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Storia delle dottrine politiche - " il principe" di Machiavelli Nicolò

politica



Storia delle dottrine politiche

Opere politiche relazionate:

" il principe"

di Machiavelli Nicolò

Manifesto del partito comunista"

di Karl Marx e Friedrich Engels






Nicolò Machiavelli

IL PRINCIPE


Nicolò Machiavelli per il grande amore che nutriva per la sua patria, Firenze, e per la libertà di essa, rimase per ben quattordici anni (1498-1512) al servizio della Repubblica, col grado di Segretario dei dieci di libertà e di pace. Per questo suo amore, dunque, svolse mirabilmente le sue Legazioni, le quali, con la conoscenza degli eventi storici e politici del tempo, dovevano dargli ampia materia per il Principe. Durante i quattordici anni del suo uffizio riuscì nonostante l'indifferenza e l'ignoranza altrui e la non adeguata corrispondenza di mezzi, a creare l'ordinanza, cioè le milizie proprie, tanta era la disistima e lo sdegno che generavano in lui le milizie mercenarie. Nel 1502 lo ritroviamo presso Cesare Borgia prima ad Imola e poi a Sinigallia. Il Machiavelli nel principe ci dà notizie anche della bontà di Cesare Borgia.le virtù di forza e di prudenza e i modi cortesi di questo principe conquistarono Nicolò, durante la sua permanenza ad Imola, sì da fargli scrivere che egli non potrebbe con la penna esprimere "con quanta dimostrazione di affezione egli parli, e con quanta giustificazione delle cose passate". Ma la sua era affezione apparente, la quale se, da un lato, dimostra che il Valentino aveva un qualche rispetto per il Machiavelli, dall'altro rivela che Nicolò non si lasciava sfuggire le mosse del Duca. Però si noti che se Cesare Borgia si considera come un uomo, era, certo, un delittuoso; ma se lo si considera come uomo di Stato egli, per quei tempi, e fra gli altri principi più infami e meno virtuosi di lui, meritava l'ammirazione del Machiavelli, la quale faceva riscontro alla devozione di tutta la Romagna per il Duca, del quale quei popoli erano soddisfatti. Pareva che tanto amore e successo, tanto lavoro e dedizione dovessero conseguire l'alto scopo al quale Nicolò mirava; ma ecco che il regime libero di Firenze cade e si riaprono le porte ai medici (1512). Nicolò, che contava allora 43 anni, aveva dunque, dato inutilmente un buon terzo della sua esistenza a Firenze. Di contro alla sua opera, dunque, avevano trionfato la corruzione generale, attraverso la superbia, l'invidia e l'avarizia della maggioranza, la irrequietezza della città partita, dovuta anche all'opera precedentemente svolta dal Savoranola. Nel 1513 fu scoperta la congiura; Nicolò fu travolto dagli eventi e buttato nel carcere, dal quale, ben presto fu liberato, per opera dello stesso Leone X. Il senatore vide, orribilmente, cadere davanti a sé 949g64j , tutti insieme, gli ideali cullati intorno alla libertà della sua Firenze, dato che "la patria del Machiavelli era naturalmente il comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del Papa e dell'imperatore, governo di tutti, nell'interesse di tutti". Fiero, muto, si ritirò nella sua villa dell' Abetaccio, presso San Casciano. E qui, nel profondo del suo pensiero, che si irrobustiva nella quiete campestre, fornì di più ampie ali il suo senso civico, dette spazio immenso all'ampliarsi del suo grande cuore, e cominciò ad estendere e a correggere il suo grande sogno democratico di unità e libertà: pensò a tutta l'Italia. In lui "si risvegliò l'italiano, e pensò al modo di liberare la patria comune anche sacrificando la libertà di Firenze". Siamo alla svolta decisiva della strada, che il pensiero del Machiavelli percorre, pensiero che potrà errare e distruggersi, rovinare ipso facto, e potrà non errare per vivere in eterno, documento di sapienza e di esperienza politica a tutti reggitori di popoli. Ed ecco che egli deve ora aderire, è una necessità, ai Medici, i quali sono considerati, ora, per ciò che fanno sperare, non più rispetto a Firenze, ma rispetto all'Italia; e tra essi c'è Lorenzo, figlio di Piero e duca d'Urbino, che affida per le sue virtù. Ma, nel 1527, i Medici sono scacciati di nuovo da Firenze, dove viene istituita una repubblica sul tipo di quella vagheggiata dal Savonarola. Egli, da Ostia, dove s'era portato durante "il sacco di Roma", del quale era stato testimone, accorse per giovare ancora e comunque alla sua Firenze. Ma fu accolto male, e il partito popolare gli rimproverò di aver voluto sacrificare all'Italia la libertà di Firenze, dando, dopo il 1513, la sua adesione ai Medici. Disgustato e ferito moralmente da tanta ingratitudine, oltraggiato acerbamente dagli uomini e dagli aventi, colpito nel suo grande amore, tornò a ritirarsi a San Casciano. Ma anche qui la quiete di un tempo era, per lui e la mano, che, dopo aver scritto i discorsi, nell'esaltazione di Roma repubblicana, aveva ridonato agli italiani, col principe, il sogno di unificazione nazionale, solo un desiderio. Lo colse la morte, che ai forti ed ai sapienti non incute timore. Egli insisteva nel dire, sul letto di morte, che non lo atterriva la sua fine ma quella non lontana della sua Firenze. E il grande, che moriva solo nel corpo, lasciava a Firenze e all'Italia un'arma: il principe!

