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LA VENDITA AL DI FUORI DEI LOCALI COMMERCIALI - Corso di laurea in Giurisprudenza

giurisprudenza






UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTA' DI GIURISPRUDENZA


Corso di laurea in Giurisprudenza




LA VENDITA AL DI FUORI DEI LOCALI COMMERCIALI




Istituzioni di Diritto Privato







INTRODUZIONE



L'attuazione di nuovi metodi di fabbricazione, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e l'apparizione di nuovi sistemi di vendita hanno determinato negli ultimi decenni l'aumento della produzione e dell'offerta di un'ingente varietà di beni e di servizi, nonché il mutamento delle pratiche commerciali e delle condizioni contrattuali.

Quantunque tale situazione offra indubbi vantaggi per il consumatore, quest'ultimo non è più in grado di svolgere pienamente, quale utente del mercato, la propria funzione di equilibrio, trovandosi sovente oggetto di operazioni commerciali non ortodosse e di pressioni da parte di gruppi di produzione e di distribuzione estremamente organizzati.

Ciò ha reso necessario approntare, sia a livello comunitario che nazionale, una serie di interventi normativi al fine di meglio informare il consumatore sui suoi diritti e di tutelarlo da possibili pratiche commerciali abusive.

Nel settore dei contratti negoziati fuori dai locali dell'impresa il primo di tali interventi è rappresentato dalla direttiva n. 85/577/CEE, il cui scopo principale è quello di proteggere il consumatore nei rapporti contrattuali che nascono fuori dai locali commerciali, garantendogli il diritto irrinunciabile di recedere dal contratto mediante comunicazione inviata al commerciante entro 7 giorni dalla stipula del contratto stesso.

A fronte di tale diritto, viene posto a carico del commerciante l'obbligo di informare per iscritto il consumatore sull'esistenza del diritto di recesso.

Nel nostro ordinamento i contenuti della direttiva sono stati recepiti con il d.lg. 15 gennaio 1992 n. 50, attraverso il quale l'ambito di applicazione dei principi della direttiva è stato esteso anche ad altre ipotesi di contratti conclusi a distanza, come le televendite e le vendite concluse con l'ausilio di strumenti informatici o telematici.

Gli effetti negativi, derivanti dall'adozione da parte dei Paesi comunitari di differenti se non contrastanti disposizioni in tema di tutela del consumatore nei contratti a distanza, hanno portato all'emanazione della direttiva 20 maggio 1997 n. 97/7/CE, la quale ha creato un sistema omogeneo di protezione dei consumatori nei contratti di tale tipo.

L'emanazione di tale direttiva si è rivelata salutare per il nostro ordinamento, in quanto ha permesso di colmare le lacune che il nostro ordinamento presentava in materia.

L'Italia ha adempiuto al proprio obbligo di recepimento tramite l'emanazione del d.lg 22 maggio 1999 n.185. Il decreto riprende, tranne per qualche importante eccezione, i principi contenuti nella direttiva, concretizzando la protezione del consumatore attraverso la previsione dell'obbligo, posto a carico del commerciante, di informare il potenziale acquirente sui contenuti minimi del contratto ed estendendo a 10 giorni dalla consegna del bene il termine per l'esercizio del recesso da parte del consumatore.







CAPITOLO I


LE VENDITE AL DI FUORI DEI LOCALI COMMERCIALI: RILIEVI GENERALI



"Vendite commerciali" e tecniche particolari di

contrattazione


Tra i contratti di alienazione diretti a realizzare uno scambio di beni e mediante i quali si svolge la circolazione della ricchezza, il più diffuso nella pratica degli affari è sicuramente la vendita, anche per la copiosità di atteggiamenti e la varietà di sottotipi, clausole e regole che esso presenta.

L'attuale disciplina legislativa del contratto di vendita è contenuta nel codice civile, nel libro IV (delle obbligazioni), titolo terzo, dove l'art. 1470 definisce la vendita come "il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo".

Venuta meno pertanto, con la fusione dei codici previgenti, la distinzione tra "vendita civile" (art. 1447 ss. c.c. del 1865) e "vendita commerciale" (art. 59 ss. c. comm. del 1882), unica è ormai la normativa di questo contratto, intercorra esso tra imprenditori o consumatori.

La vendita non è quindi contratto tipico d'impresa. Vi sono tuttavia sottotipi di vendita e clausole particolari che rimangono, malgrado tutto, "commerciali", o in quanto presuppongono necessariamente l'esistenza di un'attività d'impresa commerciale (ad esempio, vendite con omaggio o a premio, vendite straordinarie o di liquidazione), o in quanto contengono pattuizioni particolari che vengono normalmente impiegate da imprenditori (ad esempio, vendita "a prova", "con riserva di gradimento", "su campione"), o in quanto vengono concluse mediante tecniche che caratterizzano esclusivamente le contrattazioni con gli imprenditori (ad esempio, vendita per corrispondenza, su catalogo o a domicilio, vendita mediante l'uso di apparecchi informatici o telematici, per telefono, per televisione, per Internet).[1]

In particolare, queste tecniche di contrattazione, definite "aggressive" in quanto la decisione di acquisto del consumatore risulta fortemente influenzata dal potere di persuasione del venditore, si differenziano dal modello tipico della vendita tradizionale in quanto capaci di ridurre i tempi, i modi e i costi della trattazione e quindi di aumentare il numero degli scambi e, di conseguenza, i ricavi e le occasioni di guadagno.

Tali innovative forme di commercializzazione prendono il nome di "vendite fuori dai locali commerciali", essendo il contratto negoziato al di fuori dei locali istituzionalmente deputati alla contrattazione.

All'interno di questa categoria contrattuale si usa poi distinguere le "vendite dirette", consistenti nell'invio, da parte dell'imprenditore, di propri incaricati a domicilio dei clienti, dalle "vendite a distanza", quali le vendite per corrispondenza o su catalogo, le vendite per telefono, televisione e computer.

Al di là degli aspetti sociologici del fenomeno, la vendita al di fuori dei locali commerciali ha posto, e pone, problemi di normativa e di inquadramento giuridico, non essendo specificatamente disciplinata nel codice civile.

Questi problemi riguardano non tanto il profilo dell'iter formativo del contratto, anomalo nei suoi snodi di fatto ma sempre riconducibile agli schemi generali, quanto il profilo della tutela del destinatario delle sollecitazioni del venditore.

Nella prassi delle vendite dirette, ad esempio, la tecnica promozionale si basa sulla capacità del venditore di creare nel potenziale acquirente il bisogno del bene pubblicizzato, rimarcandone aspetti quali la qualità superiore rispetto ai prodotti concorrenti, l'utilità, la convenienza, ecc.

Le capacità dialettiche e l'abilità contrattuale del venditore, unitamente al fattore sorpresa e all'impossibilità di effettuare confronti con altre offerte, determinano una situazione di squilibrio psicologico nel consumatore, il quale può trovarsi a perfezionare un acquisto non adeguatamente ponderato sotto il profilo della opportunità, necessità ed economicità.

Anche in occasione di negoziazioni a distanza il consumatore spesso è indotto a stipulare il contratto senza aver potuto vagliare adeguatamente l'offerta, data l'impossibilità, nella fase antecedente la conclusione dell'accordo, di esaminare materialmente i prodotti da lui visti in televisione o scelti su cataloghi cartacei o telematici.[2]

Di fronte a queste tecniche di vendita, in grado di influenzare ormai non solo il contraente debole, ma anche il contraente medio, la disciplina contenuta negli articoli 1341 e 1342 c.c., relativa alle condizioni generali di contratto e alla conclusione di contratti mediante moduli o formulari, si è rilevata palesemente insufficiente.

Il legislatore del codice ha infatti affrontato il tema della contrattazione standardizzata, alla cui categoria appartengono anche la maggior parte dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, unicamente sotto il profilo del contenuto del contratto, preoccupandosi di garantire che non entrassero a farne parte clausole che l'aderente, rimasto estraneo alla loro elaborazione, al momento della conclusione non ha potuto conoscere o sui cui non ha adeguatamente riflettuto.

Con il d.lg. 15 Gennaio 1992, n. 50, in attuazione della direttiva n. 85/577/CEE, i contratti negoziati fuori dai locali dell'impresa hanno finalmente trovato una specifica disciplina anche nel nostro ordinamento.

Per poter meglio individuare le ragioni che hanno determinato l'intervento del legislatore comunitario è necessario tuttavia precisare quale è stata la produzione legislativa, in tema di tutela del consumatore, antecedente la direttiva.



2. I contratti conclusi fuori dei locali commerciali: progetto di

direttiva comunitaria


La consacrazione dell'attenzione della Comunità Economica Europea allo sviluppo di una politica diretta alla protezione ed informazione del consumatore risale alla Risoluzione del Consiglio del 14 Aprile 1975 (GU C92/1975), contenente il programma

preliminare per la realizzazione di una serie di obbiettivi di tutela tra i quali spiccava, accanto alla protezione della salute e della sicurezza, lo scopo di tutelare gli interessi economici del consumatore.

Le azioni prioritarie per la concretizzazione di tale ultimo fine venivano individuate nella armonizzazione delle condizioni generali per la concessione di crediti al consumo, nella protezione contro la pubblicità falsa o ingannevole, nell'armonizzazione delle disposizioni legislative per danno da prodotto e, finalmente, nella protezione del consumatore contro le pratiche commerciali abusive, in particolare in materia di vendite a domicilio.

Ancor prima del programma di protezione della CEE, disposizioni per la salvaguardia del consumatore in tema di vendite a domicilio erano state introdotte in Francia con la legge "démarchage et vente à domicile" n. 1137 del 22 dicembre 1972, rivolta a scoraggiare gli acquisti avventati, grazie all'introduzione di un particolare strumento di tutela a favore del compratore, lo "ius poenitendi", indisponibile ed irrinunciabile, da esercitarsi entro sette giorni dalla data dell'ordine o dell'impegno d'acquisto inviandone notizia, tramite raccomandata, all'operatore commerciale.

