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Corso di Filosofia Morale - I PARADIGMI DELLA CONOSCENZA ANTROPOLOGICA

filosofia



Corso di Filosofia Morale  


"la filosofia è sempre morta tutte le volte

che ha interrotto il suo dialogo con le scienze" (Ricoeur)


Seminario a cura della Dott. Montuschi a.a. 1998-1999    PROBLEMI EPISTEMOLOGICI

DELLE SCIENZE UMANE

I PARADIGMI DELLA CONOSCENZA ANTROPOLOGICA


PREMESSA


Citare la frase di Ricoeur, in cui egli sottolinea la necessità di cercare una possibile mediazione tra verità e metodo (opposti in Gadamer), ha il senso di provare ad introdurre la questione epistemologica delle scienze umane attraverso un esperimento linguistico.

Infatti se invertiamo i termini della proposizione risulta che "le scienze sono sempre morte tutte le volte che hanno interrotto il loro dialogo con la filosofia" e questo può essere vero nel caso in cui la parola "Epistemologia" non sia interpretata semplicemente come sinonimo di gnoseologia (teoria filosofica della conoscenza in generale) ma nel senso, attualmente più diffuso, di FILOSOFIA DELLA SCIENZA, riflessione circa il problema della fondazione filosofica delle scienze, in breve sul reale grado di legittimità scientifica che esse possiedono.



Il rovesciamento di termini che ho tentato credo sia in parte giustificabile alla luce del fatto che il rapporto tra scienze umane e filosofia oggi appare sempre più stretto in quanto tali discipline, ad uno stadio avanzato del loro sviluppo, tendono a mettere in discussione i loro fondamenti teorici e le loro direttive concettuali stimolando, esse stesse, un dibattito epistemologico-filosofico nei loro confronti.


INTRODUZIONE


Nel caso delle scienze umane, sapere organizzato scientificamente che ha per oggetto l 'uomo, tale riflessione, nata dall'idea ottocentesca, positivista, di applicare il metodo scientifico ai comportamenti umani, si è diffusa soprattutto nel '900 in risposta all'esigenza oggettiva di "comprendere" e "padroneggiare" i meccanismi biologici, psichici, sociali che costituiscono l'uomo.

Il quadro di tali scienze, parallelamente allo sviluppo della società contemporanea, appare sempre più articolato e differenziato al suo interno.

Di questo vasto panorama è parte integrante l'ANTROPOLOGIA CULTURALE, la disciplina che studia la "cultura" dei vari gruppi umani, intendendo per cultura l'insieme dei modi di vita di una comunità umana determinata (la cultura di cui parlano gli antropologi è 151f52b un concetto vasto e neutrale).

L'antropologia culturale in senso ampio (comprendente l'etnologia cioè lo studio delle società primitive in particolare) è oggi collegata da una fitta rete di rapporti interdisciplinari con la storia, la sociologia, la psicologia, la psicanalisi, la linguistica e l'archeologia.


Interrogarsi sull'epistemologia dell'antropologia significa ripensare criticamente ad una storia dell'antropologia in cui diversi paradigmi, intesi nel senso Kuhniano di "esemplari, modelli, concrete soluzioni dei problemi che fanno parte della matrice disciplinare di una comunità scientifica" ("La struttura delle rivoluzioni scientifiche" 1962), si sono succeduti e contrapposti tra loro, ognuno con caratteristiche e limiti peculiari macroscopicamente connessi alle diverse comunità scientifiche.

Kuhn sottolinea, infatti, come a partire dagli esemplari sia possibile individuare lo stile di ricerca caratteristico di un determinato gruppo scientifico essendo le scelte e le soluzioni dei problemi

da essi affrontate condizionate dagli impegni condivisi al suo interno.

Sebbene osservazioni etnologico-antropologiche si trovino espresse sin dall'antichità da storici, viaggiatori e studiosi (da Erodoto, a Marco Polo), è soprattutto nel Settecento che si diffonde l'interesse per i costumi umani dei vari popoli alimentato dai contatti con le civiltà extra-europee.

A Parigi si costituì nel 1799 per sei anni la "Società degli osservatori dell'uomo".

Già tempo prima Vico, nella Scienza nuova, aveva aperto il discorso sulla categoria del primitivo; l'esplorazione del "Nuovo Mondo" costringeva a prendere atto di stupefacenti contrasti nella condizione umana; dalla costruzione delle abitazioni, al modo di vestire, dalla concezione del matrimonio all'adorazione di dei propri fino alla specificità delle lingue.

