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Immanuel Kant - [Dispense dal manuale di Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano]

filosofia



Immanuel Kant


[Dispense dal manuale di Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano]





Prima fase.


1. Negli studi giovanili di filosofia naturale, Kant si è venuto familiarizzando con la filosofia naturalistica dell'Illuminismo ispirata da Newton. Questa filosofia, col suo ideale di una descrizione dei fenomeni e con la rinuncia ad ammettere cause e forze che trascendessero tale descrizione, gli ha prospettato l'esigenza di una metafisica che si costituisse in base agli stessi criteri limitativi. Tale metafisica avrebbe dovuto tuttavia avvalersi del metodo della ragione fondante, che dominava l'ambiente filosofico in cui Kant si era formato. Le analisi degli empiristi inglesi, verso le quali egli si orienta in virtù di quella stessa esigenza, gli prospettano dapprima questa metafisica come scienza limitativa e negativa, quindi come un'autocritica della ragione.




2. Successivamente, e per la prima volta nella Dissertazione (1770), il punto di vista critico si chiarisce come punto dì vista trascendentale, limitatamente alla conoscenza sensibile: la validità di questa conoscenza viene fondata sui suoi stessi limiti. Dal 1781 in poi, il punto di vista critico viene esteso a tutto il mondo dell'uomo.




Il "Criticismo".


La filosofia di Kant è detta "Criticismo" perché contrapponendosi al "dogmatismo" fa della "critica" lo strumento per eccellenza della filosofia. "Criticare", nel linguaggio tecnico di Kant, significa infatti, conformemente all'etimologia greca, "giudicare", ossia indagare il fondamento di un'esperienza, chiarendone le possibilità (le condizioni che ne permettono l'esistenza), la validità (i titoli di legittimità o non-legittimità che la caratterizzano) e i limiti (i confini di validità). Questa filosofia del finito non equivale tuttavia ad una forma di scetticismo, poiché tracciare il limite di un'esperienza significa nel contempo garantire, entro il limite stesso, la sua validità. L'impossibilità della conoscenza di trascendere i limiti dell'esperienza diventa allora la base dell'effettiva validità della conoscenza; l'impossibilità dell'attività pratica dì raggiungere la santità diventa la norma della moralità che è propria dell'uomo. Il legame che unisce, e al tempo stesso divide, Kant e Hume appare quindi evidente. Kant si propone di rinunciare ad ogni evasione dai limiti dell'uomo e, come egli stesso riconosce, deve questa rinuncia a Hume. Tuttavia, il kantismo si distingue dall'Empirismo non solo per il rifiuto dei suoi esiti scettici, ma anche per il suo spingere più a fondo l'analisi critica, cioè per un metodo di filosofare che più che soffermarsi sulla descrizione dei meccanismi conoscitivi, etici, sentimentali, ecc., si sforza di fissarne le condizioni possibilitanti ed i limiti di validità.





Il problema generale della "Critica della ragion pura".


La Critica della Ragion Pura è sostanzialmente un'analisi critica dei fondamenti del sapere. La scienza e la metafisica si presentavano agli occhi di Kant in modo assai diverso. Infatti mentre la scienza, grazie ai successi conseguiti da Galileo e da Newton, appariva come un sapere fondato ed in continuo progresso, la metafisica, con il suo voler procedere oltre l'esperienza, con il suo fornire, nei vari filosofi, soluzioni antitetiche ai medesimi problemi, con le sue contese senza fine, non sembrava affatto aver trovato il cammino sicuro della scienza. Di conseguenza, la ricerca di Kant prende la forma concreta di uno studio teso a stabilire come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e se sia possibile anche una metafisica come scienza. Kant prende come modello il sapere scientifico e mostra come la scienza sia un tipico esempio che dimostri l'esistenza (nella conoscenza umana) di principi assoluti (ossia di verità universali e necessarie). Infatti, pur derivando in parte dall'esperienza, e pur nutrendosi continuamente di essa, la scienza presuppone anche, alla propria base, taluni principi immutabili che ne fungono da pilastri. Tali sono, per esempio, gli assiomi della fisica "ogni evento dipende da cause" oppure "ogni oggetto dell'esperienza è nello spazio e nel tempo". Kant denomina princìpi di questo tipo "giudizi sintetici a priori": giudizi poiché consistono nell'aggiungere un predicato ad un soggetto; sintetici perché il predicato dice qualcosa di nuovo e di più rispetto ad esso; a priori perché essendo universali e necessari non possono derivare dall'esperienza, la quale, come aveva già insegnato Hume, non ci garantisce che ogni evento debba necessariamente, anche in futuro, dipendere da cause, ma che sinora, nel passato, così è stato.





La nuova teoria della conoscenza e il "copernicanesimo" di Kant.


Dunque per Kant la scienza si fonda sui giudizi sintetici a priori. Il problema è allora quello di chiarirne la provenienza. Se non derivano dall'esperienza, da dove provengono i giudizi sintetici a priori? È per rispondere a questa domanda che Kant elabora una nuova teoria della conoscenza. Kant intende la conoscenza come sintesi di materia e forma.


Materia della conscenza sono le impressioni sensibili.

Forma della conscenza sono le modalità attraverso cui la mente umana percepisce la realtà. Queste modalità costituiscono l'elemento a priori della conoscenza.


Secondo Kant la mente seleziona, filtra attivamente i dati emipirici attraverso schemi o forme che le sono innate. Come tali, queste sono forme a priori rispetto all'esperienza e sono fornite di validità universale e necessaria, in quanto tutti li possiedono e li applicano allo stesso modo. La scienza è allora feconda in due sensi: sia per quanto riguarda il contenuto, che le deriva dall'esperienza, sia per quanto riguarda la forma che le deriva dai giudizi sintetici a priori, che ne rappresentano i quadri concettuali di fondo. Nello stesso tempo, proprio in virtù dei giudizi sintetici a priori, la scienza è anche universale e necessaria.



In sintesi:


scienza = principi a priori + esperienza

(sapere fecondo e universale e necessario)



Di conseguenza, quando si afferma che per Kant ogni giudizio scientifico è sintetico a priori, si intende che i vari giudizi scientifici si basano su giudizi sintetici a priori. Ad esempio, la proposizione "il calore dilata i metalli", pur essendo formulata in virtù dell'esperienza (non avrebbe senso dire il contrario) presuppone, alla propria base, il principio di causalità, che in quanto universale e necessario risulta, per Kant, sintetico a priori. In altre parole, i giudizi sintetici a priori rappresentano la spina dorsale della scienza, ovvero l'elemento che le conferisce stabilità ed universalità, ed in mancanza del quale essa sarebbe costretta a muoversi, ad ogni passo, nell'incerto e nel relativo. Infatti, senza taluni principi assoluti di fondo - e in ciò risiede il cuore di tutta l'epistemologia kantiana - la scienza non potrebbe sussistere, in quanto il ricercatore (humiano), ad ogni passo, sarebbe obbligato a brancolare nel buio, non sapendo ad esempio se anche nel futuro ogni evento dipenderà da cause o se ogni oggetto d'esperienza sarà nello spazio e nel tempo. Invece lo scienziato kantiano è certo a priori di tali verità, anche se per sapere quali siano le cause che producono gli eventi o che cosa vi sia nello spazio e nel tempo ha bisogno di ricorrere alla testimonianza dell'esperienza.


Rivediamo il concetto: dopo aver mess 131j99b o in luce che la scienza poggia su giudizi sintetici a priori Kant si trova di fronte al complesso problema di spiegare la provenienza di questi ultimi. Infatti, se non derivano dall'esperienza da dove deriveranno i giudizi sintetici a priori? Per rispondere a questo interrogativo Kant elabora una nuova teoria della conoscenza, intesa come sintesi di materia e forma. Per materia della conoscenza Kant intende l'insieme delle impressioni sensibili, particolari e mutevoli, che provengono dall'esperienza (= elemento empirico o a posteriori). Per forma intende l'insieme delle modalità proprie attraverso cui la mente umana percepisce e pensa la realtà (= elemento razionale o a priori). Egli ritiene infatti che la mente filtri attivamente i dati empirici attraverso schemi o forme che le sono innate e che risultano comuni ad ogni soggetto pensante. Come tali, queste forme sono a priori rispetto all'esperienza e sono fornite di validità universale e necessaria, in quanto tutti li possiedono e li applicano allo stesso modo. In un certo senso, Kant è dunque un innatista anche se il suo innatismo formale è ben diverso da quello della tradizione, in quanto i suoi schemi a priori non sono ciò che si conosce, ma semplicemente ciò attraverso cui si conosce. Per chiarire la teoria delle forme a priori di Kant si può ricorrere all'esempio, ormai classico, che le paragona a delle specie di ipotetiche lenti colorate o di occhiali permanenti, attraverso cui guardiamo la realtà. Un altro esempio potrebbe essere quello che assimila la mente ad una macchina fotografica, che scatta delle fotografie sul mondo, le quali recano necessariamente l'impronta dell'apparecchio che le ha scattate. Ma l'esempio più "attuale" è probabilmente quello tratto dalla cibernetica: la mente kantiana è simile ad un computer, che elabora la molteplicità dei dati che le vengono forniti dall'esterno, mediante una serie di programmi fissi, che ne rappresentano gli immutabili codici di funzionamento. Per cui, pur mutando incessantemente le informazioni (= le impressioni

sensibili), non mutano mai i loro schemi di recezione (= le forme a priori). Ma se in noi esistono determinate forme a priori, universali e necessarie (che per Kant sono lo spazio ed il tempo e le 12 categorie) attraverso cui incapsuliamo i dati della realtà, resta spiegato perché si possano formulare dei giudizi sintetici a priori senza timore di essere smentiti dall'esperienza. Infatti, qualora sapessimo di portare sempre delle lenti azzurre, potremmo dire, con tutta sicurezza, che il mondo, per noi, non potrà che essere, anche in futuro, azzurro. Per analogia, noi possiamo asserire con certezza che ogni evento, anche in futuro, dipenderà da cause o sarà nello spazio e nel tempo, in quanto non possiamo percepire le cose se non attraverso la causalità e mediante lo spazio ed il tempo. Questa nuova impostazione del problema della conoscenza implica immediatamente alcune importanti conseguenze. In primo luogo, essa comporta quella "rivoluzione copernicana" che Kant si vantò di aver operato in filosofia. Come Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i rapporti fra la terra ed il sole, Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti fra soggetto ed oggetto, affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà - nel qual caso non vi sarebbero conoscenze universali e necessarie - bensì la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. In secondo luogo, la nuova ipotesi gnoseologica comporta la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Il fenomeno è la realtà quale ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. Come tale, il fenomeno non è un'apparenza illusoria, poiché è un oggetto, ed un oggetto reale, ma reale soltanto nel rapporto con il soggetto conoscente. La cosa in sé è la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante cui la conosciamo. Di conseguenza, la cosa in sé costituisce una sorta di "x sconosciuta", poiché l'uomo non ha mai a che fare con essa, ma solo con il fenomeno.





I gradi della conoscenza e la partizione della "Critica della ragion pura".