Il Machiavelli, dunque, oltre che fiorentino si sentiva di essere italiano; egli, anzi, proprio come Dante, suo grande maestro politico e concittadino, fu italiano dopo essere stato fiorentino e dovette, anche se non l'ha scritto, desiderare di essere chiamato anche lui fiorentino di nascita sed non moribus. A Firenze, con l'anticipato risorgere dell'umanesimo battezzato dalle vigilie antiche del Petrarca del Boccaccio, potettero, prima Cosimo de' Medici e, poi, Lorenzo, creare quella forte corrente di studi classici, filosofici e poetici, che più presto avrebbero aperto le menti ed i cuori dei fiorentini ad altri orizzonti, è questo risveglio di vita nuova, infatti, nelle arti,nelle lettere e nelle scienze non si accordava con le pessime condizioni politiche. Eppure un periodo di pace di prosperità c'era stato per l'Italia e per Firenze, nella seconda metà del secolo XV. Gli stati d'Italia erano, per tacere de' minori: Milano, sfolgorante sotto i ducati di Filippo Maria Visconti e quello di Francesco Sforza; Venezia, nemica di Milano del papato, impegnata come era ad estendere il suo dominio territoriale; Firenze, divisa in altri maggiori e minori e sempre impegnata in trattative con Pisa e con Siena; Roma, col papato intento ad assicurarsi il potere temporale in Italia, e Napoli con Ferdinando d'Aragona; però in quel periodo la pace fu mantenuta per due ragioni: a ) perché Firenze e Napoli sinceramente erano animate da idee di pace; b) perché tutti gli stati, auspice Lorenzo il magnifico, si erano strettamente uniti contro Venezia, nemico comune della libertà d'Italia, come Nicolò aveva detto. Purtroppo, però, gli stati erano gelosi e sospettosi l'uno dell'altro, e l'uno attraversava i disegni dell'altro. Ma la morte prematura di Lorenzo il Magnifico (1492) fece intendere meglio quale e quanta parte avesse avuto egli nel mantenere in pace l'Italia. Infelici ed infinite sciagure si preparavano ora alla nostra penisola. A maggiore scempio il Machiavelli non poteva assistere. Proprio mentre il genio d'Italia e la sua dottrina si imponevano al mondo, proprio nel abbattersi di tanta rovina su noi, proprio "mentre che il danno e la vergogna dura" l'uomo, su cui Nicolò ha posto il pensiero e le speranze per la non lontana redenzione d'Italia, il Valentino, oltre che ad avere stroncati i suoi disegni dall' imprevista morte del padre, Alessandro VI, (1503), viene arrestato dagli spagnoli, complice Giulio II, per di lì a poco morire nella Navarra. Nicolò grida ancora sulle necessità delle armi nazionali proprie. Nicolò assiste pensoso e muto a tanta pena ed orrore; L'Italia non aveva che peggiorato da 300 al 500. Queste erano le condizioni politiche dell'Italia, specialmente per la debolezza generata dalle signorie e dalle oligarchie, che erano succedute ai gloriosi liberi comuni. Le signorie, anzi, furono una trasformazione del comune nei tempi dell'avvilimento della patria. E ciò era venuto perché, se nel medioevo il comune, agglomerato di varie associazioni minori, viveva all'ombra della protezione dei guelfi e dei ghibellini, nel secolo XV, abbandonato a se stesso, non può più sperare che nella sua forza; perché l'impero si è rifugiato già nei confini della sola Germania e il papato di Alessandro VI, di Giulio II e di Leone X, che ha perduto l'unità del dominio civile e universale nel mondo, bada unicamente alla costituzione di un potere temporale nello Stato Pontificio. E il papato lotta per questo scopo, non pure contro i barbari da espellere dall'Italia, ma anche contro altri stati italiani, prima fra tutti Venezia. In Europa, poi, si erano costituite, ad occidente, delle salde monarchie, che richiamavano tutta l' attenzione e lo studio anche diretto del Machiavelli, e, la libera libertà, egli l'aveva trovata solo in Svizzera della quale era entusiasta. Nicolò ora è a San Casciano, subito dopo il '12. Il suo grande amore per l'Italia, a noi già noto, e la sua "lunga esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique" gli suggeriscono l'idea di scrivere un libro de principatibus , di cui dà notizia all'amico e compare Francesco Vettori, in Roma.

