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I MODELLI DI DISOCCUPAZIONE IN EUROPA - Perché qualcuno è più disoccupato di un altro?

economia aziendale



I MODELLI DI DISOCCUPAZIONE IN EUROPA


Perché qualcuno è più disoccupato di un altro?

Perché un paese ha un tasso di disoccupazione più elevato di un altro e perché la disoccupazione colpisce in misura differente le diverse fasce dell'offerta di lavoro?

Negli anni '80 le differenze tra i tassi di disoccupazione di 20 paesi sono spiegate da sei fattori tra cui prevalgono quelli di ordine politico o istituzionale.

Si parla di "sistemi nazionali di occupazione" in cui le norme sociali e le consuetudini di comportamento collettivo sono più importanti delle scelte razionali per comprendere le differenze nell'andamento della disoccupazione. D'altro canto il grado in cui le diverse fasce dell'offerta di lavoro sono esposte alla disoccupazione è spesso spiegato con ipotesi economiche: a parte la teoria del capitale umano, adottata per spiegare il più e 919f57j levato rischio di disoccupazione dei meno istruiti e l'approccio della segmentazione, per cui sarebbero le strategie delle imprese a concentrare la disoccupazione su alcuni gruppi di lavoratori.

In Gran Bretagna le ricerche sui disoccupati riguardano adulti che hanno perso un lavoro, bisogna perciò porre grande attenzione quando se ne utilizzano i risultati in Italia, dove invece si tratta per lo più di giovani in cerca di primo lavoro che vivono in famiglie con un genitore occupato. Dal 1198 la Commissione Europea formula linee guida di politica del lavoro per i paesi dell'Unione.



L'analisi comparata è un'impresa ardua e i sociologi che vi si avventurano sono come i viaggiatori di un tempo alla ricerca delle differenze.

L'obiettivo più modesto è mostrare come si presenta la struttura della disoccupazione in questi paesi e indicare alcune possibili piste da seguire per spiegarne la grandi diversità.

Verso la fine degli anni '80 le differenze nei livelli di disoccupazione erano relativamente modeste. Secondo le indagini sulle forze di lavoro rielaborate da Eurostat il tasso di disoccupazione totale oscillava in una fascia di tre punti percentuali intorno alla media UE.

Negli anni '90 si può parlare di una tendenza alla convergenza: su 14 paesi dell'UE 9 sono compresi in una fascia centrale con un tasso di disoccupazione dal 5 al 10% che esclude da un lato solo Spagna con tassi oltre l'11% e dall'altro Austria, Danimarca, e Irlanda con tassi di poco inferiori al 5% e l'Olanda con tassi inferiori al 3%.

Le caratteristiche che si possono usare per definire i gruppi di persone in cerca di lavoro sono quelle del genere, dell'età e della posizione sul mercato del lavoro.

Dal 1993 Eurostat elabora anche i dati sui livelli di istruzione, nonostante la difficoltà di comparare sistemi educativi molto diversi.

Per mettere in luce i modelli di disoccupazione sono state usate due dimensioni. La prima consiste nei tassi di disoccupazione specifici delle diverse fasce della forza lavoro. Questi tassi misurano la vulnerabilità alla disoccupazione, cioè quale probabilità hanno di entrare e restare nello stato di ricerca di lavoro.

Dal loro confronto si delineano i differenti modi in cui la disoccupazione colpisce una popolazione. Inoltre, si può considerare la composizione della disoccupazione, analizzando la distribuzione delle persone in cerca di lavoro secondo le loro caratteristiche personali.

Questa seconda dimensione è in parte diversa dalla prima per quanto riguarda le altre caratteristiche. Infatti occorre tener presente che i tassi di attività possono essere molto differenti da paese a paese.


La discriminazione di genere

Le donne sono più disoccupate degli uomini in tutti i paesi europei tranne che in Svezia e Gran Bretagna mentre la dispersione dei tassi di disoccupazione maschili e femminili tra i paesi europei non è sostanzialmente diversa da quella dei tassi totali, i paesi europei si differenziano tra loro in misura molto maggiore per il grado di discriminazione verso la disoccupazione femminile che non per il loro livello di disoccupazione.

La discriminazione di genere risulta collegata alla capacità di un paese di creare posti di lavoro.

La posizione di relativo svantaggio per le donne si aggrava nei paesi che hanno una scarsa capacità di creare occupazione. L'Italia costituisce con Spagna e Grecia un gruppo in cui ad un basso tasso di occupazione totale si accompagna un'elevata discriminazione di genere.

Queste società sono più abituate a vedere le donne a casa, quindi una loro elevata disoccupazione crea meno scandalo di quanto accadrebbe in altre società ove le aspettative di lavoro extradomestico per le donne sono consolidate. Tra gli italiani si raggiunge la più alta percentuale di chi ritiene che gli uomini hanno più diritto al lavoro delle donne e che quindi la disoccupazione femminile è meno seria di quella maschile.

Le donne verso cui si è visto il diverso livello di discriminazione sono figure molto differenti nei paesi europei. In Italia per la gran maggioranza sono giovani che vivono con i genitori, mentre in Francia sono per lo più donne adulte che vivono con un partner. Il rischio di disoccupazione delle donne deve essere visto in un quadro più ampio, che tenga conto sia della posizione familiare, sia dell'intervento dello stato sociale.

Va rilevato che se considerassimo anche sei paesi dell'Europa orientale scomparirebbe ogni relazione tra discriminazione di genere e livello di occupazione, poiché le donne hanno tassi di disoccupazione poco più elevati dei maschi nonostante la scarsa capacità di creare occasioni di lavoro. Questi paesi soltanto da pochi anni sono usciti da un sistema economico e sociale in cui vigeva la piena occupazione anche per le donne quindi l'esplosione della disoccupazione ha colpito quasi in uguale misura i maschi e le femmine. Si conferma quindi l'influenza che le norme sociali e gli stili di vita esercitano sulle caratteristiche della disoccupazione.


La discriminazione per età

Ancora più che per genere il tasso di disoccupazione varia per età: sono le fasce di età più colpite dalla disoccupazione in quasi tutti i paesi europei.

Si possono identificare tre modelli stilizzati: il primo è ben rappresentato dall'Italia. Per i maschi il tasso di disoccupazione raggiunge livelli altissimi per i giovani, scende rapidamente sino ad un minimo per i quarantenni e non aumenta quasi per gli anziani.

Il secondo modello è quello tedesco. Non esiste più uno specifico problema di disoccupazione giovanile, poiché il tasso di disoccupazione è praticamente identico per i giovani e gli adulti sino ai 54 anni.

La Germania è stato il paese europeo meno colpito.

Negli anni '90 l'unificazione ha sconvolto il mercato del lavoro tedesco: il tasso di disoccupazione totale è cresciuto fino oltre il 10% nella Germania unificata. All'aumento della disoccupazione non si è accompagnata l'esplosione di quella giovanile: aumentato in misura quasi uguale per tutte le classi di età.

