dell'equivalenza dei lavori, delle merci, dei soggetti che vendono e comprano. Il capitalismo ha preteso di eguagliare tutto allo scopo di subordinare la qualità alla quantità, la diversità all'uniformità, l'utilità all'effimero... I rapporti sociali borghesi sono, in definitiva, dei rapporti matematici fra grandezze ritenute, a torto, omogenee.

Il borghese non vuole determinare il valore di un oggetto sulla base delle caratteristiche del rapporto sociale ch'egli ha rigettato. Egli vuole realizzare sul mercato l'equivalenza delle merci per togliere al lavoro pre-borghese la sua pretesa alternatività. Ma così facendo, non si riesce più a determinare un valore oggettivo delle cose, un valore cioè basato su fattori o elementi oggettivi (come il tempo di lavoro, il dispendio di energie psico-fisiche, il senso sociale dell'uso). Le merci mutano continuamente di valore nel mercato, sfuggendo al controllo non solo dei consumatori ma degli stessi produttori. Un capo firmato, equivalente, nella sostanza, a un altro non firmato, costa dieci volte di più. Un capo firmato, acquistato l'anno dopo in cui è stato prodotto, costa cinque volte di meno. Un prodotto reclamizzato costa sempre di più di un prodotto equivalente, o anche superiore, non reclamizzato.

Ovviamente Marx, nel momento in cui scriveva il Capitale, non poteva ancora sapere che il monopolio tende a superare i limiti della concorrenza, anche se aveva intuito che la concorrenza era destinata ad essere superata. Egli in realtà avrebbe voluto che dalla intrinseca contraddizione della concorrenza si sviluppasse la coscienza proletaria della necessità di una rivoluzione politica. Invece nascerà la coscienza borghese della necessità del monopolio (cui lo stesso Capitale, indirettamente, contribuirà), cioè la necessità di sottomettere la concorrenza a delle regole di mercato. Come noto, questo monopolio, dopo la IIa guerra mondiale, si avvarrà anche del sostegno statale. Oggi infatti si parla di capitalismo monopolistico di Stato.


In ogni caso questo modo d'impostare l'attività produttiva è tipico solo della società mercantile, non essendo riscontrabile in alcun'altra formazione sociale, poiché, anche se altre società hanno conosciuto la trasformazione del prodotto in merce, mai però l'hanno considerato come parte fondamentale della vita sociale: il rapporto di schiavitù o di servaggio (cioè di dipendenza personale) era sicuramente più importante di qualunque altro prodotto naturale o manufatto.

A tale proposito Marx delinea, per sommi capi, le caratteristiche di altre tre formazioni: primitiva e medievale, relativamente al passato, e socialista, relativamente al futuro.

Sulla formazione sociale primitiva -che qui Marx s'immagina sulla scia dell'esperienza romanzata di Robinson Crusoe- il giudizio è nettamente favorevole: "tutti i rapporti tra Robinson e gli oggetti che formano la ricchezza da lui stesso creata sono qui semplici e chiari...vi sono racchiuse tutte le fondamentali determinazioni del valore"(p.77).

Sembrerebbe che Marx continui qui a considerare l'individualismo del modo di produzione primitivo col metro di misura della società borghese, ripetendo, in pratica, l'errore di Rousseau, se non si fosse smentiti da una nota acclusa nella seconda edizione del Capitale, che riporterà un passo di Per la critica dell'economia politica, ove Marx dirà che "la forma della proprietà comune [naturale e spontanea] è la forma originaria" dalla cui dissoluzione sono nate le diverse forme di proprietà privata.

Esiste tuttavia un paradosso. Fintantoché si tratta di parlare dell'individuo singolo (alla Robinson) -in riferimento al comunismo primitivo-, Marx ha sempre parole di apprezzamento. Allorché invece sono in gioco "organismi sociali di produzione", il giudizio si fa più critico, non tanto in rapporto a una presunta superiorità del sistema capitalistico, ché, anzi, quegli organismi -dice Marx- "sono di gran lunga più semplici e più chiari"(p.80), appunto come dovrebbero essere i rapporti in cui l'uomo controlla la produzione, quanto piuttosto in rapporto alla futura società socialista, che, nella mente di Marx, dovrà essere qualcosa di assolutamente inedito sul piano storico.

Quegli "antichi organismi sociali di produzione", infatti, si basavano "o sull'immaturità dell'uomo individuale, che ancora non ha staccato da sé il cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini" [per cui "Robinson" rappresenta l'unica vera alternativa al comunismo primitivo], oppure si basavano "su diretti rapporti tra dispotismo e schiavitù"(ib.), come appunto nello schiavismo o nel feudalesimo, la diversità dei quali, per Marx, è alquanto relativa.

In sostanza, avendo attribuito un'eccessiva importanza al ruolo dell'economia, ai fini dell'emancipazione umana, Marx si sente qui indotto ad affermare che il comunismo primitivo -che per il momento egli ancora non distingue dal modo di produzione asiatico- era arretrato a causa del "basso livello di sviluppo delle forze produttive del lavoro"(ib.); ciò che -secondo Marx- rendeva i rapporti sociali e naturali "primitivi e chiusi nei limiti del processo materiale di generazione della vita"(ib.). Al punto che l'uomo primitivo, non molto diverso dall'animale, cominciò a definirsi come "uomo", per Marx, nel momento stesso in cui sviluppò la sua individualità.

Nelle Forme economiche precapitalistiche verrà detto che nella comunità primitiva c'era sì "trasparenza", ma solo in quanto "ingenuamente" si credeva che certi rapporti di parentela e certe forme di organizzazione sociale fossero di origine "naturale" o addirittura "divina", e non inerenti a un modo particolare di produzione.

Per quanto riguarda il "tetro" Medioevo, il giudizio è più severo che nei confronti di Robinson. "Qui, al posto dell'uomo indipendente, vediamo che tutti sono dipendenti"(p.77). Ciononostante, Marx riconosce al feudalesimo l'impossibilità di creare il fenomeno del feticismo delle merci, in quanto "lavori e prodotti non debbono prendere una fantasiosa figurazione diversa dalla loro realtà: si riducono nel meccanismo sociale a servizi e prestazioni in natura"(ib.).

In effetti, nel feudalesimo l'alienazione non era avvertita nelle cose che si usavano (per quanto la rendita feudale costituisse, per il contadino, una continua fonte di espropriazione). L'alienazione era dovuta al fatto che l'ideologia dominante permetteva di credere possibile il benessere solo "nel regno dei cieli". A parte questo però, la contraddizione del servaggio -lo stesso Marx lo lascia qui intendere, forse anche senza volerlo- risultava meno ipocrita a confronto di quella del lavoro salariato. Non c'era l'illusione della "libertà personale".

Purtroppo Marx ha sempre escluso il carattere di "vera socialità" nell'ambito produttivo medievale. Il produttore borghese -nell'analisi del Capitale- ha interesse a emanciparsi non tanto dalla vita sociale del mondo agricolo, quanto piuttosto dalla dipendenza personale dei rapporti sociali. Nella società feudale non esiste -secondo Marx- forma "sociale" del lavoro, ma solo forma "naturale". Il lavoro quindi non può essere "generalizzato", come nell'economia mercantile, e i suoi prodotti hanno solo un valore d'uso.

I diversi lavori che danno origine ai prodotti dell'agricoltura, dell'allevamento, della filatura ecc. al massimo sono "funzioni sociali" di una famiglia patriarcale, al cui interno si ha una divisione del lavoro naturale e spontanea, basata ad es. sulle differenze di sesso e di età. Marx non vede la comunità di villaggio aldilà della singola famiglia patriarcale.

Poste le cose in questi termini, uno storico non sarebbe assolutamente in grado di spiegare la presenza del feticismo religioso nella società feudale. E sarebbe altresì costretto ad ammettere che lo sfruttamento del lavoro era nel Medioevo accettato come un fenomeno "naturale". Per Marx, infatti, la società feudale era statica, e i soggetti delle semplici "maschere" che recitavano la loro parte (tradizionale) in un "teatro". Egli non trae nessuna conseguenza rilevante dalla considerazione, pur giusta, che "i rapporti sociali tra le persone nei loro lavori si manifestano comunque [nel Medioevo] come loro rapporti personali"(p.78).

Ecco perché Marx non è riuscito a cogliere l'importanza del fatto che nello scambio sul mercato il contadino non aveva la pretesa di realizzare un rapporto sociale che ovviasse all'alienazione della vita lavorativa. Lo scambio era una conseguenza naturale del lavoro agricolo (non particolarmente significativa ai fini dell'attività produttiva e comunque non obbligata). Nel contadino la "realizzazione di sé" non dipendeva dallo scambio. Egli non aveva la pretesa (o l'illusione) di poter costruire nel mercato quanto non riusciva a vivere nel lavoro agricolo.

Questa pretesa, semmai, l'aveva il borghese, che in un certo senso rappresenta l'alienazione del contadino che vuol trovare non nella lotta di classe, ma in un'attività economica redditizia (priva di eticità) una forma di compensazione individuale. Già la separazione professionale dell'artigiano dal contadino rifletteva questa forma di revanche individuale. L'artigiano nasce come colui che in nome della specializzazione di una mansione tradizionale ritiene di potersi emancipare economicamente da quella professionalità onnilaterale o polivalente del contadino che non garantiva un tenore di vita sufficientemente agiato. Tuttavia, tale emancipazione non comportò affatto la transizione al capitalismo, poiché la realtà sociale dominante continuava a restare quella della comunità agricola autarchica.