Kant articola la conoscenza in tre gradi fondamentali:


  1. la sensibilità, mediante cui gli oggetti ci sono dati attraverso i sensi e in modo immediato o intuitivo, anche se già filtrati attraverso le forme a priori di spazio e di tempo.

  1. l'intelletto, attraverso cui noi pensiamo i dati sensibili mediante i concetti puri o categorie;

  1. la ragione (in senso stretto), attraverso cui la mente, andando oltre l'esperienza, tenta di far metafisica, cioè di spiegare globalmente la realtà mediante le tre idee di anima, mondo e Dio.




Su questa tripartizione della facoltà conoscitiva in generale (= la ragione in senso largo) è sostanzialmente basata anche la divisione della Critica della ragion pura.


Questa si biforca in due tronconi principali:


la dottrina degli elementi, che si propone di scoprire, isolandoli, quegli elementi formali della conoscenza che Kant chiama puri o a priori, e


la dottrina del metodo, che consiste nel determinare l'uso possibile degli elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della conoscenza medesima.



La dottrina degli elementi, che è la parte più estesa della Critica, si ramifica a sua volta in Estetica trascendentale e Logica trascendentale.



L'Estetica trascendentale (intesa nel senso etimologico greco di "dottrina della sensibilità") studia la sensibilità e le sue forme a priori di spazio e di tempo; mostrando come su di essa si fondi la matematica.


La Logica trascendentale, o "dottrina del pensiero" si sdoppia a sua volta in Analitica trascendentale, che studia l'intelletto e le sue forme a priori - le 12 categorie - mostrando come su di esse si fondi la fisica; e in Dialettica trascendentale, che studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica, la quale, a differenza della matematica e della fisica, non ha valore di scienza.








Il termine "trascendentale".


Nella filosofia del Medio Evo erano denominate "trascendentali" le proprietà ontologiche che si riteneva costituissero il fondamento o la possibilità del reale (ad es.: l'essere, l'uno, il bene, ecc.). Nonostante la terminologia kantiana, a questo proposito, non sia sempre coerente, nella Critica per "trascendentale" si intende soprattutto la determinazione o lo studio filosofico delle forme a priori, che rappresentano a loro volta ciò che fonda e rende possibile la conoscenza. A questo punto, siamo anche in grado di intendere compiutamente il titolo del capolavoro di Kant. Posto che con il termine "ragione" si intenda "la facoltà conoscitiva in generale" e con il termine "pura" si intenda "ciò che è fonte di conoscenza a priori", il titolo in questione può essere interpretato nel seguente modo: "esame critico generale delle possibilità, della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori". Come tale, la Critica rappresenta un'analisi delle autentiche possibilità conoscitive dell'uomo, ossia una specie di mappa filosofica della potenza e dell'impotenza della ragione, in quanto depositària di princìpi puri o a priori.






L'Estetica trascendentale




La teoria dello spazio e del tempo.


Come si è accennato, nell'Estetica Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori. Kant considera la sensibilità "recettiva" perché essa non genera i propri contenuti ma li accoglie, per intuizione immediata, dalla realtà esterna o dall'esperienza interna. Tuttavia la sensibilità non è soltanto recettiva, ma anche attiva, in quanto organizza le intuizioni empiriche, ovvero la materia della conoscenza, tramite lo spazio ed il tempo, che costituiscono leforme pure (= a priori) delle intuizioni empiriche. Per questo, Kant definisce spazio e tempo anche "intuizioni pure". Lo spazio, che è la forma del senso esterno esprime l'ordine della coesistenza delle cose, cioè il loro disporsi l'una accanto all'altra. Il tempo, che è la forma del senso interno, esprime l'ordine della successione dei nostri stati d'animo, ossia il loro disporsi l'uno dopo l'altro. Tuttavia, poiché è unicamente attraverso il senso interno che giungono a noi i dati del senso esterno il tempo si configura anche, indirettamente, come la forma del senso esterno, cioè come la maniera universale attraverso la quale percepiamo tutti gli oggetti. Per cui, se non ogni cosa è nello spazio, ad esempio i sentimenti, ogni cosa è però nel tempo, in quanto "tutti i fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel tempo e stanno necessariamente fra di loro in rapporti di tempo" (C.R.P., Estetica trascendentale, 11, 6). Kant giustifica l'apriorità dello spazio e del tempo sia con argomenti teorici generali (nella cosiddetta "esposizione metafisica") sia con argomenti tratti dalla considerazione delle scienze matematiche (nella cosiddetta "esposizione trascendentale"). Nella "esposizione metafisica", Kant fa emergere il proprio punto di vista confutando sia la visione empiristica, che considerava spazio e tempo come nozioni tratte dall'esperienza (Locke), sia la visione oggettivistica, che considerava spazio e tempo come entità a sé stanti o recipienti vuoti (Newton), sia la visione relazionistico-concettualistica, che considerava spazio e tempo come concetti esprimenti i rapporti fra le cose (Leibniz). Contro l'interpretazione empiristica, Kant afferma che spazio e tempo non possono derivare dall'esperienza, poiché per fare un'esperienza qualsiasi dobbiamo già presupporre le rappresentazioni originarie di spazio e di tempo. Contro l'interpretazione oggettivistica, Kant sostiene che qualora spazio e tempo fossero davvero dei recipienti vuoti, ossia degli assoluti a sé stanti, essi dovrebbero continuare ad esistere anche nell'ipotesi che in essi non vi fossero oggetti. Ma come fare a concepire "qualcosa che, senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale?" (C.R.P., Estetica trascendentale, par. 6). In verità, puntualizza Kant, spazio e tempo non sono dei contenitori in cui si trovano gli oggetti poiché in tal caso, come si è appena visto, sarebbe difficile concepire la loro esistenza autonoma - bensì dei quadri mentali a priori entro cui connettiamo i dati fenomenici. Come tali, essi, pur essendo "ideali" o "soggettivi" rispetto alle cose in se stesse, sono tuttavia "reali" ed "oggettivi" rispetto all'esperienza, ossia alle cose quali appaiono fenomenicamente (nell'ipotesi che noi portassimo sempre delle lenti azzurre, tale colore, per noi, sarebbe altrettanto "reale" dei vari oggetti). Per questo motivo, a proposito della sua teoria dello spazio e del tempo, Kant parla di "idealismo trascendentale" e di "realismo empirico".


Contro l'interpretazione relazionistica-concettualistica Kant afferma che spazio e tempo non possono venir riguardati alla stregua di concetti, in quanto essi hanno una natura intuitiva e non discorsiva, perché noi, ad esempio, non astraiamo il concetto di spazio dalla constatazione dei vari spazi, ma intuiamo i vari spazi come parti di un unico spazio, presupponendo in tal caso la rappresentazione originaria di spazio, che risulta quindi una "intuizione pura". Inoltre la concezione dello spazio come relazione tra i corpi appariva a Kant pericolosamente relativistica e destinata ad urtare contro difficoltà concernenti il moto locale.

Crollata la concezione greco-mediovale dei "luoghi naturali" nasceva il problema di reperire un punto di riferimento rispetto a cui si potesse parlare di moto locale. Infatti, in relazione a che cosa si dice che un corpo è in quiete o in moto? E come distinguere il moto reale da quello apparente? Perché si sostiene ad esempio che è la nave che si allontana dalla riva e non la riva che si allontana dalla nave? Per risolvere questi problemi, senza ricorrere ad una interpretazione relativistica del moto locale (sostenuta da Leibniz, ma lontana dalla mentalità prevalente dell'epoca) Newton era ricorso alla teoria dello spazio assoluto. Kant, nel corso delle sue decennali meditazioni in proposito, pur simpatizzando talora con Leibniz, aveva finito per accogliere le teorie newtoniane, ritenendo che soltanto esse fornissero una stabile piattaforma alla fisica e fossero in grado di risolvere i sopracitati problemi di dinamica. Tuttavia, rifiutando l'interpretazione oggettivistica dello spazio e del tempo, come realtà a sé stanti, aveva pensato di salvarne l'assolutezza in modo soggettivistico, considerandoli delle condizioni a priori del conoscere, ovvero delle coordinate fisse ed universali (= assolute) dell'esperienza feriomenica. In tal modo, partendo dal soggetto, Kant credeva di aver giustificato quell'assolutezza dello spazio e del tempo che Newton aveva cercato invano nell'oggetto.






La fondazione kantiana della matematica.


Nella "esposizione trascendentale" Kant giustifica ulteriormente l'apriorità dello spazio e del tempo mediante talune considerazioni epistemologiche sulla matematica, volte, nel contempo, ad una fondazione filosofica della medesima. Kant vede nella geometria e nell'aritmetica delle scienze sintetiche a priori per eccellenza. Sintetiche (e non analitiche) in quanto ampliano le nostre conoscenze mediante costruzioni mentali che vanno oltre il già noto. Ad esempio, la proposizione 7 + 5 = 12, osserva Kant, è sintetica in quanto il risultato 12 viene aggiunto tramite l'operazione del sommare e non può quindi esser ricavato per via puramente analitica. Ciò risulta evidente se si prendono in esame cifre più alte: ad esempio la semplice analisi meniale dei concetti aritmetici 62.525 + 48.734 non può affatto suggerirci il loro risultato, che occorre invece far scaturire sinteticamente mediante un calcolo, il quale soltanto ci fa scoprire la somma dei suoi addendi. Inoltre, le matematiche sono a priori (e non a posteriori) in quanto i teoremi geometrici ed aritmetici - come insegna una tradizione di pensiero che va da Platone a Hume - vengono sviluppati indipendentemente dall'esperienza.

Qual è, allora, il punto di appoggio delle costruzioni sintetiche a priori delle matematiche? Kant non ha dubbi che esso risieda nelle intuizioni di spazio e di tempo.  Infatti la geometria è la scienza che dimostra sinteticamente a priori le proprietà delle figure mediante l'intuizione pura di spazio, stabilendo ad esempio, senza ricorrere all'esperienza del mondo esterno, che fra le infinite linee che uniscono due punti la più breve è la retta, che due parallele non chiudono uno spazio, che in una circonferenza il raggio è minore del diametro ecc. Analogamente, l'aritmetica è la scienza che determina sinteticamente a priori la proprietà delle serie numeriche, basandosi sull'intuizione pura di tempo e di successione, senza la quale lo stesso concetto di numero non sarebbe mai sorto. In quanto a priori, la matematica è anche universale e necessaria, immutabilmente valida per tutte le menti pensanti. Per quale ragione, allora, le matematiche, pur essendo una costruzione della nostra mente, valgono anche per la natura? Anzi, perché tramite esse siamo addirittura in grado di fissare anticipatamente delle proprietà che in seguito riscontriamo nell'ordine fattuale delle cose? Che cosa garantisce questa stupefacente coincidenza, su cui fa leva la fisica? A questi interrogativi di filosofia della scienza, Galileo, sulla base della sua epistemologia realistica, aveva risposto sostanzialmente che Dio, creando, geometrizza, postulando in tal modo una struttura ontologica di tipo matematico. Kant, avendo dichiarato inconoscibile la cosa in sé, non poteva certo presupporre simili "armonie prestabilite". Escludendo ogni garanzia di tipo metafisico e teologico, egli afferma invece che le matematiche possono venir proficuamente applicate agli oggetti dell'esperienza fenomenica poiché quest'ultima, essendo intuita nello spazio e nel tempo - che sono anche i cardini della matematica - possiede già, di per sé, una configurazione geometrica ed aritmetica. In altre parole, se la forma a priori di spazio con cui ordiniamo la realtà è di tipo euclideo, risulta evidente che i teoremi della geometria di Euclide varranno anche per l'intero mondo fenomenico. Si noti come questa teoria di Kant, nonostante la sua forte originalità, comporti un'assolutizzazione della matematica in generale e della geometria euclidea in particolare, implicando, tra l'altro, che lo spazio dell'esperienza coincida con lo spazio euclideo.