Il principe è l'opera maggiore del Machiavelli; anzi è l'opera sua propria, quelle in cui emerge l'originalità della sua concezione di storico e di filosofo. In essa, il Machiavelli è storico ed artista, e, piuttosto, non sempre preciso storico, per essere anche artista, e non soltanto artista, appunto perché è storico. Ma il principe, che pure si eleva sulla varia produzione del Machiavelli che domina la storiografia del tempo, è legato, fuso, nella concezione storico-scientifica, con altre due opere fondamentali del Nostro: i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e i dialoghi dell'arte della guerra; la prima è l'opera che rispecchia il culto dell'antichità attraverso la storia, cioè quello che egli chiama "la continua lezione delle cose antique" e la seconda corrisponde "alla lunga esperienza delle cose moderne". Nei discorsi, c'è il passato e c'è il Machiavelli repubblicano in azione, nell'arte della guerra c'è il presente e la previdenza del futuro, quale risalta agli occhi dell'autore del principe. In questo trattato che per ben tre secoli rappresentò l'utopia del Machiavelli, è potente la profezia del futuro. Il principe, ricollegandosi ai discorsi, parte dall'ammirazione per la Roma repubblicana, che seppe divenire caput mundi, e con i capitoli XII, XIII, XIV, traccia il solco e vi getta il seme donde verrà l'arte della guerra, che darà le norme belliche, una volta costituito un esercito nazionale, mercé le quali l'Italia ritornerà all'antica grandezza. Né è a dire che il pensiero del Machiavelli abbia subito deviazione di sorta; egli, che nacque repubblicano, tale morì, ma, beninteso, sentendosi fiorentino e italiano prima di essere repubblicano. Egli era il continuatore di Dante che fu italiano prima di essere guelfo o "ghibellin fuggiasco", ed il precursore di Mazzini, che fu italiano, fino a ad invitare ora Carlo Alberto ora il Papa a unificare la patria, e tale era prima di essere repubblicano. Ed allora il Nostro non scrisse il principe per lodare la tirannide, come parve, ma nella illusione che la casa dei Medici attuasse il disegno di mettersi a capo dell'Italia unificata. E quando, morto Lorenzo, la grande speranze cadde, Egli voleva perfino ritirare il principe, perché non gli pareva più utile in quel momento; la tela dei discorsi è quella stessa del principe: a) come si possono fondare le repubbliche (o i principati) e del loro ordinamento interno; b) come gli stati si conquistano e come si ingrandiscono; c) come essi prosperano e come possono decadere. Di più, nelle due opere, c'è un'ampia e acuta trattazione sulle congiure; ed Egli chiaramente mostra di detestarle. Ritiene che i congiurati siano cattivi cittadini, e mentre previene il principe, ai congiurati dimostra che le congiure difficilmente riescono, specie se il principe è amato dal popolo. Ammonisce che il principe sia pronto a ordinare ogni cosa nuova e straordinaria e non conosca le vie di mezzo, ma ricorra sempre agli estremi (del bene o del male) come faceva Roma. È già che la chiesa, con la pretesa del potere temporale, ostacolava l'evoluzione dello Stato laico moderno, egli era contro il papato che aveva anche con sua corruzione accresciuto il numero dei signorotti e le lotte delle fazioni. Non approvava, dunque, l'azione politica e sociale di essa, fosse quella esaltata e ingenua di frate Girolamo o fosse quella fredda, simulatrice e delittuosa di Alessandro VI. Ma, in compenso, accettava la religione pura di Cristo e la riteneva elemento fondamentale, necessario per rafforzare l'amor di patria. E uno Stato, poi, non può fare a meno della religione, alla quale è collegata la morale del popolo. "Ma egli vuole una religione di Stato che sia in mano del principe un mezzo di governo". L'arte della guerra (1521) contiene sette libri sulla strategia militare divenuta scienza, per la prima volta, e ad opera sua. Discute dell'obbligo dei cittadini di esercitare la milizia, del modo di equipaggiare gli eserciti, del dovere del principe di condurre bene i medesimi e dello studio dei luoghi delle battaglie e del modo di assaltare il nemico e dei servizi o meno delle fortezze. Al principe che, lì, invoca e ci presenta quale vendicatore e redentore, pronto ad irrompere contro tutti e tutto, per redimere finalmente l'umile Italia, egli non offre la spada necessaria che lui stesso, Nicolò, ha apparecchiata e temperata. Abbiamo detto come e quando Nicolò amasse la patria, e che scrisse il principe solo quando egli si accorse che il principato era la forma di governo più indicata a dare unità e libertà all'Italia. Il Machiavelli si faceva anche eco delle speciali condizioni politiche e storiche del suo tempo, quando il comune era in balia di se stesso, e incapaci di ritornare ai suoi antichi splendori, tra l'impero che combatteva il papato e questo che si occupava più delle cose terrene che delle celesti, ed era pronto a chiamare in Italia lo straniero o a desiderare la monarchia, la quale, naturalmente, avrebbe diminuito il comune. Ed alla monarchia aspiravano anche cittadini delle varie regioni, delusi e dolenti che, se si fossero incorporati ad un comune, essi non avrebbero affatto goduto del diritto di cittadinanza, perchè questo diritto era riservato solamente ai cittadini. E, nonostante questa tendenza collettiva al principato, persisteva, con molti segni palesi, la grande attrazione che il comune esercitava sulle masse e per la quale era in molti il desiderio che un unico principe o valente uomo sorgesse per approfittare della occasione così favorevole. Di più, erano diffuse la corruzione e la viltà che le basse passioni umane e l'egoismo più sfacciato avevano generate nell'animo dei singoli, dacché essi, usciti dallo Stato di associazione e corporazione del medioevo, avevano tenuto, dal Rinascimento, il senso dell'individualità non prima posseduta. Occorreva un freno, una legge che solo un uomo eccellente, attento è disinteressato poteva emanare. E questo uomo eccellente avrebbe dovuto, mercé la virtù e la fortuna, mantenere nel suo pugno una provincia o più province, dirigere le varie amministrazioni dello Stato, regolare i rapporti con gli stati vicini, mirare sempre al bene del popolo, agire sempre nell'interesse di quello, decidere della guerra e della pace, dopo essersi fornito di armi proprie. Questo nuovo governo doveva svolgersi in mezzo all'infedeltà delle armi mercenarie che erano sempre pronte a passare presso un altro signore o Stato, solo che fossero meglio pagate o trattate, e in mezzo a mille insidie, tradimenti, congiure ecc.; perciò il principe, di necessità, doveva essere poco scrupoloso intorno ai mezzi di cui avrebbe dovuto servirsi per raggiungere il suo scopo. Tra l'utile e l'onesto, insomma, dovrà preferire l'utile, aderendo così al principio di Cicerone. E così, alla virtù e alla fortuna s'aggiungeva ora l'astuzia del principe, la prudenza nel non lasciarsi sorprendere impreparato, tessendo sogni, ma nel seguire la verità effettuale, nel mancare alla fede data, pur di conservare lo Stato, nell'usare la crudeltà se gli eventi, sia pur deprecati, e gli uomini "che son sempre tristi" lo trascinassero a ciò. Il principe era chiamato ad esplicare, in altre parole, una politica ad horas. E questa era l'unica via; perché il principato era l'unico mezzo per tenere unita una provincia. Il Machiavelli, dunque, ideando il principe, con queste premesse e in questo stato di cose, e divorato dal suo sublime amor di patria, aveva posto pensiero e speranze su Cesare Borgia, per le ragioni: a) perché, dopo averlo conosciuto da vicino, come politico e come uomo, riteneva che egli fosse fornito di tutte quelle virtù necessarie a poter effettuare una grande impresa, come la conquista di tutta l'Italia; b) perché, ritenendo più che sacro il fine della liberazione della patria, ed avendo il Valentino per padre Alessandro VI, sperava che l'azione di quello fosse per essere favorita da Dio e dalla chiesa. Egli attinge speranza dalla chiarezza con cui vede la causa dei mali d'Italia: "questo nasce -dice- che gli ordini antichi di essa non erano buoni, e non c è stato alcuno che abbia saputo trovare de' nuovi". E già che il Valentino è morto prematuramente, il 1507, nell'ora in cui egli scrive il principe pensa ad un altro valente uomo, a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, le virtù del quale tutti decantavano e l'azione del quale sarebbe stata sorretta da