Se non ci fosse stato il servaggio, la forma naturale del lavoro nel Medioevo sarebbe stata una forma sociale libera, molto più libera di qualunque altra formazione sociale. L'uomo, il lavoratore, il cittadino si sarebbe sentito valorizzato per il lavoro che faceva, senza aver bisogno di ritagliarsi uno spazio di tempo per sé, lottando con tutte le sue forze per sentirsi emancipato.


L'ultima formazione sociale che Marx descrive, supponendola, è quella socialista, ovvero "un'associazione di uomini liberi [non individualisti né forzatamente dipendenti] che lavorino con mezzi di produzione comuni e che impieghino con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come un'unica forza lavorativa sociale. Qui si ripetono tutte le particolarità del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente"(p.79).

Marx non s'accorge d'ipotizzare una cosa che prima della nascita dello schiavismo, era sempre esistita. Egli è convinto di aver trovato, per la prima volta, il passepartout per superare l'ostacolo dell'individualismo borghese, senza dover ricadere nel collettivismo forzato del Medioevo. Ed è convinto di questo semplicemente perché non sa di aver guardato le formazioni sociali pre-capitalistiche con un pregiudizio che gli derivava dall'ideologia individualistica borghese.

Occorre senza dubbio riconoscere a Marx lo sforzo di aver voluto superare ad ogni costo tale ideologia, proponendo come alternativa l'idea di un collettivismo libero, in cui la distribuzione del tempo di lavoro, "fatta socialmente secondo un programma, regola l'esatta proporzione delle diverse funzioni lavorative con i diversi bisogni"(ib.).

Tuttavia anche su questo aspetto c'è qualcosa che non convince. L'idea che "il tempo di lavoro sia preso contemporaneamente come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro comune, e perciò anche alla porzione del prodotto comune che può essere consumata individualmente"(ib.) - è un'idea che potrebbe essere accettata solo in una fase molto transitoria.

In effetti, il tempo di lavoro, in una comunità socialista, non può più essere misurato sulla base delle capacità produttive del singolo, altrimenti si finirà col privilegiare, nella distribuzione dei prodotti, quelli che saranno stati dotati dalla natura di maggiori capacità psico-fisiche o intellettuali.

In realtà, ciò che più deve contare, in una comunità socialista, è la ricerca del benessere collettivo, che non significa anzitutto l'uguaglianza delle condizioni sociali, quanto che nella ricerca del benessere individuale tutti abbiano la possibilità di raggiungere il proprio. Se s'impone a priori l'uguaglianza sociale, si mortifica la libertà della ricerca individuale, ma se si vuole premiare questa libertà, senza tener conto delle difficoltà altrui, si finirà col distruggere l'idea stessa di una uguaglianza nella diversità.

Usare il tempo di lavoro individuale per decidere la distribuzione dei prodotti non è quindi un criterio particolarmente democratico per garantire il benessere di tutta la collettività. Gli uomini devono poter rinunciare spontaneamente a una parte dei loro prodotti, se questo può servire a salvaguardare un interesse collettivo. Naturalmente questo è possibile solo all'interno di una comunità i cui componenti si conoscano gli uni gli altri, e i risultati dei sacrifici siano tangibili nel breve periodo.

Il motivo per cui l'economia politica classica non era riuscita a comprendere la duplicità del lavoro dipendeva anche dal fatto che per la borghesia l'indipendenza dei produttori privati garantiva un'uguaglianza sociale reale, valida per tutti. Essa non avrebbe mai accettato l'idea che tale uguaglianza si fondava, in realtà, sullo sfruttamento di chi non possedeva mezzi produttivi. Anzi, essa era convinta che proprio quella forma di uguaglianza avrebbe permesso anche all'operaio salariato di diventare un proprietario.

Marx, in tal senso, non ha fatto altro che dimostrare il carattere assolutamente "formale" dell'uguaglianza borghese, che si pone anzitutto non a un livello sociale ma a un livello giuridico. L'uguaglianza giuridica non è un riflesso di quella sociale ma la sua negazione. La proprietà privata infatti può garantire la libertà sociale solo se è di tutti. Se non si parte da questo presupposto -che va realizzato praticamente- si finisce per concentrare la proprietà nelle mani di poche persone.

Marx ha detto che l'economia classica operava sì una distinzione tra valore d'uso e valore di scambio, ma solo perché nel primo caso considerava il lavoro dal punto di vista qualitativo e nel secondo dal punto di vista quantitativo. Essa cioè "non teneva presente che la distinzione dei lavori semplicemente quantitativa presuppone la loro unità qualitativa, cioè la loro uguaglianza, e quindi la loro riduzione ad astratto lavoro umano"(nota a p.81).

Naturalmente se la borghesia fosse arrivata ad accettare l'idea di un astratto lavoro umano, avrebbe dovuto negarsi come classe che sfrutta il lavoro altrui. Se è vero infatti -come dice Marx- che "l'uguaglianza di lavori del tutto diversi può esistere solo quando non si tenga conto della loro effettiva disuguaglianza"(p.72), è anche vero che tale principio la borghesia non è mai riuscita a realizzarlo compiutamente, poiché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto scomparire come "classe" specifica.

Nel capitalismo non si tiene conto della diversità dei lavori perché in tal modo si può meglio affermare la superiorità di un lavoro su un altro. L'equivalenza delle merci è un sofisma che permette al produttore più forte d'imporsi su quello più debole. L'uguaglianza astratta dei lavori per la borghesia è un modo subdolo per imporre il dominio della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi per riaffermare la disuguaglianza dei lavori. Il lavoro astratto dalla borghesia viene accettato solo nello scambio perché di fatto viene negato nella produzione. Solo il proletariato, che non è una classe particolare, potrà accettare consapevolmente il lavoro astratto nello scambio dopo averlo affermato nella produzione. L'equivalenza delle merci potrà effettivamente esistere soltanto quando la società considererà uguali i diversi lavori individuali, cioè ugualmente importanti ai fini del benessere collettivo.

Il concetto di "lavoro astratto", in questo senso, appare come un'arma a doppio taglio. Nell'ambito del socialismo si potrà non tener conto della diversità dei lavori individuali solo quando esisterà già affermato il principio dell'uguaglianza sociale, o se comunque esisterà una tensione collettiva verso il bene comune. Ma questo implica che nella società l'ideale sia molto forte.

L'altro aspetto che del marxismo qui non convince è più noto e il leninismo l'ha già superato. Quello secondo cui per costruire il socialismo democratico "è necessario un fondamento materiale della società, cioè un insieme di condizioni materiali d'esistenza che sono, a loro volta, l'originario prodotto naturale della storia di uno svolgimento lungo e doloroso"(pp. 80-1).

L'importanza attribuita, nel processo storico di emancipazione umana, alla struttura economica è stata, nei classici del marxismo, inversamente proporzionale alla sottovalutazione dell'importanza della sovrastruttura culturale. E' stato appunto il leninismo a dimostrare che il socialismo può essere costruito là dove se ne avverte il bisogno, anche perché, mentre il capitalismo si sviluppa, nessuno sarebbe in grado di fissare un limite massimo a tale sviluppo, il quale, tra l'altro, non può mai corrispondere, ipso facto, a una particolare "crisi", poiché a questa, di regola, segue una ripresa della produzione.

Peraltro, la formazione delle basi materiali non garantisce di per sé una possibilità più favorevole alla transizione socialista, anche perché, mentre si formano queste basi, l'ideologia borghese penetra nelle coscienze dei lavoratori e le "corrompe". Ecco perché la coscienza proletaria non ha bisogno di attendere "uno svolgimento lungo e doloroso" della propria soggezione al capitale, per organizzare il rovesciamento del sistema. E' stata proprio la storia del movimento operaio a dimostrare che quanto più la coscienza proletaria tarda a costruire il socialismo, tanto più le sarà difficile farlo.

L'ANALISI DELLA MERCE (I)

Marx apre la Ia sez. de Il Capitale costatando che "la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare come un'immensa raccolta di merci'"(p.25), cioè è una ricchezza il cui valore si misura in termini quantitativi: quante più merci circolano, tanto più la società è ricca. La "qualità" dipende dalla "quantità"; la "qualità" decisa dalla "quantità" è sempre inerente ai "beni materiali", e viene decisa sulla base di questi beni, in modo particolare sul loro possesso.

La merce infatti -prosegue Marx- ha la pretesa di soddisfare "bisogni umani di qualunque specie", materiali e spirituali. Lo fa a prescindere dal "come". La pretesa della merce non dipende dalla sua effettiva riuscita: è, per così dire, di tipo "genetico".

Nella società capitalistica la merce è composta di due fattori: il valore d'uso e il valore di scambio. Il primo è deciso sulla base del consumo: ha un valore ciò che serve per l'individuo. Il secondo invece rappresenta un modo d'esprimere, di due merci, il valore equivalente. Marx vuole qui evidenziare che nel capitalismo lo scambio prescinde, in un certo senso, dall'uso e quindi dalla qualità delle merci, limitandosi più che altro alla loro quantità, sebbene una comprensione adeguata della natura del valore di scambio -Marx lo dirà più avanti- debba necessariamente prescindere dalle questioni quantitative relative alle proporzioni delle merci, per rivolgersi alla qualità del lavoro astratto, socialmente necessario, in esse racchiuso.