Kant e la crisi della geometria euclidea.


Come sappiamo questo modo di pensare entrerà in crisi soprattutto con la scoperta ottocentesca delle cosiddette "geometrie non-euclidee" e con la loro applicazione nella fisica del Novecento.





L'Analitica trascendentale.



Le categorie


La seconda parte della Dottrina degli elementi è la Logica trascendentale, che a differenza della logica formale della tradizione, che studiava i meccanismi generali del ragionamento, ha come oggetto d'indagine i princìpi a priori del pensiero. La prima parte della Logica trascendentale è l'Analitica, che studia l'intelletto e le sue forme, determinandone il numero, la validità e gli ambiti d'uso. Kant denomina le forme a priori dell'intelletto con il termine aristotelico di "categorie". Per Aristotele le categorie erano, al tempo stesso, le determinazioni fondamentali della realtà e i concetti basilari della nostra mente, ossia quei predicati primi in cui rientrano tutti i predicati possibili. Per Kant le categorie sono invece i modi attraverso cui vengono pensati, da parte dell'intelletto, i contenuti offerti dall'intuizione spazio temporale della sensibilità. Infatti, mediante i sensi gli oggetti ci vengono dati, mentre tramite l'intelletto vengono pensati, secondo un processo tale per cui "senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche". (C.R.P., Logica trascendentale, Introduzione I). A differenza delle categorie aristoteliche, che hanno un valore ontologico e gnoseoLogico (essendo forme dell'essere e del pensiero ad un tempo), le categorie kantiane hanno una portata esclusivamente gnoseologica in quanto rappresentano delle leggi di funzionamento della mente, che non valgono per la cosa in sé, ma solo per il fenomeno.






La tavola delle categorie


Stabilito il concetto di "categorie", la prima preoccupazione di Kant è quella di redigerne una tavola completa. Tale inventario viene fatto mediante un ragionamento di questo tipo: poiché pensare è giudicare, e giudicare significa attribuire un predicato ad un soggetto, ci saranno, tante categorie (ossia tante forme del pensiero e tanti predicati primi) quante sono le modalità di giudizio. E poiché già la logica greca aveva distinto i giudizi secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità, Kant - non senza qualche vistosa forzatura dettata dalla ricerca di una perfetta simmetria - fa corrispondere ad ogni tipo di giudizio un tipo di categoria.


È facile vedere come queste categorie kantiane entrino in azione in tutti i giudizi o le proposizioni in cui si

concreta il nostro pensiero. Si parla infatti sempre di una cosa o di più cose o di una totalità di cose (categorie della quantità). Si afferma che una cosa è reale oppure che non lo è oppure che non è quella tale realtà (categorie della qualità). Si giudica che una certa proprietà appartiene a una certa sostanza o che un certo fatto è causa di un altro fatto, o che due cose agiscono e reagiscono l'una sull'altra (categorie della relazione). Infine si afferma che una certa cosa è possibile o impossibile, che esiste o non esiste, che deve necessariamente esistere o è puramente accidentale (categorie della modalità).


Perciò, pensare un oggetto significa mettere in funzione sempre una o più di queste categorie, mentre la percezione ci dà soltanto una determinata cosa nello spazio e nel tempo: per esempio la mela che è qui davanti. Ma già il pensare e dire che "c'è una mela" significa mettere in opera la categoria dell'unità ("una") della realtà (perché si afferma che la mela c'è), della sostanzialità perché si attribuiscono alla mela i caratteri che la fanno riconoscere; e della modalità perché, dicendo che c'è, la si considera non possibile né necessaria, ma semplicemente "esistente". Kant ritiene pertanto che le categorie non mancano mai alla conoscenza e che questa, come esperienza, è sempre sintesi, cioè unione, di intuizioni sensibili e di categorie. Kant ritiene pure che questo fatto è particolarmente evidente nella conoscenza scientifica, e specificamente nella fisica di Newton che egli tiene continuamente presente: perché in essa le categorie di relazione soprattutto cioè i concetti di sostanza, di causa e di azione reciproca, sono continuamente adoperate. Kant tuttavia non ritiene che il fatto che siano adoperate basti a giustificarle: si trovano infatti adoperate, per esempio nella metafisica tradizionale, concetti che, come egli stesso dimostrerà, non possono essere giustificati e che quindi non hanno validità conoscitiva.






La "DEDUZIONE TRASCENDENTALE"


Formulata la tavola delle categorie, Kant si trovava di fronte al problema della giustificazione della loro validità e del loro uso. Problema che egli denominò "deduzione trascendentale" ed in cui vide la questione "più difficile" della Critica (tant'è vero che si affaticò su di essa per parecchi anni). Kant trae il termine "deduzione" dal linguaggio forense del tempo, nel quale, come del resto ancor oggi, rimandava alla "giustificazione di diritto di una pretesa di fatto" (ad esempio, il fatto che una persona sia in possesso di un certo oggetto non prova ancora che essa, in base alla legge, abbia diritto su di esso). Analogamente, la "deduzione" delle categorie non consiste nella semplice prova che esse sono adoperate, in linea di fatto, nella conoscenza scientifica; ma nella giustificazione che quest'uso è legittimo e quindi anche nella determinazione dei limiti di quest'uso, cioè del diritto della ragione ad impiegarle: diritto che, come tutti gli altri, è soggetto a restrizioni.  Tradotto concretamente nei termini gnoseologici della Critica, il problema della deduzione suona perciò in questo modo:


perché le categorie, pur essendoforme soggettive della nostra mente, pretendono di valere anche per gli oggetti?


2. che cosa assicura, di diritto, che la natura obbedirà ad esse, manifestandosi, nell'esperienza, secondo le nostre maniere di pensarla?



Evidentemente una difficoltà di questo tipo nasce solo nell'ambito specifico della gnoseologia kantiana. Infatti, se l'intelletto umano fosse un potere creatore, che producesse esso stesso i suoi oggetti, o se fosse (come supponeva la tradizione) un organo passivo, che si limitasse a riflettere specularmente gli oggetti, non nascerebbe mai il problema della deduzione, ossia della corrispondenza ragione-realtà, in quanto sarebbe la mente a determinare la natura, oppure la natura a determinare la mente. Il problema della deduzione sorge per il fatto che Kant sostiene che gli oggetti ci vengono dati dall'esterno attraverso un'impalcatura mentale precostituita di forme a priori. Da ciò l'interrogativo critico circa la validità di tali forme rispetto agli oggetti. Al di là della complessità testuale, la soluzione kantiana, nelle sue linee generali, risulta abbastanza chiara e può venir articolata sinteticamente in questo modo:


 1) Tutti gli oggetti dell'esperienza, per essere pensati, devono riferirsi ad un unico centro mentale unificatore, che Kant - per meglio sottolineare come esso non si identifichi con la psiche di questa o quella persona, ma con l'identica struttura mentale che accomuna tutti gli uomini - denomina impersonalmente con il termine "io penso", oppure "appercezione o autocoscienza trascendentale", affermando che esso "deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, altrimenti bisognerebbe immaginare in me dei pensieri non pensati".


2) Ma poiché "l'io penso" unifica le impressioni, ossia i dati dell'intuizione spazio-temporale, per mezzo delle categorie, che sono le forme mentali attraverso cui esso opera nei giudizi,


 3) ne segue necessariamente che gli oggetti non possono venir percepiti spazio-temooralmente senza, con ciò stesso, venir categorizzati, ossia sottoposti alle forme a priori dell'intelletto.


"L'io penso" si configura dunque come "il principio supremo della conoscenza umana", essendo la condizione o la possibilità della recezione dei dati, ovvero ciò cui deve sottostare ogni realtà per poter entrare nel campo della nostra esperienza e divenire un oggetto-per noi.


Di conseguenza, le categorie, che sono le maniere universali e necessarie attraverso cui "l'io penso" elabora l'esperienza, rappresenteranno le leggi stesse del mondo fenomenico, il quale non potrà fare a meno di obbedire ad esse e di funzionare secondo la causa, la sostanza, ecc. Come tali, le categorie costituiranno la strutturaformale dell'esperienza, ossia l'insieme delle relazioni oggettive che connettono i dati in maniera comune a tutte le menti. Tant'è vero che senza di esse saremmo chiusi nel cerchio della nostra soggettività individuale e potremmo stabilire soltanto delle connessioni particolari e contingenti. Ad esempio noi non potremmo dire che "i corpi sono pesanti", fissando in virtù della categoria di sostanza, un rapporto universale e necessario fra soggetto e predicato, ma soltanto "ogni volta che porto un corpo, sento una impressione di peso". L'importanza della figura teoretica de "l'io penso" nell'ambito della gnoseologia criticistica, non fa certo, di Kant, un "idealista", nel senso della successiva filosofia romantica o di quella antecedente di Berkeley. Infatti l'io di Kant, a differenza di quello di Fichte non è affatto un io creatore. Tant'è vero che Kant insiste inequivocabilmente sul carattere formale, e quindifinito, dell'"io penso", ossia della coscienza in generale: intendendo dire che la funzione unificatrice in cui essa consiste non potrebbe agire, cioè unificare nulla, se non le fosse dato qualcosa da unificare; e questo qualcosa - cioè i dati sensibili o percezioni - dev'esserle dato dall'esterno, ossia dall'esperienza. La coscienza non può crearlo o produrlo da sé; se così fosse, si tratterebbe di una coscienza non finita ma infinita, non pensante ma creante: cioè si tratterebbe della coscienza e di un essere infinito e creatore, non dell'uomo ma di Dio. Ma proprio perché la coscienza in generale, che esplica la sua funzione unificatrice mediante l'io penso, non crea il molteplice dei dati sensibili da unificare, questi dati le provengono dall'esterno. Esiste dunque una realtà esterna alla coscienza dalla quale la coscienza riceve le percezioni, ma che non è creata da essa. Kant si schiera quindi contro l'idealismo, specialmente contro l'idealismo di Berkeley che riduce la realtà a rappresentazione della coscienza: se così fosse, egli dice, la coscienza non sarebbe attiva quanto alla sua funzione unificante e ricettiva quanto ai dati da unificare ma solamente attiva; cioè creatrice; sarebbe una coscienza di tipo divino.