Quando poi la situazione è migliorata, la linea dei tassi di disoccupazione si è abbassata conservando la stessa forma. La stabilità di questo modello, che ha resistito a radicali mutamenti nel mercato del lavoro, si spiega con un fattore istituzionale. Infatti, il diffuso sistema di formazione duale che alterna scuola e lavoro consente anche di classificare come occupati molti giovani che studiano.

Il terzo modello è rappresentato dalla Gran Bretagna con un tasso per i giovani appena doppio di quello degli adulti e invece relativamente elevato per i maschi anziani. Un andamento molto simile a quello inglese si ritrova in Francia e in Svezia.

Dunque la discriminazione verso i giovani non è affatto uguale in tutti i paesi europei. I giovani sono molto più vulnerabili alla disoccupazione nei paesi mediterranei (Italia e Spagna oltre che in Finlandia) per contro in Italia e Grecia gli adulti, soprattutto se maschi sono molto meno colpiti dalla disoccupazione.

La dispersione delle differenze tra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello totale risulta sempre più ampia sia di quella dei tassi totali sia di quella dei tassi dei soli giovani.

Ma perché il grado in cui la disoccupazione colpisce i giovani più degli adulti varia tanto tra i paesi europei? Vanno scartate le due ipotesi già respinte per la discriminazione di genere. I giovani non sono più discriminati nei paesi in cui la disoccupazione totale è più elevata e quindi dovrebbe essere più accesa la concorrenza sul mercato del lavoro. Negli anni '90 non esiste relazione tra indice di discriminazione e tasso di disoccupazione totale. La seconda ipotesi è quella dell'eccesso di offerta di lavoro giovanile che causerebbe una congestione all'entrata nel mercato del lavoro; ma nei paesi in cui i giovani maschi sono più penalizzati nei confronti degli adulti, dalla Spagna all'Italia, i tassi di attività giovanile sono persino inferiori a quelli dei paesi dove la discriminazione verso i giovani è molto minore.

Si potrebbe però pensare ad un fenomeno demografico: la disoccupazione giovanile sarebbe più elevata nei paesi con un maggiore affollamento generazionale causato dal baby boom degli anni '60. Lo stesso incremento delle coorti giovanili si ritrova sia in paesi con una modesta penalizzazione dei giovani sia in paesi ad altissima discriminazione.

Invece risulta importante la capacità di un paese di creare posti di lavoro. Esiste una discreta relazione negativa tra l'indice di discriminazione e il tasso totale di occupazione.

Per contro, dove i posti di lavoro sono una risorsa meno scarsa, i giovani sono relativamente meno esclusi dall'accedervi rispetto agli adulti.

Quanto infine alla penalizzazione degli anziani oltre i 55 anni rispetto agli adulti essa non appare connessa a nessuno dei consueti indicatori del mercato del lavoro. Il paese europeo che più penalizza gli anziani è la Germania ma si tratta per lo più di lavoratori in via di prepensionamento.

La fascia tra i 55 e i 59 anni sta diventando quella critica poiché le possibilità di pensionamento anticipato si sono ormai molto ridotte ovunque, mentre si è avviato un processo di ringiovanimento nella domanda di forza lavoro.

Questo secondo aspetto della discriminazione per età può essere compreso solo nell'ambito delle politiche pensionistiche nazionali.

Due situazioni estreme: in Italia si è a lungo seguita una politica di bassa età di ritiro dal lavoro, accentuata da cospicui prepensionamenti nei settori in crisi mentre in Gran Bretagna l'età di pensionamento è alta (65 anni) e il livello delle pensioni pubbliche molto basso. Peraltro in Italia la crescente tendenza ad uscire dal mercato del lavoro prima dei 60 anni potrebbe nascondere forme di disoccupazione nascosta o di occupazione sommersa.


La diversa struttura della disoccupazione

È ovvio che forti differenze nei tassi di disoccupazione si traducano in ben diverse strutture della disoccupazione. A causa dei diversi tassi di attività delle donne e dei giovani le differenze nella composizione della disoccupazione non sono il riflesso automatico delle differenze nei tassi di disoccupazione.

I paesi europei si possono suddividere in 3 gruppi:

- in cinque la disoccupazione è prevalentemente maschile, oltre il 60% in Gran Bretagna e Irlanda e per circa il 55% in Svezia, Austria e Germania.

- in Belgio, Portogallo e Finlandia uomini e donne sono presenti quasi in uguale misura

in Francia, Italia, Grecia, Danimarca, Spagna e Olanda le donne sono la netta maggioranza dal 53% al 60%

In sintesi possiamo suddividere i paesi europei in tre grandi gruppi:

in Spagna, Grecia e Italia le persone in cerca di lavoro sono per lo più giovani

in Belgio, Francia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Finlandia e Gran Bretagna la disoccupazione è per lo più adulta ma 4/10 persone in cerca di lavoro sono giovani

in Danimarca, Germania, Austria e Svezia la presenza degli adulti è dominante con una quota elevata di anziani

Combinando le due dimensioni del genere e dell'età una tipologia della struttura della disoccupazione in Europa che andrà poi completata con la posizione in seno alla famiglia che al genere e all'età è ovviamente molto legata.

La diversa composizione per genere ed età implica una diversa composizione per un'altra dimensione, la posizione sul mercato del lavoro. I giovani sono per lo più persone in cerca di prima occupazione e gli adulti sono disoccupati che hanno perso un lavoro mentre tra le donne molte sono classificate tra le altre persone in cerca di lavoro con meno intensità di ricerca.

Sino a metà anni '80 la disoccupazione giovanile coincideva ancora con la situazione di ricerca del primo lavoro. Poi l'enorme diffusione di contratti temporanei ha rotto tale coincidenza, ma non ha mutato la realtà della disoccupazione dei giovani, che ruotano nei lavori temporanei senza riuscire a trovare un inserimento occupazionale stabile.

In Italia fino ai primi anni '90 si avanzava il dubbio che l'abnorme squilibrio tra disoccupati e persone in cerca di prima occupazione fosse dovuto a un duplice effetto statistico. Da un lato l'area della disoccupazione in senso stretto avrebbe potuto essere sottostimata per il fatto di non includere tra i disoccupati i cassaintegrati. Dall'altro lato si poteva pensare che l'area della ricerca del primo lavoro fosse gonfiata dall'includervi anche chi non dichiarava recenti azioni di ricerca.


Disoccupazione e famiglia

I maschi sposati sono meno colpiti dalla disoccupazione di quelli che vivono da soli.

La situazione di chi è unico sostegno della propria famiglia non è certo la stessa di un giovane che vive con i genitori.

Si può confermare la minore vulnerabilità dei capifamiglia e le differenze tra i vari paesi europei.