Viceversa, in una società pre-capitalistica lo scambio non potrebbe mai prescindere dall'uso. Marx infatti afferma che se si prescinde dal valore d'uso, si prescinde da tutto ciò che dà significato alle cose e al loro stesso uso. Nel capitalismo il valore di scambio è determinato da una sorta di "lavoro umano astratto" (p.29), cioè da un lavoro che non può essere concretamente osservato, essendo una "fantastica oggettività"(ib.). Nel capitalismo lo scambio è indipendente dall'uso. Questo naturalmente non significa che nelle società pre-capitalistiche non poteva esistere un valore di scambio mutevole, soggetto a varie circostanze, come non significa che nel capitalismo le merci non abbiano un valore d'uso.

Come si può notare, Marx è partito con un'analisi fenomenologica, ma ha già chiarito che è impossibile spiegare il mistero della merce capitalistica (che si sdoppia in due valori contrapposti) con gli strumenti di quest'analisi. Ne occorre una che vada aldilà delle "forme" e che entri nella loro "sostanza", con la "forza dell'astrazione". Marx dirà nella Prefazione alla Ia edizione che per comprendere i misteri della merce (le sue "sottigliezze") è stata necessaria un'analisi simile a quella dell'"anatomia microscopica". In pratica, egli è dovuto passare, per superare i limiti metafisici degli economisti inglesi del suo tempo, dalla fenomenologia all'ontologia dell'economia politica, cercando di spiegare, sulla base dell'analisi storica, la contraddizione fondamentale, antagonistica, del sistema capitalistico.


Il valore di scambio, nel capitalismo, non solo si forma a prescindere dal valore d'uso, ma, in definitiva, determina questo stesso valore. Cioè un aspetto esterno o estrinseco determina un aspetto interno o intrinseco, sebbene nella "merce" -dice Marx- il valore di scambio sia più "intrinseco" di quanto non lo sia il valore d'uso in un oggetto qualsiasi.

Il "valore" di una merce consiste nella sua più o meno grande scambiabilità. Il valore di scambio è la forma fenomenica del valore di una merce. Marx si riferisce sempre alle "merci", cioè a prodotti finalizzati anzitutto allo scambio.

Un bene ha tanto più valore d'uso quanto più è grande la quantità di lavoro umano in esso oggettivato. La sostanza che crea valore è il lavoro. Naturalmente qui Marx dà per scontato che il bene debba avere un valore d'uso per la sussistenza dell'uomo o per la produzione di qualcosa. Egli non prende in considerazione il fatto (irrilevante da un punto di vista strettamente economico) che un bene può avere un altissimo valore (per la coscienza del soggetto) senza per questo avere un vero uso pratico, concreto, funzionale.

Nel Capitale il valore viene considerato solo in due modi: d'uso e di scambio. Tertium non datur. Quando Marx parla del valore in sé, senza aggettivi, lo intende sempre strettamente connesso al valore di scambio. "Una cosa può essere valore d'uso -dice- pur non essendo valore"(p.32). C'è "valore" solo quando c'è "scambio". Il valore di scambio, nel Capitale, o viene esaminato in sé e per sé, oppure nel suo rimando al valore d'uso, mentre questo generalmente si riferisce ai fattori materiali della sussistenza umana e della produzione di beni.

La cosa, a ben guardare, è limitativa rispetto alle capacità umane di gestire le proprie risorse, che non sono solo "materiali". Ecco, in questo senso, il valore d'uso, nel Capitale, non rimanda mai alla cultura con cui l'essere umano dà valore, storicamente, alle cose. E' forse "antimarxista" aggiungere, in maniera paritetica, ai due valori "classici" quello culturale e includere tra i valori culturali quelli normativi, affettivi, estetici ecc.?

Esistono cose che "non hanno valore" proprio in quanto il loro valore è incommensurabile, cioè non quantificabile, non monetizzabile. Una collana di conchiglie, per l'indio lucayo incontrato da Colombo durante il primo viaggio, poteva avere più valore di un oggetto artigianale in oro massiccio, semplicemente perché quella collana era stata costruita dallo stesso indigeno. Ma se essa gli fosse stata regalata dalla persona amata, avrebbe sicuramente avuto un valore maggiore. E se quella persona gli avesse addirittura salvato la vita o fosse morta poco prima di donargli la collana, allora questa avrebbe avuto un valore assolutamente incommensurabile. L'indio l'avrebbe conservata gelosamente e non l'avrebbe barattata con nessun'altra cosa al mondo.

L'indio in questione conosce sia il valore d'uso che il valore di scambio, ma più di tutto sa apprezzare il valore in sé delle cose, che prescinde sia dall'uso materiale che dallo scambio. Il valore, in tal caso, è incommensurabile non tanto perché non esiste sul mercato un possibile acquirente, quanto perché la cultura che si riflette nella coscienza dell'indio e la coscienza che si rispecchia nella sua cultura non vogliono paragonarlo con nessun'altra cosa.

Dunque se la sostanza che crea un valore "materiale" delle cose è il lavoro, quella che crea un valore "spirituale" delle cose è la coscienza: beninteso, non la coscienza astratta, di tipo kantiano, universalmente valida, ma la coscienza di un soggetto appartenente a una determinata cultura storica, quella stessa cultura che dà valore al lavoro umano.

Marx non era interessato a questo discorso perché esaminava le cose dal punto di vista dell'economia politica. La sua principale preoccupazione era quella di dimostrare i limiti e le irrisolte contraddizioni dell'economia politica classica (borghese), restando il più possibile all'interno di quest'ambito d'indagine. Pur avendo compreso perfettamente l'esistenza di un nesso tra struttura economica e sovrastruttura ideologica, Marx non avrebbe mai accettato l'idea che l'origine delle contraddizioni dell'economia politica borghese e della stessa formazione sociale capitalistica (il cui antagonismo irriducibile è riflesso in quella scienza borghese), va ricercata nel contesto culturale (ideologico, in particolare religioso) precedente a quella formazione sociale.


Per Marx il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro (misurabile con la sua durata nel tempo), ovvero è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario, dal grado sociale medio di abilità e d'intensità di lavoro (il dispendio di energie). Naturalmente ciò dovrebbe essere deciso dall'intera società. Inutile qui aggiungere che nel capitalismo non è la società, nel suo insieme, che decide il carattere "medio" dell'abilità, dello sforzo fisico-intellettuale, del tempo necessario, ma è la classe capitalistica che, sulla base delle leggi dello sfruttamento e delle innovazioni tecniche, impone a tutta la società i propri criteri relativi alla "medietà".

Marx non ha mai approfondito il motivo culturale per cui, ad un certo punto, è potuto accadere che una determinata classe sociale potesse decidere, per tutta la società, di assegnare il valore delle cose a partire anzitutto dal lavoro, cioè considerando il lavoro come "autosignificantesi", a prescindere dal contesto socio-culturale che gli dà un senso. Marx si limitò a costatare che tale "cultura del lavoro" era nata nell'ambito del cristianesimo (specie nella sua variante borghese, che è il protestantesimo), ma non è mai riuscito a spiegare perché questa cultura non sarebbe potuta sorgere nell'ambito della confessione ortodossa o islamica, e neppure in quella cattolica, se questa non si fosse laicizzata, trasformandosi appunto in protestantesimo.

Marx afferma, nella Prefazione suddetta, che "al giorno d'oggi, a confronto della critica dei tradizionali rapporti di proprietà, lo stesso ateismo è diventato 'culpa levis'". In effetti, questo era vero per la cultura protestante, ma non sarebbe stato vero, nella stessa misura, anche per quella cattolica, proprio perché l'ideologia cattolica conserva nei confronti dell'ideale di una società religiosa un interesse maggiore, che all'individualista protestante manca.

Da notare, en passant, che nel capitalismo, almeno nella sua fase concorrenziale, il lavoro presumeva di dare un valore alle cose, a prescindere dalla cultura sociale (di origine cattolica) in cui lo stesso lavoro trovava il suo significato, la sua relativizzazione. Il lavoro aveva questa pretesa perché la religione protestante si era emancipata dalla teologia cattolica.

In seguito, nella fase monopolistica, il lavoro non è stato più in grado di dare un valore alle cose. Il valore oggi viene sempre più determinato da fattori che precedono o che seguono il lavoro vero e proprio (come ad es. la ricerca scientifica finalizzata al lucro, la pubblicità ecc.). Il lavoro oggi è la cosa che conta di meno, poiché sempre più viene sostituito dalle macchine e da aspetti irrazionali del mercato (ad es. la moda).

Dopo essersi reso indipendente dal contesto socio-culturale che gli dava significato, il lavoro (borghese) ha preteso di sostituirsi a quel contesto, dando valore alle cose: ne è risultato che il valore delle cose oggi non ha più alcun senso.


La grandezza di valore di una merce varia al variare della forza produttiva del lavoro, ma mentre nelle società pre-capitalistiche tale grandezza rimaneva abbastanza costante, nel capitalismo invece, a causa dello sviluppo intensivo dello sfruttamento del lavoratore e della scienza applicata alla produzione, tale grandezza varia di continuo. Le "condizioni naturali" sono le ultime che possono, sotto il capitalismo, contribuire al mutamento della grandezza di valore, mentre nelle società pre-capitalistiche esse erano generalmente al primo posto.