quella dello zio Leone X, papa; così, anche questa azione dei Medici poteva essere favorita da Dio e dalla chiesa. Di Lorenzo scrive in modo lusinghiero lo stesso Nicolò, affermando che "egli ha ripieno di buona speranza tutta questa città, e pare che ciascuno cominci a riconosce in lui la felice memoria del suo avolo". E dedicò il principe a Lorenzo, con la magnifica lettera dedicatoria che è pervasa di rispetto e di augurio sincero per Lorenzo e la sua casa dei Medici. Cosicché la lettera dedicatoria fa riscontro col capitolo ventiseiesimo del principe, in cui il Nostro esorta la illustre casa medicea ad impugnare le armi e liberare l'Italia, perché " puzza questo barbaro dominio". Nei rimanenti venticinque capitoli, poi, il Machiavelli svolge il suo concetto politico, che consiste nel ritenere che la storia, studiata dopo una profonda e viva esperienza delle cose presenti (la verità effettuale), dia delle positive leggi politiche e storiche. Il Machiavelli crea la sua concezione politica attraverso l'esame e la elaborazione di una scienza empirica della politica nella quale si aderge in potenza il concetto della virtù da contrapporre a quello della fortuna. Questa virtù si manifesta negli ordini e nell'eccellenza dell'ordinatore, il quale deve "fare la grande impresa e dare di se rari esempi all'interno e all'esterno"; deve ritenere, nei conflitti, la neutralità dannosa, e deve essere vero amico e vero nemico, e deve guardarsi da fare alleanza "con uno più potente di se per offendere altri"; deve vigilare continuamente perché non è in lui prendere "partiti sicuri". All'interno, e gli onori le virtù e le arti, dia la pace, l'ordine e la libertà ai cittadini, e incremento alle industrie, ai traffici, all'agricoltura e spesso, assista a feste e spettacoli pubblici, e si mostri, coi cittadini, umano munifico, liberale, ma sempre dignitoso. Così vede il Machiavelli il nuovo principe, dopo, però, aver parlato delle varie qualità dei principati, quelli ecclesiastici compresi e dei mezzi per conquistarli, e cioè o con le armi e la virtù, o con le armi e la fortuna di altri, o con le scelleratezze, di cui porta gli orribili esempi di Agatocle re di Siracusa e di Oliverotto da Fermo, o mediante il favore del popolo, il quale sarà presto conquistato se non sarà oppresso e se sarà beneficato. La parte più originale del principe, e che è il precedente dell'arte della guerra, è la trattazione intorno alla milizia, dove, partendo dal suo noto pensiero che la salvezza della patria è solo nelle armi proprie, esamina le varie specie di armi: le mercenarie, le ausiliarie e le miste, con particolare riguardo alle gravi conseguenze della loro azione in Italia. E, poi, elevandosi dalla pratica alle leggi, eccolo a proclamare delle verità come le seguenti: " Non può essere buona legge dove non sono buone armi" è: "E il principe deve andare di persona a fare l'offizio di capitano". Ed a queste leggi Egli trasmette il fuoco della sua passione, la luce della sua accesa fantasia, è così la teoria si trasforma in atto di fede, la pratica assurge all'altezza di un dogma, l'umanità sale nelle sfere della superumanità, e cioè dell'eroismo. E così, con questo spirito, egli analizza le differenze tra le varie armi, e ti dice come le "ausiliare" siano più pericolose dalle "mercenarie", perché se di queste ultime può tradirti la ignavia, delle altre, che sono guidate da un altro capitano, ti può tradire la virtù. E, infine, tra le semplici ausiliarie e le semplici mercenarie preferisce le armi miste. Un perfetto riscontro con i libri V e VI dell'arte della guerra, troviamo nel capitolo XIV del principe, in cui, dopo avere incitato il principe a tenersi in continuo esercizio di guerra, conclude che "il negligere quest'arte" è ragione prima per perdere uno stato. Ma il principe, che un uomo, potrebbe essere buono o cattivo. Se per natura non è cattivo, occorre che impari ad esserlo "perché un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini, fra tanti che non sono buoni". Ora la necessità di questa massima si rivela tale solo se si pensa che il principe è il capo di quello stato, che bisogna difendere e conservare. Perché, infatti, il Machiavelli, pur essendo pessimista rispetto agli uomini, in genere, spesso li difende e biasima i principi cattivi e crudeli, fuor di luogo e fuor di limite, anche se si tratta dello Stato. Ed al principe buono e prudente espone la necessità di usare la parsimonia piuttosto che la liberalità, la quale porterebbe aggravare di tasse il popolo o renderebbe il principe "contennendo ed odioso". Il principe non gravi mai il popolo, tranne nel caso in cui non abbia ancora acquistato il principato e nel caso che, in guerra, si spenda il denaro altrui. Anzi, dal popolo il principe si faccia amare, il che è preferibile all'essere temuto, nonostante che "... Al principe nuovo sia impossibile fuggire al nome di crudele, per essere lì stati nuovi pieni di pericoli". Il principe, però, "debbe desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele"; ma deve essere prudente nel "non usare male questa pietà". Sicché non è detto che egli debba essere crudele, perché basterà che sia tenuto e creduto tale. In altri termini, prevale, nel Machiavelli, il concetto della clemenza, allo stesso modo che Egli si fa banditore della necessità di mantenere la fede data. E un senso di umana sincerità promana da queste parole: "quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con le integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende". Ed è moralità questa. Ma, poi, esamina che "ne nostri tempi", si badi, hanno fatto fortuna quei principi che della fede "hanno tenuto poco conto". È una constatazione di fatto e non è un consiglio; anzi è un'affermazione che fa a calci con l'altra sua asserzione precedente. Egli, tutt'al più, giustifica la condotta di principi, che mancarono alla fede data, come Ferdinando il Cattolico, partendo dalla sua idea fissa, e in cui non gli si può del tutto dar torto, che gli uomini sono tristi; sì che affermerà che "... Se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono". Ed è coerente con se stesso; e ci invita a pensare alla volubilità degli uomini, alla gravità del dirigere il governo dei popoli, alle varie condizioni sociali delle nazioni attraverso i tempi, all'azione nefasta delle fazioni che non rappresentano certo il popolo o la patria, alla condotta da dover mantenere rispetto alle minoranze ecc... E giàcchè due sono i punti a quali deve mirare il principe, a mantenere cioè la sua reputazione ed a conservare lo stato "facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato; e mezzi sempre saranno giudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa" ma, nemmeno si può dire che Egli vagheggi a priori l'uso della forza, per conquistare lo stato, nonostante che Egli lo stato stesso consideri presidiato sempre dalla forza armata, unico ed efficace rimedio che assicuri la pace. Ma guai se lo Stato si reggesse solamente sulle armi; perché se il principe deve saper essere "uno ferocissimo leone", occorre anche che sia "una astutissima volpe" e che l'una e l'altra attività esplichi solo per gli alti e santi fini politici, che si propone di raggiungere, mentre terrà "el popolo satisfatto di lui" e dal popolo sarà ammirato e seguito. Ma per compiere questa poderosa opera e provvedere continuamente al bene del popolo, in tutti i rami della pubblica amministrazione, il principe si deve circondare di ministri fedeli e sapienti, le azioni dei quali, però, egli deve saper vigilare e correggere. E dai ministri, il principe eccellentissimo accorderà fiducia e "onori e carichi", ed eviterà gli adulatori. La sua legge, il suo criterio prevalga su tutti pareri e consigli degli altri, dopo che da lui siano stati bene ponderati. E questi provvedimenti metta a riscontro con "le qualità dei tempi", perché, altrimenti, rovina. Nelle "qualità dei tempi", è insita la fortuna, per acciuffare la quale, nel caso buono, il principe sia pronto, "impetuoso", giovane e nel caso avverso, si sappia opporre a lei. I nuovi tempi richiedevano più la virtù nel principe che non lo starsene "in su la fortuna ", quand' anche questa fosse per il Machiavelli "arbitra della metà delle azioni nostre". Così, e solo così, questo principe completerà l'opera sua, riportando periodicamente lo stato verso il suo principio e cercando... "Di non partirsi dal bene, potendo".

