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Kant Ragion Pratica: tratti generali

filosofia



Kant ‑ Ragion Pratica: tratti generali



A) Se l'Assoluto non può essere oggetto di conoscenza da parte dell'uomo, esso può tuttavia ‑ anzi, deve ‑ costituire un criterio guida per ogni azione umana; questo dovere, che rappresenta il fondamento e l'essenza di ogni atto morale, non è poi niente di diverso dalla razionalità, la quale costituisce, come si è visto, l'orizzonte di ogni sapere.

Tale orizzonte (che è appunto l'apertura dell'Incondizionato, dell'Infinito) è il contenuto di un'idea necessaria della ragione che, pur non potendo permettere a quest'ultima di spingersi realmente al di là del fenomeno (in quanto vale solo come funzione "soggettiva"), resta comunque momento essenziale, struttura portante dello stesso mondo fenomenico, le cui articolazioni si manifestano solo in relazione a quell'orizzo 828f52i nte.

In altri termini, se l'uomo non può affidarsi alla ragione per conoscere le "cose in sé", egli non può neanche far a meno della sua natura razionale, che è anzi proprio il suo tratto distintivo; questa natura, peraltro, si riflette immediatamente nella sfera pratica nella quale, accanto alla voce dei desideri immediati e dei calcoli opportunistici, l'uomo sente (e non può non sentire) anche quella della pura ragione, che lo chiama verso l'assoluto: un Imperativo Categorico .




La moralità consiste dunque proprio nell'istanza a superare il mondo finito dell'esperienza, nell'istanza ad agire senza venir determinato da altro che dall'esigenza di un Ordinamento Universale, incondizionato, al di là di ogni considerazione utilitaristica (cioè legata alla propria finitudine). Pertanto, ciò che definisce veramente l'azione morale non è il suo contenuto, il suo aspetto contingente ("a‑posteriori"), ma la sua forma (che, esprimendo proprio quell'imperativo assoluto, ha il carattere necessario di un principio "a‑priori"); in altri termini, quello che rende morale l'azione umana non è il che cosa l'uomo fa, ma il come e perché lo fa.

La Morale non può dunque fondarsi su una serie di regole o modelli da seguire, sia perché l'uomo che agisce moralmente non può essere determinato da altro che da sé stesso (non può conformarsi ad un sistema precostituito, stabilito per lui da altri), sia perché, come detto, ciò che davvero conta non è il contenuto del suo agire.


Enunciando, pertanto, le "formule dell'Imperativo Categorico" Kant non intende assolutamente proporre agli uomini dei criteri di comportamento, ma solo esporre, chiarire il modo in cui la ragione, presente in ognuno, fa sentire necessariamente il suo richiamo: essa impone cioè che il criterio che guida l'agire aspiri ad una validità universale, che l'umanità, ossia la razionalità stessa, non perda mai il suo carattere assoluto (= di fine di ogni azione) e che dunque essa soltanto possa costituirsi come legislatrice.


B) "Etica Formale", è stata definita quella kantiana, in quanto essa non si fonda su di un sistema di verità precostituite, che dunque potrebbero dire all'uomo che cosa è giusto fare, ma sulla sola istanza morale (cioè razionale) presente nell'uomo stesso ; ancor di più, Kant osserva che se l'agire umano fosse determinato dalla conoscenza (teoreticamente indubitabile) di verità soprannaturali, esso non avrebbe più ‑ e non potrebbe avere in alcun modo ‑ carattere morale. Se infatti davanti all'uomo stesse la realtà di un Dio eterno, di una Giustizia assoluta che premia e punisce infallibilmente, ogni comportamento umano assumerebbe inevitabilmente i caratteri di quell'agire utilitaristico proprio di chi presta ascolto ad un imperativo "ipotetico", cioè si uniformerebbe ad un principio "a posteriori" .


Tuttavia, proprio vivendo nella dimensione etica, l'uomo scopre in sé anche la necessità di una fede, essa pure inalienabile, che scaturisce proprio dalle esigenze della ragione: quest'ultima infatti, se non vuole pensare la realtà in modo contraddittorio, deve riconoscere che l'esistenza di un dovere morale implica quella della libertà di chi lo assume, libertà che nessuna teoresi è in grado di dimostrare (cfr. Dialettica Trascendentale), ma in cui ci è anche impossibile non credere.

Nello stesso tempo, dato che la virtù consiste nell'aspirare al sommo bene (cioè alla perfezione assoluta) e che quest'ultimo non può manifestarsi nel corso dell'esistenza terrena (finita e materiale), l'agire morale implica la fede in un'esistenza eterna, condizione indispensabile perché quell'aspirazione abbia un senso.

Infine l'Assoluto stesso non può essere concepito come contraddittorio, e dunque in esso deve essere vista come realizzata e realizzabile quella stessa perfezione cui l'uomo aspira, e che per lui equivale all'unione definitiva di virtù e felicità: è necessario dunque credere anche in un Essere Supremo che rappresenti e garantisca quell'unione.

Vale la pena di ripetere che non si tratta di conclusioni relative al campo della conoscenza, così che questi "postulati della Ragion Pratica" restano per l'uomo solo un "dover credere", ma è proprio per questo che l'uomo virtuoso, pur credendo necessariamente in Dio, non agisce virtuosamente in base a tale fede: la virtù è, come si è visto, fine a sé stessa, e la fede in Dio, più che sorreggerla, scaturisce da essa secondo un nesso rigorosamente razionale .

Questo non toglie che, proprio perché l'aspirazione all'assoluto resta l'orizzonte necessario di ogni atto umano, la sfera morale assuma addirittura una preminenza su quella teoretica: l'uomo è anzitutto un essere morale, e qualunque ricerca scientifica e speculativa si sviluppa a partire da questa sua natura fondamentale ("Primato della Ragion Pratica").



Ciò non significa che, allora, tutti gli uomini dedichino la loro vita a seguire quel richiamo (e dunque che tutti gli uomini conducano un'esistenza assolutamente morale), ma significa che nessun essere umano può evitare di sentirlo, e dunque di fare i conti con esso.
Geymonat nota, in proposito, che l'etica kantiana non può considerarsi del tutto "formale" perché, appunto, proprio l'assumere l'umanità come valore assoluto rappresenta il suo contenuto specifico. L'accento posto da Kant sulla dignità umana (=dell'uomo in quanto tale, indipendentemente dalla sua cultura e stato sociale) è riconducibile, in qualche modo, alle posizioni di Rousseau, anche se per quest'ultimo il fondamento di tale dignità non era la ragione ma il sentimento, che è invece visto da Kant come manifestazione impulsiva, e dunque limitata.
Si noti l'analogia di questa posizione con quanto Kant aveva rilevato a proposito della conoscenza a‑priori: anche in quel caso era proprio il suo non essere fondato al di fuori del soggetto umano che conferiva validità assoluta, a‑priori, al sapere.

Questo tema è poi sviluppato da Kant nell'opera: La religione nei limiti della semplice ragione





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