Considerando il tasso di disoccupazione totale, i tassi di disoccupazione dei capifamiglia risultano particolarmente bassi rispetto a quelli dei figli e dei coniugi. Ovviamente a capifamiglia meno colpiti dalla disoccupazione corrispondono figli più colpiti.

In Italia neppure il 2% dei capifamiglia è in cerca di lavoro contro più di ¼ dei giovani che vivono con i genitori.

Per comprendere appieno tali differenze occorre tenere presente l'età di uscita dei giovani dalla famiglia di origine che è molto diversa nei paesi europei.

Se si considerano i giovani dai 25 ai 29 anni nel 1995 vivevano con i genitori ben il 56% degli italiani e il 59% degli spagnoli contro il 12% degli olandesi, il 17% dei britannici e il 21% dei danesi.

Le grandi differenze nei modelli nazionali di disoccupazione secondo la posizione in seno alla famiglia sono sottolineate anche dalla composizione della disoccupazione.

È quindi possibile distinguere i paesi europei in tre gruppi:

- in Grecia, Spagna e Italia la maggioranza delle persone in cerca di lavoro è costituita da figli che vivono con i genitori

- in Gran Bretagna e Germania ben il 53/54% dei disoccupati sono capifamiglia

- in Francia, Belgio, Austria e Olanda la percentuale dei capifamiglia è minore perché è importante quella dei coniugi

L'impatto della disoccupazione di lunga durata ha l'effetto di accentuare le differenze.

La presenza di capifamiglia è importante anche tra le sole persone in cerca di primo lavoro, poiché in questi paesi si esce spesso dalla famiglia prima ancora di avere trovato un lavoro.

Ciò è molto raro invece in Italia e negli altri paesi mediterranei dove quasi non esistono giovani soli, e quindi capifamiglia, in cerca di primo lavoro.

Queste differenze dipendono in larga misura dai modelli di vita familiare; mentre vi è una generale tendenza ad un maggiore isolamento sociale per i disoccupati, in Italia i disoccupati vivono da soli addirittura meno delle persone occupate.

Con la posizione nella famiglia si completa la tipologia della struttura della disoccupazione in Europa. I giovani in cerca di prima occupazione, nei paesi mediterranei, risultano vivere in famiglia dove trovano un sostegno nei redditi dei capifamiglia relativamente poco disoccupati.

Nei paesi dell'Europa centro-settentrionale la gran maggioranza delle persone in cerca di lavoro è composta da maschi adulti e disoccupati dopo aver perso un lavoro sono in prevalenza assistiti da buone indennità di disoccupazione.

Dalla grande crisi degli anni '30 sino a fine anni '70 l'aumento della partecipazione femminile era attribuito alla costrizione imposta dai bisogni familiari.

Contrariamente all'ipotesi del lavoratore addizionale, dagli anni '80 si constata che alla disoccupazione del capofamiglia si accompagna una più elevata probabilità che la moglie sia non occupata, perché anch'essa in cerca di lavoro o inattiva. Perciò nei paesi dell'Europa centro-settentrionale il fenomeno da spiegare diventa "perché la disoccupazione va in coppia".

In realtà in Italia prevalgono le situazioni in cui il capofamiglia occupato o pensionato mantiene a lungo figli inattivi o in cerca di lavoro. Invece nei paesi dell'Europa centro-settentrionale dove minore è la disoccupazione giovanile i pochi figli con più di 15 anni che vivono ancora in famiglia sono molto più spesso occupati come il proprio capofamiglia.

Abbastanza equamente diffusa risulta la situazione in cui il figlio occupato sostiene un capofamiglia disoccupato o pensionato. È confermata così l'ipotesi che i giovani in cerca di lavoro, finché rimangono in famiglia, vi trovano quasi sempre sostegno di reddito.


Il rischio di diventare disoccupato: quale mercato del lavoro è più rigido ?

In tutti i paesi europei il rischio di perdere il lavoro risulta più elevato per le donne e per i giovani. L'Italia è il paese dove maggiore è il divario tra giovani e adulti. La posizione di relativo svantaggio delle donne e dei giovani anche quando sono riusciti a trovare un'occupazione è confermata da un indice che misura la percezione soggettiva dell'insicurezza dell'occupazione. La quota di occupati alla ricerca di un altro lavoro è sempre maggiore in tutti i paesi per le donne e per i giovani.

Dall'analisi del rischio di diventare disoccupati da metà anni '90 si è passati a quella della flessibilità dei mercati del lavoro, in cui della probabilità individuale di perdere il lavoro si da invece una connotazione positiva, poiché contribuirebbe a ridurre la disoccupazione nel suo complesso.

Questo cambiamento riflette un passaggio storico dal sistema fordista, che premia la stabilità, a quello dell'appropriatezza dove domina la capacità di essere flessibili per far fronte all'incertezza. Dal confronto tra gli Stati Uniti e l'Europa è nata la teoria dell'eurosclerosi che attribuisce alla rigidità dei mercati del lavoro la causa della scarsa crescita occupazione dell'Europa.

A questa interpretazione sono state opposte tre critiche: la prima pone il confronto Europa/Usa in un quadro storico di più lungo periodo ricordando che negli anni '60 e '70 era l'Europa che registrava i maggiori successi per quanto riguarda i livelli di disoccupazione e la capacità di creare occupazione.

La seconda è che i paesi europei sono molto differenti tra loro e negli anni '80 e '90 per quanto riguarda l'occupazione alcuni hanno conseguito successi pienamente comparabili con quelli degli Usa. La situazione storica degli Usa è unica a livello internazionale e non può costituire un utile termine di paragone per nessun paese europeo.

La terza critica pone il confronto tra Europa e Usa in un'ottica di trade-off tra diversi modelli economici e sociali. Negli anni '80 la crescita del reddito pro capite in Europa non è stata inferiore a quella degli Usa. In Europa il numero degli occupati è aumentato poco ma tra gli occupati è aumentata la proporzione dei lavoratori ad elevata produttività e retribuzione.

Negli Usa è molto cresciuto il numero dei lavoratori a bassa produttività e retribuzione (i working poors). Non esiste un risultato in assoluto migliore dell'altro, ma si confrontano due modelli alternativi , ognuno con aspetti positivi e negativi: da un lato, bassa disoccupazione, forti differenziali retributivi, vasta platea di lavoratori a bassa produttività e retribuzione, bassa tassazione e scarsi servizi sociali;dall'altro, alta disoccupazione ben assistita, ristretti differenziali retributivi, elevata proporzione di lavoratori molto produttivi e ben remunerati, ma anche molto tassati, diffusi servizi sociali.

Gli studi dei mercati del lavoro europei a lungo si sono dedicati a cercare una conferma all'ipotesi che un più alto grado di protezione degli occupati provochi una minore mobilità del lavoro e quindi più alti livelli di disoccupazione.