Questo è il pensiero del Machiavelli nel principe, un personaggio di vita semplice e sentimenti nobilissimi verso la famiglia, gli amici, i concittadini, e nel sopportare la malignità dei tempi; repubblicano irriducibile ed amante appassionato dell'unità e libertà della patria (Firenze-Italia), dopo aver servito la quale, fedelissimamente, rimane povero; autore di una trilogia, di cui il principe è al centro, nel tempo e nel pensiero, e in cui c'è l' ansia tormentosa per il presente e l'avvenire della libertà nazionale; filosofo, nel principe, di una teoria politica che, tenendo conto, nel patriottismo, del bene inseparabile dal popolo, gli fa vedere la salvezza dell'Italia, nella costituzione di uno Stato forte. E, non sapendo far di meglio, esperto dei suoi tempi e conoscitore della storia antica, egli si mette ad esaminare e a narrare, e non a consigliare le azioni di coloro che, solo marciando per quella data strada, ridettero l'ordine, libertà e potenza ai loro paesi e queste azioni il Machiavelli narra con lucidezza e con logica serrata, a cui soccorre uno stile scultorio, incisivo e pur sempre movimentato. Il Machiavelli era, nella pratica e nella teoria, una vera "dignitosa coscienza e netta"; la sua bontà era solo superata dall'ardente amor di patria. Desta stupore come si sia tanto chiarlato dell'immoralità del Machiavelli. Posso affermare che la moralità anzi gli piace; qualche suo pensiero l'ho pure riportato in cui Egli loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, "ma a patto che ne venga il bene alla patria". Dal lato scientifico, egli crea per primo la scienza politica, cioè l'attività economica o utilitaria dello spirito, assegnando un'autonomia alla vita politica rispetto a quella morale. S'intende che, nel suo sistema politico, vengono in urto l'utile e l'onesto, con prevalenza del primo sul secondo. Emerge chiaro che nella pratica della vita, e quindi, nella politica, l'onesto debba cedere all'utile nazionale, cioè collettivo. "Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua; offeronti el sangue, la roba, la vitae i figlioli quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, è si rivoltano". Per ultimo, vorrei ricordare che il Machiavelli, col principe, vagheggia lo Stato laico puro, basandolo sulle necessità, patriottiche ed umane, e cioè le preoccupazioni che, senza lo Stato forte, si sviluppano qua e là, in Italia, le lotti intestine. Affermazione questa, che tutta la storia nostra sta lì a dimostrare.