La mancanza di una grandezza di valore costante è caratteristica del capitalismo, che non vuole conservare nei confronti del passato alcun rapporto. "In generale -dice Marx- quanto più è grande la forza produttiva del lavoro, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario alla produzione di un articolo, tanto più piccola la massa di lavoro in esso cristallizzata e più basso il suo valore". E' stato appunto così che il capitalismo emergente ha potuto distruggere il primato dell'agricoltura e dell'artigianato. Con la concorrenza dei prezzi, il capitalismo ha imposto sulla qualità del lavoro concreto la forza della quantità del lavoro astratto. Esso ha distrutto la "piccola forza produttiva del lavoro" che, avendo bisogno di molto tempo per produrre i beni, crea un valore d'uso molto grande. Insieme al senso della qualità delle cose, esso ha distrutto anche il primato dell'uomo sulla macchina, la creatività sulla produzione in serie.


Quando nasce il capitalismo: quando si comincia a produrre valore d'uso sociale o quando si produce solo per il mercato? Il paradosso, infatti, è questo, che mentre col capitalismo un oggetto viene destinato esclusivamente a un uso sociale, poiché non ci si limita più a soddisfare i bisogni dei produttori, con lo stesso capitalismo la prevalenza sociale dello scambio, che si realizza nel mercato, fa perdere alla merce il suo effettivo valore d'uso e le fa acquistare un altro valore, quello che le dà chi la produce (che è un proprietario privato). Di qui i bisogni indotti, il consumismo ecc.

In altre parole, mentre da un lato il carattere sociale della produzione per il mercato sembra superare qualitativamente la ristrettezza del carattere individuale della produzione per l'autoconsumo; dall'altro, invece, proprio quella pretesa socializzazione della merce toglie a questa il suo valore d'uso e assicura al singolo proprietario che produce valori di scambio un primato sulla collettività, rendendo meramente "quantitativo" quel superamento che pretendeva d'essere "qualitativo".

Dove sta l'inganno di questo processo, in cui lo stesso Marx, in parte, è caduto? Sta nel far credere che la produzione per l'autoconsumo non abbia alcun carattere di "socialità", che sia cioè una produzione individuale. In realtà, anche nella società feudale esisteva il valore d'uso sociale, esistevano delle merci che si vendevano sul mercato, ma la differenza, rispetto al capitalismo, era che non si produceva esclusivamente per il mercato, non si faceva del mercato il sostituto della comunità rurale o di villaggio. I commercianti di schiavi, di spezie o di articoli di lusso, gli stessi usurai non avevano certo la forza sociale per mutare questo stato di cose.

Se vogliamo, la nascita del capitalismo ha rappresentato l'illusione di credere che il mercato costituisse l'elemento più socializzante della vita pubblica. Ma se questa illusione ha potuto far breccia nella comunità agricola, distruggendola dalle fondamenta, significa che in quella comunità i rapporti sociali non erano vissuti dai lavoratori secondo giustizia. Il mondo contadino ha potuto essere ingannato dalla classe borghese, con relativa facilità, appunto perché nelle campagne vigeva il servaggio. Nell'esaminare i motivi per cui il cattolicesimo è stato superato dal protestantesimo non si deve dimenticare l'importanza fondamentale di questa contraddizione sociale. Per secoli il contadino ha lottato contro il servaggio, ma in Europa occidentale si è riusciti ad eliminarlo solo con una diversa forma di schiavitù, quella del lavoro salariato.

Se l'illusione non avesse intaccato la maggior parte dei contadini di ogni comunità, nessun abile e spregiudicato mercante di schiavi, di spezie o di articoli di lusso avrebbe potuto subordinare le esigenze della comunità agricola a quelle del mercato.

E' dunque sbagliato sostenere che nella società feudale non si produceva valore d'uso sociale. Tale valore esisteva nell'ambito della comunità di lavoro, e anche sul mercato, relativamente alle eccedenze che si volevano vendere. Ciò che non esisteva era la produzione finalizzata unicamente al mercato, alla vendita, se non in limitatissimi casi. Il "grano di tributo" o della "decima", che il contadino produceva per il signore feudale o per il prete, aveva un valore d'uso sociale, anche se non come il surplus venduto sul mercato per acquistare sale, spezie e altre cose: la differenza stava che il primo valore d'uso sociale era estorto con la coercizione, per cui alla fine diventava di "proprietà privata"; il secondo invece era libero.

In altre parole, nell'ambito della comunità agricola poteva esserci valore d'uso sociale senza che per questo vi fosse uno scambio equivalente, diretto, immediato, fra un bene e l'altro (ciò che appunto si verificava sul mercato). Lo scambio poteva essere "simbolico", indiretto, nel senso che il contadino poteva produrre un bene d'uso sociale per ottenere in cambio la possibilità della sopravvivenza della propria comunità.

Nel servaggio invece egli era costretto a produrre un bene d'uso sociale che a causa della coercizione extra-economica diventava privato: un bene che serviva appunto al feudatario per garantirsi la sopravvivenza della rendita. Questo per dire che la merce rappresenta un'alternativa vincente al valore d'uso sociale soltanto quando questo, in realtà, ha smesso d'essere sociale ed è diventato privato.

Il punto sta proprio in questo, che il contadino voleva essere sempre più libero di produrre per il proprio autoconsumo (ovvero per il consumo del proprio villaggio) e naturalmente di acquistare sul mercato, e sempre meno voleva essere costretto a produrre valori d'uso per altri. Il borghese deve aver fatto leva su questa contraddizione sociale e su questa esigenza emancipativa.

Bisogna quindi distinguere tra valore d'uso sociale e merce: il primo viene prodotto anche per il mercato, la seconda viene prodotta solo per il mercato. La precisazione di Engels, messa tra parentesi, a p.33, non ha chiarito questa differenza, pur avendone lo scopo, e non tanto perché Engels non sappia che sul mercato esistono solo "merci", quanto perché egli con una certa difficoltà avrebbe ammesso la presenza d'un valore d'uso sociale nel Medioevo. Marx ed Engels nutrivano non pochi pregiudizi nei confronti delle società agricole e delle idee "comunistiche" degli ambienti contadini, almeno sino a quando non verranno a contatto col populismo russo.

Per loro la produzione agricola era di carattere prevalentemente individuale. Non a caso Marx, nella suddetta Prefazione, afferma che la Germania "feudale" è destinata, prima o poi, a diventare come l'Inghilterra "capitalistica". Questo perché "il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire". Al massimo -dice ancora Marx- si "possono abbreviare e attutire le doglie del parto, ma non saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali dello svolgimento".

Secondo Marx (ed Engels) il passaggio dal feudalesimo al capitalismo andava considerato come parte di un "processo di storia naturale", in cui il singolo non è assolutamente "responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente [leggi: con la sua coscienza personale] possa innalzarsi al di sopra di essi".

In realtà, mentre nel capitalismo un bene diventa sociale solo sul mercato (e per questa ragione esso riflette solo l'interesse di individui privati), nella società feudale invece un bene è individuale solo nella misura in cui è sociale, nel senso che il valore di un bene non viene mai deciso dal singolo individuo, né da un elemento che, rispetto alla comunità di lavoro, rappresenta (come nel caso del mercato) un aspetto di secondaria importanza.

Ecco perché si deve affermare che se l'individuo può soggettivamente "innalzarsi" al di sopra dei rapporti sociali da cui proviene, allora non si deve considerare la transizione dal feudalesimo al capitalismo come un processo "naturale", inevitabile, assolutamente necessario. L'inevitabilità è sempre una conseguenza del fallimento di alcune alternative concrete.


Al § 2, dopo aver parlato della differenza tra valore d'uso e valore, intendendo per "valore" la sostanza prodotta dal lavoro e la grandezza prodotta dal tempo di lavoro socialmente necessario, dopo aver specificata la differenza tra valore d'uso e valore di scambio, Marx riprende la dimostrazione già fatta in Per la critica dell'economia politica sulla "doppia natura" del lavoro contenuto nella merce. Non dimentichiamo che Il Capitale vuole essere la continuazione del suddetto volume, apparso nel 1859, e, in particolare, il suo primo capitolo -come dice Marx nella Prefazione- vuole essere un riassunto delle parti significative di quella ricerca, con l'aggiunta di precisazioni e chiarimenti indispensabili.

Quando Marx inizia a parlare della divisione sociale del lavoro e afferma ch'essa "è il presupposto dell'esistenza della produzione delle merci"(p.34), non bisogna intendere tale affermazione nel senso che là dove esiste una divisione sociale del lavoro, la produzione è unicamente finalizzata al mercato. La divisione del lavoro non suppone di per sé il capitalismo.

Viceversa, quando Marx aggiunge, subito dopo la suddetta asserzione, che "la produzione delle merci non è presupposto dell'esistenza della divisione sociale del lavoro", e sceglie, come esempio di questo, "l'antica comunità indiana", dove "il lavoro è socialmente diviso, senza che i prodotti divengano merci", qui si possono ipotizzare due spiegazioni: o Marx è caduto in una svista, poiché l'esempio riportato contraddice la sua seconda asserzione; oppure egli voleva sostenere che le merci possono essere prodotte da una comunità il cui lavoro non è socialmente diviso, ma allora ciò contraddice la prima asserzione.

Marx, in pratica, fa questo ragionamento: la divisione del lavoro può esserci anche nella proprietà collettiva (come ad es. nella comunità indiana), ma così non si è in grado di produrre merci, poiché queste sussistono solo in presenza di una proprietà individuale. Infatti, "solo prodotti di lavori privati autonomi e indipendenti l'uno dall'altro si possono confrontare reciprocamente come merci"(ib.). Cioè solo quando la "comunità" è finita e ad essa si è sostituita la libera proprietà privata, si può parlare di divisione sociale del lavoro finalizzata alla produzione di merci.