Il più antico e, ancora oggi, più comune modo di prendere contatto con queste differenze è quello di dare per scontato che le proprie credenze e pratiche siano espressione normale di un modo di vivere giusto e corretto.

Già nel 1571 Montaigne parla negli Essais di municipalità della ragione intendendo notare come "ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi" (Libro I, capitolo XXXI).

Verso la metà del secolo XVIII iniziò a manifestarsi il primo tentativo sistematico di spiegare, sotto un profilo scientifico, le varie differenze culturali. Il tema comune di queste teorie era l'idea del progresso. Autori come Smith e Diderot spiegavano le differenti culture come differenti livelli di conoscenza e acquisizione razionali. Si credeva che il genere umano, europei compresi, avesse in epoca antica condotto una vita assolutamente non civilizzata (stato di natura) e che poi, guidato dalla ragione, avesse raggiunto una condizione di civiltà illuminata. Le differenze culturali erano spiegate come esito di diversi livelli di progresso morale e intellettuale raggiunti dai diversi popoli.


La vera e propria fondazione scientifica dell'antropologia culturale, come disciplina a sé stante, si ha solo nell'Ottocento. Dal punto di vista concettuale, visibilmente influenzata dall'atmosfera positivistica, la prima fase di questa scienza viene definita "antropologia evoluzionistica", in quanto si riteneva che la storia dei popoli seguisse ovunque un cammino unilaterale, un identico schema di sviluppo scandito da fasi obbligatorie. Da ciò l'utilizzazione del metodo comparativo teso a stabilire dei paralleli fra le fasi analoghe attraversate dai vari popoli. Importante, per l'affermazione di questa disciplina, è il concetto totale di cultura delineato da Tylor : "l'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il costume e ogni altra capacità di abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società".

Verso la fine dell'Ottocento, l'antropologia evoluzionistica comincia ad entrare in crisi ad opera del diffusionismo (Graebner e Schmit) e dell'indirizzo particolaristico-storicistico (Boas); entrambi suggestionati dallo storicismo tedesco. Il primo concepisce le culture in modo policentrico e spiega le analogie tra esse mediante possibili contatti tra loro, il secondo sottolinea la necessità di studiare le singole culture nei loro specifici contesti storici, sociali, linguistici negando l'esistenza di uno schema universale e necessario del loro sviluppo.

Orientamento importante dell'antropologia culturale del nostro secolo è stata la "scuola di personalità cultura" la quale studiò, avvalendosi di apporti psicanalitici, i rapporti tra formazione della personalità individuale e cultura facendo rilevare la forza plasmatrice delle strutture culturali nei confronti degli stessi dati biologici primari di maschio e femmina.

Per il funzionalismo di Malinowsky spiegare in modo scientifico un fenomeno culturale non significa né riportarlo ad uno schema evolutivo generale né al suo peculiare contesto storico quanto comprendere la sua funzione in relazione a determinati bisogni primari (cibo, sesso) o secondari ed in rapporto alle varie istituzioni che compongono la società.

Tra le correnti più recenti lo strutturalismo di Lévi-Strauss considera le varietà culturali ovvie e di superficie (la vetrina della storia) ricercando le costanti strutturali che fanno dell'umanità qualcosa di sostanzialmente immutabile. Egli sostiene che "le scienze umane diventeranno scienze solo cessando di essere umane" cioè ponendo, al posto della progettualità cosciente degli individui, l'Inconscio collettivo

e i suoi reticoli categoriali.

IL PARADIGMA POSITIVISTICO


Nella seconda metà dell'Ottocento si affermò un modello antropologico caratterizzato dall'idea di potersi servire anche nelle scienze umane, come in quelle naturali, di modelli astratti di scientificità.

Le caratteristiche ed i limiti della prospettiva positivistica in antropologia derivano proprio da questo assunto di base, in seguito criticato dall'antropologia interpretativa che porrà l'accento sul fatto che nelle scienze umane non si raggiunge mai una conoscenza ideale e desituata ma una conoscenza sempre e comunque in relazione all'orizzonte dei vincoli concettuali e strumentali del soggetto che conosce.


Possiamo individuare tre aspetti del paradigma positivistico ed altrettanti limiti.