Tale legge decretava inoltre, all'art. 2, l'obbligo, a pena di nullità, di redigere per iscritto il contratto, di farlo sottoscrivere al consumatore e di corredarlo con un insieme di indicazioni essenziali, chiare e comprensibili, quali nome ed indirizzo del produttore e del fornitore, descrizione analitica dei beni o dei servizi offerti, prezzo e modalità di pagamento, nonché un formulario staccabile diretto a facilitare l'esercizio del diritto di recesso.[4]

La disciplina francese presentava, tuttavia, un limite relativo al proprio campo di applicazione, circoscritto ai soli contratti conclusi presso il domicilio del consumatore (le cosiddette "vendite porta a porta") e non a tutti i contratti conclusi fuori dai locali commerciali, quali in particolare quelli conclusi per strada o presso il luogo di lavoro del consumatore.

Ciò nonostante, il legislatore francese si dimostrò in anticipo di molti anni rispetto al nostro; nello stesso periodo infatti, in Italia la "vendita porta a porta" veniva disciplinata, sotto il profilo essenzialmente amministrativo, dalla legge n. 426/1971 che dal punto di vista privatistico si limitava ad introdurre, con formule vagamente anticipatorie, una forma di responsabilità civile delle imprese per l'attività svolta dagli incaricati alle vendite e l'obbligo di assicurazione sia per i danni cagionati dalla difettosità dei prodotti direttamente alla persona o alle cose del consumatore, sia per quelli che il compratore avrebbe dovuto risarcire a terzi, ai sensi dell'art. 1494 c.c. [5]

Di chiara ispirazione al modello francese si è rivelato il progetto di direttiva presentato dalla Commissione (Guce C22/1977) "per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dai locali commerciali".

All'origine del progetto di direttiva c'era non solo l'obiettivo di difendere il consumatore dall' "effetto sorpresa", tipico di queste vendite e vera propria arma vincente degli operatori del settore, ma anche quello di realizzare un'armonizzazione tra le differenti normative dei singoli Stati membri, le cui disparità mettevano seriamente a repentaglio il corretto funzionamento del mercato comune.

Anche nella proposta del 1977 la tutela del consumatore si manifestava innanzitutto attraverso l'imposizione della forma scritta per i contratti stipulati a domicilio; a sua volta, l'adozione della forma scritta appariva strumentale al rispetto di un obbligo di informazione avente ad oggetto tra l'altro il diritto di recesso assicurato al consumatore (art. 3).

In particolare, il progetto facevo obbligo agli Stati membri di assicurare che al consumatore venisse consegnato, all'atto della conclusione del contratto, un formulario conforme ad un modello allegato al progetto stesso, avente lo scopo dichiarato di facilitare al consumatore l'esercizio dello "ius poenitendi" mediante la semplice sottoscrizione del modulo e la sua consegna alla posta.

Il sistema delineato dalla proposta realizzava, quindi, il pieno riequilibrio delle posizioni delle parti.

Alla facilitazione nella conclusione dei contratti, derivante, a favore dell'operatore commerciale, dall'impiego delle tecniche di vendita al di fuori dai locali commerciali, corrispondeva l'offerta al consumatore di uno strumento altrettanto rapido e semplice per liberarsi dagli effetti del contratto.  

Sul piano della tutela prevista per l'ipotesi di mancato rispetto delle regole introdotte circa la forma del contratto ed il suo contenuto di informazioni, l'art. 5 della proposta invocava la nullità del contratto; a sua volta l'art. 11 statuiva la nullità delle clausole che prevedevano il pagamento di qualsiasi indennizzo da parte del consumatore in caso di esercizio del recesso.

Per quanto atteneva l'ambito di applicazione, oggetto della proposta di direttiva erano i contratti stipulati tra un consumatore ed un commerciante in base a trattative avvenute fuori dai locali commerciali (art. 1), con una serie di eccezioni espressamente individuate, alcune delle quali fondate sulla natura dell'oggetto del contratto (beni immobili o diritti su beni immobili), altre sulla presenza di iniziative alla trattativa promosse esclusivamente dal consumatore (richiesta di cataloghi o campioni) o sulla presenza di trattative condotte esclusivamente per iscritto (vendite concluse per corrispondenza o tramite cataloghi, senza la presenza del commerciante).[6]

Come appare evidente, nel progetto di direttiva venivano fedelmente riproposti quelli che erano i punti cardine della legge francese (obbligo della stesura per iscritto del contratto, obbligo di informazione, diritto di recesso), ma, sotto il profilo della tutela del consumatore, con il progetto di direttiva si è raggiunto un netto miglioramento rispetto al modello francese.

Infatti, laddove l'ambito di applicazione della suddetta legge n. 1137/72 era praticamente circoscritto ai soli contratti conclusi presso il domicilio del consumatore, oggetto di attuazione della

proposta della Commissione erano tutti i contratti conclusi al di fuori dei locali istituzionalmente deputati alla vendita, compresi i contratti conclusi per strada.[7]




3. La direttiva 85/577/CEE


Il testo definitivo della direttiva 85/577/CEE fu approvato il 20 dicembre 1985, apportando delle rilevanti modifiche al progetto originario.

Innanzitutto, mentre nel progetto del 1977 l'ambito di operatività della disciplina veniva definito in negativo, il testo della direttiva ha adottato una soluzione tecnicamente diversa, individuando l'area di applicazione 757e46h delle norme attraverso una rigorosa identificazione di alcune ipotesi.

Così, ai sensi dell'art. 1 comma 1°, la tutela si applica ai contratti stipulati durante una escursione organizzata dall'operatore o durante una visita dello stesso al domicilio o sul luogo di lavoro del consumatore, con esclusione del caso in cui la visita abbia luogo su esplicita richiesta del consumatore stesso in vista della fornitura di un bene o servizio (art. 1, comma 2°), in quanto in questi casi viene meno l'effetto sorpresa e con esso la naturale debolezza di chi sia stato abilmente indotto a concludere un contratto senza aver avuto il tempo di ponderare la propria decisione.

Ma la più importante innovazione introdotta dalla direttiva 85/577, e recepita poi dal nostro legislatore, è da ravvisare nella scomparsa dell'onere formale per la stesura del contratto, previsto invece nella proposta a pena di nullità, e nella conseguente scomparsa anche degli ulteriori requisiti relativi all'insieme di indicazioni in favore del consumatore che il testo contrattuale doveva necessariamente contenere.

Nella direttiva l'obbligo della forma scritta è disposto esclusivamente riguardo l'informazione sul diritto di recesso dal contratto, il cui termine di esercizio è fissato in sette giorni decorrenti dalla data di ricevimento dello stampato contenente l'informazione, la cui consegna al consumatore deve essere fatta al momento o prima della stipulazione del contratto.

Le conseguenze di questa modifica si sono dimostrate considerevoli, in quanto l'assenza dell'obbligo della forma scritta del contratto e dell'essenzialità di determinate informazioni ha garantito maggiore speditezza alla contrattazione, ma ha anche inevitabilmente prodotto un sacrificio degli interessi dei consumatori, essendo evidente che lo stampato contenente l'informazione sul diritto di ripensamento non è idoneo a ricevere le stesse attenzioni normalmente rivolte al testo contrattuale.[10]

Purtroppo, avendo la direttiva 85/577 una efficacia solo verticale nei confronti degli Stati membri, vincolando gli stessi in ordine al risultato da raggiungere ma lasciando agli organi nazionali la competenza sulle forme e i mezzi per conseguirlo, in giurisprudenza si sono riscontrati vari orientamenti relativi all'eventuale idoneità della direttiva stessa a disciplinare i rapporti tra privati nelle more del provvedimento interno di attuazione.

In una prima fase, la giurisprudenza di merito si è indirizzata nel senso che la direttiva, in quanto contenente disposizioni sufficientemente precise e dettagliate, fosse direttamente applicabile ai rapporti tra singoli, con conseguente validità del recesso operato dai consumatori o comunque nullità del contratto che non prevedesse espressamente tale facoltà.[11]

In senso parzialmente difforme si è posta invece la Corte di Giustizia, ritenendo che "(.) in assenza dei provvedimenti interni di attuazione, i consumatori non possono fondare sulla direttiva stessa un diritto di recesso nei confronti dei commercianti con i quali hanno stipulato un contratto fuori dei locali commerciali, né far valere tale diritto dinanzi a un giudice nazionale, essendo loro riconosciuto solo il diritto di agire per ottenere il risarcimento dei danni subiti nei confronti dello Stato che non avesse recepito la direttiva nel termine fissato (.)".

Ciò premesso, con la stessa pronuncia la Corte ha tuttavia ricordato che, in ipotesi di ritardo nell'attuazione di una direttiva, trova applicazione il principio di "interpretazione conforme", in forza del quale "(.) il giudice nazionale, quando applica disposizioni di diritto nazionale tanto precedenti quanto successive alla direttiva, ha l'obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva per conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo comma, del Trattato istitutivo CEE (.)."[12]

In altre parole, la direttiva, anche se non attuata, fa comunque parte del sistema e deve essere tenuta in adeguato conto nell'interpretazione del diritto nazionale.

La nostra Corte di Cassazione non ha immediatamente recepito il significato di questo precedente. Inizialmente, infatti, è stata

valorizzata unicamente la prima parte della motivazione che esclude l'efficacia diretta della direttiva nei rapporti tra privati, e su questa base, con due diverse sentenze, è stata esclusa la possibilità per i consumatori di fondare sulla direttiva stessa un diritto di recesso nei confronti dei commercianti.[13]

Solo in un secondo tempo, ad opera di due successive sentenze, la motivazione della Corte di Giustizia è stata letta con maggiore attenzione e ne è stata valorizzata anche la seconda parte, laddove si ribadisce la rilevanza che il principio di "interpretazione conforme" assume in ipotesi di mancata attuazione di direttive comunitarie.[14]



4. L'attuazione italiana


Il legislatore italiano, giungendo con ritardo all' attuazione della direttiva 85/577 (il termine per l' adeguamento degli ordinamenti nazionali previsto dalla norma comunitaria era il 23 dicembre 1987), sembra essersi lasciato prendere la mano da un certo "complesso di colpa" che lo ha indotto a fare di questo adempimento comunitario l'occasione per rimediare alla precedente indifferenza per il tema della tutela del consumatore.