Cominciamo con lo sforzo per classificare i paesi secondo il grado di protezione dell'occupazione che fornisce un importante contributo all'analisi delle differenze tra i modelli di disoccupazione in Europa.

La protezione dell'occupazione dipendente si riferisce alle procedure che regolano sia le assunzioni sia i licenziamenti cioè l'insieme di norme giuridiche e contrattuali che disciplinano i lavori a tempo determinato, le agenzie di lavoro interinale, i licenziamenti individuali, l'indennità di licenziamento, i periodi di preavviso.

Queste norme sono il frutto dell'azione collettiva dei lavoratori, volta a ridurre l'arbitrio dei datori di lavoro e l'asimmetria strutturale insita nel rapporto di lavoro dipendente.

Per ogni paese deve essere analizzato un vasto insieme di regole, dettate da leggi, accordi sindacali e norme consuetudinarie, e per ogni regola deve essere stimato il grado di restrizione della libertà dell'impresa.

Negli anni '90 l'OCSE ha elaborato un indice di protezione dell'occupazione che ha avuto un grande impatto su tutte le analisi del mercato del lavoro e più in generale sul dibattito politico. In testa alla graduatoria per la minore protezione degli occupati stavano gli Usa, la Gran Bretagna, il Canada e l'Irlanda con indici di protezione da 0.7 a 1.1. L'Italia con un indice pari a 3.4 figurava agli ultimi posti.

Nel corso degli anni '90 i mutamenti risultavano modesti, ma tutti nel senso di una minore protezione. La maggiore flessibilità si doveva più alla diffusione di nuove forme di lavoro instabile che alla minore regolazione del lavoro a tempo indeterminato.

Dal 1992 al 1996 la percentuale di chi si dichiara soddisfatto del livello di sicurezza del proprio posto di lavoro scenda dal 64 al 55%, con la ripresa economica tale percentuale torna a salire come ovunque ma rimane minore della media.

Si è obiettato che nel valutare l'effettiva rigidità di un mercato del lavoro bisogna considerare q quanta parte dell'occupazione si applicano davvero le regole giuridiche e contrattuali, poiché le piccole imprese sono in alcuni paesi escluse di diritto da tali regole.

Almeno per l'Italia il difetto dell'indice dell'OCSE stava nella sua stessa costruzione, poiché includeva tra i costi di licenziamento anche il trattamento di fine rapporto che invece è una retribuzione differita cui il lavoratore ha diritto qualunque sia il motivo dell'interruzione del rapporto.

L'Italia risulta da 20 anni non tra i paesi più rigidi ma tra quelli meno vincolistici; la posizione dell'Italia è poco peggiore soltanto per i maggiori vincoli ai licenziamenti collettivi e per le restrizioni al ricorso ai rapporti a tempo determinato e al lavoro interinale.

In Italia nonostante una presunta altissima protezione, la mobilità del lavoro cioè la probabilità di perderlo e di ritrovarlo, era in linea con quella di altri paesi considerati molto più flessibili.

Sin da metà degli anni '90 sono stati numerosi i tentativi di stimare la mobilità del lavoro in Italia e di confrontarla con quella degli altri paesi.

Il turnover dei posti di lavoro (la somma dei posti di lavoro creati e distrutti in un anno) è in linea con quello degli altri paesi europei. Anche il turnover dei lavoratori (la somma dei lavoratori occupati) è più elevato di quello di gran parte dei paesi europei. ¼ degli occupati si separa almeno una volta nell'anno dall'impresa per cui stava lavorando e 1/3 dei rapporti di lavoro si conclude ogni anno.

La mobilità è minore nelle grandi imprese, nelle regioni del Nord-Ovest e del Centro, per i lavoratori meno giovani e per gli impiegati, si può senza dubbio concludere che lo stereotipo  di un mercato del lavoro italiano ingessato dalla legislazione e dalla contrattazione sindacale non corrisponde alla realtà da prima che iniziasse la stagione della sua flessibilizzazione.

Ma proprio i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non rappresentano più il mitico posto fisso in un'economia denominata dalle piccole imprese: sicché tra le imprese si diffondono strategie volte a ridurre la mobilità e trattenere i lavoratori migliori.  

Tre dati sembrano contrastare con la rappresentazione di un'elevata mobilità del lavoro in Italia. Innanzitutto dalle indagini condotte intervistando le famiglie risultano livelli di mobilità molto inferiori. L'ISTAT stima tassi di turnover che non raggiungono la metà di quelli calcolati sulla base degli archivi amministrativi. In realtà è ben noto che le fonti amministrative tendono a fornire stime di mobilità largamente superiori a quanto risulta dalle indagini sulle famiglie. Infatti l'archivio INPS non comprende né lavoratori indipendenti né quelli del settore pubblico.

Inoltre quella che conta da questo punto di vista è la più ampia mobilità giuridica perché quando si interrompe un rapporto, anche soltanto per la trasformazione giuridica dell'impresa, cessa ogni protezione giuridica e sindacale.

Il secondo dato è che l'Italia è il paese con la durata media dell'occupazione più lunga e durate di poco inferiori presentano paesi ad alta protezione dell'occupazione. Le differenze tra i paesi sono particolarmente marcate per le percentuali di lavoratori a bassa anzianità (sino a 2 anni). Ciò è coerente con una stima ISTAT dei tassi di uscita dall'occupazione dipendente per anzianità aziendale, i livelli medi dell'anzianità aziendale sono condizionati dalla presenza di lavoratori ad altissima instabilità, tipicamente assunti a tempo determinato per scadenze brevi.

Il terzo dato aiuta meglio a capire un paradosso. Com'è possibile che un'alta mobilità del lavoro conviva in Italia con un debole rischio per gli occupati di diventare disoccupati?

In Italia è molto più difficile diventare disoccupati, ma quando si è entrati nello stato di disoccupazione è altrettanto difficile uscirne. Ciò indica una forte divisione tra gli occupati e le persone in cerca di lavoro. La compresenza di un'alta probabilità di perdere il lavoro con un basso rischio per gli occupati di entrare in disoccupazione si può spiegare solo con un cospicuo movimento da lavoro a lavoro senza transitare dalla condizione di disoccupato.

In Italia il caso di gran lunga più frequente è il passaggio da un'azienda all'altra senza transitare dallo stato di disoccupazione. Ciò è stato spiegato con l'esistenza di un lungo periodo di preavviso prima del licenziamento che consente al lavoratore di trovarsi un altro posto già prima di lasciare l'azienda oppure con la presenza di una larga fascia di lavoratori che sanno di essere in una condizione instabile, i quali si dimettono appena trovano un'occasione che sembri più sicura.

Mentre la prima spiegazione è debole, poiché il periodo di preavviso in Italia non è più lungo si quello di altri paesi, la seconda trova conforto nell'alta percentuale di occupati a tempo indeterminato che ritengono poco sicuro il proprio posto di lavoro. Gran parte dell'occupazione italiana comprende una vasta fascia di forza lavoro che pratica un'altissima mobilità job-to-job grazie anche al fatto che molte piccole imprese sono nelle regioni dell'Italia nord-orientale e centrale.