Un'altra conseguenza fondamentale del carattere formale e non creativo della coscienza è che essa non è la conoscenza dell'io. Mediante la coscienza, so soltanto che io sono, cioè che esisto (in quanto penso): ma non so che cosa sono. So che cosa sono, quando la coscienza si applica in me ai dati fornitimi dall'esperienza interna cioè al complesso delle mie rappresentazioni, dei miei sentimenti, ecc. Sicché la conoscenza che ognuno di noi ha del proprio io è, come quella del mondo esterno, una conoscenza empirica e fenomenica cioè condizionata dai dati forniti dall'esperienza, che la coscienza si limita a unificare.








Lo "schematismo" e "i principi dell'intelletto puro".


Se con la deduzione trascendentale Kant ha mostrato in generale come l'intelletto costituisca la realtà fenomenica tramite le categorie, con la teoria dello schematismo mostra come ciò possa avvenire in concreto. Infatti come è possibile che l'intelletto condizioni effettivamente le intuizioni, ovvero gli oggetti della sensibilità? Poiché la sensibilità e l'intelletto sono due facoltà eterogenee, quale sarà l'elemento mediatore il quale fa sì che l'intelletto possa applicare i propri concetti alle intuizioni, ossia condizionare gli oggetti mediante le proprie forme? La rilevanza di tale questione - sia in riferimento alla deduzione trascendentale, sia in rapporto alla gnoseologia complessiva di Kant - spiega perché gli studiosi odierni tendano a dare sempre più importanza a questa sezione dell'Analitica, vedendo in essa "il segreto" o "la chiave di volta" della Critica. Kant risolve il problema affermando che l'intelletto, non potendo agire direttamente sugli oggetti della sensibilità, agisce indirettamente su di essi tramite il tempo, che è il medium universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti. In altre parole, se il tempo condiziona gli oggetti, l'intelletto, condizionando il tempo, condizionerà gli oggetti. Ciò avviene perché l'intelletto, attraverso quella facoltà che Kant chiama "immaginazione produttiva", determina la rete del tempo secondo degli "schemi" che corrispondono ognuno ad una delle categorie. Così lo schema delle categorie di quantità è il numero, quello delle categorie di qualità è la cosa, quello delle categorie di relazione è la permanenza (per la sostanza), la successione irreversibile (per la causalità) e la simultaneità (per l'azione reciproca); quello delle categorie di modalità è l'esistenza nel tempo e precisamente in un tempo qualsiasi (per la possibilità), in un tempo determinato (realtà) e in ogni tempo (per la necessità). Gli schemi sono perciò le categorie calate nel tempo, ovvero le regole attraverso cui l'intelletto condiziona il tempo secondo i propri concetti: " chiamo schema di un concetto la rappresentazione del procedimento generale mediante cui l'immaginazione appronta al concetto stesso la sua immagine" (C.R.P., Analitica dei princìpi, cap. 1). Di conseguenza, con questa teoria, Kant ha inteso dire che la mente non si limita a ricevere tutta la realtà attraverso la dimensione tempo, ma riceve il tempo stesso in determinate dimensioni, o schemi, che sono la traduzione, in chiave temporale, delle categorie. E questo spiega perché si possa enunciare a priori, ad esempio, che "l'universo è un sistema di eventi o di realtà causalmente connesse, in cui a1 è la causa di a2 che a sua volta è la causa di a3 ecc.". Tutto ciò deriva appunto dal fatto che noi non possiamo fare a meno di cogliere la realtà se non attraverso lo schema della successione irreversibile e quindi della categoria di causa. A questo puito, per capire a fondo la teoria kantiana del tempo, degli schemi e delle categorie, può essere utile tracciare un paragone (suggerito da Kant stesso) fra la mente umana ed un ipotetico intelletto divino. Infatti, mentre l'uomo percepisce le cose in rapporti di tempo, Dio potrebbe concepirle meta-temporalmente, ossia nella dimensione dell'eternità, mentre l'uomo percepisce il tempo secondo lo schema della successione irreversibile e quindi della categoria di causa, Dio potrebbe intuirle in modo simultaneo e quindi non in un rapporto di successione e di causa ecc. Tutto ciò serve a farci capire in che senso, per Kant, il tempo e le categorie non siano delle cose, ma dei punti di vista o delle possibili modalità di recezione di esse. Con la teoria dello schematismo la deduzione trascendentale raggiunge il suo coronamento, poiché con essa Kant ha definitivamente chiarito perché gli oggetti, pur non essendo creati dalla mente, nascano già, nell'esperienza, sintonizzati con il nostro modo di pensarli. Il frutto ultimo del discorso kantiano si trova nella sezione dedicata ai "princìpi dell'intelletto puro", che sono le regole attraverso cui avviene l'applicazione delle categorie agli oggetti e che si identificano quindi con le leggi supreme dell'esperienza e con gli assiomi di fondo del sapere scientifico. Rielaborando filosoficamente la fisica newtoniana, Kant ne dà un elenco corrispondente ai quattro gruppi di categorie:  


1. Gli assiomi dell'intuizione (corrispondenti alle categorie della quantità) trasformano il fatto soggettivo che noi possiamo percepire la quantità spaziale o temporale (per esempio una linea o una durata) solo percependone successivamente le parti, nel principio oggettivamente valido che ogni quantità è composta di parti; e giustificano così l'applicazione della matematica all'intero mondo dell'esperienza.


2. Le anticipazioni della percezione (corrispondenti alle categorie della qualità) trasformano l'intensità soggettiva della percezione in un gmdo della qualità oggettiva e garantiscono così la continuità di tutti i fenomeni (in quanto ogni fenomeno, ad esempio la luce, il calore ecc. può avere infiniti gradi).


3. Le analogie dell'esperienza (corrispondenti alle categorie della relazione) consentono di riconoscere, al di sotto della mutevolezza delle percezioni nel tempo, un substrato permanente, che è la sostanza dei fenomeni; sostituiscono alla semplice successione temporale delle percezioni il rapporto necessario di causalità tra i fenomeni, che spiega e fonda quella successione; e permettono di giustificare oggettivamente, mediante il rapporto dell'azione reciproca, la simultaneità dei fenomeni, che non può apparire nelle percezioni, che sono sempre successive. Appunto queste tre analogie dell'esperienza costituiscono la natura che è la stessa connessione oggettiva dei fenomeni.


4. Infine, i postulati del pensiero empirico in generale (corrispondenti alle categorie della modalità) chiariscono i concetti della possibilità, della realtà e della necessità delle cose, dando a tali concetti il loro valore oggettivo.



I principi dell'intelletto puro garantiscono in tal modo la validità oggettiva dell'esperienza, sottraendola alla soggettività della percezione. Essi costituiscono la natura stessa. La percezione che si sottrae ad essi è un puro gioco dell'immaginazione e non ha altra realtà oggettiva che quella di un sogno.






L'io "legislatore della natura". La giustificazione della fisica newtoniana ed il superamento dello scetticismo di Hume.


L'esito più rilevante e caratteristico dell'Analitica trascendentale - e di tutta la gnoseologia criticistica - è la dottrina dell'io come "legislatore della natura", che rappresenta anche la massima espressione della "rivoluzione copernicana" attuata da Kant in filosofia. Definendo la natura, in senso galileiano, come "la conformità dei fenomeni a certe regole", Kant distingue fra la natura in senso materiale, che è l'insieme dei dati e delle leggi particolari che derivano dall'esperienza e la natura in senso formale, che è l'insieme delle leggi universali e necessarie che derivano dalla struttura a priori della nostra mente e che essa impone ai fenomeni. Di conseguenza l'io è il legislatore della natura in senso formale ovvero il soggetto delle relazioni generali che costituiscono il tessuto o lo scheletro dell'esperienza fenomenica. Essendo il fondamento della natura l'io è anche il fondamento della scienza che la studia. Infatti i pilastri ultimi della fisica, che in concreto si identificano con i princìpi dell'intelletto puro, poggiano sui giudizi sintetici a priori della mente, che a loro volta derivano dalle intuizioni pure di spazio e di tempo e dalle dodici categorie. In tal modo, la gnoseologia di Kant si configura come l'epistemologia della scienza galileiano-newtoniana e come il tentativo di giustificarne filosoficamente i principi di base contro lo scetticismo di Hume. Hume riteneva infatti che l'esperienza, da un momento all'altro, potesse smentire la verità su cui si regge la scienza. Kant sostiene invece che tale possibilità non sussista, in quanto l'esperienza, essendo condizionata dalle categorie dell'intelletto e dall'"io penso", non può mai smentire i princìpi assiomatici che ne derivano. In tal modo, le leggi della natura risultano pienamente giustificate nella loro validità, in quanto l'esperienza che le rivela non potrà mai smentirle, giacché esse rappresentano le condizioni stesse di ogni esperienza possibile. L'originalità del copernicanesimo filosofico di Kant, che anziché cercare negli oggetti o in Dio la garanzia ultima della conoscenza, la scopre nella mente stessa dell'uomo, fondando le istanze dell'oggettività nel cuore stesso della soggettività, appare così in tutta la sua forza ed evidenza.







Ambiti d'uso delle categorie e il concetto di "noumeno ".