In aderenza con la previsione contenuta nell'art. 8 della direttiva, che consente agli Stati membri di adottare, nel settore disciplinato dalla direttiva stessa, disposizioni più favorevoli ai consumatori, la legge delega 29 dicembre 1990, n. 428, all'art. 42, ha previsto, infatti, l'ampliamento dell'ambito di applicabilità della disciplina, inserendovi altre ipotesi di vendita fuori dai locali commerciali, oltre a quelle indicate dalla direttiva.

Il risultato di questa operazione è rappresentato dal testo del d.lg. 15 gennaio 1992 n. 50, il quale, a differenza della direttiva, appare più coerente nel valorizzare l'effettiva ricchezza della "ratio" ispiratrice della tutela del consumatore e desumibile dalla legge comunitaria.

Tale "ratio" infatti, non si esaurisce nella sola protezione del consumatore dal fattore sorpresa e da una sollecitazione psicologica legata alla presenza dell'operatore commerciale nella fase delle trattative; essa infatti pone l'accento anche sulla carenza di informazioni in ordine al mercato dei prodotti oggetto dell'offerta e sull'inadeguatezza circa la effettiva ricognizione preventiva della merce, allorquando, in mancanza di concreti esemplari sottoposti al suo vaglio e di un interlocutore cui porre domande, il consumatore si trovi di fronte soltanto a semplici depliant o cataloghi.

La più rigorosa consequenzialità della normativa contenuta nel decreto legislativo rispetto alla complessa "ratio" alla base della direttiva si può cogliere sotto diversi aspetti.

Innanzitutto, in ordine all'ambito di applicazione della disciplina, si rileva un'estensione alle fattispecie di contratti conclusi per corrispondenza.

Mentre, infatti, l'art. 3 lett. c) della direttiva prevedeva che fossero esclusi dal campo di applicazione della stessa i contratti "conclusi in base a un catalogo che il consumatore avesse consultato senza la presenza del rappresentante del commerciante", non essendo riscontrabile in questi casi la pressione psicologica esercitata dall'operatore commerciale sul consumatore, il decreto di attuazione ha operato un capovolgimento del sistema, inserendo esplicitamente l'ipotesi dell'acquisto su catalogo senza la presenza del commerciante tra quelle alle quali si applica la legge (art. 1, lett. d), con ciò dimostrando di dare rilevanza al fatto che la stipulazione del contratto con tali modalità può impedire al consumatore di acquisire dati sufficienti a valutare il bene o il servizio oggetto del contratto stesso.

Il decreto, tuttavia, non si è limitato ad esplicitare il richiamo alle ipotesi di negoziazioni attuate per corrispondenza, ma andando oltre l'area di intervento espressamente delineata dalla Comunità, ha ricompreso nell'area di tutela del consumatore anche "altre forme speciali di vendita" (art. 9), ossia negoziazioni intervenute sulla base di "offerte effettuate al pubblico tramite il mezzo televisivo o altri mezzi audiovisivi" sempreché finalizzate ad una diretta stipulazione del contratto stesso, nonché "i contratti conclusi mediante l'uso di strumenti informatici e telematici".

In tal modo, la disciplina nazionale ha fornito una prima risposta, in termini di tutela, ad ipotesi per le quali la Comunità avrebbe adottato in seguito la direttiva 20 maggio 1997, n. 97/7/CE.

In secondo luogo, l'indubbia rilevanza che, per via del più rigoroso rispetto della "ratio" alla base della direttiva, si è assegnata alla mancata materiale ricognizione della merce da parte del consumatore nel corso delle trattative, ha ispirato la più modulata disciplina contenuta nell'art. 6 a proposito dell'esercizio del diritto di recesso.

In particolare, la regola, di portata generale secondo la direttiva, che fa decorrere il termine per l'esercizio del diritto di recesso dal momento in cui il consumatore ha ricevuto l'informazione circa il diritto a lui riservato, trova applicazione soltanto per i contratti aventi ad oggetto la fornitura di merci, sempreché però, i beni siano stati "preventivamente mostrati o illustrati" dall'operatore commerciale.

Il termine decorre invece dalla data di ricevimento della merce, nel caso dei contratti negoziati senza la presenza dell'operatore commerciale ovvero nell'ipotesi in cui il prodotto illustrato o mostrato sia di tipo diverso da quello oggetto del contratto; analoga soluzione, sulla base della identica "ratio", si registra per le negoziazioni di cui all'art. 9.[16]

Infine, risulta significativa al fine della corretta determinazione della "ratio" ispiratrice della legge italiana, la scelta, operata in tale norma, di togliere rilevanza al fatto che il consumatore abbia richiesto espressamente la visita dell'operatore commerciale, circostanza questa che nella direttiva, invece, valeva ad escludere l'applicabilità del sistema di tutela.

L'eliminazione, nel passaggio dalla direttiva alla legge di attuazione, di qualunque riferimento alla iniziativa del consumatore, anche nella vendita a domicilio, rende infatti ininfluente, ai fini dell'esercizio del diritto di recesso, la circostanza che il consumatore abbia avuto agio di prepararsi alla trattativa, acquistando tutti i dati da lui ritenuti necessari e determinando il momento dell'incontro con il venditore, da lui stesso provocato con la propria richiesta.

Il che conferma che non è soltanto la sorpresa e l'impreparazione del consumatore a giustificare, nella legge in esame, la previsione del diritto di recesso.[17]


CAPITOLO II


IL D.LG. 15 GENNAIO 1992 n. 50: APPLICABILITA'


1. Ambito oggettivo di applicazione


Nel determinare l'ambito di applicazione della disciplina in esame, il legislatore ha usato la tecnica definita "delle esclusioni": dopo aver fornito una elencazione delle fattispecie tutelate ha provveduto, di seguito, ad enuclearne una serie in cui, sia in relazione alle caratteristiche delle transazioni - implicanti un sufficiente grado di tutela del consumatore - sia per i particolari parametri di tempo, di costo e importo, l'applicazione della disciplina garantista non è parsa opportuna.[18]

Innanzitutto la normativa si applica sia a tutti i contratti a titolo oneroso riguardanti "la fornitura di beni o la prestazione di servizi, conclusi, in qualunque forma, al di fuori dei locali dell'operatore commerciale" (art. 1, comma 1°), sia alle "proposte vincolanti o non vincolanti effettuate dal consumatore in analoghe condizioni e per le quali non sia ancora intervenuta l'accettazione dell'operatore commerciale" (art. 1, comma 2°).

Ciò che vale pertanto a connotare i contratti in questione è la negoziazione fuori dei locali commerciali.

Se è vero però, che per tali locali il progetto di direttiva del 1977 si limitava a fornire una definizione alquanto generica, identificandoli nei "luoghi in cui un commerciante esercita stabilmente la propria attività, nonché gli stands occupati dal commerciante in fiere e mercati", nel testo del decreto adottato dal legislatore italiano la individuazione dei luoghi di negoziazione si è notevolmente specificata, anche se tuttavia manca una definizione espressa di "locale commerciale".

Una prima ipotesi presa in considerazione dal legislatore riguarda i contratti stipulati "durante la visita dell'operatore commerciale al domicilio del consumatore o di un altro consumatore ovvero sul posto di lavoro del consumatore o nei locali nei quali il consumatore si trovi, anche temporaneamente, per motivi di lavoro, di studio o di cura" (art. 1, comma 1° lett. a).

Elemento caratterizzante tale fattispecie è l'intromissione del venditore nella sfera spaziale privata del consumatore, sia essa quella più stabile del domicilio (da estendere agli altri luoghi di attività della persona quali la residenza e la dimora[19]) o del luogo di lavoro, sia quella occasionale in cui il consumatore si trova per motivi di lavoro, studio o cura, senza che rilevi il fatto che egli abbia espressamente richiesto la visita dell'operatore commerciale.

Secondo un'interpretazione dottrinale, l'elencazione dei luoghi in cui tale intromissione si verifica dovrebbe essere considerata una semplice esemplificazione, dalla quale si può ricavare come elemento comune che deve trattarsi di luoghi attinenti alla sfera delle attività personali del consumatore, che non hanno rapporto alcuno con la possibilità di concludere contratti di acquisto di beni o servizi.

In questo modo si conclude per l'estensibilità della disciplina anche ad ipotesi non specificatamente elencate, quali la

conclusione del contratto durante la visita dell'operatore commerciale in locali nei quali il consumatore si trovi per svolgere attività sportive , di svago, di turismo ecc.[20]

L'elencazione di motivi contenuta nella norma dovrebbe poi essere intesa, secondo alcuni interpreti, come esclusione, dall'ambito di applicazione della legge, del caso in cui il consumatore si sia recato nei locali per effettuarvi degli acquisti, consentendo così di dichiarare inapplicabile la legge all'ipotesi in cui il consumatore si trovi in locali dove siano allestite fiere o mostre mercato.

Il decreto considera inoltre la stipulazione avvenuta "durante un'escursione organizzata dall'operatore commerciale al di fuori dei propri locali commerciali" (art. 1, comma 1° lett. b). Si tratta in questo caso della pratica di effettuare operazioni di vendita nel corso di gite o viaggi ai quali il consumatore è invitato a partecipare dall'operatore commerciale, a titolo totalmente o parzialmente oneroso, allo scopo di poter essere avvicinato per la stipulazione di contratti di fornitura di beni o di servizi.