-Innanzitutto concepiva l'esperienza, l'osservazione dei dati naturali, separata dalla teoria cioè dalla

generalizzazione dei dati in leggi. Ciò implica una visione lineare del passaggio che porta dalla raccolta

dei dati osservati all'astrazione teorica passando per la comparazione.

Il difetto che ne derivò fu il non interrogarsi circa le condizioni del sapere concependo l'oggetto come

esteriore, reificato, dunque già dato e non costruibile ed il soggetto come strumento puro di

osservazione, capace di conoscenza svincolata da filtri di precomprensione caratteristici del suo

orizzonte socio-culturale.


-Altra peculiarità di tale modello consisteva nell'intendere l'etnografia come inventario etnico delle

caratteristiche dei popoli senza attuare un controllo delle fonti. Veniva così depotenziata la

descrizione antropologica riducendola a mero strumento per generalizzare i dati osservati.

La lacuna evidente è l'atteggiamento acritico nei confronti delle condizioni epistemologiche riguardanti

la raccolta dati.


Entrambi gli aspetti fin qui illustrati fanno capo alla terza nota distintiva del paradigma positivistico in antropologia, quello che può essere ritenuto l'autentico orizzonte in cui nacque e in funzione del quale operò:


-Il programma, più o meno esplicito, di mostrare una rispondenza del concetto di cultura al progetto

scientifico inscritto nel modello evoluzionista e imperniato sul metodo comparativo.

Attraverso comparazioni e generalizzazioni si cercavano universali culturali. L'idea, per nulla

implicita, era quella per cui ogni popolo ha una cultura e, dunque, è commisurabile alla civilizzazione

dell'uomo europeo moderno.

Non si teneva conto, pertanto, del fatto che l'antropologia, a differenza delle scienze naturali, non

dispone di teorie, leggi coerenti, per prevedere eventi e comportamenti ma solo di concetti aperti che

gli antropologi mutano in continuazione, ripensandoli, per applicarli alla varietà dei contesti etnografici

specifici.


Reagendo a questi limiti l'antropologia interpretativa metterà in discussione il principio, prima incontestato, dell'indipendenza delle generalizzazioni (leggi) dalla descrizione dei dati di partenza ponendo il problema della non autonomia fattuale dei dati e della loro precomprensione teorica.

IL MODELLO INTERPRETATIVO


Come prima accennavo, il paradigma interpretativo, a differenza di quello positivistico, denaturalizza l'oggetto antropologico, sottolinea la storicità invalicabile del soggetto e del suo comprendere e considera la conoscenza come produzione di senso.


Per quanto riguarda il primo aspetto, l'oggetto antropologico non è reificato in un "fenomeno x" esteriore al soggetto osservante e semplicemente da ricondurre ad una legge universale. Al contrario, esso è pensato come costruzione di chi osserva ed ,in relazione alle condizioni conoscitive di quest'ultimo, assumente un senso. Attraverso l'interazione dialogica con il nativo l'antropologo può interpretarlo e comprenderlo sempre che non si smarrisca la distanza ontologica tra i due, la quale permette l'oggettivazione.

La seconda caratteristica deriva dalla consapevolezza che l'incontro ermeneutico tra la coscienza e il dato non può consistere, ingenuamente, nel mettere tra parentesi sé ed il proprio presente ma in una "fusione di orizzonti" in cui la lontananza tra interprete ed interpretato non è abisso vuoto ma spazio riempito dalla tradizione, la quale funge appunto da trait- d'union tra i due.

Gadamer parla di "storia degli effetti" per sottolineare come la nostra storicità costitutiva ci impedisca uno studio neutrale perché condiziona, depotenziandone l'immediatezza, l'incontro tra coscienza e dato alla luce dei filtri di precomprensione sociali e comunitari dell'antropologo.

Infine, il conoscere, non più inteso come mera descrizione, si configura quale atto di reinvenzione poietica, che crea , cioè, secondo i modelli interpretativi del soggetto (forma) il significato dei dati del mondo. E' il conoscere kantiano come sintesi di forma e contenuto ad opera del soggetto legislatore della natura.


Un esempio di approccio interpretativo in antropologia è il TESTUALISMO di GEERTZ.

Egli parla di altro come testo, dotato di significati misteriosi e lontani, altri dai propri.