L'incoerenza logica che Marx ha manifestato nella seconda asserzione (e che Engels probabilmente non è riuscito a spiegarsi) non è semplicemente il frutto di una svista, ma piuttosto di un pregiudizio nei confronti delle formazioni sociali pre-capitalistiche, specie di quelle non-schiavistiche. Marx cioè vuole qui attribuire la facoltà di produrre merci unicamente all'indipendenza dei produttori singoli semplicemente perché non riesce a contemplare la possibilità che una comunità, basata sull'autoconsumo, possa produrre, con la propria divisione del lavoro, merci per un'altra comunità, e che faccia questo senza escludere l'esistenza, al proprio interno, delle proprietà individuali, ovvero degli "affari privati di autonomi produttori". In altre parole, Marx non credeva possibile conciliare proprietà individuale e proprietà sociale all'interno della comunità agricola pre-capitalistica. Le merci potevano essere prodotte solo da individui privati la cui proprietà si contrapponesse a quella sociale.

Questo modo di vedere le cose oggi, se si vuole costruire il socialismo democratico, va superato. Senza dubbio è vero che la libera proprietà privata non presuppone, di per sé, una finalizzazione esclusiva della produzione per il mercato. Però la storia ha dimostrato che nel capitalismo ciò avviene in maniera generalizzata, irreversibile, senza soluzione di continuità. Il motivo di questo Marx lo spiegherà più avanti, quando parlerà del fatto che la presenza di una proprietà privata per pochi e di una libertà per tutti, obbliga la divisione del lavoro a produrre soltanto merci e lo stesso lavoratore a trasformarsi in una "merce".

In tal senso si può qui affermare che né la produzione di merci, né la divisione del lavoro presuppongono, di per sé, la separazione del lavoratore dalla proprietà dei suoi mezzi produttivi: solo in forza di questa alienazione materiale un prodotto diventa esclusivamente "merce". Dunque, per converso, la libera proprietà privata non produrrà unicamente per il mercato soltanto quando essa sarà patrimonio di tutta la società, cioè soltanto quando la libera proprietà privata non verrà gestita in contrapposizione alla libera proprietà altrui. Ma la proprietà privata non sarà mai libera finché resterà patrimonio di pochi monopolisti.


Meritevole d'attenzione è l'affermazione di Marx secondo cui il valore d'uso è il prodotto di un "lavoro utile" e non della "natura" in sé. Il lavoro è l'unica "attività speciale, produttiva e conforme a uno scopo"(p.35), in grado di adattare "particolari materiali naturali a particolari bisogni umani"(ib.).

Nell'economia politica di Marx l'uomo produce valori d'uso in quanto appartiene alla natura. Nel senso che, in ultima istanza, è la stessa natura che, attraverso l'uomo, produce valori d'uso per sé. La produzione di valori d'uso -osserva Marx- è "una perenne necessità della natura"(ib.). In nota egli cita una frase di Pietro Verri, secondo cui l'uomo non "crea" ma si limita a "trasformare" la materia ("accostando e separando").

Con questo ragionamento Marx non ha dato una vera spiegazione di ciò che dà valore al lavoro. Da economista qual era, egli riteneva che il valore del lavoro (concreto) stesse nello stesso valore d'uso dei prodotti creati: il valore di una "causa" veniva qui dai suoi "effetti". In tal modo però è impossibile uscire dalla tautologia, dal determinismo economico. Cosa che invece si può fare affrontando il problema della cultura che dà senso all'attività lavorativa e che, in definitiva, permette di distinguere un criterio di lavoro da un altro. L'indagine su questa cultura, partendo da un'analisi di tipo marxista, deve ancora essere fatta.

Non avendo considerato l'elemento della cultura, essendosi cioè limitato a quelli della materia naturale e del lavoro (relativamente alla formazione del valore d'uso), Marx è caduto in una contraddizione che, se si resta nell'ambito dell'economia politica, è irrisolvibile. Da un lato, infatti, Marx sostiene che il valore d'uso è prodotto dal lavoro utile, lasciando così credere che il lavoro sia un'attività specifica dell'uomo; dall'altro però sostiene che, nel produrre tale valore, l'uomo "può agire solo come la stessa natura, cioè solo modificando le forme dei materiali"(ib.).

Il che, in sostanza, non permette di spiegare in che modo il lavoro dell'uomo va considerato qualitativamente diverso da quello dell'animale. Se l'uomo fosse semplicemente un ente naturale, i suoi valori d'uso non potrebbero avere, tra loro, differenze di sostanza, grandezza e forma così rilevanti. Per quanto grandi possano essere le differenze tra una tela di ragno e un'altra, mai nessun ragno potrà mai uscire dall'ordine degli araneidi. Nel costruire oggetti di valore d'uso da parte del mondo animale, le differenze sono visibili e anche rilevanti, ma mai paragonabili alle capacità operative dell'essere umano, il quale è sì un prodotto della natura, ma un prodotto che supera la natura stessa.

Certo, finché si considera il rapporto dell'uomo con la materia, l'attività lavorativa non potrà essere che quella della trasformazione, essendo la materia (o la natura) antecedente alla comparsa dell'uomo sulla terra. Tuttavia, se si considera il rapporto dell'essere umano con se stesso e con il suo simile, non si può non costatare che l'elemento della coscienza, sociale e personale (ovvero dell'autocoscienza) rappresenta il superamento della stessa natura (che è determinata da leggi meccaniche), poiché, al di fuori dell'essere umano, non esiste in alcun altro ente di natura la coscienza che sa di essere tale.


La principale difficoltà della teoria del valore-lavoro di Marx non si riscontra tanto nell'esame del valore d'uso, quanto in quello del valore di scambio, e non perché si tratti del valore di scambio in sé, quanto perché, sotto il capitalismo, tale valore è quanto di più complesso, di più contraddittorio, si possa pensare, avendo esso un primato ingiustificato, arbitrario, sul valore d'uso.

Nella IIa parte del § 2, Marx parla del valore della merce, ovvero del passaggio dal lavoro utile, concreto (per il valore d'uso) al lavoro astratto (per il valore di scambio). Egli afferma che ogni società ha sempre cercato di sostituire a una "quantità maggiore di lavoro semplice" una "quantità minore di lavoro complesso"(p.37), cioè ha sempre cercato di produrre di più in minor tempo.

Tale "economicità" non sta di per sé ad indicare la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Perché ciò avvenga occorre che il lavoro astratto abbia un primato decisivo su quello concreto, al punto che quest'ultimo sia rovesciato dalle fondamenta e al valore della qualità si sostituisca, tout-court, quello della quantità.

Tuttavia, Marx non è riuscito a spiegare, né mai vi riuscirà, il motivo per cui, ad un certo punto, la società, nel suo insieme, sulla base di una determinata cultura (la quale naturalmente avrà subìto un'evoluzione nel corso dei secoli), preferisce anzitutto e soprattutto produrre sempre di più in un tempo sempre minore, sconvolgendo così "le proporzioni fornite dalla tradizione"(ib.). Né egli ha qui considerato l'eventualità che la "riduzione" del tempo o il "potenziamento" del lavoro semplice possano essere dettati da motivi occasionali, contingenti (come ad es. le calamità naturali) e che la società, dopo aver risolto i problemi straordinari, torni spontaneamente ai metodi ordinari di sussistenza e produzione.

Pur senza dirlo esplicitamente, Marx intende far notare che la transizione dal feudalesimo al capitalismo (cioè dal valore d'uso prevalente al valore di scambio prevalente) è stata necessaria, inevitabile, così come è necessario, da sempre, il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto. Anche se non per mezzo di questo passaggio -sarà lui stesso a riconoscerlo- si deve considerare la transizione al capitalismo come un fatto scontato, essendo necessarie, a tale scopo, condizioni particolari suppletive, che non si riscontrano in ogni luogo e tempo. Quelle condizioni appunto che vanno ricercate nella cultura, nell'ideologia, nei valori, in una parola nella sovrastruttura, e che Marx non ha mai pensato d'individuare e approfondire più di tanto.

Egli considerava più importante il lavoro astratto semplicemente perché con esso è possibile soddisfare molteplici esigenze, e certo non solo del singolo individuo. Semmai è il lavoro concreto che -secondo Marx- risulta utile solo al singolo produttore. Insomma, ad una società che privilegia l'autoconsumo sul mercato, Marx tendeva a preferire, con la sua visione deterministico-evolutiva, una società che privilegia il mercato sull'autoconsumo. La "qualità" del singolo prodotto non può andare a scapito del "benessere diffuso".

Con molta difficoltà Marx avrebbe accettato l'idea che una corretta valutazione del valore di scambio (ovviamente di due merci diverse) è possibile solo se nella società domina il valore d'uso di entrambe le merci. Egli avrebbe obiettato che, in questo caso, non ci sarebbe neppure stato lo scambio di quelle merci sul mercato. Tuttavia il nodo da sciogliere sta proprio in questo, che lo scambio può trovare la sua vera ragion d'essere non solo nel bisogno d'una merce che non si possiede, ma anche e soprattutto nella capacità che una determinata comunità deve avere di stabilire, con una certa approssimazione, l'esatto valore d'uso di quella merce oggetto di scambio. Uno scambio è virtualmente democratico, reciprocamente vantaggioso, quando entrambi i contraenti sanno in anticipo quanto tempo e fatica occorrono per produrre una determinata merce. Se lo scambio avviene a prescindere da questa consapevolezza, facilmente chi detiene il monopolio della produzione o della proprietà sarà in grado di sottomettere il mero consumatore o il produttore più debole.