In queste circostanze si presume che, sia per l'atmosfera psicologica creatasi, sia per un senso di sdebitamento nei confronti dell'organizzatore dell'escursione, il grado di attenzione del consumatore si abbassi notevolmente.[22]

Peraltro, il riferimento testuale alla circostanza che l'attività debba svolgersi fuori dai locali commerciali non comporta, però, che questa previsione della norma si riferisca necessariamente ad

operatori commerciali muniti comunque di una loro sede, ben potendosi ipotizzare, in linea di principio, che l'escursione, accompagnata da attività dirette alla stipulazione di contratti, sia organizzata ad es. da un venditore ambulante.[23]

Ulteriore fattispecie presa in considerazione dal legislatore italiano e riconducibile, unitamente alle precedenti, alla categoria delle "vendite dirette", è rappresentata dalla stipulazione di contratti "in area pubblica o aperta al pubblico", limitatamente alle ipotesi in cui ciò avvenga "mediante la sottoscrizione di una nota d'ordine, comunque denominata" (art. 1, comma 1° lett. c), dove per nota d'ordine sembra doversi intendere un documento con cui sia stato espresso il consenso determinante al fine della stipulazione del contratto.[24]

La tutela del consumatore pare, in questo caso, giustificata dal fatto che il contratto venga concluso mediante la semplice apposizione di una firma (del cui valore giuridico il consumatore può anche non essere pienamente avvertito), su un modulo predisposto dal venditore, la nota d'ordine appunto, senza che il consumatore abbia avuto modo di vedere il prodotto o di acquisire alcun dato diretto sull'oggetto del contratto o sulle caratteristiche dell'operatore commerciale.

Alla luce di tale "ratio" si può concludere, pertanto, che l'oggetto della disciplina non riguarda tutte le vendite in luoghi pubblici, ma principalmente le cosiddette "vendite per strada", in cui la presenza del venditore nel luogo pubblico ha carattere di occasionalità perché manca una struttura destinata all'attività contrattuale con carattere di stabilità nel tempo.

Restano escluse, pertanto, dalla fattispecie protetta tutte le forme di commercio ambulante, nonché gli acquisti effettuati presso mercati rionali[25] e più in generale, tutte le contrattazioni che avvengono in luogo pubblico o aperto al pubblico con scambio contestuale prezzo-controprestazione: da un lato infatti, nell'esborso immediato del denaro il consumatore può ritenersi maggiormente avveduto della propria azione, dall'altro il legislatore ha voluto tutelare quei commerci in luoghi pubblici o aperti al pubblico in cui l'operatore commerciale ha con sé la mercanzia.

L'occasione della attuazione della direttiva CEE ha permesso poi al legislatore italiano, come in precedenza rilevato, di disciplinare anche la categoria delle cosiddette "vendite a distanza", nella quale rientrano i contratti stipulati "per corrispondenza o, comunque, in base ad un catalogo che il consumatore ha avuto modo di consultare senza la presenza dell'operatore commerciale" (art. 1, comma 1° lett. d).

Gli elementi materiali che costituiscono la fattispecie vanno interpretati con la massima ampiezza possibile. Pertanto, per catalogo potrà intendersi qualsiasi tipo di pubblicazione , su supporto cartaceo, magnetico, elettronico o di qualunque altro tipo, caratterizzato dalla elencazione dei prodotti, dalla loro descrizione, ed eventualmente dalla loro illustrazione per mezzo di foto, disegni, schemi, ecc.; allo stesso modo per corrispondenza dovrà intendersi qualunque strumento di trasmissione a distanza della manifestazione di volontà, e quindi lettere, telegrammi, telefax, telex e comunicazioni telefoniche.[27]

La vendita per corrispondenza o su catalogo non costituisce tuttavia l'unica tipologia di vendita a distanza disciplinata dal decreto.

Nel campo di applicazione della legge rientrano infatti altre modalità di contrattazione a distanza, rese possibili grazie all'impiego delle nuove tecnologie, come le vendite eseguite mediante "offerte effettuate al pubblico tramite il mezzo televisivo o altri mezzi audiovisivi" o col ricorso a "strumenti informatici e telematici" (art. 9, comma 1°).

Caratteristica comune a queste tipologie di contrattazione a distanza è che non vi è alcun contatto diretto tra il commerciante e il consumatore, il quale spesso si trova nell'impossibilità di acquisire dati sufficienti a valutare il servizio e il bene oggetto del contratto.

Pertanto, se normalmente nessuna tutela è conferita a chi ha proceduto ad un acquisto affrettato e poco documentato, perché il diritto dei contratti certamente non prevede, per ciò solo, una causa di scioglimento dal vincolo, la circostanza che si tratti di un contratto a distanza muta la prospettiva: massima considerazione è infatti attribuita al dato oggettivo che il consumatore non può, pur volendolo, esaminare materialmente il bene, né chiedere chiarimenti alla controparte su quanto gli è offerto.[28]

Vi è comunque da puntualizzare come la normativa prevista dal presente decreto in materia di vendite a distanza, vada oggi coordinata con il d.lg. 185/1999, che ha approntato una specifica disciplina di tutela del consumatore in materia di contratti conclusi esclusivamente con l'impiego di tecniche di comunicazione a distanza.

Terminata l'analisi delle suesposte fattispecie normative rientranti nell'ambito di applicazione del decreto ed enumerate all'art. 1, comma 1° lett. a), b), c) e d), sorge un primo problema interpretativo, consistente nel determinare il valore da attribuire all'elencazione stessa.

Si tratta, cioè, di stabilire se alle ipotesi espressamente menzionate dal legislatore debba riconoscersi valore esaustivo dell'ambito di applicazione della legge, o se, invece, debba ammettersi l'estensione della disciplina del recesso anche a ipotesi non rientranti tra quelle espressamente previste, ma nelle quali sia comunque riscontrabile analoga esigenza di tutela del consumatore.

L'orientamento dottrinale prevalente è sicuramente nel senso di un'applicazione estensiva., in quanto la stessa tecnica legislativa adottata nell'art. 1 depone per la non esaustività della enumerazione in esso contenuta.[29]

Va, infatti, innanzitutto sottolineato che dal tenore letterale della norma non è dato ricavare alcuna intenzione di tassatività dell'elencazione dei casi che costituiscono l'ambito oggettivo di applicazione della legge.

Ne' un serio argomento in contrario potrebbe ricavarsi dal fatto che il legislatore abbia sentito l'esigenza di enumerare analiticamente le ipotesi alle quali la legge si riferisce, dal momento che tale tecnica sembrerebbe rispondere non ad una implicita volontà di escludere ogni altro caso non espressamente previsto, ma soltanto all'esigenza di una maggiore chiarezza di individuazione delle fattispecie, che però non osta all'applicazione estensiva della disciplina.

Più serio appare invece l'argomento in contrario desumibile dalla previsione dell'art. 11, che commina una sanzione amministrativa per il mancato rispetto di taluni degli obblighi posti a carico dell'operatore commerciale.

In relazione a tale norma potrebbe essere invocata, infatti, la necessità di esatta conoscenza preventiva delle fattispecie che danno luogo alla irrogazione della pena.

Tuttavia, dedurre dalla presenza di tale norma l'impossibilità di una interpretazione estensiva porterebbe a conseguenze contraddittorie.

L'art. 11 infatti, commina la sanzione amministrativa con l'evidente intento di rafforzare la tutela concessa al consumatore, il che sarebbe in evidente contrasto con l'effetto di escludere dall'ambito di applicazione della stessa legge talune fattispecie che, benché non esplicitamente considerate dall'art. 1 o dall'art. 9, presentano però la medesima esigenza di tutela del consumatore.

Sembra, quindi, potersi ipotizzare che il principio di inestensibilità della norma sanzionatoria debba limitarsi al solo disposto dell'art. 11, senza che ciò impedisca di affermare la libertà dell'interprete di ricomprendere tra le fattispecie previste dagli art. 1 e 9 anche ipotesi non esplicitamente o non esattamente contemplate, ovviamente nel rispetto dei contorni dell'ambito di applicazione della legge oggettivamente determinati dalla "ratio" della disciplina.

Altra questione interpretativa, di segno diametralmente opposto, riguarda la possibilità di enucleare casi in cui, pur i presenza di una fattispecie tutelata, data la ratio della protezione del consumatore, debba essere escluso il diritto di recesso.

In pratica ci si chiede se, per i casi oggettivamente previsti dal decreto, possa l'operatore commerciale fornire la prova della effettiva ponderatezza della scelta del consumatore al fine di escludere il diritto di recesso.

La risposta dovrebbe essere negativa, in quanto i dati testuale non sembrano permettere l'introspezione psicologica del consumatore.

Un recupero dell'indagine d'ordine soggettivo sembrerebbe invece da ammettere nel riconoscimento dell' "exceptio doli" all'operatore commerciale nei confronti del consumatore, ad esempio nel caso di stipulazione di contratto o successivo recesso al fine di ledere il commerciante, così come nel caso dell'uso o minaccia del recesso per ottenere sconti, oppure nel caso di acquisto al fine di usare la cosa per il solo tempo in cui si ha diritto al recesso.[30]




2. I soggetti contrattuali


Sotto il profilo soggettivo occorre, ai fini dell'applicazione della disciplina in esame, che le parti del contratto siano un operatore commerciale ed un consumatore.

Operatore commerciale, ai sensi dell'art. 2, lett. b, è "la persona fisica o giuridica che, in relazione ai contratti o alle proposte contrattuali disciplinati dal presente decreto, agisce nell'ambito della propria attività commerciale o professionale, nonché la persona che agisce in nome e per conto dell'operatore commerciale".

Tale parte contrattuale può pertanto manifestarsi sia come imprenditore individuale, sia come società, sia infine come professionista e poiché l'attività cui la norma fa riferimento riguarda la "fornitura di beni o la prestazione di servizi", l'operatore commerciale sarà, nella maggior parte dei casi, un imprenditore commerciale (art. 2195 c.c.) con esclusione pertanto dell'imprenditore agricolo (art. 2135 c.c.).

Per l'individuazione della figura dell'operatore commerciale si è poi ritenuto di poter superare la stretta interpretazione della nozione di "persona giuridica", facendo rientrare in questa categoria anche le società di persone e gli altri soggetti collettivi non personificati.

Una soluzione contraria si tradurrebbe infatti, in un'ingiustificata disparità di trattamento, oltre che nella pratica inutilità dell'intera legge, in quanto non vi sarebbe esercente delle attività indicate nell'art. 1 che non si organizzerebbe in forma di società di persone. Si deve quindi concludere che l'uso del termine "persona giuridica" sia, in questo caso, improprio, e che con esso il legislatore abbia inteso riferirsi a qualunque soggetto diverso dalla persona fisica.