La messa in luce della validità delle categorie e della loro capacità giustificatrice e fondatrice nei confronti della scienza, implica una correlativa delucidazione dei limiti del loro uso possibile. Le idee di Kant a questo proposito sono nette ed inequivocabili: le categorie, essendo la facoltà logica di unificare il molteplice della sensibilità, funzionano solo in rapporto al materiale che esse organizzano,ossia in connessione con le intuizioni spazio-temporali cui si applicano. Considerate di per sé, senza essere riempite di dati provenienti dal senso esterno o interno, sono "vuote", esattamente come le intuizioni, prese di per sé, sono "cieche". Ciò fa sì che esse risultino operanti solo in relazione al "fenomeno", intendendo per quest'ultimo l'oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale. Di conseguenza, il conoscere, per Kant, non può estendersi al di là dell'esperienza, in quanto una conoscenza che non si riferisca ad un'esperienza possibile non è conoscenza, ma un vuoto pensiero che non conosce nulla, un semplice gioco di rappresentazioni. Questo principio esclude che le categorie abbiano (secondo la terminologia di Kant) un uso trascendentale, per il quale vengono riferite alle cose in generale ed in sé stesse; ed implica che il loro unico uso possibile sia quello empirico, per il quale vengono riferite solo ai fenomeni, ossia agli oggetti di un'esperienza determinata. La delimitazione della conoscenza al fenomeno - e quindi alla scienza, che è sempre conoscenza fenomenica - comporta un esplicito rimando alla nozione di "cosa in sé", che pur essendo inconoscibile, si staglia sullo sfondo di tutta la gnoseologia criticistica. Infatti Kant non ha mai pensato di "ridurre" la realtà al fenomeno, in quanto egli afferma che se c'è un per-noi, deve per forza esserci un in-sé, ossia una x meta-fenomenica che si fenomenizza solo in rapporto a noi. In questo senso, la cosa in sé costituisce il presupposto o il postulato immanente del discorso gnoseologico di Kant, il quale, nel momento stesso in cui afferma che l'essere si dà a noi attraverso delle forme a priori è costretto a distinguere immediatamente tra fenomeno e cosa in sé. Per questo, Kant ha sostenuto la validità di tale concetto sino alla fine dei suoi giorni, anche quando Fichte, ritenendolo "insostenibile" e "chimerico" stava già trasformando il criticismo in idealismo, facendo dell'io penso il creatore della realtà. Nello stesso tempo, Kant ha sempre ribadito che l'ambito della conoscenza umana è rigorosamente limitato al fenomeno, poiché la cosa in sé non può divenire, per definizione, oggetto di un'esperienza possibile, risultando, di fatto, un "noumeno", ossia (secondo l'etimologia greca del termine) qualcosa che è puramente "pensabile" o "ipotizzabile", però mai concretamente esperibile e conoscibile. Kant ha espresso tutto ciò nel proprio linguaggio tecnico, distinguendo, a proposito del noumeno, fra un significato positivo ed uno negativo. In senso positivo il noumeno è l'oggetto possibile di una conoscenza extra-fenomenica che a noi è preclusa e che invece potrebbe essere propria di un ipotetico intelletto divino. Solo Dio infatti potrebbe avere dinanzi a sé, con immediatezza, l'oggetto - per il fatto di averlo creato - e potrebbe quindi intuirlo totalmente e perfettamente, senza le forme di spazio e di tempo, che caratterizzano la nostra conoscenza finita, ossia parziale e imperfetta. In senso negativo il noumeno è invece il concetto di una cosa in sé come di una X che non può mai entrare in rapporto conoscitivo con noi ed essere quindi oggetto di una nostra intuizione. In questo senso, che è l'unico in cui possiamo legittimamente adoperare tale nozione, la cosa in sé, più che essere una realtà, è per noi un concetto, e precisamente un concetto-limite che serve ad arginare le nostre pretese conoscitive. In altre parole, l'idea di cosa in sé o noumeno costituisce una specie di promemoria critico che da un lato circoscrive le pretese della sensibilità, rammentandoci che ciò che ci viene dato nella intuizione spazio-temporale non è la realtà in assoluto; e dall'altro circoscrive le arroganze dell'intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma soltanto pensarle nella loro possibilità, sotto forma di X ignote. Coerentemente con queste dottrine, Kant paragona la conoscenza fenomenica alla terra ferma di un'isola, mentre assimila il desiderio di varcare le soglie del fenomeno alle smanie di un navigante attratto dalla scoperta di nuove terre, ma destinato a vagare inutilmente per i fiutti: "questa terra è un'isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!) circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio della parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiaccio, prossimi a liquefarsi, dànno ad ogni istante l'illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi e delle quali non può mai venire a capo" (C.R.P., Analitica dei principi, cap. III).  




Limiti storici dell'epistemologia kantiana in relazione alla scienza successiva.


L'originalità della costruzione kantiana non esclude che essa, epistemologicamente parlando, presenti taluni limiti oggettivi di fondo in relazione agli sviluppi successivi della scienza. Infatti, il criticismo approda ad una epistemologia assolutistica che, dando per scontata la verità universale e necessaria della matematica e della fisica dei suoi tempi, cerca di legittimarne in modo definitivo i princìpi teorici, ancorandoli, come sappiamo, alla struttura stessa della mente umana, concepita come sistema fisso e metastorico di forme a priori. In tal modo, Kant ha finito per "dogmatizzare" l'universo euclideo e quello newtonianao, ritenendoli "naturali" per il nostro intelletto. Questa ricerca di "certezze" epistemologiche - che allontana Kant dalle "inquietudini" di Hume e lo avvicina alla mentalità tradizionale - anziché costituire la forza della sua filosofia si è rivelata, con il tempo, la trappola mortale della dottrina criticistica: la quale avrebbe richiesto, per mantenere la sua validità, la persistenza della scienza negli schemi nei quali Kant l'apprendeva. Ma questo non è avvenuto. Quell'unità strutturale rigida che la scienza di allora riteneva propria del mondo, e della quale le categorie kantiane costituivano la controparte trascendentale è stata infranta, poiché dall'Ottocento ai giorni nostri, si è verificata, nel seno stesso della scienza, una rivoluzione tale che ha messo in crisi l'impalcatura della matematica e della fisica "classica" - e quindi, indirettamente, l'epistemologia e la gnoseologia di Kant. Questo non esclude che agli occhi degli scienziati e degli epistemologi le due dottrine di fondo della Ragion pura - l'impossibilità di varcare i confini dell'esperienza e l'importanza del soggetto nella conoscenza - conservino tuttolra la loro validità.










La dialettica trascendentale




La genesi della metafisica e delle sue tre idee.


Nell'Estetica e nell'Analitica Kant ha portato a termine solo la prima parte del suo programma: la dimostrazione di come sia possibile il sapere scientifico. Nella Dialettica egli affronta la seconda parte di esso: il problema se la metafisica possa anch'essa costituirsi come scienza. Già il termine "dialettica" - assunto a significare " l'arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volontarie illusioni, la tinta della verità, contraffacendo il metodo del pensare fondato " (C.R.P., Logica trascendentale, Introduzione, 111) - lascia intuire la risposta negativa di Kant a tal proposito. In realtà, nella tradizione filosofica il concetto di dialettica compare anche in senso positivo: per Platone essa è la scienza delle idee. Per gli Stoici, come in parte per i medioevali, si identifica con la logica. Kant si rifà invece ad Aristotele, per il quale la dialettica denota sia il procedimento dimostrativo fondato su premesse probabili, sia l'arte "sofistica" di costruire ragionamenti capziosi basati su premesse che sembrano probabili, ma in realtà non lo sono. Riconnettendosi alla seconda accezione aristotelica del termine, per "Dialettica trascendentale" Kant intende l'analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. Nonostante la sua infondatezza, quest'ultima rappresenta tuttavia " un'esigenza naturale e inevitabile della mente umana ", di cui la filosofia critica intende chiarire la genesi profonda. La metafisica è un parto della ragione; questa, a sua volta, in partenza, non è altro che l'intelletto stesso, il quale essendo la facoltà logica di unificare i dati sensibili tramite le categorie, è inevitabilmente portato a voler pensare, anche senza dati, simile, in ciò, alla colomba, che, presa dall'ebrezza del volo ed avvertendo l'impedimento dell'aria, immaginasse di poter volare anche senza l'aria, non rendendosi conto che quest'ultima, nota Kant, pur essendo un limite al suo volo, ne è anche la condizione immanente, senza di cui essa precipiterebbe a terra. Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla nostra innata tendenza all'incondizionato e alla totalità. In altre parole, la nostra ragione, mai paga del mondo fenomenico, che è il campo del condizionato e del relativo, è irresistibilmente attratta verso il regno dell'assoluto e quindi verso una spiegazione globale ed onnicomprensiva di ciò che esiste.

Infatti, la ragione è costitutivamente portata ad


- unificare i dati del senso interno mediante la nozione di anima, che è l'idea della totalità assoluta dei fenomeni interni

- unificare i dati del senso esterno mediante la nozione di mondo, che è l'idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni

- unificare i dati interni ed esterni mediante la nozione di Dio, inteso come totalità di tutte le totalità e fondamento di'tutto ciò che esiste.



L'errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze (mentali) di unificazione dell'esperienza in altrettante realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a che fare con la cosa in sé, ma solo con la realtà inoltrepassabile del fenomeno. Per questo, i metafisici, secondo Kant, sono simili a quei già citati navigatori degli Oceani burrascosi, che, non contenti della loro isola (cioè della terra ferma del fenomeno e della scienza) vogliono spingersi in alto mare con l'irrealizzabile speranza di trovare nuovi insediamenti. La "Dialettica trascendentale" vuol appunto essere lo studio critico e la denuncia impietosa delle peripezie e dei naufragi della metafisica, cioè delle avventure e dei fallimenti del pensiero quando procede oltre gli orizzonti dell'esperienza possibile, guidato da un'illusione strutturale così forte, che non cessa neppure quando si rende conto che essa è tale, proprio come l'astronomo, ad esempio, non può impedire che la Luna gli appaia più grande al suo levarsi, pur sapendo che ciò non è vero nella realtà. Per dimostrare l'infondatezza della metafisica, Kant prende in considerazione le tre pretese scienze che da sempre ne costituiscono l'ossatura: la "psicologia razionale", che studia l'anima, la "cosmologia razionale", che indaga sul mondo, la "teologia razionale", che specula su Dio.







Critica della psicologia razionale e della cosmologia razionale.


Kant ritiene che la psicologia razionale o metafisica sia sostanzialmente fondata su di un "paralogisma", cioè su di un "ragionamento errato", che consiste nell'applicare la categoria di sostanza all'io penso, trasformandolo in una "realtà permanente" chiamata "anima". In realtà, osserva Kant, l'io penso è per noi una x (incognita) sconosciuta, cioè un noumeno, e quindi non possiamo applicare ad esso alcuna categoria. Infatti, come si è visto, noi non possiamo conoscere l'io qual è in se stesso, l'io-noumenico, ma solo l'io quale appare a noi tramite le forme a priori, ossia l'io-fenomenico. Di conseguenza, l'equivoco di base della psicologia metafisica consiste nella pretesa di dare tutta una serie di valori positivi a quella x ignota che è l'io penso, identificandolo con un'aníma "immateriale", "incorruttibile ", "immortale" ecc. Anche la cosmologia razionale, che pretende di far uso della nozione di mondo, inteso come la totalità assoluta dei fenomeni cosmici, è destinata, secondo Kant, a fallire. Infatti, poiché la totalità dell'esperienza non è mai un'esperienza, in quanto noi possiamo sperimentare questo o quel fenomeno, ma non la serie completa dei fenomeni, l'idea di mondo cade, per definizione, al di fuori di ogni esperienza possibile. Tant'è vero che quando i metafisici, dimentichi di ciò, pretendono di fare un discorso intorno al mondo nella sua totalità cadono inevitabilmente nei reticolati logici delle cosiddette antinomie, veri "conflitti della ragione con se stessa", che si concretizzano in coppie di affermazioni opposte, dove l'una afferma e l'altra nega, ma tra le quali, in mancanza di un'esperienza corrispondente non è possibile decidere. La prima è quella tra la finità e l'infinità del mondo nei rispetti dello spazio e del tempo: si può infatti sostenere sia che il mondo abbia avuto un inizio nel tempo ed abbia un limite nello spazio, sia che non abbia né l'uno né l'altro e sia infinito. La seconda antinomia nasce dalla considerazione della divisibilità del mondo: si può sostenere sia che la divisibilità s'interrompa a un certo limite e che per ciò il mondo sia composto di parti semplici, sia che la divisibilítà possa essere condotta all'infinito e che perciò non esista in esso nulla di semplice, cioè di indivisibile. La terza antinomia concerne il rapporto tra causalità e libertà: si può ammettere una causalità libera (libero arbitrio) accanto alla causalità della natura o negare qualsiasi causalità libera (determinismo). La quarta antinomia concerne la dipendenza del mondo da un essere necessario: si può ammettere che ci sia un essere necessario come causa del mondo (Dio), o si può negare tale essere. Tra la tesi e l'antitesi di queste antinomie è impossibile decidersi, perché entrambe possono essere dimostrate. Il difetto è nella stessa idea del mondo, la quale, essendo al di là di ogni esperienza possibile, non può fornire alcun criterio atto a decidere per l'una o per l'altra delle tesi in conflitto. Le antinomie dimostrano quindi l'illegittimità dell'idea del mondo. A tutto ciò Kant aggiunge anche due altre importanti osservazioni: 1) Egli nota che le tesi sono proprie del pensiero metafisico e del razionalismo, mentre le antitesi sono tipiche dell'empirismo e della scienza. 2) Egli puntualizza che per quanto riguarda la terza e la quarta antinomia, l'antitesi valgono per il fenomeno (nel cui ambito non si incontra mai né Dio né la libertà) mentre le tesi potrebbero valere per la cosa in sé (nel cui regno sconosciuto potrebbe esserci posto per la libertà e per Dio). Vedremo più tardi, a proposito dell'etica, quale sia il senso di questa "ipotesi" kantiana.