Geertz concepisce la cultura come "luogo di articolazione delle differenze" e sostiene, dunque, che la comprensione della "stranezza" antropologica, non risolvibile nella vicinanza empirica ai nativi né spiegabile ricorrendo a teorie generalizzanti, è un'operazione di costruzione dei loro sistemi di simboli (testi) a partire da poche tracce frammentarie.

L'accesso al senso dei modi altrui,cioè la possibilità di chiarirne la logica con parole nostre, avviene nella distanza interpretativa.

Il testo antropologico è, dunque, costitutivamente "finzione" in quanto modella, fabbrica le costruzioni altrui, non è semplice catalogazione di dati osservati.

L'assunto weberiano, per cui gli uomini creano una cultura in cui restano impigliati, viene fatto valere da Geertz per gli antropologi i quali trasferiscono, più o meno consapevolmente, gli schemi della loro cultura nell'analisi delle altre.


I meriti dell'approccio interpretativo consistono nel riconoscere l'estraneità dell'altro, dialogo come "fusione di orizzonti" e conoscenza come incontro di orizzonti di significato, mentre la tensione ideale alla comprensione senza scarto che lo caratterizza è all'origine dei suoi difetti.

In generale si tratta di aver dato una visione astratta e pacificata della conoscenza antropologica, trascurandone gli aspetti pragmatici (del campo); ad esempio concepisce l'oggettivazione solo come accesso all'ontologia dei significati e , con idealismo ottimistico, l'interpretare come mediare le costruzioni altrui attraverso le nostre. Inoltre presenta gli schemi di significato come chiusi, non considerandone le modificazioni provocate dalla dimensione dialogica del campo, e sempre scrivibili, non tenendo presente l'eventualità dell'intraducibile fenomenico.


Più nel dettaglio.


1) L'approccio interpretativo in antropologia non considera la non trasparenza dell'oggetto e l'alterità

come asimmetria.

Sopravvalutando l'aspetto linguistico del senso, il solo livello ontologico del dialogo, cioè la possibilità ideale di trascendere le singole soggettività coinvolte per raggiungere l'universalizzazione dei significati, ne trascura i versanti non verbali; ad esempio l'interazione sul campo con il comportamento e lo sguardo dell'altro le cui distorsioni provocano malintesi interpretativi.

Correggere questa impostazione significa considerare soprattutto che la traduzione è già messa in forma oggettivante perché il linguaggio non è un luogo pacificato del senso separabile dall'orizzonte ontologico di chi se ne serve. Infatti la possibilità di trascendenza offerta dal linguaggio è limitata, esso ci consegna un mondo articolato in cose ma ci trattiene nel suo limite ossia non ci dà il mondo in quanto realtà metafisica ( il noumeno non è cosa ma limite conoscitivo). Come dice Wittgenstein nel linguaggio non abbiamo gli "oggetti in sé" ma "oggetti per noi".

Tradurre, dunque, apre l'orizzonte in cui è possibile o meno significare la distanza dell'altro.

Non solo, contrastivamente, permette la nostra autocomprensione; in psicanalisi si parla di costruzione del sé come soggettivazione all'interno di contesti relazionali asimmetrici.

Infine la comprensione dell'asimmetria dell'altro è fondamentale per non appiattire la singolarità di quest'ultimo ad alter-ego, posizione indifferente, uguale a noi nella scelta di un insieme qualsiasi di significati o nella condivisione della natura umana. L'altro non è "lo stesso", empatico, speculare bensì esistenza cui siamo esposti (Lévinas), volto la cui asimmetria (doppio non come duale ma come "terzo"),

ci costituisce come singoli.

Allora l'antropologia, nell'incontro di ontologie, si configura come conoscenza asimmetrica in cui il dialogo delle alterità (identità) contrastive permette la comprensione e l'autocomprensione.


2) Trascura i diversi livelli e tempi dell'interpretazione antropologica.

Sopravvaluta la possibilità dell'antropologo di comprendere, tradurre, ricostruire scientificamente l'esperienza di campo appiattendo il processo dialogico e temporale dell'interpretazione antropologica allo scrivere. Vengono così tralasciati i fenomeni intensivi e qualitativi che l'incontro con l'altro provoca; lo sguardo modifica e si modifica nell'incontro con quello altrui.

Al contrario, l'interpretazione antropologica non è passaggio diretto dalla visione dell'altro alla sua rappresentazione verbale, quanto processo dinamico che si realizza in diversi momenti:

-a: osservazione sul campo:

dimensione conoscitiva e dialogica fondamentale in quanto l'antropologo non diventa altro né impone la

sua cultura ma é l'occasione in cui avviene la messa in gioco delle identità e i ruoli vengono rinegoziati.