La norma, inoltre, si riferisce ai contratti che l'operatore commerciale pone in essere "nell'ambito della propria attività commerciale o professionale" e perciò a quelli che normalmente l'imprenditore pone in essere in quanto tale; nel caso in cui questi sia organizzato in forma collettiva, l'ambito dell'attività non sembra possa essere limitato a quello formale risultante dall'atto costitutivo o dallo statuto, dovendo piuttosto essere esteso alle attività effettivamente svolte dall'operatore commerciale.[33]

Per quanto riguarda la figura del consumatore, gli elementi che concorrono a individuarlo sono due: il fatto che si tratti di una "persona fisica" e che, "in relazione ai contratti e alle proposte contrattuali disciplinati dal decreto, agisca per scopi che possono considerarsi estranei alla propria attività professionale" (art. 2, lett. a).

Sotto il primo profilo restano pertanto esclusi dalla nozione di consumatore i soggetti diversi dalle persone fisiche. Occorre tuttavia precisare che in giurisprudenza esiste un orientamento per il quale "(.) l'individuazione di un acquirente consumatore non può essere esclusa dalla circostanza che l'acquisto risulti formalmente effettuato da parte di una società, qualora, tenuto conto del rapporto obbiettivo tra la natura della merce fornita e l'oggetto sociale della società intestataria del contratto, appaia chiaro che la merce è stata acquistata da un diverso soggetto il quale possa considerarsi consumatore (.)."

Per ciò che concerne invece il secondo elemento identificatore del consumatore, il fatto cioè che egli agisca per scopi estranei alla propria attività professionale, appare chiaro l'intento del legislatore di accordare la tutela della disciplina in esame unicamente al "consumatore finale", con esclusione pertanto di colui che acquista, con le modalità previste dall'art. 1 o dall'art. 9, beni o servizi da utilizzare strumentalmente in un'ulteriore attività di produzione.

La "ratio" di questa esclusione non va individuata nel fatto che il "professionista", in ragione di una sua specifica presunta esperienza e competenza rispetto ad acquisti che attengono alla sua attività, non avrebbe bisogno della tutela approntata per il consumatore, giacché tale "ratio" ricorrerebbe anche quando il medesimo "professionista", pur agendo per scopi estranei alla propria attività professionale, stipuli un contratto, rientrante genericamente nel campo della sua esperienza professionale, secondo le modalità previste dall'art. 1 o dall'art. 9.

Seguendo questa logica si dovrebbe quindi concludere che l'acquirente non ha diritto alla tutela prevista dalla legge in esame se il contratto, quale che ne siano le finalità, abbia un oggetto rientrante nell'ambito in cui il consumatore svolga la propria attività professionale.

Conclusione, questa, che sarebbe contraria alla lettera della norma, che dà rilevanza agli scopi per cui il contratto fu concluso e non alla qualificazione professionale del contraente, il quale ha sempre diritto di essere tutelato qualora acquisti beni o servizi per un'esigenza di consumo "privata o domestica".[35]

La "ratio" dell'esclusione andrebbe pertanto individuata nell'esigenza di far si che l'operatore economico si assuma tutti i rischi che caratterizzano l'esercizio professionale di un'attività economica, evitando pertanto un'ingiustificata posizione privilegiata del professionista che acquista beni o servizi, secondo le modalità previste dal decreto in questione, allo scopo di utilizzarli strumentalmente in un'ulteriore attività di produzione .

Questa interpretazione è stata avvallata innanzitutto dalla giurisprudenza di merito, per la quale "la nozione di consumatore di cui all'art. 2 d.lg. 50/1992 va ricercata riguardo alla situazione oggettiva e concreta, prescindendosi dalle dichiarazioni delle parti, posto che lo scopo della disciplina intera è la tutela del contraente protetto nei casi di vendita porta a porta; occorre accertare allora lo scopo per cui è stato concluso il contratto, onde valutare il collegamento con l'attività professionale, per verificarne caso per caso le situazioni meritevoli di tutela."[37]

Nello stesso senso si è posta anche la Corte di Cassazione, secondo la quale "(.) in tema di contratti negoziati fuori dei locali commerciali ciò che rileva ai fini dell'assunzione della veste di "consumatore" è l'estraneità o meno dello scopo avuto di mira all'attività professionale dell'agente nel momento in cui ha concluso il contratto. Consegue che deve escludersi che possa qualificarsi "consumatore" la persona che, in vista di intraprendere un'attività imprenditoriale, cioè per uno scopo professionale, acquista gli strumenti indispensabili, per l'esercizio di tale attività imprenditoriale (.)".





3. Contratti esclusi dalla disciplina de qua


La determinazione dell'ambito di operatività della legge prosegue all'art. 3, attraverso l'individuazione di alcune ipotesi in cui viene esclusa la sua applicabilità, in ragione o del valore del contratto o del suo oggetto.

Sotto il primo profilo, il decreto non è applicabile ai contratti il cui "corrispettivo globale, comprensivo degli oneri fiscali ed al netto di eventuali spese accessorie, non supera le cinquantamila lire" (art. 3, comma 2°), escludendo così le controversie economicamente poco rilevanti.

Ad evitare l'aggiramento del limite d'importo oltre il quale opera la disciplina speciale, il legislatore ha precisato poi che "si applicano comunque le disposizioni del decreto nel caso di più contratti stipulati contestualmente tra le medesime parti, qualora l'entità del corrispettivo globale, indipendentemente dall'importo dei singoli contratti, superi le cinquantamila lire" (art. 3, comma 2°), eliminando così, quando il consumatore acquista una pluralità di beni, la possibilità di frazionare il contratto in una pluralità di contratti, ciascuno con corrispettivo inferiore a quello che determina l'applicazione della normativa speciale.[39]

Anche la separazione delle spese accessorie dal corrispettivo globale ha finalità antielusiva; infatti, impedisce che la possibilità di addebitare al consumatore spese accessorie sia sfruttata per trasferire nella voce spese quote del prezzo, così restando sotto il limite delle cinquantamila lire.

Ciò spiega anche perché le spese in parola debbano "risultare specificatamente individuate nella nota d'ordine o nel catalogo o altro documento illustrativo, con indicazione della relativa causale" (art. 3, comma 2°) e con divieto di riassumerle in un'unica voce cumulativa.[40]

Sotto il profilo dell'oggetto invece, sono configurabili quattro tipologie di contratti esclusi dalla normativa, la cui delimitazione corrisponde a diversi criteri di scelta.

Una prima categoria riguarda i contratti "per la costruzione, vendita e locazione di beni immobili", nonché i contratti "relativi ad altri diritti concernenti beni immobili", quali diritti di godimento di natura reale o personale, anche se l'esclusione non opera sia per i contratti "relativi alla fornitura di merci incorporabili nell'immobile" ­­­­- come porte, finestre, impianti d'antifurto ed in genere tutto ciò che abbia con l'immobile un rapporto pertinenziale - sia per i contratti "relativi alla riparazione di beni immobili" (art. 3, comma 1° lett. a).

Per tale categoria di contratti, aventi ad oggetto beni immobili, non può certo escludersi una negoziazione fuori dei locali commerciali, ma la ragione della loro esclusione pare risiedere nella rilevanza economica dell'accordo e nelle esigenze non transitorie né voluttuarie che tale accordo tende a soddisfare, tale da evitare che il consenso del consumatore possa essere prestato a cuor leggero o determinato dall'effetto sorpresa.[41]

Altra ipotesi contemplata tra le esclusioni riguarda i contratti "relativi alla fornitura di prodotti alimentari o bevande o di altri prodotti di uso domestico corrente consegnati a scadenze frequenti e regolari" (art. 3, comma 1° lett. b). Si tratta in questi casi di prodotti necessari per l'alimentazione o di uso domestico corrente, indispensabili o anche soltanto utili per la vita familiare, per cui non occorre tutelare il consumatore di fronte ad esigenze di consumo del tutto occasionali o voluttuarie sollecitate da una pubblicità non sempre limpida.

Inoltre, uno degli elementi discriminanti di questa fattispecie è costituito dalla regolarità e frequenza delle consegne, previsione che sembra implicare l'instaurazione tra il consumatore e l'operatore commerciale di relazioni di conoscenza e di fiducia. [42]

Infine, le ultime due categorie escluse dalla disciplina speciale si riferiscono ai "contratti di assicurazione" (art. 3, comma 1° lett. c) e ai "contratti relativi a valori mobiliari" (art. 3, comma 1° lett. d), in quanto questi settori sono oggetto di un interesse particolare da parte del legislatore comunitario e nazionale, che si concretizza in una normativa speciale di settore.

In realtà, per quanto riguarda i contratti di assicurazione, non risulta che vi siano, fino a questo momento, norme specifiche per la tutela del consumatore nel caso di stipulazione di polizze a domicilio o, comunque, in una delle circostanze indicate dall'art. 1 o dall'art. 9 del decreto in esame. L'unica ipotesi in cui è previsto il diritto di recesso dell'assicurato risulta contemplata nel d.lg. 23 dicembre 1992, n. 515, attuattivo della direttiva CEE 90/619, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative riguardanti l'assicurazione diretta sulla vita.

Tale decreto sancisce infatti, sia la revocabilità della proposta di un contratto di assicurazione individuale sulla vita (art. 17), sia il diritto di recesso dell'assicurato, esercitabile entro trenta giorni dal momento in cui è informato che il contratto è concluso (art. 16), ma tale disciplina non è affatto limitata ai contratti conclusi fuori dei locali commerciali e sembra perciò ispirarsi ad una più generale esigenza di protezione del risparmiatore nelle transazioni complesse, posto che l'assicurazione sulla vita ha sempre più assunto carattere di forma di investimento e che i capitali versati non sono certo, mediamente, di entità trascurabile.[43]

Il settore dei valori mobiliari ha rappresentato invece il primo tentativo del nostro ordinamento di introdurre una disciplina di tutela del risparmiatore-consumatore contattato "porta a porta".

La norma di riferimento è costituita dall'art. 18-ter , comma 2°, l. 7 giugno 1974, n. 216, così come modificato dall'art. 12 della l. 23 marzo 1983, n. 77, il quale prevede una "sospensione di efficacia", per cinque giorni dalla sottoscrizione, per i contratti relativi a valori mobiliari "stipulati mediante vendite a domicilio", al fine di consentire all'acquirente di esercitare il "proprio recesso senza corrispettivo".