La critica alle prove dell'esistenza di Dio.


 Anche la teologia razionale, che si occupa del più arduo problema della metafisica, cioè dell'esistenza e dell'essenza di Dio, risulta, per Kant, priva di valore conoscitivo. Egli raggruppa le tradizionalí "prove" filosofiche di Dio in tre classi: ontologica, cosmologica e fisico-teleologica.


a) La prova ontologica, che risale a S. Anselmo, ma che Kant assume nella forma cartesiana, pretende di ricavare l'esistenza di Dio dal semplice concetto di Dio come essere perfetissimo, affermando che, in quanto tale, Egli non può mancare dell'attributo dell'esistenza. Distinguendo criticamente fra piano mentale e piano reale, Kant obbietta che non risulta possibile "saltare" dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica, in quanto l'esistenza è qualcosa che possiamo constatare solo per via empirica, e non già dedurre per via puramente intellettiva. (ma questo non è in contrasto con Kant stesso? Cfr. Per esempio "noumeno").


Kant sostiene infatti che "l'esistenza non è un predicato", intendendo dire che l'esistenza non è una proprietà logica, ma un fatto esistenziale asseribile solo mediante l'esperienza. Tant'è vero che quando si è ben descritta la natura di una realtà qualsiasi in tutti i suoi caratteri, ci si può ancora chiedere se esista o meno. Per cui, scrive Kant, la differenza tra cento talleri reali e cento talleri pensati non risiede nella serie delle loro proprietà concettuali, che sono identiche, ma nel fatto che gli uni esistono e gli altri no.


Di conseguenza, la prova ontologica o è impossibile o è contraddittoria. Impossibile se vuol derivare da un'idea una realtà. Contraddittoria se nell'idea del perfettissimo assume già, "sottobanco", quell'esistenza che vorrebbe dimostrare (è chiaro che se si presuppone l'esistenza del perfettissimo non si può fare a meno di concludere che l'esistenza gli appartiene necessariamente. Ma il problema è di vedere se tale essere esista davvero). In tutte e due i casi, la prova risulta palesemente fallace.


b) La prova cosmologica, che costituisce il fulcro delle "vie" tomistiche e che Kant riprende dalla filosofia del suo tempo, parte dall'esperienza del contingente, ossia di ciò che non ha in se stesso la propria ragion d'essere, e, tramite l'applicazione del concetto di causa, perviene all'esistenza del Necessario, cioè ad un Essere, identificato con Dio, che, avendo in se stesso la propria ragion d'essere, ha creato il contingente.

Secondo Kant, il primo limite di questo argomento consiste in un uso illegittimo del principio di causa, in quanto esso, partendo dall'esperienza della catena degli enti eterocausati (= i contingenti), pretende di innalzarsi, oltre l'esperienza, ad un primo anello incausato (= il Necessario). Ma il principio di causa, puntualizza Kant, è una regola con cui connettiamo i fenomeni tra di loro e che quindi non può affatto servire a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico.

 Il secondo limite dell'argomento risiede nel suo fondarsi su di una serie di forzature logiche e nel suo inevitabile ricadere nella prova ontologica. Infatti, dopo essersi elevato all'idea del Necessario - che però non si sa bene, in concreto, che cosa sia, tant'è che alcuni filosofi l'hanno identificato con la Natura - esso, con un disinvolto gioco di concetti, giunge a sostenere che il Necessario coincide con l'idea del perfettissimo, cioè di Dio.

Così, dopo esser pervenuto a delle semplici idee, per di più forzatamente legate fra di loro, l'argomento pretende di aver dimostrato delle realtà. In tal modo, anche la prova cosmologica finisce per implicare la logica di quella ontologica, che da puri concetti vuol far scaturire presuntuosamente delle esistenze. Ma "il giuoco di prestigio per cui la possibilità logica del concetto (che non contraddice se stesso) si scambia con la possibilità trascendentale delle cose (per cui al concetto corrisponde un oggetto) può illudere e contentare soltanto gli inesperti" (C.R.P., Analitica dei princìpi, 111). Anche questo argomento, che in sostanza parte dall'esperienza per saltare oltre di essa, avventurandosi in discorsi metaempirici, risulta dunque, per Kant, inequivocabilmente " fallace " e privo di autentica capacità dimostrativa.



c) La prova fisico-teleologica fa leva sull'ordine, sulla finalità e sulla bellezza del mondo per innalzarsi ad una Mente ordinatrice, identificata con un Dio creatore, perfetto ed infinito. Essa, rileva Kant, "è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione. Anche questa prova, secondo Kant, risulta internamente minata da una serie di forzature logiche e dall'utilizzazione mascherata dell'argomento ontologico. Innanzitutto, essa parte dall'esperienza dell'ordine del mondo, ma pretende di elevarsi subito all'idea di una causa ordinante trascendente, dimenticando che l'ordine della Natura potrebbe essere una conseguenza della Natura stessa e delle sue leggi immanenti. Infatti per asserire che tale ordine non può scaturire dalla Natura, essa è obbligata a concepire Dio non solo come causa dell'ordine del mondo, cioè come supremo Architetto - secondo quanto la prova autorizzerebbe - ma come causa dell'essere stesso del mondo, ossia come Creatore. Ma essa può compiere tale operazione solo a patto di identificare la causa ordinante con l'Essere necessario creatore, ricadendo così nella prova cosmologica, la quale ricade a sua volta in quella ontologica. Inoltre, la prova fisico-teleologica pretende di stabilire, sulla base dell'ordine cosmico, l'esistenza di una causa infinita e perfetta, ritenuta proporzionata ad esso. Ma così facendo, non si accorge che gli attributi che essa dà al mondo ("saggiamente conformato", "mirabile", ecc.) sono indeterminati e relativi a noi e quindi non autorizzano affatto a passare dal finito all'infinito, sostenendo che causa di tutto è una Causa infinita e perfetta. In altre parole, noi sappiamo che in questo universo c'è una qualche misura o gradazione di ordine, ma relativa ai nostri parametri mentali e, in ogni caso, non certo infinita e priva di imperfezioni. Di conseguenza, non possiamo arrogarci il diritto di affermare che la Causa del mondo è infinitamente perfetta, saggia, buona ecc. E se ciò avviene è perché noi, saltando "l'abisso" che separa il finito dall'infinito, identifichiamo, sottobanco, l'ipotetica Causa ordinante con l'idea della Realtà perfettissima di cui parla l'argomento ontologico. Di conseguenza, anche questa prova, secondo Kant, non fa che partire dall'esperienza per saltarne fuori, giocando con delle idee, forzatamente manipolate, che solo il ricorso "cammuffato" all'argomento cosmologico ed ontologico, può fare illusoriamente scambiare per delle realtà.



Si noti: 1) come queste critiche, pur essendo connesse, di fatto, alla gnoseologia criticistica, siano anche, in parte, indipendenti da essa. Ciò spiega la loro vasta fortuna ed utilizzazione nell'ambito del pensiero moderno; 2) come Kant, con esse, non abbia inteso negare Dio (ateismo) ma piuttosto mettere in discussione la sua dimostrabilità razionale e metafisica. In sede teorica, Kant è un agnostico, in quanto ritiene che la ragione umana non possa dimostrare né l'esistenza di Dio né la sua non-esistenza.







La funzione regolativa delle idee.


Le idee della ragion pura, anche se non possono avere un uso costitutivo perché non servono a conoscere alcun oggetto possibile, possono e debbono avere, secondo Kant, un uso regolativo, indirizzando la ricerca intellettuale verso quella unità totale che rappresentano. Infatti ogni idea è, per la ragione, una regola che la spinge a dare al suo campo d'indagine, che è l'esperienza, non solo la massima estensione, ma anche la massima unità sistematica. Così l'idea psicologica spinge a cercare i legami fra tutti i fenomeni del senso interno e a rintracciare in essi una sempre maggiore unità proprio come se fossero manifestazioni di un'unica sostanza semplice. L'idea cosmologica spinge a passare incessantemente da un fenomeno naturale all'altro, dall'effetto alla causa e alla causa di questa causa e via all'infinito, proprio come se la totalità dei fenomeni costituisse un unico mondo. L'idea teologica infine addita all'intera esperienza un ideale di perfetta organizzazione sistematica, che essa non raggiungerà mai, ma che perseguirà sempre, proprio come se tutto dipendesse da un unico creatore. Le idee, cessando di valere dogmaticamente come realtà, varranno in questo caso problematicamente, come condizioni che impegnano l'uomo nella ricerca naturale e lo sollecitano di evento in evento, di causa in causa, nel tentativo incessante di estendere quanto più è possibile il dominio della propria esperienza e di dare a questo dominio la massima unità. Si tratterà pur sempre, tuttavia, di un'unità problematica, cioè tale che si presenterà come un problema nei problemi concreti della ricerca scientifica, ma che non potrà mai essere scambiata per una realtà o un oggetto e affermata come tale. L'unica via per garantire all'unità totale dell'esperienza il suo carattere problematico e per evitare che essa pretenda di irrigidirsi in una realtà illusoria, è quella di considerarla, secondo Kant, come la guida e la regola della ricerca che si muove nei limiti stessi dell'esperienza.


L'Estetica e la Logica trascendentale (nelle sue due parti di Analitica e Dialettica) costituiscono nel loro insieme la Dottrina trascendentale degli elementi; la quale è, secondo l'immagine di Kant, il calcolo e la determinazione dei materiali che costituiscono l'edificio della conoscenza umana.


La Dottrina trascendentale del metodo deve invece dare il disegno di questo edificio, disegno che dev'essere in relazione con le possibilità e i limiti del materiale da utilizzare. Kant definisce la dottrina trascendentale del metodo come "la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura". E tratta in essa della disciplina, del canone, dell'architettonica e della storia della ragion pura. In realtà quest'ultima parte dell'opera di Kant è stata quasi tutta anticipata nel corso della trattazione degli elementi, sicché essa assume il semplice rilievo di una ricapitolazione o ripetizione, dal punto di vista delle applicazioni pratiche, della prima parte della Critica.







La "Critica della ragion pratica".



L'assolutezza della legge morale. Filosofia ed etica.