Machiavelli, nel principe, oggi, fatte le debite riserve, è ancora così vicino a noi, per i concetti fondamentali del profondo amor di patria e dello Stato forte e sovrano.

















Karl Marx e Friederich Engels

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

il manifesto del partito comunista costituisce forse un esempio unico di opera politica la quale, pur attraverso infinite controversie, sia riuscita a mantenere intatti , per più di un secolo, i suoi principi generali e la propria validità. La storia stessa ha riproposto l'attualità di questo opuscolo, che, quasi ignorato fino al 1870, diverrà dopo la rivoluzione russa del 1917 il fondamento dottrinale di vasti schieramenti politici e di intere organizzazioni statali. Esso tuttavia non è solo una professione di fede politica, e come tale facilmente esaltabile o criticabile a seconda delle parti, ma è soprattutto un documento storico di estrema importanza, che ha dato il via a una nuova maniera di intendere e di praticare la vita. Fonte principale di notizia sull'origine del manifesto è lo scritto di Engels per la storia della lega dei comunisti, pubblicato nel 1885 come prefazione alle rivelazioni sul processo dei comunisti di colonia, processo con il quale si chiude il primo periodo di attività delle operai tedeschi. La lega dei giusti, fondata a Parigi nel 1836 dall'ala estremista della lega dei proscritti, società segreta di tendenze democratiche repubblicane costituita due anni prima dai profughi tedeschi, in prevalenza operai, fa del manifesto il suo programma di partito a partire dal 1848. La nuova organizzazione, anch' essa ovviamente a carattere cospirativo, avanzava richieste sociali e politiche adattate al comunismo egualitario di Babeuf , come d'altra parte facevano tutte le altre società segrete per l'appunto francesi, quale per esempio la società delle stagioni di Blanqui. Fu proprio per aver partecipato all'insurrezione parigine del maggio 1839, promossa da Banqui, che la lega dei giusti si trovò trascinata nelle misure repressive ordinate da Luigi Filippo: dopo un periodo di prigionia i suoi capi, Karl Schapprer e Heinrich Bauer, dovettero emigrare a Londra dove, godendo di quella libertà di movimento concessa a tutti i profughi dal governo liberale inglese e con l'aiuto di Joseph Moll, riuscirono a organizzare nuovamente le file della lega. E a Londra ebbe sede stabile la direzione di esse, fino alle fatali giornate del 1848, quando i poteri vennero spostati alla comunità di Bruxelles. Le " comunità", come saranno poi chiamate le singole sezioni della lega, cominciarono a diffondersi in tutta Europa; di esse la più importante, è quella creata in Svizzera dal sarto tedesco Wilhelm Weitling. le teorie comunistiche del Weitling ebbero grande influenza sulla classe operaia , giacché esse, riassumevano quelle aspirazioni a un innovazione della società, poggiante su basi più giuste e più favorevoli al proletariato, che da decenni avevano trovato fedeli interpreti nelle dottrine dei cosiddetti socialisti utopisti. A differenza dei suoi predecessori, Weitling, disponendo di un'organizzazione a carattere internazionale degli operai, pur nei suoi limiti di setta chiusa e priva di pubblicità, poté ben sperare che tali aspirazioni trovassero attuazione nella realtà. Ma, anche a lasciar da parte il palese profetismo evangelico in cui si rifugiò nell'ultimo periodo della sua vita dopo i rifatti fallimenti politici, il suo pensiero percorre pur sempre le file dell'utopismo pur facendo del progresso storico il cardine delle sue garanzie dell'armonia e della libertà. Idee per una riorganizzazione della società (1842), ciò che gli non ebbe fu proprio la reale comprensione storica degli eventi che si svolgevano attorno a lui. Egli "artigiano divenuto proletario, era l'interprete di una classe, il proletariato artigiano, che andava scomparendo, e non concepiva nè la possibilità di una rivoluzione sociale creata dalla grande industria, nè la funzione storica che il proletariato industriale era chiamato sostenere in questa rivoluzione". Marx ed Engels, prima della inevitabile rottura, tuttavia, riconoscevano l'importanza della sua predicazione come "prima manifestazione teorica autonoma del proletariato tedesco". Un altro pensatore: Pierre- Joseph Proudhon, non mancò di riscuotere un largo consenso tra gli iscritti alla lega dei giusti. Le sue idee riuscirono ad affermarsi, pur respingendo ogni presupposto socialistico, per l'aspra condanna dell'attuale ordinamento capitalistico della società che aveva lanciato nel 1840 con la memoria che cos'è la proprietà?, dove quest'ultima veniva definita un furto commesso da possessori dei mezzi di produzione a danno dei lavoratori. Ma, se si deve parlare in tal caso di socialismo, si tratta solo di un socialismo "conservatore borghese". Le reali urgenze del proletariato e il problema dell' organizzazione degli operai in classe venivano da lui trascurate. Per questo, divulgandosi in Europa il fermento rivoluzionario da parte della borghesia liberale e rinsaldandosi al contempo i quadri della lega sia a Londra che all'estero, crebbe tra i suoi dirigenti la diffidenza per i metodi sin allora adottati, principalmente per il carattere cospirativo che ne aveva segnato l'azione, e ci si persuase che occorreva percorrere una via del tutto nuova, per uscire dagli equivoci e dalle incertezze, quella che Marx ed Engels andavano addittando con la loro teoria del socialismo scientifico. Delle vicende biografiche di Marx ed Engels, della loro formazione intellettuale, della loro stretta collaborazione e amicizia e delle esperienze che andarono maturando nella loro attività in tutela della classe operaia, ricordiamo che essi fino al 1847 avevano avuto con la lega dei giusti soltanto rari contatti per mezzo della sezione di Parigi e Bruxelles, dove vivevano; indirizzatisi ad un energico studio dei fenomeni si convinsero che il proletariato avrebbe potuto migliorare le proprie condizioni di esistenza, solo tramite una partecipazione diretta e non clandestina alle lotte politiche. Inevitabile era quindi la diversità dai programmi della lega. Ma non per questo non curarono l' impegno attivo nel problema organizzativo degli operai: passati alla collaborazione reciproca, incominciatasi ufficialmente nel 1845 con la pubblicazione della sacra famiglia, gettarono le fondamenta a Bruxelles nel 1846 del primo comitato di corrispondenza comunista, che aveva lo scopo di diffondere la dottrina del socialismo scientifico e mantenere i rapporti tra gli operai dei vari paesi. Da allora si moltiplicarono, pur non senza ostacoli, le relazioni tra Marx ed Engels da una parte e i dirigenti della lega dall'altra, fino a quando, nel 1847, Joseph Moll si recò personalmente prima Bruxelles e poi a Parigi per proporre ai due di entrare alla lega stessa, che avrebbe dovuto così essere ricostruita dalle fondamenta secondo i nuovi principi. Ogni remora veniva in tal modo a cadere. Marx creò a Bruxelles una comunità, mentre Engels entrava a far parte delle sezioni parigine. Il primo congresso si tenne a Londra nel giugno di quello stesso anno; in esso le comunità beghe furono rappresentate da W. Wolff, quelle francesi da Engels. La vecchia denominazione di lega dei giusti fu soppressa e al suo posto venne adottata quella di lega dei comunisti più consona alla nuova situazione; si decise per una organizzazione più democratica, con cariche elettive e si rimandò l'approvazione dei nuovi statuti a un secondo congresso, da tenersi in novembre. Prima che quest'ultimo venisse convocato, sul frontespizio dell'unico numero della rivista della lega, la "Kommunistische Zeitschrift", in luogo dell'antico motto "tutti gli uomini sono fratelli", idoneo più a una società segreta che a un partito a carattere pubblico e internazionale, furono scritte le parole con cui si chiuderà poi il manifesto :"proletari di tutti i paesi uniti! ". Al secondo congresso, svoltosi alla fine di novembre del 1847, presenzio Marx, che in tanto era stato designato presidente della comunità di Bruxelles. I nuovi statuti vennero definitivamente approvati l'otto dicembre: "Scopo della lega è l'abbattimento della borghesia, il dominio del proletariato, l'abolizione della vecchia società borghese poggiante su antagonismi tra le classi, e la fondazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata". In questo congresso venne dato a Marx e ad Engels l'incarico di stilare un programma del partito, per poi renderlo pubblico. Il manifesto è un'indagine dello svolgimento storico fino alla grande industria e alla venuta al mondo del proletariato, volto a palesare l'ineluttabilità, propria di