Tutte le indagini mostrano che la mobilità è inversamente correlata con le dimensioni di impresa: i tassi annui di separazione vanno dal 35/40% per le imprese sino a 20 addetti al 9/12% per quelle oltre 500 addetti.

La fatidica soglia dei 15 dipendenti non incide per nulla sui livelli di mobilità. Il tasso di cessazioni del rapporto di lavoro si riduce in misura significativa al crescere delle dimensioni di impresa. Inoltre, una ricerca comparata condotta ha messo in luce che il rischio di entrare in disoccupazione diminuisce significativamente all'aumentare delle dimensioni di impresa sia in Italia e Svezia, dove esiste una soglia dimensionale per la protezione dell'occupazione, sia in Olanda e Gran Bretagna, dove non esiste.

I motivi della diversa mobilità non sono quindi legati alle soglie di protezione, ma sono invece di tipo economico e organizzativo: le imprese più grandi usano più impiegati, che sono più stabili, hanno maggiori possibilità di spostare lavoratori da un posto all'altro e di assicurare percorsi di carriera.

Minore attenzione è stata posta alla relazione tra mobilità del lavoro e tasso di disoccupazione anche perché è stato subito evidente che tra questi fenomeni non esisteva alcuna relazione. Gli studi si sono concentrati sulla relazione tra protezione dell'occupazione e disoccupazione che avrebbero senza dubbio acquisito maggiore legittimazione se fosse stato dimostrato realistico il loro obiettivo di ridurre la disoccupazione. Le norme giuridiche o contrattuali a tutela dell'occupazione hanno effetti scarsi o nulli sul livello generale della disoccupazione.

L'ultimo tentativo per sostenere l'ipotesi della flessibilità ha rilevato l'esistenza di una relazione negativa tra regolazione e occupazione.

L'affermazione che la disoccupazione europea o italiana è alta perché il mercato del lavoro europeo o italiana è troppo rigido trova scarso fondamento sul piano empirico. Le restrizioni al lavoro temporaneo e ai licenziamenti comprimono la variabilità congiunturale dell'occupazione e della disoccupazione. Nei periodi di crisi sono minori i flussi dall'occupazione verso la disoccupazione, mentre in quelli di ripresa sono minori i flussi dalla disoccupazione verso l'occupazione. L'OCSE va oltre rilevando che ad una maggiore protezione dell'occupazione non corrisponde solo una generica contrapposizione tra chi è riuscito ad entrare nell'occupazione e chi ne è rimasto escluso ma tassi di disoccupazione per le donne, i giovani e gli anziani. Occorre anche cogliere i meccanismi economici e sociali che la spiegano e in questo caso i processi reali possono essere molto diversi. Prima si deve considerare l'altro fattore di sostegno alle persone prive di lavoro: l'intervento dello stato sociale.


Welfare state e mancanza di lavoro: i sussidi di disoccupazione

In Europa chi rimane senza lavoro riceve quasi sempre un sussidio, destinato a sostenerne il reddito. Tali sussidi si fondano su due diversi principi: quello assicurativo e quello assistenziale.

Quelli di tipo assicurativo costituiscono una forma di risarcimento del danno subito per la rottura del rapporto di lavoro. Invece i sussidi di tipo assistenziale sono previsti per chi si trovi in stato di bisogno e sono di regola concessi a tempo indefinito cioè finché perdura lo stato di bisogno. Le varie forme di reddito minimo intervengono quando scadono i termini dell'indennità assicurativa e il disoccupato non ha ancora ritrovato un lavoro.

Per valutare la generosità dei sistemi di protezione del reddito in caso di disoccupazione se ne considerano due dimensioni: il tasso di rimpiazzo cioè il rapporto tra l'ammontare del sussidio e il salario, e la durata. Minore attenzione è posta ad altri due aspetti: le condizioni di accesso (aver lavorato in precedenza e per quanto tempo) e di comportamento ( ricercare attivamente un lavoro). L'indennità di disoccupazione di tipo assicurativo è proporzionale all'ultimo salario, benché a volte si riduca a scalare man mano che la durata della disoccupazione si prolunga.

In Italia e in Grecia non esistono sussidi di tipo assistenziale mentre in Portogallo e in Spagna anche questi sussidi sono a termine, sia pure con qualche eccezione.

A parte coloro che risultano formalmente ancora occupati perché cassaintegrati, nel 1991 venne istituita per i lavoratori espulsi dai processi di ristrutturazione delle grandi imprese un'indennità di mobilità.

Questa funzione è stata svolta dall'inizio degli anni '90 dai lavori socialmente utili mediante l'impiego a tempo determinato di soggetti svantaggiati.

Per valutare il grado di generosità dei sistemi di sostegno del reddito per i disoccupati si suole considerare la situazione nei diversi paesi di un disoccupato con le stesse caratteristiche con forti differenze tra i paesi europei.

Per l'Italia l'indennità di disoccupazione ordinaria considera anche quella di mobilità che figura tra gli schemi più generosi. Ciononostante l'Italia rimane in coda a tutti i paesi sviluppati, perché all'indennità di mobilità possono accedere in pochi cioè soltanto i licenziati per motivi economici dalle imprese medio-grandi.

Recentemente invece vi è una generale tendenza a diminuire la generosità dei sussidi di disoccupazione, riducendone sia l'importo sia la durata, restringendo le condizioni di accesso e imponendo più rigorosi obblighi di ricerca del lavoro.

Oltre al sistema di protezione del reddito meno generoso, l'Italia ha anche il minor tasso di copertura: su 100 persone in cerca di lavoro meno di 20 dichiarano di ricevere un'indennità o un sussidio mentre la media europea per i disoccupati in senso stretto supera l'80%.

Considerando la quota di persone in cerca di lavoro che nelle indagini sulle forze di lavoro dichiara di percepire un'indennità o un sussidio, i paesi europei si possono classificare in tre gruppi:

Belgio, Danimarca, Germania, Irlanda, Austria, Finlandia e Svezia assicurano una protezione a quasi tutti i disoccupati che hanno perso un lavoro e alcuni anche a chi è privo di esperienze lavorative

All'estremo opposto stanno i paesi dell' Europa meridionale, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia con un tasso di copertura non superiore al 25%

In posizione intermedia vi sono Francia, Gran Bretagna e Olanda con un grado di copertura che va dal 40 al 50%.

Vi sono paesi che danno molto a quasi tutte le persone in cerca di lavoro: sono i paesi nordici. Il Belgio protegge quasi tutti ma con un livello di generosità minore. All'estremo opposto ci sono i paesi che danno poco a pochi e sono quelli dell'Europa meridionale. La Gran Bretagna da poco a circa la metà dei disoccupati.