Il punto di partenza della "Critica della ragion pratica" è la persuasione che esista, scolpita nell'uomo, una legge morale valida per tutti e per sempre. Per cui, come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall'idea dell'esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica muove dall'analogo convincimento dell'esistenza di una legge etica assoluta. E come nella prima Critica Kant non si proponeva di dimostrare la presenza, considerata indubitabile, delle conoscenze sintetiche a priori, ma solo di chiarirne la natura e le condizioni, così, nel secondo capolavoro, egli non cerca di dimostrare l'esistenza, considerata certissima, della legge morale, ma soltanto di esplicitarne le caratteristiche. Kant ritiene infatti che la filosofia non debba "inventare" la morale, ma semplicemente prendere atto della sua realtà e delucidarla nelle sue strutture. La sicurezza di Kant circa l'esistenza di una legge morale assoluta proviene dal ragionamento per cui o la morale è una chimera, in quanto l'uomo agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica "pura", cioè capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile. Di conseguenza la tesi dell'assolutezza ed incondizionatezza della morale implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente legati fra di loro: la libertà dell'agire e la validità universale e necessaria della legge. Infatti, essendo incondizionata, la morale implica la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto - o "postulato", come Kant dirà in seguito - della vita etica. Essendo indipendente dagli impulsi del momento e da ogni condizione particolare, la legge risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo. L'equazione moralità = assolutezza = incondizionatezza = libertà = universalità e necessità rappresenta quindi ilfulcro dell'analisi etica di Kant e la chiave di volta, come vedremo, per cogliere in modo logicamente concatenato gli attributi essenziali che Kant riferisce alla legge morale: categoricità, formalità, disinteresse ed autonomia. Attenzione: per Kant la morale è ab-soluta, cioè sciolta dai condizionamenti istintuali non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad essi. La morale si gioca infatti all'interno di una tensione bipolare fra ragione e sensibilità. Se l'uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità ed impulso, è ovvio che essa non esisterebbe, perché l'individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa, se l'uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe ugualmente di senso, in quanto l'individuo sarebbe sempre in quella che Kant chiama "santità" etica, ovvero in una situazione di perfetta adeguazione alla legge. Invece la bidimensionalità dell'essere umano fa sì che per Kant l'agire morale prenda la forma severa del "dovere" e si concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli impulsi egoistici. Da ciò la natura finita, ossia limitata ed imperfetta, dell'uomo, che può agire secondo la legge, ma anche contro la legge. Per cui, come nella Ragion pura circola come tema dominante la polemica contro l'arroganza della ragione, che pretende di oltrepassare i limiti della conoscenza umana, nella Ragion pratica circola come tema dominante la polemica contro il fanatismo morale, che è la velleità di trasgredire i limiti della condotta umana, sostituendo alla virtù, che è l'intenzione morale in lotta, la santità di un creduto possesso della perfezione etica.






La "categoricità" dell'imperativo etico e le formule del "dovere".


Kant distingue i "principi pratici " che regolano la nostra condotta in "massime" e "imperativi".


La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, valida solamente per l'individuo che l'adotta, senza pretese di universalità (ad esempio, può essere una massima quella di alzarsi presto al mattino per fare ginnastica).


L'imperativo è una prescrizione con valore oggettivo ed universale, in quanto si pone nei termini di un comando valido per chiunque.


Gli imperativi si scindono a loro volta in ipotetici e categorici.


Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di fini ipoteticamente accettati ed hanno la forma del "se ... devi" (ad esempio: se vuoi conseguire buoni risultati scolastici devi impegnarti in modo costante).


 Questo tipo di imperativi si specificano a loro volta in "regole", che espongono le norme tecniche per raggiungere un determinato scopo (ad esempio le varie procedure per divenire un buon medico), e in consigli della prudenza, che forniscono i mezzi per ottenere ciò a cui tutti gli uomini per necessità tendono: il benessere fisico ed esistenziale (ad esempio, i vari "manuali" della salute e della felicità).


Gli imperativi categorici ordinano invece il dovere in modo incondizionato e non hanno la forma del "se ... devi", ma del "devi" ovvero del "devi" puro e semplice. Ora, essendo la morale strutturalmente incondizionata, ossia indipenjente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli circostanze, e quindi universale e necessaria, risulta evidente che gli imperativi ipotetici non potranno certo essere, loro, la legge etica. Essi derivano infatti dalla spinta naturale all'autoconservazione e sono determinati da interessi egoistici ed utilitari. Inoltre, non sono veramente universali e necessari, in quanto subordinati all'accettazione di scopi particolarì, che variano a seconda delle persone e dei tempi. Per cui, solo gli imperativi categorici, che ordinano un "devi" assoluto, e quindi universale, hanno in sé i contrassegni della moralità.



Ma se la legge etica prende la forma di un imperativo categorico, che cosa comanda, in concreto, quest'ultimo?

Nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica della ragion pratica Kant risponde che la ragione morale comanda se stessa, cioè l'esigenza della universalità, e presenta tre formulazioni interconnesse dell'imperativo categorico.



La prima formula prescrive: "Opera in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come principio di una legislazione universale". In altri termini, quando agisci tieni sempre presente gli altri e ricordati che un comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui, la sua massima appare universalizzabile. Ad esempio, chi mente compie sempre un atto immorale, poiché qualora venisse universalizzata la massima dell'inganno i rapporti umani diventerebbero impossibili. Come si può notare, Kant esprime qui, in termini filosofici e generalizzati quella legge di reciprocità che sta alla base dei vari codici morali del mondo e che nel Vangelo si trova espresso secondo la nota massima "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te".



La seconda formula afferma: "Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altra, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo". In altri termini, rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di strumentalizzare il prossimo o di ridurre te medesimo a oggetto del tuo egoismo e delle tue abbruttenti passioni. In questo contesto la parola "fine" indica quella caratteristica fondamentale della persona umana che risiede nell'essere scopo-a se-stessa, facendo sì che ad essa venga riconosciuta la prerogativa di essere soggetto e non oggetto. Tant'è vero che Kant sostiene che la morale istituisce un regno dei fini, ossia una comunità ideale di libere persone, che si riconoscono dignità a vicenda.



La terza formula prescrive: "Agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima, possa considerare se stessa come universalmente legislatrice". Questa dichiarazione ripete, in parte, la prima. Tuttavia, a differenza di essa, che puntualizza soprattutto la legge, quest'ultima sottolinea particolarmente la volontà, chiarendo come il comando morale non sia un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto autonomo della volontà razionale, la quale, essendo legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci ad essa, non facciamo che obbedire a noi stessi, tant'è vero che nel "regno dei fini", precisa Kant, ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso.






"Formalità e disinteresse" della legge morale.


 Un'altra caratteristica strutturale dell'etica kantiana, che emerge chiaramente dalle tre enunciazioni dell'imperativo categorico, è la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo. Anche ciò discende dalla riconosciuta incondizionatezza e libertà della norma etica. Infatti, se quest'ultima non fosse formale, bensì "materiale " e prescrivesse quindi dei contenuti concreti, sarebbe "vincolata" ad essi, perdendo inevitabilmente in termini di libertà da un lato e di universalità dall'altro, non potendo, qualsiasi contenuto o precetto particolare, possedere l'universale portata della legge. Ad esempio, princìpi del tipo "ama la patria" o "devi sempre dire la verità", che pure discendono dalla legge morale, non possono venir confusi con la legge stessa, poiché in taluni casi può essere morale non amare la patria (quando questa fosse tiranna) o non dire la verità (quando quest'ultima danneggiasse gravemente il prossimo). Questo significa che l'imperativo etico non può risiedere in una casistica o manualistica concreta di precetti, ma soltanto in una legge formale universale, la quale afferma semplicemente: "quando agisci tieni presente gli altri e rispetta la dignità umana che è in te e nel prossimo". Ovviamente secondo Kant, sta poi ad ognuno di noi "tradurre" in concreto, nell'ambito delle varie situazioni esistenziali, sociali e storiche la parola della legge. L'importante è non dimenticare che le norme etiche concrete in cui si incarna di volta in volta l'imperativo categorico risultano sempre fondate e mai fondanti nei suoi confronti, esistendo solo in funzione di esso, che è ciò che le suscita e le giustifica. Di conseguenza "il vero significato del formalismo kantiano non sta (come pure è stato detto) nell'affermazione di una forma vuotata di ogni contenuto, ma nella scoperta della fonte perenne della moralità, che alimenta i costumi morali dei popoli nel loro divenire storico, restando essa stessa immune da ogni mutamento". Da tutto ciò, che si è detto sinora, e quindi dalla incondizionatezza della legge, deriva anche il disinteresse dell'imperativo etico, che costituisce un altro dei contrassegni della morale kantiana. Infatti, se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile si ridurrebbe ad un insieme di imperativi ipotetici e comprometterebbe, in primo luogo, la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dar la legge a se medesima, ma gli oggetti a dar la legge alla volontà. In secondo luogo, essa metterebbe in forse la propria universalità, poiché l'area degli interessi coincide con il campo della soggettività e della particolarità. Il cuore della moralità kantiana risiede invece nel dovere-per-il dovere, ossia nello sforzo di attuare la legge della ragione solo per ossequio ad essa, e non sotto la spinta di personali inclinazioni o in vista di risultati che possono scaturirne. Di conseguenza, secondo la Critica, della ragion pratica noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere: "Dovere! - esclama Kant - Nome grande, che non porti con te nulla di piacevole che importi lusinga; ma esigi la sottomissione; che tuttavia non minacci nulla... ma presenti semplicemente una legge che penetra da sé sola nell'animo e si procura venerazione" (C.R.Pr., Analitica, cap. 111). Da ciò il "rigorismo" kantiano, che esclude, dal recinto dell'etica, emozioni e sentimenti, che sviano la morale, oppure, quando collaborano con essa, ne inquinano la severa purezza. Nell'etica di Kant, che risulta in polemica con ogni tipo di morale sentimentalistica, si riconosce diritto di cittadinanza ad un unico sentimento: il rispetto per la legge. Sentimento che risulta di una forza tale da far tacere tutti gli altri sentimenti egoistici e da disporre l'individuo all'accoglimento della legge. Kant nota come il rispetto implichi la condizione propria dell'uomo come essere razionale finito "Il rispetto è un'azione sul sentimento, quindi sulla sensibilità, di un essere razionale: suppone dunque questa sensibilità e con essa la finitudine degli esseri cui la legge morale impone rispetto. A un essere supremo o almeno libero da ogni sensibilità e al quale per ciò la sensibilità non possa essere un ostacolo per la ragion pratica, non può essere attribuito rispetto della legge". Il dovere per il dovere nel rispetto della legge, ecco le uniche condizioni affinché vi siano moralità e virtù e non si passi dalla moralità alla semplice legalità. Infatti, secondo Kant, non basta che un'azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ovvero in modo conforme ad essa. La morale implica una partecipazione interiore, altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento (come accade ad esempio quando ci si comporta bene per il plauso degli altri). Kant sostiene dunque che non è morale ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa (= morale dell'intenzione) essendo la "volontà buona", ovvero la convinta adesione della volontà alla legge, l'unica cosa moralmente buona al mondo.