Marx non ha iniziato Il Capitale con un'analisi storica dell'accumulazione originaria ma con un'analisi fenomenologica della merce, perché non voleva dare al lettore l'impressione che tutto quanto è stato prodotto dal capitalismo va superato.

Partendo dalla merce, egli ha voluto mostrare, indirettamente, che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era indispensabile e che nel capitalismo l'unica cosa che il socialismo non può assolutamente accettare è lo sfruttamento del lavoratore, reso possibile dal fatto che la proprietà dei mezzi produttivi è in mano a pochi capitalisti.

Ecco perché nell'analisi della merce non si riescono a scorgere i motivi di fondo per cui il capitalismo va rovesciato. Marx ha posto le cose come se il capitalismo, sul piano fenomenologico, cioè dell'apparenza fenomenica, non abbia veramente nulla di così "ripulsivo" da necessitare il suo superamento da parte del proletariato.

Il capitolo dove forse più risulta il lato "irrazionale" della merce capitalistica, è quello dedicato al "feticismo". Ma qui l'analisi, che pur viene a toccare aspetti di ordine etico e socio-esistenziale, si limita a una sorta di "filosofia dell'economia" (non molto diversa da quella dei Manoscritti del 1844, in quanto Marx non riesce a spiegare quale sia la cultura che origina il fenomeno del feticismo.

Se egli avesse lavorato di più sul nesso struttura/sovrastruttura, sarebbe probabilmente arrivato alla conclusione che il superamento del capitalismo dovrà comportare non solo la fine dello sfruttamento, ma anche l'inizio di una rivoluzione culturale che modifichi tutti gli aspetti del sistema capitalistico, strutturali e sovrastrutturali.


Nel § 3 Marx prende in esame la "forma di valore, cioè il valore di scambio". Mentre nel § 1 egli aveva mostrato che la "sostanza" e la "grandezza" ottenute attraverso il lavoro e il tempo impiegato per produrre una merce, possono aiutarci a capire il valore d'uso, ovvero "l'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci"(p.41), ora egli non ha dubbi nell'affermare che "l'oggettività del valore delle merci differisce in ciò dalla vedova Quickly, che non si sa dove trovarla"(pp.40-1).

Anche qui Marx imposta in modo sbagliato la ricerca per trovare la soluzione dell'enigma del valore. Egli infatti afferma che "l'oggettività di valore [delle merci] è semplicemente sociale, e quindi sarà evidente che quest'ultima può apparire solo nel rapporto sociale tra merce e merce"(p.41).

L'errore sta appunto nel fatto di ritenere "sociale" solo il valore di scambio, cioè solo il mercato, e di ritenere "individuale" il valore d'uso, la cui oggettività sarebbe "rozzamente sensibile". Per Marx la comunità agricola basata sull'autoconsumo è più individualistica dei soggetti indipendenti che s'incontrano sul mercato per contrattare, sulla base dell'offerta e della domanda, i prezzi delle merci. Posto il problema in questi termini, era ovviamente inconcepibile, per Marx, andare a ricercare l'oggettività del valore di scambio in una comunità del genere. Egli fa un discorso logico partendo da una premessa sbagliata.

Il suo ragionamento potrebbe funzionare a una sola condizione, che i contraenti, sul mercato capitalistico, avessero piena fiducia reciproca. Ma perché questo accada, occorre che nella società domini il valore d'uso, cioè il principio secondo cui un oggetto viene prodotto anzitutto per il consumo individuale e sociale, e solo in secondo luogo per essere venduto. Ora, tale eventualità non è nemmeno ipotizzabile sotto il capitalismo.


Secondo Marx il primo motivo per cui è alquanto difficile stabilire l'oggettività del valore di scambio, consiste nel fatto che due merci di genere diverso, ad es. una tela e un abito, sono, nel contempo, "l'uno la condizione dell'altro" ed "estremi che si escludono a vicenda"(p.42). Infatti l'espressione della "forma di valore semplice" o singola o accidentale, e cioè: venti braccia di tela = un abito, può essere rovesciata nel suo contrario: un abito = venti braccia di tela. In tal modo è impossibile stabilire, in maniera assoluta, quale delle due merci funzioni come forma relativa di valore (rispetto ad altra merce) o come forma equivalente (generalmente intesa).

L'enigma poteva essere risolto facendo capo al valore d'uso, ma non è stata questa la strada scelta da Marx. Facciamo un esempio. Supponiamo che un intellettuale viva in ristrettezze. Siccome è un appassionato di studi storici, mira ad abbonarsi a diverse riviste che trattano tale argomento. La passione per le riviste è superiore a quella per i libri, poiché esse possono tenerlo aggiornato per un anno intero, mentre un libro, quando vede la luce, è già vecchio di almeno un anno, se tutto va bene. Certo, potrà essere profondo, analitico, originale, ma non avrà mai il pregio dell'attualità, del legame diretto col presente, che fa sentire l'intellettuale, in contatto con altri intellettuali, protagonista del suo tempo.

Ad un certo punto egli s'accorge che l'abbonamento medio annuale di tutte le sue riviste è di circa £ 50.000. Questa cifra, automaticamente, gli diventa un metro di misura oggettivo per tutti i suoi successivi acquisti di libri. Nel senso che ogniqualvolta gli capita di voler acquistare un libro che costa sulle 50.000 £, prima fa mente locale e poi decide se il suo valore possa corrispondere a quello di un abbonamento annuale a una rivista storica. Di colpo, il valore d'uso del libro, nella coscienza dell'intellettuale, crolla a £ 40.000 e poi a £ 30.000, finché egli decide di non comprarlo (almeno per il momento). "Il libro mi serve, ma costa troppo; costando così troppo, forse non mi serve tanto".

In pratica che ragionamento ha fatto questo intellettuale? Egli non ha fatto altro che abbassare, in coscienza, il prezzo del libro mettendolo a confronto con ciò che più gli interessava. In pratica, egli ha fatto trionfare il valore d'uso della rivista sul suo stesso valore di scambio, nel senso cioè che il suo valore d'uso ha fatto abbassare sotto le 50.000 £ il valore d'uso del libro, per avendone fatto aumentare il valore di scambio.

Naturalmente se la cosa finisse qui non ci sarebbero né vinti né vincitori, poiché da un lato il libro ha bisogno d'essere venduto, dall'altro ha bisogno d'essere letto. Se tutti gli acquirenti ragionassero come il nostro intellettuale, l'editore fallirebbe, ma deve forse cedere l'intellettuale sul primato del valore d'uso della sua rivista? Deve essere forse lui a fare un sacrificio e ad accettare l'alto valore di scambio del libro che gli occorre? Se lo facesse, domani si troverebbe ad avere gli stessi problemi con un libro che costa £ 60.000, il quale, a sua volta, contribuirà a far aumentare di prezzo la rivista. D'altro canto l'intellettuale ha bisogno, per la sua professione, di acquistare anche determinati libri, altrimenti il valore del suo lavoro tenderà a diminuire. Dunque cosa fare?

Da questo match non si può uscire in termini di "lotta economica" nell'ambito del capitalismo. L'intellettuale può anche scioperare e smettere di leggere libri, ma se si limita a questo, sarà poi lui a dover scendere per primo a compromessi, essendo la parte sociale più debole. Può anche scegliere soluzioni più "empiriche", come ad es. fotocopiare solo le pagine che gli interessano, ma prima o poi gli editori gli porranno un divieto.

L'unica cosa che gli resta dare fare, se vuole salvaguardare il primato del valore d'uso, è quella di affrontare il problema politicamente. Dal circolo vizioso che il mercato impone alle categorie più deboli, l'intellettuale non può uscire finché non avrà il potere di strappare all'editore il monopolio sulla carta stampata. Quando la rivoluzione politica sarà compiuta, non solo l'editore e l'intellettuale potranno finalmente impostare i loro nuovi rapporti sul primato del valore d'uso, ma anche tutta la società.


Marx, trattando l'argomento della "forma di valore", è partito da quella più "semplice", allo scopo di dimostrarne il limite non rispetto al principio del valore d'uso (ché, anzi, se messa a confronto col valore d'uso, tale forma di valore è -secondo Marx- molto meno "rozza"), ma rispetto all'esigenza del valore di scambio di perfezionare al massimo le sue "forme", che, nell'analisi della merce, arrivano sino a quattro (l'ultima è quella del denaro).

Da un lato quindi Marx ha ritenuto che, di un qualunque prodotto del lavoro che non si confronta sul mercato con altri prodotti, il valore sia insignificante, arbitrario, in quanto del tutto individuale; dall'altro ha cercato di trovare l'oggettività di tale valore nello scambio, ma ha finito col dimostrarne l'inesistenza, poiché nel capitalismo il valore di una merce è possibile stabilirlo solo in rapporto a un'altra merce, ed entrambe, avendo come punto di riferimento non il lavoro ma il mercato, mutano di continuo i loro valori.

Certamente, Marx ha avuto tutte le ragioni di affermare che una merce non può stabilire da sé il proprio valore. Tuttavia, invece di dedurre da ciò che il valore di una merce può essere deciso solo da una comunità che non dipenda dal mercato, ne ha dedotto che la comunità deve cercare nel mercato il valore di quella merce ponendola a confronto con un'altra di scambio equivalente. Cioè invece di porre le premesse per una lotta politica contro l'egemonia del mercato, Marx si è limitato a sostenere che "indietro" non si può tornare, che l'autoconsumo è definitivamente tramontato e che il mercato può essere tenuto sotto controllo semplicemente se si razionalizza la produzione attraverso la socializzazione dei mezzi produttivi.