Essendo stata tale norma l'unica a prevedere a livello legislativo uno "ius poenitendi" del consumatore, prima dell'entrata in vigore del d. lg. 50/1992 non sono mancati autori che hanno prospettato un'applicazione analogica del diritto di recesso previsto dall'art. 18-ter a tutti i contratti di vendita porta a porta, stante la medesima "ratio" della tutela.

La disciplina sulla vendita a domicilio di valori mobiliari è stata poi integrata dalla l. 2 gennaio 1991, n.1, istitutiva delle SIM, e dal conseguente Regolamento Consob n. 5387 ; la normativa attuale prevede la possibilità che l'attività di sollecitazione del pubblico risparmio fuori sede possa essere attuata dalle SIM non soltanto con la vendita di valori mobiliari, ma anche con l'offerta di servizi di altre società di intermediazione mobiliare, nonché con la promozione o il collocamento di prodotti o servizi diversi dai valori mobiliari, quali polizze di assicurazione sulla vita e contro i danni, carte di credito o di pagamento, contratti di locazione finanziaria. Tuttavia, anche in questi casi non propriamente configurabili come vendita porta a porta di valori mobiliari, si ritiene che operi comunque il diritto di recesso del cliente investitore ai sensi dell'art. 18-ter citato.





CAPITOLO III


LA TUTELA DEL CONSUMATORE



1. Lo "ius poenitendi"


La tutela del consumatore viene, nella legge in commento, realizzata principalmente attraverso l'attribuzione del diritto di sciogliersi, in certi termini e a certe condizioni, dalle obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta contrattuale.

La soluzione non è nuova; nell'ordinamento giuridico italiano si era infatti già manifestata la tendenza a correggere gli squilibri delle posizioni dei contraenti, determinati dall'adozione di particolari tecniche di vendita, mediante l'attribuzione all'acquirente di uno "ius poenitendi", di un diritto, cioè, di sciogliersi dagli obblighi nascenti dal contratto mediante una dichiarazione unilaterale.

Sotto questo profilo, dunque, i precedenti della norma in esame sono riscontrabili nel già citato art. 18-ter della l. 216/1974, nonché nella "clausola di ripensamento" prevista dal Protocollo d'intesa in tema di vendite negoziate fuori dai locali commerciali, firmato a Roma nel 1989 tra le associazioni di categoria maggiormente rappresentative degli operatori commerciali nel settore delle vendite a domicilio e dei consumatori, con la funzione di costituire un "valido riferimento e stimolo per il rapido recepimento " della direttiva 85/577 CEE nell'ordinamento italiano, che all'epoca il legislatore non mostrava ancora di voler attuare.

Per quanto concerne l'art. 18-ter, esso presenta degli indubbi elementi di particolarità, consistenti nell'associazione di un diritto di recesso con la previsione della sospensione dell'efficacia del contratto, circostanza questa che ha determinato diversi orientamenti in dottrina relativamente alla esatta qualificazione giuridica del diritto in questione.

Così, se non è mancato chi ha ritenuto che lo "ius poenitendi" previsto dalla norma fosse compatibile con la qualificazione dell'istituto come recesso in senso proprio , non pochi interpreti sono stati indotti a considerare la fattispecie piuttosto come una condizione sospensiva meramente potestativa, gli effetti del contratto risultando subordinati all'evento consistente nel mancato esercizio del recesso da parte dell'investitore , ovvero come un'ipotesi di opzione in favore dell'acquirente, nella quale la dichiarazione negativa di quest'ultimo ha la funzione, diversa da quella del recesso, di evitare che l'inerzia dell'oblato determini il perfezionamento della vendita.

Di diversa natura, invece, la previsione contenuta nel Protocollo d'intesa, la quale contemplava il necessario inserimento, nelle note d'ordine, di una clausola di ripensamento statuente la facoltà del cliente di revocare l'ordine d'acquisto mediante l'invio di una lettera raccomandata entro sette giorni dalla data di sottoscrizione dell'impegno.

L'apposizione della clausola di ripensamento non era invece necessaria nel caso di conclusione di un contratto con clausola "soddisfatti o rimborsati", dovendosi in questo caso, invece, prevedere un termine minimo di almeno sette giorni dalla ricezione della merce, per l'esercizio del diritto del consumatore.

Il codice di autoregolamentazione delle imprese, corollario del Protocollo d'intesa, si è tuttavia rilevato uno strumento inidoneo ad una tutela effettiva dei consumatori, sia perché la sua efficacia è stata difficilmente applicabile oltre la sfera degli aderenti alle associazioni stipulanti, sia perché tali regolamenti non si sottraggono al dubbio che l'introduzione di forme di tutela del consumatore sia affidata agli stessi soggetti da cui il primo dovrebbe difendersi.

Rispetto a questi due precedenti, il nuovo tipo di recesso previsto a tutela dei consumatori e delineato dal legislatore del 1992 all'art. 4 del d.lg. n. 50, si avvicina invece maggiormente alla figura codicistica, per la quale il recesso rappresenta una facoltà, di natura sia legale che convenzionale e attribuita ad una parte, di determinare unilateralmente lo scioglimento del contratto già concluso, in alternativa al mutuo consenso e alle altre cause legali di risoluzione.

Tale facoltà può poi svolgere diverse funzioni, quale dare un termine a contratti di durata che ne siano privi (cosiddetto recesso determinativo), consentire alla parte di impugnare il contratto per la presenza di vizi originari o sopravvenuti (recesso come mezzo di impugnazione), consentire alla parte, di fronte ad una modificazione importante delle condizioni contrattuali, di sciogliersi dal vincolo (recesso per modificazione dei presupposti), ma, soprattutto per la disciplina che qui interessa, il recesso può anche assolvere alla funzione di consentire alla parte, che abbia concluso il contratto a seguito di un approccio aggressivo, di recedere in limine (recesso iniziale).[50]

Il diritto di recesso configurato dal decreto si atteggia quindi come un rimedio legale di ordine pubblico, sottratto alla disponibilità delle parti e disciplinato nei presupposti e nelle conseguenze dalla legge, in cui l'attribuzione, ad una delle parti, del potere di recedere "ad nutum" altera la paritetica soggezione al vincolo contrattuale in considerazione di un particolare interesse che emerge dal modo di formazione del contratto.[51]

Vi è tuttavia da rilevare come la scelta di qualificare lo "ius poenitendi" in questione come recesso non abbia mancato di sollevare tra gli interpreti talune perplessità.

Per quanto riguarda l'ipotesi in cui lo "ius poenitendi" si riferisce a contratti già conclusi, (art. 1, comma 1°), in realtà non ci sono dubbi circa la corrispondenza del "nomen juris" adottato dal legislatore alla sostanza della fattispecie, in quanto in questi casi il contratto è concluso e gli effetti reali e obbligatori da esso nascenti si sono verificati.

Il recesso opera, quindi, sugli effetti reali, cancellandoli, e sulla posizione delle parti, sciogliendole, per il futuro, dalle obbligazioni nate dal contratto e determinando, dove necessario e possibile, il nascere di nuove obbligazioni restitutorie, dirette a ricostituire l'equilibrio economico in cui le parti si trovavano prima della stipulazione.[52]

Diversa ed incongrua, invece, si presenta la situazione nel caso di applicazione del diritto di recesso all'ipotesi di proposte contrattuali, vincolanti o non vincolanti, effettuate dal consumatore e non ancora accettate dall'operatore commerciale, così come previsto dall'art. 1 comma 2°, in quanto il recesso sarebbe, per definizione, istituto diretto ad attribuire ad una parte la facoltà di determinare unilateralmente lo scioglimento di un contratto già stipulato.

In questo caso l'obbiettivo della norma è, evidentemente, quello di evitare l'elusione della disciplina mediante l'accorgimento di non concludere il contratto in una delle circostanze previste dall'art. 1 comma 1°, limitandosi invece a far sottoscrivere al consumatore una proposta di contratto, sottopostagli da un collaboratore dell'operatore commerciale non munito di rappresentanza e che quindi necessita dell'accettazione dell'imprenditore. In tal modo il contratto risulterebbe concluso, ai sensi dell'art. 1326 c.c., nel momento, e quindi nelle circostanze in cui il consumatore viene a conoscenza della successiva accettazione o, in caso di esecuzione senza preventiva risposta, ai sensi dell'art. 1327 c.c. "nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione". Si sarebbe potuto così ritenere, in questi casi, non avverata la circostanza, prevista dall'art. 1 comma 1°, secondo la quale la legge è applicabile ai contratti "stipulati" nelle condizioni enumerate dalla norma.

Se tuttavia lo scopo della norma appare comprensibile, la tecnica legislativa adottata ha dato adito ad una difficoltà interpretativa che nasce dalla attribuzione di uno specifico diritto di recesso in un'ipotesi, qual è quella della proposta non vincolante, in cui l'art. 1328 c.c. già attribuisce un diritto di revoca fino al momento della conclusione del contratto.

Risulta necessario, pertanto, coordinare i due diritti sotto il profilo sia dei termini che delle conseguenze del loro esercizio, in quanto rispetto alla disciplina generale della revoca contemplata dagli art. 1328 e 1329 c.c., il diritto di ripensamento in esame si presenta come contenente una serie di eccezioni.

Innanzitutto tale diritto può essere esercitato anche nei confronti delle proposte "vincolanti"; in secondo luogo, mentre è ipotizzabile che dal legittimo esercizio del diritto di revoca nasca l'obbligo di risarcire il danno ex art. 1328 comma 1°, nel caso di esercizio del recesso dalla proposta di cui alla legge in commento, si deve ritenere che tale possibilità non sia configurabile. Il diritto di recesso in esame è, infatti, strumento di tutela del consumatore, nei casi espressamente indicati dagli art. 1 e 9, e il suo esercizio è, quindi, per definizione, giustificato dalla ricorrenza delle condizioni previste dal legislatore in quelle norme.