questo stesso svolgimento, di una rivoluzione operaia. È presente quel senso drammatico dell' antagonismo tra le classi in lotta che diventa nel manifesto un grido di battaglia e un' esortazione per la preparazione della classe dell'avvenire ai nuovi eventi che andavano maturando e che sboccheranno di lì a poco in aperta rivoluzione, si parla di annullamento violento della borghesia. Nel manifesto l'obbiettivo ultimo a cui si mira è la realizzazione del nuovo mondo senza classi e sfruttamento. La sua grandezza non è circoscritta all' ambito del movimento operaio, dove tratteggia la prima autorevole presa di coscienza del proletariato come classe che gode in se forza sufficiente per mutare il corso della storia, ma investe il campo della speculazione vero e proprio, lo sconvolge addirittura, facendosi mezzo di propaganda di una nuova maniera di pensare e di vivere. Il manifesto ha la grande dote di presentare alle masse queste idee comuniste e allo stesso tempo di voler rappresentare un partito e inserirsi così nel vivo delle vicende della stessa epoca, richiamando il principio per cui nessuna idea ha valore se non viene prima analizzata nella prassi, esistendo un indivisibile legame tra pensiero e azione. Marx e Engels nel 1864 poi fondarono la prima associazione internazionale degli operai. Il nuovo sistema di indagine storica applicata nel manifesto viene definito materialismo dialettico; con quest'ultimo attributo esso si ricollega direttamente alla filosofia di Hegel per cui ogni contraddizione logica e pratica tra elementi discordanti può essere vinta solo tramite una sintesi di essi che li superi entrambi in una posizione più inclusiva, ma che è destinata a sua volta ad essere discussa e nuovamente superata, in un indefinito processo dialettico di tesi, antitesi e sintesi. Ma Hegel quando applica un tale metodo nell'esame dei fatti storici, cerca di sciogliere le contraddizioni insite nella realtà in contraddizioni logiche, adattando in modo innaturale il quadro degli avvenimenti umani allo schema predeterminato dalla sua dialettica idealistica, l'interpreta cioè sempre seguendo il movimento dell'idea. Non solo tutta la storia è vuotata del suo contenuto drammatico di conquista da parte dei singoli o di classi e quasi ridotta all'esecuzione passiva di un piano divino, inoltre l'individuo viene sacrificato in nome dell'assoluto in sé, dell'idea. Ciò che a Marx ed Engels come in precedenza a Feuerbach, appare contestabile in questa filosofia, è non tanto il metodo in se stesso, quanto l'applicazione scorretta che ne ha fatto Hegel. Si tratta ora di fare della dialettica non più un gioco di semplici procedimenti razionali, ma un mezzo per addentrare il meccanismo della storia, per ritrovare in essa delle leggi persistenti che possano spiegare oltre ciò che è avvenuto, ciò che sta per avvenire, dando così l' opportunità di intervenire direttamente sul corso della storia stessa; una storia, quindi, dove l'uomo è il solo protagonista e dove le sue azioni sono comandate soprattutto da interessi concreti e da reali bisogni economici e non esclusivamente da motivi morali o ideali. È in questa accezione che la nuova dialettica viene chiamata "materialistica". "Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religiosa, filosofica, morale, ecc., e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l'uno sull'altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall'idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possano essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell'autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi, spettri, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi "nell'autocoscienza" come "spirito dello spirito", ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui tra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d'altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le da uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze". Ciò che conta, quindi, è il modo in cui si esplicano le forze produttive dei singoli individui, o di una data nazione o epoca storica; i rapporti materiali di produzione che ne derivano danno forma così alla base di ogni società civile, la sua struttura economica che influenza in tutto le sovrastrutture giuridiche e politiche di essa. Vi è sempre un momento nella storia in cui rapporti di produzione divengono inadatti rispetto alle forze produttive che essi regolano; ciò accade in quanto mentre i rapporti giuridici di proprietà tendono a conservarsi immutati le forze produttive corrispondenti hanno insita la tendenza a un costante progresso, a un perfezionamento continuo. A questo punto i rapporti giuridici , invece di favorire lo sviluppo delle forze sociali, ne costituiscono un anacronistico ostacolo e, per intrinseca necessità storica, debbono essere smantellati. Così, sul finire del medioevo, l'organizzazione corporativa dell'industria si fece sempre più inadeguata per la nascente forza del capitale; e da allora, la borghesia capitalistica ha cercato in ogni modo di annientare in nome del progresso ogni residuo blocco dell'antico sistema feudale. Per questo le prime pagine del manifesto sono dedicate allo sviluppo della classe borghese, definito dagli stessi autori - in base al loro principio dialettico - rivoluzionario e ricco di effetti benefici. Ma ciò proprio per svelare come, la borghesia abbia cessato di tratteggiare quella funzione positiva che prima era legittimata dalla sua lotta contro il feudalismo, con la grande industria e la creazione del proletariato moderno; anzi, con il sistema capitalistico si è marcata quella lotta tra le classi antagonistiche che è sempre stata il contenuto di ogni storia passata e che oggi sembra ridotta all'inconciliabile opposizione tra le due uniche grandi classi: borghesia e proletariato. Giunto tale contrasto al suo apogeo, è dialettico che il potere borghese venga rovesciato e il proletariato riceva nelle sue mani, per esprimerci in termini Hegeliani, la fiaccola della civiltà, dando avvio al proprio dominio di classe, destinato ad essere solo la premessa di una società senza classi. Tenendo presente quest'ultimo concetto di abolizione finale delle classi, si comprende il senso nuovo di dignità e di valore della persona che il marxismo intende riconsegnare ad ogni uomo. Un identico diritto e dovere per tutti a lavorare e a raccogliere i giusti frutti della propria laboriosità, non più sfruttamento o miseria o distinzione di censo; come, da un punto di vista economico il lavoro è per Marx esatta misura del valore di una merce, così sul piano morale esso è la misura della dignità umana. Per questo nel manifesto non ci si rivolge ai nullafacenti, ai miserabili, al cosiddetto sottoproletariato, ma solo al vero e proprio proletariato industrioso. Rovesciare il dominio della borghesia è impossessarsi dei mezzi di produzione da essa riuniti nelle proprie mani significa per la classe operaia rendere a se stessa quanto ha prodotto e le è stato rubato dacchè ha cominciato a lavorare sotto il comando dei capitalisti. Il capitale, infatti, non è che il risultato dell'accumulazione di prodotti del lavoro che al possessore dei mezzi di produzione non sono costati nulla; questi, riduce al minimo la retribuzione aumentando fino al limite consentito da natura le ore di lavoro, sfruttando le condizioni generali del pauperismo e della concorrenza che gli operai si fanno tra di loro per conquistarsi un salario. L'operaio vende al capitalista l'uso della propria forza lavorativa come se si trattasse di una merce qualunque; durante una parte della giornata restituisce con i prodotti del suo lavoro l' equivalente del proprio salario, che si riduce sempre alla quantità di mezzi di sostentamento appena sufficienti per mantenere in vita se e la sua famiglia. Ma, durante il resto della giornata egli continua a produrre un valore per il quale non è stato fatto alcun anticipo; tale "plusvalore" finisce nelle tasche del capitalista che è in tal modo, senza impegnarsi direttamente nella produzione, si appropria di una fetta della ricchezza sociale. A questo processo di accumulazione del capitale e di concentrazione degli strumenti di produzione nelle mani di un numero sempre più ristretto di individui, s' accompagna parallelo, per Marx, un processo di crescente impoverimento della classe operaia; gia nel manifesto è contenuta un'affermazione di tal genere: "l'operaio diviene un povero, e il pauperismo si sviluppa ancor più celermente della popolazione e della ricchezza". Questa teoria è stato oggetto di numerose polemiche e principalmente coloro che hanno inteso sottoporre il marxismo ad una supervisione