Gli economisti si sono dedicati a studiare gli effetti dei sussidi di disoccupazione sul funzionamento del mercato del lavoro.

Disponendo di un reddito i disoccupati possono eseguire una più mirata ricerca di un nuovo lavoro e non sono costretti ad accettare il primo lavoro che trovano, sprecando il loro patrimonio di conoscenze ed esperienze. Della maggiore possibilità di scelta del lavoro viene anzi messo in luce il lato negativo, poiché allungando la durata della disoccupazione ne aumenterebbe anche il volume. Una maggior generosità delle indennità prolunga la durata della ricerca e vi è una forte relazione tra durata dei sussidi e percentuale di disoccupazione.

Ciò non significa che fruire di una buona indennità di disoccupazione favorisca l'inerzia nella ricerca e il parassitismo sociale. In polemica con la teoria economica è Solow che ricorda il desiderio dei percettori di sussidio di essere autosufficienti. Una ricerca rivela che alte indennità di disoccupazione non corrodono la motivazione al lavoro. La più lunga ricerca può essere vista come il risultato di un più oculato processo di ricerca del lavoro adatto.

Non bisogna dimenticare come una più lunga durata delle indennità può avere l'effetto di far preservare nello stato di ricerca donne che altrimenti da tempo si sarebbero ritirate nell'inattività. Una minore generosità avrebbe sì l'effetto di ridurre la disoccupazione, ma solo perché scoraggerebbe non tanto i comportamenti opportunistici, quanto piuttosto la permanenza sul mercato del lavoro delle fasce deboli.

Alcuni paesi dell'Europa centro-settentrionale offrono ai disoccupati di lunga durata stages o lavori temporanei il cui rifiuto comporta la perdita di ogni beneficio.

I sociologi si sono dedicati a studiare in quale misura gli schemi di protezione del reddito raggiungono l'obbiettivo di impedire che chi rimane senza lavoro corra anche il rischio di povertà.

Considerando gli 11 paesi dell'UE al 1991 è stato possibile delineare un modello generale di come il grado di copertura varia secondo la durata della disoccupazione, il genere, l'età e la posizione nella famiglia delle persone in cerca di lavoro. Le differenze sono significative:

le donne percepiscono sussidi di disoccupazione molto meno frequentemente degli uomini

la relazione tra il grado di copertura e la durata della disoccupazione assume una forma a U rovesciata

invece la relazione con l'età è crescente: i meno protetti sono i giovani sino ai 24 anni e per contro i più protetti sono gli ultracinquantenni

quando in famiglia vi è un altro disoccupato, la probabilità di percepire un'indennità è un poco inferiore, soprattutto per gli uomini.

Chi è alla ricerca di lavoro appena da qualche mese risulta meno protetto.

Tra i disoccupati di brevissimo periodo vi può essere un maggior numero di dimessi volontari.

I più giovani hanno minori probabilità di percepire benefici soprattutto perché molti sono in cerca di primo lavoro e non hanno diritto alle indennità di tipo assicurativo.

Le donne sono discriminate anche quando si trovano in una posizione che dovrebbe richiedere una particolare protezione contro la disoccupazione. Il relativo privilegio dei capifamiglia maschi, poiché tale situazione è tipica dei paesi mediterranei ove le due o tre persone in cerca di lavoro nella stessa famiglia sono per lo più dei giovani figli.

Benché i livelli di generosità e di copertura siano diversi, i risultati dei vari sistemi nazionali di protezione sociale non divergono molto dal modello generale per quanto riguarda il differente impatto sui gruppi di persone in cerca di lavoro. I più protetti da indennità sono adulti e anziani soprattutto maschi. Il paese più divergente è l'Italia. Due sono le particolarità più rilevanti dell'Italia: la differenza nel grado di protezione è molto bassa sia tra maschi e femmine, sia tra capifamiglia e moglie. Inoltre al crescere della durata della ricerca la diffusione dei benefici non segue il consueto andamento ad U rovesciata ma diminuisce sempre. Questa situazione paradossale si spiega tenendo conto sia dello scarso livello e della brevissima durata delle indennità, sia della grande diffusione delle indennità per i lavoratori stagionali.

Di fronte alla disoccupazione la situazione italiana si presenta fortemente segmentata tra una fascia protetta, quella di coloro che escono da imprese medio-grandi e riescono ad accedere alla cassa integrazione prima e alle liste di mobilità poi, e un'altra fascia di disoccupati per i quali le garanzie di reddito sono di basso livello e di breve durata. A ciò si aggiungono l'esclusione da ogni protezione della massa dei giovani in cerca di primo lavoro e per contro la diffusione assistenziale delle indennità per gli stagionali che non ha riscontro in nessun altro paese europeo.


Dalle macrorelazioni ai processi sociali

Dall'analisi dei diversi aspetti che la disoccupazione assume si possono definire a grandi linee quattro modelli:

nei 4 paesi mediterranei la disoccupazione è da inserimento poiché si concentra sui giovani mentre ben poco vulnerabili sono i maschi adulti e capifamiglia.

In Gran Bretagna sembra prevalere ancora la classica disoccupazione industriale dei maschi adulti già occupati e con responsabilità familiari mentre le donne sono addirittura meno disoccupate.

In Germania, Danimarca, Svezia e Austria la vulnerabilità della disoccupazione è abbastanza equidistribuita tra le diverse fasce dell'offerta di lavoro.

Francia, Belgio e Olanda hanno una struttura della disoccupazione particolarmente discriminante verso le donne adulte, sposate che hanno perso un lavoro.

Il fenomeno per cui la scarsità dei posti di lavoro disponibili comporta una selettività della domanda che tende a privilegiare i maschi adulti a scapito di donne e giovani è stato spiegato in due modi. La domanda tende a preferire l'offerta di lavoro a più elevata produttività costituita dai maschi in età centrale, invece Offe da una spiegazione più sociologica per cui il sistema economico e politico trova meno traumatico scaricare la disoccupazione sulle donne e sui giovani poiché le donne e i giovani possono fondare la propria identità sociale anche al di fuori del mercato del lavoro e quindi subire l'esclusione dall'occupazione senza provocare conflitti o tensioni.

A queste spiegazioni se ne può aggiungere un'altra che bada alla loro posizione in seno alla famiglia, per cui i maschi adulti sono di regola dei capifamiglia, mentre le donne adulte sono per lo più mogli e i giovani figli che vivono in famiglia. Quando l'occupazione è una risorsa scarsa e la sua mancanza non è compensata da un welfare generoso, occorre che sia almeno equidistribuita perché vi sia un buon grado di pace sociale. Un modo semplice è che l'occupazione sia concentrata sui capifamiglia.

Quando invece l'occupazione è una risorsa relativamente abbondante e consente di finanziare un welfare abbastanza generoso, tale rischio è molto minore.