Si può quindi concludere che il diritto di recesso introdotto dal decreto n. 50, anche quando riferito alle proposte contrattuali, si configura come un istituto originale, previsto in aggiunta all'ordinaria facoltà di revoca, e caratterizzato dalla funzione di tutela del consumatore che ne giustifica in ogni caso l'esercizio.[53]

Al fine poi di assicurare l'effettività e la cogenza della tutela accordata al consumatore ed evitare che attraverso l'impiego di clausole solo formalmente riconducibili alla libertà negoziale si possa pervenire ad un sostanziale svuotamento di tale tutela, il legislatore ha sancito da un lato l'irrinunciabilità del diritto di recesso (art. 10, comma 1°) e dall'altro la nullità di ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del decreto (art. 10, comma 2°).

Pertanto, un eventuale inserimento nelle condizioni generali di contratto di clausole dirette ad aggravare le modalità di esercizio del recesso o di rinunzia allo stesso, ancorché specificatamente approvate per iscritto, non impedirebbero l'esercizio del diritto stesso nei tempi e secondo le modalità previste dalla legge.

Peraltro, in virtù del principio di conservazione dei contratti, l'eventuale nullità di determinate clausole in contrasto con la legge non determina l'invalidità dell'intero accordo, ma l'automatica sostituzione delle stesse con la disciplina legale del contratto, in virtù dell'art. 1419, comma 2° c.c.[54]



2. Informazione sul diritto di recesso


Al fine di rendere possibile l'esercizio del diritto di recesso, o meglio, al fine di evitare che tale diritto possa, di fatto, essere nullificato dalla mancanza delle indicazioni necessarie per il suo pronto e puntuale esercizio, il legislatore del '92 ha previsto un obbligo di informazione a carico dell'operatore commerciale.

Tale imposizione risulta di centrale importanza in quanto, a seguito della scomparsa, nel testo definitivo del decreto, dell'obbligo della forma scritta "ad substantiam" per il contratto previsto dal progetto di direttiva del 1977, l'effettività della tutela del consumatore risulta oggi affidata proprio all'obbligo di informazione circa l'esistenza del diritto di recesso.

Nel definire gli obblighi di informazione il legislatore ha provveduto preliminarmente alla creazione di una disciplina comune per le diverse tipologie negoziali che rientrano nel campo di applicazione del decreto, contemplata nel primo comma dell'art. 5.

Siffatta informazione viene assoggettata a precisi requisiti di forma e deve presentare un contenuto minimo.

Essa, infatti, deve essere fornita per iscritto e deve comunque indicare, oltre all'esistenza del diritto di recesso di cui all'art. 4, "i termini, le modalità e le eventuali condizioni per l'esercizio di tale diritto" (art. 5, comma 1° lett. a), nonché "il soggetto nei cui riguardi va esercitato il diritto di recesso e il suo indirizzo o, se si tratti di società o altra persona giuridica, la denominazione e la sede della stessa, oltre che l'indicazione del soggetto al quale deve essere restituito il prodotto eventualmente già consegnato, se diverso" (art. 5, comma 1° lett. b).

Nei successivi commi, la norma in esame definisce il tempo ed il modo in cui l'informazione deve essere fornita a seconda del tipo di contratto e delle modalità particolari della sua stipulazione.

Così, necessariamente per l'ipotesi di cui all'art. 1, lett. c) (contratti stipulati in area pubblica mediante sottoscrizione di nota d'ordine) ed eventualmente anche per quelle previste dall'art. 1, lett. a) e b) (contratti stipulati a domicilio e durante un'escursione organizzata dall'operatore commerciale), l'informazione dovrà essere fornita nella nota d'ordine, con particolari accorgimenti di redazione che dovrebbero assicurarne la immediata percettibilità da parte del consumatore.

Più precisamente, l'informazione deve essere riportata "separatamente dalle altre clausole contrattuali e con caratteri tipografici uguali o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento" (art. 5, comma 2°).

L'importanza di questa disposizione è stata rilevata anche dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale "nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, l'informazione sul diritto di recesso, ove collocata fra le condizioni generali di contratto senza alcun elemento, anche grafico, di differenziazione dalle altre clausole contrattuali, non è idonea a garantire il corretto esercizio del recesso da parte del consumatore."[55]

Al fine di rendere edotto il consumatore del suo diritto di recedere, è inoltre previsto che gli venga consegnata "una copia della nota d'ordine, recante l'indicazione del luogo e della data di sottoscrizione" (art. 5, comma 2°).

Qualora, invece, non venga predisposta una nota d'ordine, l'informazione deve avvenire comunque contestualmente alla conclusione del contratto o della formulazione della proposta.

In questi casi deve essere consegnato al consumatore un documento separato, che rechi l'informazione con accorgimenti redazionali simili a quelli previsti per la nota d'ordine, nonché l'indicazione del luogo e della data della consegna, unitamente agli elementi necessari per identificare il contratto.

L'operatore commerciale, ove voglia premunirsi della prova scritta dell'adempimento da parte sua dell'obbligo di informazione, potrà chiedere poi al consumatore la firma per ricevuta di una copia della comunicazione.

Per quanto riguarda i contratti di cui all'art. 1, lett. d), stipulati per corrispondenza o, comunque, in base ad un catalogo che il consumatore ha avuto modo di consultare senza la presenza dell'operatore commerciale, l'informazione deve essere invece contenuta nel catalogo, con possibilità, in tal caso, di riportare nella nota d'ordine solo il riferimento al diritto di recesso ed al relativo termine, e con rinvio alle indicazioni contenute nel catalogo per gli ulteriori elementi previsti nell'informazione (art. 5, comma 4°).

In questo caso, quindi, l'obbligo di fornire al consumatore l'informazione sul diritto di recesso viene anticipata al momento della presentazione del prodotto o del servizio, ed è diretta "in incertam personant", dal momento che non viene fornita al contraente, ma a qualunque lettore del catalogo, indipendentemente dal fatto che questi si determini, poi, all'acquisto dei beni o dei servizi.

Questa anticipazione dell'obbligo di informazione è prevista dal legislatore anche per le fattispecie negoziali contemplate dall'art. 9, relative a contratti negoziati fuori dei locali commerciali sulla base di offerte effettuate al pubblico tramite il mezzo televisivo o altri mezzi audiovisivi, nonché ai contratti conclusi mediante l'uso di strumenti informatici e telematici.

Ciò che risulta peculiare di tali fattispecie è il fatto che le modalità di adempimento dell'obbligo anticipato di informazione sono quelle compatibili con le particolari esigenze dello strumento tecnologico impiegato e delle sue eventuali successive evoluzioni; modalità che, per il mezzo televisivo, sono individuate nella ripetizione dell'informazione all'inizio e nel corso della trasmissione nella quale sono contenute le offerte dell'operatore commerciale.[56]

Tuttavia, stante il fatto che l'esigenza primaria che la disciplina sull'obbligo di informazione tende a tutelare è quella della contestualità tra l'assunzione di un impegno da parte del consumatore ed il richiamo della sua attenzione sull'esistenza del diritto di porre nel nulla tale impegno mediante una semplice dichiarazione, il legislatore non ha ritenuto sufficiente il fornire un'informazione anticipata. L'operatore commerciale, infatti, è tenuto anche a fornire per iscritto l'informazione sul diritto di recesso, non oltre il momento in cui viene effettuata la consegna della merce e comunque osservando le modalità previste dal terzo comma dell'art. 5 (art. 9, comma 2°).

Qualora l'operatore commerciale abbia omesso di fornire al consumatore l'informazione sul diritto di recesso, oppure abbia fornito un'informazione incompleta o errata che non abbia consentito il corretto esercizio di tale diritto, in base al secondo comma dell'art. 6, il termine per recedere dal negozio viene portato a sessanta giorni dalla data di stipulazione del contratto per i contratti riguardanti la prestazione di servizi, ovvero dalla data di ricevimento della merce, nel caso di contratti riguardanti la fornitura di beni.

Oltre a questa sanzione civile, l'operatore commerciale risulta assoggettato anche ad una sanzione amministrativa; l'art. 11 prevede, infatti, che nelle circostanze suindicate, fatta salva l'applicazione della legge penale qualora il fatto costituisca reato, "si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire un milione a lire dieci milioni".

Ciò che risulta rilevante, sotto il profilo della tutela del consumatore, è che, a parte le due sanzioni sopracitate, la violazione degli obblighi di informazione sul diritto di recesso non trova ulteriori mezzi di tutela nella disciplina introdotta con il decreto del '92; in particolare, diversamente da quanto previsto in altri ordinamenti nazionali, il nostro legislatore non ha riconosciuto al consumatore la possibilità di far valere l'invalidità del contratto nelle ipotesi di violazione degli obblighi di informazione.

In coerenza con questa scelta, anche la giurisprudenza di merito ha ritenuto che "la mancata indicazione, nei contratti conclusi con i consumatori al di fuori di esercizi commerciali e disciplinati dal d. lg. 50/1992, del diritto di recesso, ai sensi dell'art. 10 del decreto medesimo non comporta nullità dell'intero contratto in quanto la nullità resta circoscritta alle sole pattuizioni in contrasto con la normativa di protezione del consumatore."[57]

Ora, appare evidente che la soluzione normativa avente ad oggetto l'ampliamento dei termini per l'esercizio del diritto di recesso costituisce un rimedio sostanzialmente inidoneo a garantire una protezione adeguata per i consumatori.

Tale meccanismo, infatti, nel limitarsi ad operare un mero rinvio del momento dal quale il contratto non sarà più assoggettabile al recesso del consumatore, non consente di rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla mancanza di informazione ma, anzi, finisce per vanificare la funzione che l'informazione è chiamata ad assolvere.[58]

Queste considerazione hanno indotto molti interpreti ad estendere l'analisi degli strumenti di tutela del consumatore anche alla disciplina di diritto comune contenuta nel codice civile e, di riflesso, ad interrogarsi sulla qualificazione giuridica dell'obbligo di informazione, in quanto la violazione di tale obbligo comporta conseguenze diverse a seconda che lo si configuri come obbligo contrattuale o precontrattuale.