Naturalmente se Marx avesse privilegiato il valore d'uso su quello di scambio, sarebbe poi stato costretto a rivedere i suoi pregiudizi sulle comunità agricole pre-capitalistiche (cosa che farà, almeno in parte, negli ultimi anni della sua vita). Ecco perché, affermando che solo nel valore di scambio si ottiene "una forma di valore diversa dalla sua forma naturale"(p.46), egli ritiene che ciò sia un vantaggio rispetto al valore d'uso, dove il "lavoro umano produce valore ma non è valore"(p.45). Questo perché "soltanto l'espressione di equivalenza tra merci di diverso genere dà rilievo al carattere specifico del lavoro come creazione di valore, giacché riconduce in effetti i lavori di genere diverso contenuti nelle merci di genere diverso a quello che è loro comune, a lavoro umano in genere"(ib.).

Questo modo di vedere le cose oggi va completamente superato: semplicemente perché se ciò che dà valore alle merci non può essere il lavoro in sé, ma il lavoro espressione di una realtà sociale che dà valore allo stesso lavoro, allora il valore del lavoro non può essere dato dalle possibilità che offre il mercato di considerare equivalenti determinati merci: l'equivalenza dei lavori non può essere dedotta dall'equivalenza delle merci.

Se in una determinata società domina il principio del valore d'uso, possono essere considerati equivalenti due lavori che producono merci non equivalenti. Se ad es. nel raccogliere le pesche il soggetto A impiega un'ora per riempire cinque casse e il soggetto B con lo stesso tempo ne riempie tre, i due lavori non saranno equivalenti se finalizzati al mercato, ma lo sono se finalizzati all'interesse generale della collettività basata anzitutto sull'autoconsumo, nel senso che B ha dato quanto era in suo potere e il confronto con A sarebbe l'ultima cosa cui la comunità potrebbe pensare.

In sostanza, l'uguaglianza dei lavori è possibile solo se all'interno della comunità vige l'uguaglianza degli uomini tra loro. Se manca questa uguaglianza, è impossibile ristabilirla partendo da quella delle merci.

E l'uguaglianza degli uomini è possibile realizzarla solo se la proprietà privata è accessibile a tutti, o in forma individuale o in forma cooperativistica (all'interno della quale tutti i produttori sono soci a pari titolo). Non ci può essere uguaglianza sociale là dove un cittadino è costretto ad accettare il lavoro salariato per poter vivere.

In tal senso, non è singolare il fatto che proprio mentre, attraverso il valore di scambio, il capitalismo abbia la pretesa di dare "rilievo al carattere specifico del lavoro come creazione di valore", questo stesso lavoro, in ultima istanza, non è in grado di stabilire alcun vero valore oggettivo delle merci?

E non è forse singolare che proprio mentre il capitalismo si preoccupa di stabilire che il valore di una merce non è dato anzitutto dal suo "valore in generale", bensì dal suo "valore quantitativamente determinato", questo stesso specifico valore non sia in grado di farci capire l'effettivo valore di una merce se non dopo averla messa a confronto con un'altra?

Non è insomma singolare che dopo aver condannato il lavoro concreto a un ruolo storico del tutto marginale, il capitalismo -che pur privilegia il lato quantitativo del valore delle merci- sia stato costretto ad affermare il primato del "lavoro astratto", cioè dell'astratto "valore in generale" delle merci?

Stupisce, in questo senso, che Marx, pur avendo compreso perfettamente i limiti ontologici del capitalismo, non sia riuscito a cogliere la positività del modo di produzione pre-capitalistico fondato sull'autoconsumo.

Una spiegazione di questo limite di Marx la si può trovare nella parte dedicata alle tre particolarità della "forma di equivalente". Marx indovina le prime due: primato del valore di scambio sul valore d'uso e primato del lavoro astratto su quello concreto, ma sbaglia la terza, allorché sostiene un primato del lavoro sociale (capitalistico) su quello individuale o privato (pre-capitalistico).

Che Marx non abbia compreso la terza caratteristica lo si può notare anche dal fatto che l'ha messa per ultima, come fosse una conseguenza delle altre due, mentre in realtà essa andava messa per prima, essendo la causa principale del sorgere delle altre.

Se Marx non avesse conservato un pregiudizio sulle comunità agricole di autosussistenza non avrebbe contrapposto lavoro individuale a lavoro sociale nei termini in cui l'ha fatto. Egli infatti non ha saputo scorgere nel lavoro individuale agricolo la dimensione sociale, che è prevalente, e non ha sottolineato a sufficienza che l'origine del lavoro "sociale", nel capitalismo, è tutta individuale. La "socializzazione" del lavoro, nell'ambito del mercato capitalistico, è una mera astrazione, così come è quanto meno improprio parlare di lavoro "socializzato" nell'ambito dell'impresa capitalistica, ove la proprietà è di uno o più imprenditori privati. Meglio sarebbe parlare, in questo caso, di lavoro "organizzato" con l'uso delle macchine.

Viceversa, nell'economia contadina il lavoro era da subito sociale, anche se il contadino lavorava la terra con poche persone. Infatti, era anzitutto "sociale" la comunità che dava senso al lavoro. Ed era "sociale" anche nel senso che la realizzazione dell'autarchia non veniva affidata ai singoli produttori, ma alla comunità nel suo complesso. Nelle comunità di autosussistenza non è mai esistita l'indipendenza assoluta del singolo produttore dagli altri produttori.

La crisi di questa comunità, ciò che determinò, in ultima istanza, la transizione al capitalismo, traeva la sua ragion d'essere nell'antisocialità costituita dal servaggio, ovvero dalla rendita feudale. Questa antisocialità pratica, mascherata ideologicamente dalla religione, troverà un contrappeso non solo nelle lotte politiche dei contadini, ma anche nell'affermazione di una nuova antisocialità: quella del lavoro individuale borghese.

La società borghese è nata con la pretesa di anteporre al lavoro collettivo il lavoro individuale, facendo credere che quest'ultimo fosse più "libero" dell'altro, in quanto i produttori privati presumevano d'essere totalmente indipendenti. In pratica la società borghese non ha fatto altro che sostituire la dipendenza del singolo produttore da una comunità di produttori come lui, con la sua dipendenza da un proprietario privato che non produce. Questo passaggio è potuto avvenire appunto perché nella comunità di autosussistenza vigeva un principio ad essa estraneo o contrario, quello della rendita feudale.

Marx avrebbe insomma dovuto puntare di più l'attenzione sul fatto che la caratteristica della merce d'essere "immediatamente scambiabile" con altra merce, sul mercato, era un fatto altamente drammatico, in quanto presupponeva l'agonia della comunità di autosussitenza. Senza tale comunità, infatti, il bisogno di merci si fa sempre più pressante, sicché la loro scambiabilità deve farsi più veloce. Il consumatore ha bisogno di "tutto" proprio perché è in grado di produrre soltanto "qualcosa" o addirittura "niente". Dirà Marx nel § sul feticismo: "Nei modi di produzione dell'antica Asia e dell'antichità classica ecc., la trasformazione del prodotto in merce...diviene tanto più importante, quanto più le comunità s'avvicinavano all'epoca del loro tramonto"(p.80).

In fondo, la grande diversità esistente tra Marx e l'economia politica classica, consiste semplicemente in questo, che Marx non s'illudeva di poter conservare il valore d'uso in una società ove domina quello di scambio. Marx mise a nudo il formalismo dell'economia classica non rinunciando definitivamente al valore d'uso, ma cercando di sintetizzarlo con quello di scambio, proponendo la socializzazione dei mezzi produttivi, ovvero la fine della proprietà privata. Tuttavia, egli non si accorse che, così facendo, si doveva per forza tornare a valorizzare l'economia pre-capitalistica fondata sull'autoconsumo.

In tal senso il limite del Capitale si pone a un duplice livello: da un lato esso non offre la modalità operativa con cui realizzare la suddetta sintesi (e qui il leninismo, col suo primato della politica sull'economia, costituirà, del marxismo, l'insostituibile complemento); dall'altro esso non parte dal presupposto che la sintesi suddetta può essere efficacemente realizzata solo a condizione che il valore d'uso abbia un primato su quello di scambio (e su questo neppure il leninismo riesce ad offrire indicazioni di merito). Praticamente il problema di recuperare il primato del valore d'uso si sta ponendo solo ora nei paesi dell'ex-"socialismo reale".


Marx ha potuto facilmente criticare Aristotele perché la società schiavista che questi rappresentava aveva delle contraddizioni evidenti, ma non per questo è riuscito a porsi con la dovuta obiettività di fronte all'etica economica medievale.

E' vero, Aristotele aveva capito che "non può esistere lo scambio senza l'uguaglianza"(cit. a p.55), ovvero che esiste "un rapporto di uguaglianza nella espressione di valore delle merci"(p.56). Ed è anche vero ch'egli non poteva dedurre il concetto di valore, ovvero l'equivalenza delle merci, dall'uguaglianza dei lavori umani, essendo la società greca di tipo schiavista. In questo senso, la seconda parte della frase di Aristotele, riportata da Marx: "non può esistere l'uguaglianza senza la commensurabilità", è, rispetto alla prima definizione, di carattere tautologico, poiché "scambio" e "commensurabilità" sono, in definitiva, equivalenti.

Stando al ragionamento, perfettamente corretto, di Marx, Aristotele, se non fosse vissuto in una società schiavista, avrebbe dovuto concludere dicendo: "non c'è l'uguaglianza delle merci se non c'è l'uguaglianza sociale di chi le produce".