In Italia la scarsa capacità di creare occupazione e l'infimo sostegno pubblico comportano un'altissima disoccupazione giovanile, ma i maschi adulti e i capifamiglia sono prossimi al pieno impiego; mentre in Germania l'abbondanza della risorsa occupazione e la generosità del sostegno pubblico hanno annullato ogni discriminazione verso i giovani, ma il livello di disoccupazione dei maschi adulti e dei capifamiglia è superiore a quello italiano.

Per l'economista è sufficiente aver messo in luce la relazione tra due variabili, come il grado di discriminazione e il livello dell'occupazione, può essere spiegata con la classica teoria della produttività decrescente. Secondo il sociologo ogni società tende a sviluppare processi diretti alla sua integrazione e alla sua stabilità.  

Entrambi si accontentano di macrorelazioni tra fatti sociali a livello astratto, senza preoccuparsi del concreto agire dei soggetti cui si debbono in ultima analisi tali relazioni.

Ma per una sociologia del mercato del lavoro che intenda guardare ai processi sociali e ai comportamenti degli attori non basta. Seguendo un temperato individualismo metodologico, occorre andare oltre e cercare di cogliere i meccanismi per cui a livello micro i comportamenti dei vari attori sociali dal lato sia della domanda, sia dell'offerta di lavoro fanno sì che la penalizzazione dei giovani e delle donne a favore dei capifamiglia maschi adulti sia maggiore quanto minore è il livello di occupazione. Bisogna rileggere le diverse ipotesi elaborate per spiegare le discriminazioni per età alla luce della relazione con la diversa capacità di un paese di creare posti di lavoro per la propria popolazione e del ruolo svolto da due importanti istituzioni; la famiglia e lo stato sociale.

Il confronto tra i paesi europei ridimensiona la spiegazione meramente demografica della maggiore disoccupazione giovanile.

L'idea che la più elevata disoccupazione giovanile sia dovuta semplicemente ad un eccesso di ingressi sul mercato del lavoro presuppone la ben nota ipotesi che vi sia uno stock di occupati inamovibili che sbarrano l'accesso alle nuove generazioni. Ma l'immagine dell'occupazione come fortezza non corrisponde alla realtà.

Occorre quindi considerare non tanto il grado di garanzia dell'occupazione quanto piuttosto il tasso di rotazione del lavoro. In Italia la probabilità di cambiare lavoro è in linea con quella degli altri paesi europei e in particolare di quelli dove la discriminazione verso i giovani è molto bassa o nulla. Nella struttura occupazionale italiana prevalgono le piccole e piccolissime imprese, le quali presentano un livello di mobilità del lavoro altissimo sia perché più facilmente muoiono e nascono, sia perché di diritto o di fatto sono escluse dai vincoli posti dalle regole di tutela dell'occupazione.

In Italia la protezione istituzionale degli insiders, cioè di chi è riuscito ad avere un posto, non va oltre l'area relativamente ristretta del pubblico impiego e delle grandi imprese. Ciò significa che sul mercato del lavoro esiste un'accesa competizione tra le nuove leve giovanili che vi entrano per la prima volta e i non pochi adulti già occupati che hanno perso il posto.

Il forte squilibrio si deve quindi all'esito di questa competizione, del tutto sfavorevole ai giovani, che restano molto a lungo in cerca del primo lavoro, e favorevole agli adulti che riescono a ritrovare un'altra occupazione rapidamente o addirittura passano da un lavoro all'altro.

Quali fattori congiurano nel rendere i giovani meno occupabili degli adulti?

Cominciamo con le spiegazioni dal lato della domanda di lavoro. Le imprese possono essere restie ad assumere giovani in cerca di primo lavoro in quanto la loro qualità non è valutabile in base alle precedenti esperienza lavorative. Ma tale ipotesi è smentita dal fatto che da tempo esistono anche in Italia contratti a tempo determinato che consentono lunghi periodi di prova dei giovani al primo impiego senza alcun impegno per l'impresa di assumerli stabilmente. Gli economisti attribuiscono la minore occupabilità dei giovani al fatto che le imprese non hanno convenienza ad assumerli quando i differenziali salariali per età non sono sufficienti a compensare la loro minore produttività.

Lo stesso rapporto OCSE conclude che non è detto che una riduzione relativa dei salari dei giovani riesca ad aumentarne l'occupazione.

L'aspetto più intrigante di questa ipotesi è che si da per scontata una minore produttività dei giovani rispetto agli adulti anche quando i giovani sono mediamente molto più istruiti.

Per lo più le imprese fondano le proprie scelte su segnali di ordine molto generale, dall'età al genere, dal tipo di scuola all'ambiente di origine. Si tratta della discriminazione statistica per cui una persona è giudicata in base alle ipotetiche caratteristiche tipiche del gruppo cui appartiene. Occorre perciò capire perché si sia affermato lo stereotipo del giovane meno produttivo.

Innanzitutto sono importanti le caratteristiche della domanda di lavoro. Ovviamente se prevale il requisito dell'esperienza, i giovani sono svantaggiati. Tale requisito è importante nei sistemi produttivi con una scarsa innovazione tecnologica nei quali ciò che conta di più è la memoria del passato e non le conoscenze teoriche che consentono di affrontare il continuo cambiamento. Sarà dunque un'economia poco dinamica quella che preferirà lavoratori in età matura. Inoltre Pacelli, Rapiti e Revelli mostrano che i giovani più secolarizzati si concentrano nelle imprese più innovative, mentre quelli meno secolarizzati sono per lo più assunti dalle piccole imprese tradizionali.

Infine chi ha studiato i processi di selezione del personale ha notato che le piccole imprese tendono a dare molta più importanza all'esperienza piuttosto che alla formazione di base perché hanno scarse possibilità di addestrare i nuovi assunti.

Le imprese a gestione più tradizionale danno spesso molta importanza anche a qualità del lavoratore come l'affidabilità e la piena disponibilità. Per chi ha famiglia a carico perdere il posto comporta più rischi che non per un giovane, che può contare sul sostegno dei genitori. Questa condizione lo predispone ad erogare la propria prestazione lavorativa con minori resistenze e ad assoggettarsi più facilmente al controllo sociale all'interno dell'organizzazione produttiva.

Pudicamente questo problema viene celato sotto il termine di socializzazione al lavoro, di cui sono privi i giovani in cerca di prima occupazione.

Non tutte le esperienze di lavoro risultano formative e quindi molti giovani rischiano di cadere nel circolo vizioso dei lavoretti instabili e poveri di contenuti qualificanti.

Tradizionalmente il compito di disciplinare i giovani prima dell'ingresso nel mercato del lavoro era affidato alla scuola. Non solo educare al rispetto delle regole della convivenza sociale, ma anche abituare al comportamento organizzato e costrittivo e alla deferenza verso l'autorità costituita erano tra le classiche funzioni latenti della scuola.