L' "autonomia" della legge e la rivoluzione copernicana morale.


Le varie determinazioni della legge etica, che sinora abbiamo esaminato convergono in quella dell'autonomia, che tutte le implica e riassume. Il senso profondo dell'etica kantiana, e della sua sorta di "rivoluzione copernicana" morale, consiste infatti nell'aver posto nell'uomo e nella sua ragione il fondamento dell'etica, nello sforzo di salvaguardarne la piena libertà e purezza. Se la libertà, presa in senso negativo, risiede nell'indipendenza delle volontà dalle pulsioni, in senso positivo si identifica con la sua capacità di autodeterminarsi, ossia nella prerogativa autolegislatrice della volontà, la quale fa sì che l'uomo sia norma a se stesso. Di conseguenza, Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome, cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento del dovere in forze esterne all'uomo o alla sua ragione, facendo scaturire la morale, anziché dalla pura "forma" dell'imperativo categorico, da quelli che egli chiama moventi "materiali". Ripensando la storia della filosofia, Kant ha racchiuso in una "tavola" apposita i diversi moventi etici teorizzati dai filosofi.

Passando in rassegna le varie posizioni, Kant individua i limiti di ciascuna, che risiedono, in generale, nel fatto di non riuscire a preservare l'incondizionatezza della legge morale e degli attributi in cui essa si concretizza. Infatti, se i moventi della morale risiedessero nell'educazione, nella società, nel piacere fisico o nel sentimento della benevolenza, l'azione non sarebbe più libera ed universale, in quanto tali realtà sarebbero fattori determinanti e mutevoli, ossia forze necessitanti e soggette al cambiamento. Inoltre, tali motivi potrebbero al più spiegare in linea di fatto la presenza della moralità in certi uomini o gruppi di uomini, ma non giustificherebbero il carattere assolutamente obbligatorio della legge morale. Se i moventi stessero invece in un generico ideale di perfezione o in Dio cadremmo in analoghi inconvenienti. Ad esempio, la nozione di "volontà divina" risulta, di per sé, indeterminata. Per cui, o viene determinata sottobanco, in virtù del concetto di perfezione etica, dicendo che Dio è la Perfezione morale stessa, che l'uomo deve seguire - e allora si cade in un circolo vizioso fondato sull'asserzione che la morale consiste nel seguire la morale (personificata in Dio); oppure viene determinata in modo volontaristico, dicendo che bisogna sottomettersi alla volontà onnipotente e superiore di Dio, concretizzata, ad esempio, in una rivelazione - e allora la morale cessa di essere libera e disinteressata, poiché l'obbedienza ad essa diviene frutto di una costrizione o di un calcolo dettato dal timore di punizioni o dalla speranza di premi. Senza contare, in quest'ultimo caso, che le varie religioni o filosofie possono interpretare in modo diverso la volontà divina, distruggendo così l'universalità del valore morale. In sintesi, anche la morale teologica, come ogni forma di etica eteronoma, va contro quegli attributi di libertà e di universalità che costituiscono strutturalmente il mondo morale.  Si noti come il rifiuto kantiano di poggiare la morale su Dio, oltre che dai motivi specifici riportati, dipenda anche dal fatto che Egli, essendo indimostrabile, non può costituire una certezza universale capace di fungere da solida piattaforma dell'etica. Il significato di Dio nell'ambito dell'etica risulta, per Kant, diverso da quello tradizionale.







La teoria dei "postulati " pratici e la fede morale.


Se nell'"Analitica" della Ragion pratica Kant ha studiato il dovere morale, nella "'Dialettica" prende in considerazione l'assoluto morale o sommo bene. Come sappiamo, la felicità non può mai erigersi a movente del dovere, perché in tal caso metterebbe in forse l'incondizionatezza della legge etica - e quindi la sua categoricità, formalità, purezza ed autonomia. Tuttavia la virtù, pur essendo il "bene supremo", non è ancora, secondo Kant, quel "sommo bene" cui tende irresistibilmente la nostra natura, che consiste nell'addizione di virtù e felicità. Si noti sin d'ora come Kant, introducendo il concetto di sommo bene, non contraddica il carattere disinteressato ed autonomo della morale, in quanto egli, senza fare della felicità il movente dell'azione, asserisce unicamente che c'è in noi il bisogno di pensare che l'uomo, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità. Ma in questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, in quanto lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, in quanto l'imperativo etico implica la sottomissione degli istinti e l'umiliazione dell'egoismo. Di conseguenza, virtù e felicità costituiscono l'antinomia etica per eccellenza, che forma l'oggetto specifico della "Dialettica" della Ragion pratica. Kant rileva come i filosofi greci abbiano vanamente tentato di scioglierla, per quanto riguarda questa vita, o risolvendo la felicità nella virtù (Stoici) o la virtù nella felicità (Epicurei). In realtà, afferma Kant, collocandosi in una tradizione di pensiero che va da Platone al Cristianesimo, l'unico modo per uscire da tale antinomia è "postulare" un mondo dell'al di là in cui possa realizzarsi ciò che nell'al di qua risulta impossibile: ovvero l'equazione virtù felicità. Kant trae il termine "postulato" dal linguaggio della matematica classica. In quest'ultima, mentre si dicono assiomi le verità fornite di auto-evidenza, si chiamano postulati quei princìpi che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili determinate entità o verità geometriche. Analogamente, i postulati morali di Kant sono quelle ammissioni o quelle esigenze interne dell'etica che vengono accettate per rendere possibile la realtà della morale, ma che di per se stesse non possono venir dimostrate. I postulati tipici di Kant sono l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. Il primo postulato scaturisce dall'argomentazione che poiché solo la santità, cioè la concordanza completa della volontà alla legge, rende degni del sommo bene, e siccome la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, si deve per forza ammettere che l'uomo, oltre il tempo finito dall'esistenza terrena, possa disporre, in un'altra zona del reale, di un tempo indefinito, grazie al quale sia in grado di progredire sempre di più verso la completa attuazione del dovere. Se la realizzazione della prima condizione del sommo bene, ossia la santità, implica il postulato dell'immortalità dell'anima, la realizzazione del secondo elemento del sommo bene, cioè la felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell'esistenza di Dio, ossia la credenza in una "volontà santa ed onnipotente", che faccia corrispondere la felicità al merito. Accanto ai due postulati "religiosi" dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio, Kant pone un altro postulato che ci è ben noto: la libertà. Quest'ultima è infatti la condizione stessa dell'etica, che nel momento stesso in cui prescrive il dovere presuppone anche che si Possa agire o meno in conformità di esso e che quindi si sia sostanzialmente liberi. "Devi, dunque puoi", afferma Kant: se c'è la morale deve, per forza, esserci la libertà. Si osservi come il postulato kantiano della libertà si collochi su di un piano oggettivamente diverso dagli altri due, in quanto, pur non sapendo che cosa sia la libertà, possiamo almeno dire che essa esiste. Questo non avviene anche, a rigore, per gli altri due, di cui non possiamo sostenere con sicurezza, né che cosa siano né che siano, essendo unicamente "bisogni" pratici. In altre parole, mentre la libertà è la condizione stessa dell'etica - ed è quindi una certezza scaturiente dal fatto morale - l'immortalità e Dio rappresentano soltanto considerazioni ipotetiche, affinché l'etica trovi quella realizzazione che in questo mondo le è negata. Per cui, "postulati", in senso forte e caratteristicamente kantiano, sono da considerarsi soprattutto quelli religiosi.


Ma perché Kant chiama postulato anche la libertà? Ciò avviene perché egli, fermo alle conclusioni gnoseologiche della Ragion pura, ritiene che l'idea di un'auto-causalità, ossia di una fonte spontanea di atti (= libero arbitrio), non possa venir scientificamente affermata, in quanto il mondo dell'esperienza, come si è visto, si regge sul principio di causa-effetto. Tuttavia, discutendo la terza antinomia, Kant ha sostenuto che se nel mondo fenomenico vige il determinismo, nel regno della cosa in sé potrebbe trovar posto la libertà - facendo capire, in tal modo, come l'ammissione filosofica della libertà non risulti affatto contraddittoria con il punto di vista espresso nella Ragion pura.  






Il "primato" della Ragion pratica.


La teoria dei postulati mette capo a ciò che Kant definisce "primato della Ragion pratica", consistente nella prevalenza dell'interesse pratico su quello teoretico, nel senso che la ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico. Tuttavia, pur aprendo uno squarcio sul transfenomenico e sul metafisico, i postulati kantiani non possono affatto valere come conoscenze. Come scrive Pietro Chiodi, il primato della ragion pratica rispetto alla ragione speculativa "non significa che essa ci può dare ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le sue condizioni di validità comportano la ragionevole speranza dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima: ma se questa ragionevole speranza fosse intesa come certezza razionale, non solo il mondo morale non ne uscirebbe rafforzato ma totalmente distrutto". Infatti le affermazioni di Kant a proposito della non-teoricità dei postulati, sono così tenaci e ripetute da farci comprendere come egli fosse ben conscio del fatto che un'eventuale ammissione della loro validità conoscitiva non solo avrebbe violato apertamente le conclusioni della Ragion pura, ma avrebbe minato il suo stesso modo di intendere la morale come libertà ed autonomia, poiché "Dio e l'eternità, nella loro maestà tremenda, ci starebbero contimiamente dinanzi agli occhi... La trasgressione della legge sarebbe senz'altro impedita, ciò che è comandato sarebbe compiuto... La condotta dell'uomo, finchè la sua natura restasse qual è ora, si trasformarebbe in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutto gesticolerebbe bene, ma nelle cui figure non ci sarebbe più vita" (C.R.Pr., Conclusione). Di conseguenza se i postulati fossero verità dimostrate la morale scivolerebbe immediatamente verso l'eteronomia e sarebbe nuovamente la religione (o la metafisica) a fondare la morale, con tutti gli inconvenienti già esaminati. Rovesciando il modo tradizionale di intendere il rapporto tra morale e religione, Kant sostiene invece, a chiare lettere, che non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì la morale, sia pur sotto forma di "postulati", a fondare le verità religiose. In altri termini, Dio, per Kant, non sta all'inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente allafine, come suo possibile completamento. In altre parole ancora: l'uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere-per-il dovere, con, in più, la "ragionevole speranza" nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza di Dio. Di conseguenza, con la teoria dei postulati Kant non ha eliminato l'autonomia dell'etica, perché l'ha solo " integrata " con una sorta di " fede razionale ". Tuttavia, queste considerazioni sulla coerenza interna della morale kantiana e sulle cautele critiche del filosofo circa il significato pratico e non teoretico dei postulati, non escludono che la Ragion pratica finisca per delineare una sorta di dualismo platonizzante che spezza la realtà e l'uomo in due: da un lato il mondo fenomenico della scienza, dall'altro il mondo noumenico dell'etica; da un lato l'uomo fenomenico dell'istinto, dall'altro l'uomo noumenico della libertà e del dovere. Infatti è proprio dalla consapevolezza di questo dualismo che muove, in parte, la Critica del Giudizio.




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