Tuttavia, Marx, ancora vittima dei suoi pregiudizi antimedievali, non s'accorge che la prima vera alternativa allo schiavismo non è stata costituita dalla società borghese, col suo "concetto dell'uguaglianza umana", ma è stata costituita dalla società feudale, col suo concetto di uguaglianza umana "davanti a dio". Marx cioè non si è reso conto che l'uguaglianza formale affermata dalla borghesia non era altro che una laicizzazione dell'uguaglianza non meno formale affermata dalla chiesa.

Dove stava la differenza tra le due forme di uguaglianza? Nel fatto che quella contadina viveva un conflitto antagonistico fra la socializzazione della comunità agricola e la dipendenza personale dal feudatario; mentre quella borghese rappresenta una lacerante contraddizione fra la socializzazione del mercato e la libertà individuale strettamente legata alla proprietà privata.

Marx è arrivato a un passo dal comprendere che se il concetto di uguaglianza umana ha assunto nella società borghese "la saldezza di un pregiudizio del popolo"(ib.), ciò è dipeso dal fatto che prima della cultura borghese c'era quella cristiana che alimentava nelle masse l'illusione di una libertà sostanziale. Marx non è arrivato a fare il passo successivo -che sarebbe stato quello di esaminare i pro e i contro dell'etica economica medievale, orientale e occidentale, nonché i fondamenti dell'ideologia borghese nell'ideologia religiosa del cristianesimo occidentale- semplicemente perché ha sempre considerato il servaggio una variante dello schiavismo e non un tentativo di superamento.


Che il valore di una merce debba essere soggetto alle mutazioni delle circostanze di luogo, di tempo e di altri fattori (non ultimo dei quali il lavoro), è cosa che si può accettare senza dover ogni volta ribadire la necessità, per una sana economia, che il valore d'uso abbia un primato su quello di scambio.

E' fuor di dubbio, tuttavia, che non esisterà mai alcuna possibilità di stabilire "per decreto" tale primato, senza arrecare un danno rilevante all'intera economia. La dialettica tra i due valori sarà eterna, ma fintantoché la comunità in cui essi si esprimono conserverà il proprio valore umano, quello di scambio resterà complementare a quello d'uso. Viceversa, ogniqualvolta la comunità, come tale, perderà di credibilità, il valore di scambio tenderà a prevalere su quello d'uso.

Sotto il capitalismo questa tendenza si è così radicalizzata che è impossibile ripristinare il rapporto originario senza una rivoluzione politica. Le classi sociali legate al primato del valore di scambio hanno interessi così grandi che, anche se costituiscono un'infima minoranza, non riescono a rinunciare spontaneamente ai loro privilegi.

D'altra parte la tendenza si è radicalizzata proprio perché sono falliti nell'ambito del capitalismo tutti i tentativi di salvaguardare il valore d'uso senza mettere anzitutto in discussione il monopolio di pochi privati sulla proprietà: mercantilismo, fisiocrazia ecc.

E' fallita persino quella forma di socialismo (detta dal marxismo "utopica") che mirava ad allargare la proprietà a tutti i membri di una particolare collettività socializzata. Non c'è infatti alcuna possibilità di costruire "isole felici" in cui tutelare il valore d'uso, se prima non si elimina politicamente il sistema capitalistico. In tal senso, se un merito al marxismo va riconosciuto è stato proprio quello di aver svolto una profonda opera di disillusione.

Il socialismo utopistico avrebbe avuto ragione se prima si fosse fatta la rivoluzione politica per abbattere il sistema capitalistico. Esso invece pensava che proprio attraverso riforme progressive, attraverso particolari esperimenti collettivi, non ci sarebbe stata bisogno di alcuna rivoluzione politica. Senza volerlo, esso non faceva che puntellare l'edificio traballante del sistema.


Lo sforzo maggiore che Marx ha compiuto nel § 3 è stato quello di cercare d'individuare la possibilità di una definizione oggettiva di valore a partire dalla scambio. Non è stato quello di sostenere che tale definizione è impossibile in un'economia così "anarchica" o che, prima di dare una definizione del genere, bisogna rivoluzionare il sistema.

In tal senso egli ha cercato di dimostrare che la possibilità di trovare una qualche forma di oggettività è strettamente correlata alla nascita di una contrapposizione tra "forma relativa di valore" e "forma di equivalente" (cosa che deve concludersi con il prevalere della seconda sulla prima).

Nella forma di valore semplice, singola o accidentale (ad es. venti braccia di tela = un abito) ognuna delle due merci può svolgere il ruolo opposto, per cui è "difficile fissare la contrapposizione polare"(p.66). Ogni merce ritiene di poter essere equivalente a una qualunque altra merce (poste naturalmente determinate proporzioni quantitative).

Nella forma di valore totale o sviluppata "il rapporto casuale di due individuali proprietari di merci viene meno"(p.61), poiché ora infinite merci possono fungere da equivalenti particolari per un'unica merce (ad es. la tela).

Il rovescio di questa molteplice serie di rapporti dà la forma generale di valore, quella per cui "un genere particolare di merce [ad es. la tela] riceve la forma generale di equivalente"(p.65), mentre tutte le altre ne sono escluse. Solo una merce "si trova nella forma di diretta scambiabilità con tutte le altre merci"(p.66). Questo dipende dal fatto che in essa si riconosce il riferimento sociale generale di ogni lavoro umano.

Come si può notare, Marx si è limitato a un esame logico della successione delle forme, senza entrare nei dettagli storici. Cosa che avrebbe potuto, anzi dovuto fare se avesse accettato l'idea che tali passaggi sono il frutto di una concezione culturale determinata dei rapporti sociali, e non tanto una necessità di tipo economico, e meno che mai un'esigenza di tipo psicologico.

Marx ha elaborato con grande fatica i vari passaggi della forma di valore per giungere alla conclusione, tautologica, che il valore di una merce sta nel suo prezzo, che trova la sua espressione più compiuta nell'equivalente universale del denaro e che viene deciso di volta in volta.

Tale deludente (ma d'altra parte inevitabile) conclusione -cui Marx cercherà di porre rimedio col § sul feticismo della merce- si sarebbe potuta evitare se si fosse partiti da un'altra premessa, quella secondo cui è possibile trovare un valore oggettivo alla merce solo nell'ambito della comunità di autoconsumo, che di per sé non esclude affatto il mercato.

La premessa da cui parte Marx (vedi la forma "A" del valore), e cioè quella dei due individui privati che s'incontrano casualmente, liberamente, sul mercato, potrà avere un valore come ipotesi astratta ma non ne ha alcuno come riscontro storico. Sin dall'inizio, infatti, tentando di far valere il lavoro astratto su quello concreto, la borghesia ha fatto in modo che sul mercato prevalessero i "manufatti finiti" rispetto alla "materia prima" (l'abito rispetto alla tela).

Il contadino è sempre stato produttore di materia prima (beni alimentari, cotone ecc.). Ora, l'interesse principale che ha l'imprenditore privato borghese, che vuole trasformare la materia prima, è anzitutto quello che il contadino non abbia la possibilità di trasformare la propria materia prima in modo industriale e che quindi egli stesso si trasformi in consumatore a vita.

In tal senso la tendenza della borghesia è stata quella di considerare subito il denaro come equivalente universale, onde impedire che sulla base di una qualche materia prima a disposizione della comunità agricola si potesse imporre sul mercato un'altra merce riconosciuta equivalente. La borghesia ha imposto come equivalente ciò di cui già disponeva in abbondanza.

Le forme elencate da Marx, quindi, riflettono non l'evoluzione della società borghese (a partire dalla sua fase mercantile), ma l'innesto di due società che privilegiano il mercato sull'autoconsumo: quella schiavistica e quella borghese e, a partire da questo, la superiorità della seconda sulla prima.

In tal senso si potrebbe affermare che nella prima forma di valore solo in astratto tela e abito si equivalgono: nel concreto è la tela che deve adeguarsi all'abito. L'imprenditore privato che trasforma la materia prima vuole dominare non solo sul consumatore (impedendogli qualunque aspirazione all'autonomia), ma anche il produttore di materie prime, al quale non si concede la possibilità di trasformarsi in un imprenditore per il vasto pubblico.

Facciamo un esempio. Una stoffa di lino può costare £ 50.000 al mq; con 2 mq si può fare una giacca che sul mercato può essere venduta a £ 300.000. Ma la giacca "segue" la moda. L'anno dopo essa costerà £ 150.000, mentre il costo del lino sarà intanto aumentato, per cause diverse, di altre 10.000 £ al mq. Dunque, è stata la stoffa ad adeguarsi al trend della giacca o è stato il contrario?

Facciamo un altro esempio. Un agricoltore raccoglie 1 kg di albicocche che gli vengono pagate £ 300 dall'imprenditore che con la sua industria di trasformazione ci farà 3 confetture di marmellata al prezzo di £ 1500 l'una. L'anno dopo, se il raccolto sarà ancora più abbondante, le albicocche, al kg, scenderanno a £ 200, mentre l'imprenditore potrà, con relativa tranquillità, incrementare il prezzo della marmellata di altre 2-300 £: cosa che, a maggior ragione, farà anche se il raccolto sarà stato scarso o molto scarso.

Dunque, chi o che cosa esprime di più la "forma di equivalente": il frutto naturale o quello lavorato? Per quale ragione tra la "forma naturale" della merce e quella "fenomenica" deve esistere un divario così grande e sempre così svantaggioso alla prima?





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