Ormai c'è la consapevolezza che la scuola non sia più in grado di assicurare un adeguato sbocco lavorativo e ciò avvia un circolo vizioso che alimenta la penalizzazione dei giovani avvantaggiando agli occhi delle imprese lo stereotipo dell'adulto posato e affidabile.

Il privilegio dei maschi adulti e capifamiglia è sostenuto anche dal sindacato e dall'opinione pubblica. Numerosi sono i casi in cui processi sociali operano selezioni tra le persone secondo criteri di cui spesso gli stessi autori della scelta non sono consapevoli.

Indagini simili non sono state condotte in Italia, ma i carichi familiari hanno un posto rilevante tra i criteri previsti dalla legge e dai contratti sindacali per i licenziamenti collettivi o la messa in mobilità.

In Italia vi è l'impressione che sul piano informale il sindacato tenda ad esercitare una discreta pressione a favore dei maschi adulti incontrando facile accoglienza nelle imprese.

Questo maggior favore verso i capifamiglia sia tanto più radicato quanto più scarsa è la risorsa occupazione poiché mira a procurare almeno un reddito da lavoro per famiglia.

Per spiegare la maggiore vulnerabilità alla disoccupazione dei giovani sono state avanzate altre ipotesi legate allo sfasamento qualitativo tra le esigenze della domanda di lavoro da un lato e le capacità e le aspirazioni dei giovani dall'altro. Grande attenzione è stata posta agli aspetti tecnico-professionali di questo sfasamento con accuse al sistema formativo di fornire una preparazione astratta.

Alle imprese interessano non tanto specialisti obsoleti ma la capacità di apprendere e una salda preparazione generale sulla quale poter fondare interventi di adattamento e specializzazione.

Questi giovani non si adattano a lavori inferiori alle attese, ma restano anche a lungo in attesa del posto cui ritengono di aver diritto finché le loro aspettative hanno successo o si ridimensionano.

In questo caso la maggiore vulnerabilità alla disoccupazione di molti giovani sarebbe causata dalla loro resistenza a declassare le proprie aspettative lavorative.

Così si spiega perché la disoccupazione intellettuale abbia interessato in maggior misura l'Italia e in particolare il Mezzogiorno.

Il successo della formazione duale fondata sull'alternanza scuola-lavoro non si deve solo alla stretta integrazione tra apprendimento teorico ed esperienza pratica, ma anche al fatto di aver dato grande visibilità e dignità sociale al lavoro operaio.

Altro pregio del sistema tedesco è di aver sviluppato salde reti istituzionali con le imprese in modo da poter fornire loro segnali comprensibili e affidabili sulle caratteristiche e sulle capacità dei giovani in cerca di primo lavoro. Un tempo quelle che contavano erano le relazioni dei genitori e dei parenti. Il passaggio del posto di lavoro di padre in figlio era prassi frequente nelle imprese tradizionali. Grazie alla crescita dell'istruzione e al rapido mutamento della struttura occupazionale dall'industria al terziario la transizione al lavoro è diventata più aperta, ma anche più incerta e le conoscenze dei genitori e dei parenti non sono più servite a entrare in contatto con la domanda di lavoro.

La scuola potrebbe sostituirsi alla famiglia in questo compito di stabilire relazioni tra i giovani senza esperienze lavorative e il sistema produttivo.

Si può pensare che i ritardi nello sviluppo dell'istruzione superiore e la scarsa attenzione posta ai suoi rapporti con il sistema produttivo siano anche frutto di un'attenzione dei policy makers tutta concentrata sull'urgenza della disoccupazione degli adulti.

I paesi in cui maggiore è la discriminazione verso i giovani sono quelli dell'Europa meridionale che sono caratterizzati sia dalla lunga convivenza dei figli con i genitori, sia dalla scarsa generosità degli schemi di protezione del reddito. Per contro, i paesi in cui la discriminazione verso i giovani è minore sono la Germania, l'Austria e i paesi nordici dove i giovani escono presto dalla famiglia e i sussidi di disoccupazione sono abbastanza generosi e universalistici. Per i paesi europei esiste una netta relazione positiva tra tasso di disoccupazione e percentuale di convivenza con i genitori.

Il caso estremo è l'Italia dove i relativamente pochi maschi adulti disoccupati possono contare su un basso tasso di rimpiazzo e solo per 6 mesi, anche qualora abbiano persone a carico. Si spiega così perché non possano permettersi di stare a lungo senza lavoro e spesso transitino direttamente da un'occupazione all'altra.

L'Italia e gli altri paesi dell'Europa meridionale, che dispongono di uno stato sociale poco protettivo, sono riusciti a reggere un'altissima disoccupazione soltanto grazie al fatto che i disoccupati sono per lo più giovani mantenuti dalla famiglia di origine.

Nella maggior parte dei paesi europei stato sociale e famiglia si compensano nel far fronte alla mancanza di reddito delle persone prive di lavoro. Le situazioni più critiche (come la Francia e la Gran Bretagna) nei quali i legami familiari sono molto fragili e i giovani lasciano presto i genitori per vivere soli mentre il sostegno pubblico al reddito dei senza lavoro è ormai ridotto a livelli del tutto inadeguati.

I giovani dell'Europa meridionale da un lato vivono un lungo periodo di mancanza di indipendenza dall'altro possono permettersi una ricerca del lavoro molto meno assidua e pressante di quella dei maschi adulti che possono contare solo sul misero e breve sostegno pubblico. Nei paesi dell'Europa centro-settentrionale dove i giovani escono di casa presto, adulti e giovani competono sullo stesso piano nella ricerca del lavoro, perché sono sostenuti più o meno allo stesso modo dagli schemi pubblici di protezione del reddito.

Ci si può domandare se il prolungamento della convivenza nella famiglia di origine sia una conseguenza della mancanza di lavoro per i giovani e della debolezza dello stato sociale e se l'uscita precoce dalla famiglia di origine sia dovuta alla diffusa presenza di occasioni di lavoro per i giovani e alla consistente protezione del welfare state.

L'esistenza di paesi critici fa piuttosto pensare a fenomeni in larga misura indipendenti.

Per quanto riguarda l'Italia, si pensi che il prolungamento della convivenza nella famiglia di origine ha un'antica tradizione.

La sequenza può essere così delineata: un forte familismo comporta una scarsa partecipazione delle donne al lavoro retribuito e quindi bassi livelli di occupazione totale ma poche occasioni di lavoro da un lato generano scarse risorse per finanziare il welfare state, dall'altro impongono che sia assicurata un'elevata sicurezza occupazionale al maschio adulto. Questo processo si autoalimenta attraverso  complessi processi sia dal lato della domanda sia da quello dell'offerta.

Se la maggior discriminazione verso i giovani non dipende dalla più elevata protezione degli adulti, occorre abbandonare il luogo comune che per aumentare l'occupazione giovanile sia necessario deregolare ancor più il mercato del lavoro.





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