-b: descrizione etnografica:

traduce l'interazione in discorso indiretto attraverso il dialogo tra le lingue, il passaggio all'atemporale

monologico della lingua scientifica comunitaria (che, quale corpo precomprendente, ha i suoi vincoli e le

sue possibilità nel mettere in forma, simulare, il mondo significante dell'altro) e la fattualizzazione del

reale etnologico. In quest'ultima fase si tratta di verificare la capacità dei modelli di oggettivazione di

ricostruire campi semantici di termini reinserendoli nel contesto della loro cultura d'origine.

La debolezza delle descrizioni sta nel fatto che l'oggetto antropologico non si dà in sé ma entro i limiti

della precomprensione dell'antropologo, così essa non permette tanto la conoscenza di cose quanto

quella di tali filtri precostitutivi .

-c: oggettivazione:

la scrittura del testo antropologico è momento conclusivo , ma non pacificato, dell'interpretazione

perché richiede all'antropologo di alimentarsi e, al tempo stesso, criticare le ipotesi teoriche

dell'antropologia in generale e della propria comunità scientifica in particolare.

UNA QUESTIONE INTERESSANTE:

DESCRIVERE = possibilità e problema della rappresentabilità dell'altro.


Come si è visto un problema cruciale sul quale ogni paradigma antropologico deve riflettere è quello della descrizione e del suo rapporto con il livello della concettualizzazione.

La descrizione etnografica, precedentemente relegata nel mero tecnismo del raccogliere dati e fatti osservabili, ha assunto oggi uno spessore problematico nuovo con l'emergere di una CONCEZIONE TESTUALE DELL'OGGETTO ANTROPOLOGICO.

La descrizione, infatti, è già momento concettualizzante che permette l'oggettivazione, la messa in forma dell'alterità mediante la scrittura. Inoltre essa rinvia alla questione dell'interpretazione della traduzione dell'oggetto etnografico così come alla prospettiva del soggetto osservante ed alla dimensione dialogica del lavoro sul campo (interazione etnografo-nativo).

Sarebbe acritico pensare ancora, come i positivisti, di poter ottenere una lettura asetticamente oggettiva dei dati osservati infatti, come sottolinea C. Geertz, esiste uno scarto tra "l'essere là" (sul campo) e "l'essere qui" (a raccontare del campo) perché la scrittura etnografica non è semplice ricostruzione signica della realtà osservata bensì un modo di rappresentarla in quanto già precompresa.

Cioè in quanto già inclusa in rappresentazioni al momento stesso in cui la percepiamo.

La testualizzazione, dunque, lungi dall'essere neutra, include gli oggetti della riflessione antropologica in rappresentazioni che dipendono dalle categorie epistemologico-interpretative con le quali l'antropologo si avvicina al suo oggetto per poi allontanarsene attraverso la scrittura

Chiarisce Wagner che le cose descritte in etnografia non sono componenti di una cultura esistente al di fuori e indipendentemente dalla particolare descrizione che ne dà l'antropologo ma "cose inventate", rappresentazioni nate dall'incontro tra la sua cultura e quella che intende studiare al fine di comprenderla in termini familiari (il "vedere come" di Wittgenstein).

Il rapporto dialogico osservatore-nativo mediato dalla scrittura è prezioso perché, nell'alienazione signica dell'esperienza dell'altro, questo viene "ascoltato altrimenti", cioè colto come differente, esprimente un unicum.

Tuttavia se la "finzione antropologica" (Crapanzano) da regolativa diviene costitutiva, ossia se usata non "come se" potesse riflettere una realtà esistente bensì reificata in un "è", si trasforma in una realtà illusoria la cui descrizione sarebbe tutt'altro che costruttiva.


Concludendo.

Ripensare criticamente alla scrittura etnografica significa innanzitutto prendere coscienza del fatto che essa, con le sue finalità implicite ed esplicite, con le sue tecniche di occultamento e persuasione, è davvero "pharmakon" nel duplice significato di "veleno" e "rimedio" come diceva Platone nel denotare la natura ambigua di ogni trascrizione della parola.













Giudizio della dottoressa Borutti


Lavoro buono, che rivela una buona assimilazione dei temi e delle tesi.