privandolo del suo spirito rivoluzionario, hanno avuto vita facile nell'obiettare che dall'esperienza si desume proprio il contrario, cioè che le limitazioni della classe operaia sono andate sempre più migliorando fino a raggiungere nel salariato medio una discreta agiatezza, sconosciuta ai tempi di Marx. Ma se il benessere dell'operaio è aumentato in assoluto. In via relativa, paragonato all'enorme crescita del capitale, esso è piuttosto retrocesso. Un'altra critica alla dottrina marxista esamina quel senso di inevitabilità e imminenza della rivoluzione proletaria che si ricava da parecchie pagine del manifesto e che si inserisce nell'atmosfera generale piena di ansie e di aspettazioni che precedette i grandi moti del 48. D' altra parte anche al di fuori di quegli anni particolari venne teorizzata da Marx la necessità storica del passaggio di potere della borghesia al proletariato. La storia-questa è l'accusa- gli ha dato torto: il borghese è accresciuto in potenza e l'operaio ha senza profitto atteso in modo passivo il precipitare della situazione. Meglio quindi affidarsi ad altre vie per ottenere miglioramenti, quelle, più anguste ma più sicure, delle graduali conquiste parlamentari e mettere da parte ogni proposito rivoluzionario. Se ci limitiamo a considerare il manifesto e gli avvenimenti immediati che lo seguirono, non considerando l'attività e gli scritti posteriori dei suoi autori, possiamo ammonire Marx e Engels per il loro eccessivo ottimismo. Ma è vero che sempre sostenettero l'idea secondo cui non è possibile una rivoluzione operaia senza prima aver svegliato nell' operaio stesso la consapevolezza della propria forza, senza averlo prima educato alla nuova funzione che gli compete nell'epoca moderna. Furono i primi a rendersi conto del proprio errore cioè quello di aver stimato eccessivamente, in quello specifico momento, la capacità di azione del proletariato internazionale e in particolare di quello tedesco forse lasciandosi trascinare da quell'ondata di entusiastico fervore che scuoteva i rivoluzionari di ogni paese "alla vigilia del grande anno". Il loro interesse si rivolge in modo particolare alla Germania, dove la classe operaia si trova in condizioni di civiltà generale più avanzate rispetto a quella in cui agì l'operaio inglese o francese nelle precedenti rivoluzioni europee; negli ultimi capoversi del manifesto viene espressa chiaramente la fiducia nella maggiore maturità dell'operaio tedesco e la speranza che sappia trarre profitto da questa sua condizione, sullo slancio dell'imminente rivoluzione borghese, per imporre il comunismo. "Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso". Ed è sotto questo punto di vista che va riguardato il paragrafo sul "vero socialismo" dei loro antichi compagni della sinistra hegeliana, del resto da essi già ampiamente confutato nel 1846 con l'ideologia tedesca, che altrimenti potrebbe apparire di dimensioni sproporzionate sul piano generale dell'opera. Ciò che a questi filosofi dell'azione o veri socialisti- come amavano definirsi- viene criticato è l'incapacità di intendere con senso storico l'evoluzione della borghesia tedesca e la sua lotta contro il reazionarismo dei governanti; essi, infatti, accostarono la letteratura socialista e comunista sorta in Francia, dove aveva una propria giustificazione e validità, alle condizioni ben dissonanti della Germania, utilizzando per questo la astratta fraseologia filosofica tanto cara ai "begli spiriti" hegeliani. Questo principio della necessità da parte della borghesia della conquista del potere politico e dello sviluppo totale di tutte le sue forze prima che si possa parlare di un intervento rivoluzionario del proletariato, fu poi dimostrato impreciso da quanto avvenne in Russia nel 1917. Qui difatti il ruolo della borghesia nella vita politica del paese era pressoché cosa trascurabile e malgrado ciò fu possibile istituire un regime comunista direttamente sulle rovine di un regime ultra conservatore come quello zarista. È pur vero che in quel caso l'azione rivoluzionaria di massa venne condotta più che da quel proletariato industriale, che nel manifesto è indicato come primo attore della futura società, dalle schiere contadine. Così anche per l'organizzazione del nuovo Stato comunista si deve riconoscere l'importanza rilevante che ebbe la secolare struttura collettivistica della produzione agricola russa. Comunque è proprio sul problema del quando si sarebbe dovuta mettere in atto la rivoluzione proletaria che verso la fine dell'800 incominciarono a crearsi delle fratture tra le file del marxismo, dando alla luce poi quelle differenze d'interpretazione che costituiscono oggi la base dottrinale dei così chiamati partiti di sinistra. Il manifesto, è stato ed è oggetto di critiche violente, come ogni scritto che presenti delle implicazioni politiche; queste spesso si indirizzano alla singola frase cercando di mostrarne l'infondatezza al vaglio della evoluzione subita dal marxismo attraverso le sue molteplici realizzazioni nella realtà. Per me il manifesto è un documento storico sulla cui grandezza, fondamentale nell'epoca moderna, oggi non si dovrebbe più non avere la certezza. Un documento che proprio per il suo essere strumento innovatore e anticipatore di eventi d' interesse mondiale, deve essere preso nel suo assieme, comprensivi verso le inevitabili singole imprecisioni e verso quella mancanza di coerenza interna nella esposizione che si adatterebbe più ad un trattato scientifico che a un mezzo di propaganda politica quale esso fu al suo primo apparire. Gli stessi suoi autori riscontravano in seguito come alcune affermazioni contenute in esso fossero state superate dalla nuova situazione storica. Così nella prefazione dell'edizione tedesca del 1872 i dieci punti programmatici esposti alla fine del capitolo II sono ritenuti invecchiati ed essi dipingono nell'opera l'unico tentativo di tracciare con una certa metodicità il piano della futura organizzazione collettivistica della società. Ma malgrado tutto ciò il manifesto è definito da Marx e da Engels "un documento storico, che non ci sentiamo più in diritto di modificare". Per concludere, quando in esso ritengo debba essere considerato il valore più profondo è : la rivendicazione del diritto di ciascun uomo all' esplicazione totale della propria individualità, il riconoscimento del valore inalienabile della persona, al di fuori di ogni mutilazione o alienazione tipica dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo in linea con tale principio è contenuto in quest'opera un concetto che, se si considera il tempo in cui fu pronunciato, ci sembra di una modernità stupefacente: quello di una emancipazione completa anche della donna la quale nel sistema capitalistico - nell'ambito della famiglia borghese viene trattata alla guisa di un "semplice strumento di produzione", mentre nell'ambito della famiglia operaia condivide con l'uomo tutta la fatica, la sofferenza e l'incertezza della sua condizione. Insomma il manifesto è uno di quei libri che non muoiono mai. Pagine che escono dal limite del loro contesto storico e disegnano, quando la realtà s'è fatto troppo difficile perché si è realizzata, un'utopia. Un' utopia possibile in quanto parlano di libertà, nel contingente di una classe oppressa, nella proiezione dell'eternità storica dell'umanità, invece, libertà dell'uomo di ogni epoca allorché ci siano da spezzare le catene della propria servitù. Perché anche quando fu scritto nel 1847-48 c'era uno scopo realizzabile in futuro di quella che doveva essere al momento una lotta concreta, una società di nuovi dominatori, la classe operaia, ma solo nell'attesa, alla lunga, di un umanità senza classi. "Uno spettro s'aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo", esordiva questo documento storico che ebbe la diffusione universale che spetta ai testi sacri. "Proletari di tutti i paesi unitevi", chiudeva con l'esortazione a realizzare con la prassi ciò che sembrava inevitabile esigenza della storia. Nella rivoluzione comunista i proletari hanno da perdere unicamente le loro catene, spiegava come congedo e come certezza più che augurio, e hanno invece da guadagnarvi tutto un mondo. Una cosa è indubbia questo libro, questo straordinario documento che vide la luce la prima volta nel febbraio del 1848 a Londra, in lingua tedesca, ha contrassegnato una delle svolte epocali dell'umanità, uno di quei voltar pagina che non ti permette più di essere come prima, e ti lascia impreziosito di una nuova luce di speranza o allarmato di ciò che ti porterebbe via la tranquillità del tuo piccolo mondo cieco.






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