Buono lo sforzo di riarticolazione dei concetti e della stesura stessa. Interessante, in particolare, la premessa che permette di inquadrare il confronto tra il paradigma positivistico e il modello interpretativo in un sintetica ma esaustiva ricognizione storica sugli sviluppi dell'antropologia culturale.

La forma è in genere scorrevole anche se spesso andrebbero ripresi alcuni soggetti lasciati impliciti.

La comprensione dei concetti è buona e non mancano riferimenti filosofici brevi ma mirati.

Andava forse sviluppato con più ampiezza il tema dell'oggettivazione.



*Nota mia dopo aver studiato il corso di teoretica 1999-2000 ASPETTI FINZIONALI DEL PENSIERO


Wittgenstein permette di elaborare una prospettiva epistemologica per le scienze umane come rappresentazione funzionale del non rappresentabile.

La prospettiva funzionale evacua l'idealismo dell'onnipotenza del linguaggio che può essere sotteso alla concezione della conoscenza come costruzione linguistica del mondo = poiesis.

IL LINGUAGGIO E' TRASCENDENZA LIMITATA = è condizione che svela e configura per noi il rapporto visibile- invisibile ma è anche limite che copre: non è possibile una traduzione completa del mondo in linguaggio (c'è l'intraducibile ontologico!).


La finzione in scienze umane va intesa come costruzione in senso non rappresentativo ma poieitico estatico = connessa alla costituzione ontologica finita e al debito di realtà.

(conoscere non è solo forma ma anche mancanza radicale d'oggetto = è elaborazione formale di un lutto malinconico perché non sappiamo cos'è l'oggetto in sé che abbiamo perso).


LA CONOSCENZA NON E' MAI RESTITUZIONE LINGUISTICA DELLA TRASPARENZA DELL'OGGETTO MA E' TRATTAMENTO FORMALE (in senso non formalistico = metaforico, immaginativo) AL FINE DI VEDERE ( il conoscere è reinvenzione poietica dei dati del mondo secondo modelli interpretativi del soggetto = è produzione di senso) MA CHE NON ARRIVERA' MAI A RICOMPORRE IN CORRISPONDENZA RAPPRESENTABILITA' E REALTA' (i filtri di precomprensione depotenziano l'immediatezza dell'incontro tra coscienza e dati = non ne è possibile una lettura asettica, oggettiva).


Ad esempio possiamo adottare in scienze umane la finzione di Geertz che ci permette di parlare degli altri come testi da comprendere dialogicamente ( in prospettiva interpretativa il testo antropologico è finzione perché modella, fabbrica i loro sistemi di simboli a partire da poche tracce frammentarie, non è semplice catalogazione di dati osservati e deificati).

Tuttavia se i modelli di testo e dialogo sono assolutizzati rischiano di proporsi come comprensione senza scarto come se gli oggetti fossero sempre traducibili e il senso dell'altro fosse solo linguaggio.

NO! E' anche senso incarnato opaco e in conoscibile = pulsioni, sentimenti.

C'E' L'INTRADUCIBILE ONTOLOGICO !! IL SENSO NON E' SOLO IDEALITA' E LINGUAGGIO. OGNI COMPRENSIONE E' LINGUAGGIOE FORMA MA HA SEMPRE A CHE FARE CON L'INFORME.

La finzione formale è, infatti, lavoro di presentazione di un essere mancante.


NON BISOGNA SOPRAVVALUTARE L'ASPETTO LINGUISTICO DEL SENSO (la possibilità di trascendenza) PERCHE' IL LINGUAGGIO NON E' LUOGO PACIFICATO DEL SENSO SEPARABILE DALL'ORIZZONTE ONTOLOGICO DI CHI SE NE SERVE. E' trascendenza limitata; ci consegna un mondo articolato in cose ma ci trattiene nel suo limite = ci dà "oggetti per noi" non il "mondo in sé" come realtà metafisica (il noumeno non è cosa ma limite conoscitivo).


Ad esempio, fa notare Averincev, in "Atene e Gerusalemme" che una letteratura comune a tutta Europa sarebbe impensabile se non ci fossero state collisioni della semantica greca ed ebraica.

Shakespeare non potrebbe parlare nei suoi sonetti di "mattini gloriosi" se gli interpreti alessandrini della Bibbia non avessero comunicato al lessema "gloria" le sfumature, escluse dalla semantica greca e presenti invece nell'ebraico, della rivelazione divina nella luce.









































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