In particolare, la maggioranza della dottrina è stata concorde nel ricondurre l'imposizione in questione al novero degli obblighi di buona fede in senso oggettivo e, in considerazione del suo inserimento nella fase di formazione dei contratti negoziati fuori dei locali commerciali, sembra collocarsi nell'ambito dello schema normativo delineato nell'art. 1337 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.

Così individuato l'obbligo di informazione, la sua violazione costituirebbe, pertanto, illecito precontrattuale.

Vi è tuttavia da rilevare come l'indirizzo costante della nostra giurisprudenza sia nel senso di escludere la possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale nel caso di conclusione di un contratto valido, restando superati gli eventuali comportamenti censurabili, tenuti durante la fase delle trattative, dal regolamento pattuito tra le parti.

Ciò nonostante, a prescindere dalle critiche che a tale opinione sono state mosse da buona parte della dottrina, secondo la quale la formulazione letterale dell'art. 1337 non consente di escludere la responsabilità precontrattuale in presenza di un contratto valido, resta il fatto che l'ipotesi in esame costituisce la previsione di un comportamento legalmente dovuto durante la fase delle trattative, e che, pertanto, ove risulti che dalla sua omissione sia derivata l'impossibilità o la difficoltà di esercizio del diritto di recesso, ne conseguirà una ipotesi di danno risarcibile, indipendentemente dal fatto che il contratto risulti validamente concluso, ed anzi proprio in conseguenza di tale validità.[59]

In alternativa a tale ricostruzione, vi è una diversa configurazione della problematica in esame, secondo cui la violazione di un obbligo precontrattuale di buona fede, in particolare di un obbligo di informazione, è idonea a determinare una vera e propria responsabilità contrattuale e ciò in quanto questo dovere viene a permeare il contenuto del contratto validamente concluso.[60]

In ogni caso, l'affermazione di una responsabilità dell'operatore commerciale, sia essa di natura contrattuale o precontrattuale, risulta subordinata all'esistenza di un danno del consumatore nelle ipotesi in cui sia definitivamente svanita la possibilità di recedere dal contratto, vale a dire nei casi in cui l'operatore commerciale abbia omesso di fornire l'informazione sul diritto di recesso, oppure abbia fornito un'informazione incompleta o errata e il consumatore non abbia trasmesso la propria dichiarazione di recesso nel maggior termine di sessanta giorni.

A tale proposito, occorre tenere presente che, nella legge in commento, il recesso è facoltà esercitabile "ad nutum", purché entro il termine previsto. Il diritto del consumatore di recedere non è infatti subordinato al verificarsi di condizioni che lo legittimino, ma può essere esercitato anche soltanto perché l'acquirente ha cambiato idea, decidendo, ad esempio, di destinare ad altri usi il denaro già impegnato nel contratto concluso a domicilio.

Si potrà, quindi, ricomprendere nel danno risarcibile, oltre che l'eventuale contenuto sfavorevole dell'accordo, anche qualunque conseguenza negativa che sia derivata al consumatore dal non essersi liberato dalle obbligazioni contrattuali, anche se non direttamente collegata con il contenuto del contratto, purché legata da rapporto di causalità con la mancata informazione sul diritto di recesso.



3. Modalità e condizioni di esercizio del diritto di recesso


Il consumatore che, debitamente informato, intenda esercitare il diritto di recesso, è tenuto ad inviare, all'operatore commerciale o al diverso soggetto indicato nell'informativa, una comunicazione entro il termine perentorio di sette giorni, variamente decorrenti a seconda delle modalità concrete di contrattazione.

Più precisamente, il termine decorrerà dalla data in cui viene fornita l'informazione sul diritto di recesso - con la nota d'ordine o con altro documento - in ogni caso per i contratti riguardanti la prestazione di servizi (art. 6, comma 1° lett. a); per i contratti di fornitura di beni, invece, tale termine iniziale varrà soltanto per i casi in cui l'operatore commerciale abbia mostrato o illustrato il prodotto al consumatore, mentre decorrerà dalla data di ricevimento della merce nei casi in cui sia mancata siffatta attività dell'operatore commerciale, o essa abbia riguardato prodotti diversi da quelli oggetto del contratto (art. 6, comma 1° lett. b).

Quest'ultima ipotesi si riferisce innanzitutto agli acquisti effettuati per corrispondenza o tramite l'utilizzo di strumenti informatici di cui all'art. 1, lett d) e all'art. 9. In questi casi, infatti, anche se il consumatore sia stato correttamente informato del proprio diritto di recesso, egli non ha avuto la possibilità di esaminare il prodotto, né ha usufruito dell'illustrazione dello stesso da parte dell'operatore commerciale.

Al legislatore è parso opportuno, quindi, in questo caso, far decorrere il termine per l'esercizio dello "ius poenitendi" dal momento del ricevimento del prodotto, onde porre il consumatore al riparo da qualunque difformità tra la merce consegnata e l'informazione in base alla quale egli si è determinato all'acquisto.

Ovviamente però, l'esigenza di tutelare il consumatore rispetto alla possibilità che ciò che egli riceve sia differente da ciò che gli è stato mostrato o decantato per indurlo a concludere il contratto, sussiste in tutte le fattispecie previste dall'art. 1, solo che la consegna del prodotto avvenga in un momento successivo a quello dell'ordine.

Tutte le volte, quindi, che il prodotto ricevuto dal consumatore risulti difforme rispetto a quello in base al quale egli è stato indotto all'acquisto, o rispetto alle caratteristiche attribuite dal catalogo o documento illustrativo o nella presentazione fattane dall'operatore commerciale, il termine per il recesso comincerà a decorrere dal momento della consegna.

Se è vero, però, che decorsi i sette giorni dal ricevimento della merce il consumatore non ha più diritto al recesso anche se la merce ricevuta era difforme da quella concordata, è altrettanto vero che egli potrà comunque avvalersi degli altri rimedi consentiti dalle norme generali sull'adempimento delle obbligazioni contrattuali ed in particolare dalla norma secondo la quale l'oggetto della prestazione deve essere esattamente quello concordato dalle parti (art. 1218 c.c.).[62]

La comunicazione con cui il consumatore dichiara di voler esercitare il diritto di recesso va poi eseguita rispettando talune formalità, quali la sottoscrizione del medesimo soggetto che ha stipulato il contratto o che ha formulato la proposta contrattuale e l'invio mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. La comunicazione può inoltre essere preventivamente effettuata tramite telegramma, fax o telex, purché seguita, entro 48 ore, da conferma mediante raccomandata con ricevuta di ritorno (art. 6, comma 3°).

In realtà, mentre il riferimento alla sottoscrizione della dichiarazione di recesso sembra comportare la necessità della forma scritta di tale dichiarazione, pena la sua inefficacia ai fini del recesso, il riferimento alla lettera raccomandata assolve unicamente la funzione di elemento formale di prova dell'invio della comunicazione, essendo strumento ritenuto idoneo a dare un determinato livello di certezza della data di spedizione. Ove, però, tale livello di certezza possa essere raggiunto con altri mezzi, non v'è motivo per escludere che il consumatore possa fare ricorso a questi ultimi per provare il momento in cui si è verificato l'esercizio del recesso.[63]

Conclusione confermata anche dalla giurisprudenza di merito, per la quale "in merito all'assenza della raccomandata, il cui invio è richiesto per un valido esercizio del diritto di recesso dall'art. 6, comma 3° del d.lg. n. 50 del 1992, occorre osservare che il legislatore, pur indicando palesemente una predilezione per uno strumento che è in grado di fornire la maggior certezza possibile, non abbia inteso prescrivere una formalità precisa ed inderogabile di comunicazione a pena di inefficacia del recesso, ma abbia voluto indicare dei contenuti minimi, in termini di certezza ed idoneità della comunicazione, la cui ricorrenza vale a far ritenere valida la disdetta anche ove effettuata in altre forme ugualmente sicure."[64]

Vi è inoltre da rilevare che le disposizioni imperative riguardanti l'esercizio del diritto di recesso sono attenuate dalla facoltà accordata alle parti di poter "convenire garanzie più ampie nei confronti del consumatore" (art. 6, comma 1° lett. b).

Uno spazio residuo all'autonomia dei privati viene lasciato anche dal quarto comma dell'art. 6, secondo il quale le parti possono convenire che, in luogo della comunicazione, possa essere sufficiente la diretta restituzione della merce, da effettuarsi sempre nel termine di sette giorni dal ricevimento della merce stessa.

Per ciò che attiene invece, alle condizioni per l'esercizio del diritto di recesso, il decreto ha previsto ipotesi diverse a seconda che il contratto riguardi la vendita di beni o la prestazione di servizi.

Se è stato stipulato un contratto di vendita di beni ed essi sono stati consegnati, condizione essenziale per l'esercizio del diritto di recesso è la "sostanziale integrità della merce da restituire ai sensi dell'art. 8" (art. 7, comma 1°), a patto, però, che l'operatore commerciale abbia adempiuto correttamente all'obbligo di informazione.

Nel caso, invece, in cui l'informazione sul diritto di recesso sia stata omessa o fornita in maniera incompleta o errata, "è sufficiente che la merce sia restituita in normale stato di conservazione, in quanto sia stata custodita ed eventualmente adoperata con l'uso della normale diligenza" (art. 7, comma 1°).

Le due previsioni sembrano contemplare la possibilità che il consumatore, entrato in possesso della merce, compia sulla stessa talune operazioni che giungono, in entrami in casi, sino alla possibilità di utilizzo della merce stessa.

E' evidente, tuttavia, che esiste una gradualità tra le due situazioni ipotizzate dalla norma.

Nel primo caso, infatti, il consumatore è stato reso edotto della propria facoltà di recesso; egli può liberarsi del contratto anche in seguito al semplice ripensamento, senza che sussistano motivi oggettivi connessi con la natura, le caratteristiche, o gli eventuali vizi del bene oggetto del contratto; la norma, quindi, gli addossa l'onere di un comportamento di conservare integra la merce da restituire.

L'integrità richiesta non è, però, "perfetta", ma solo "sostanziale", sicché al consumatore va certamente riconosciuto il diritto di ispezionare la merce e anche quello di provarla per testarne l'idoneità all'uso e l'assenza di vizi.

Ciò comporterà la possibilità di aprire le confezioni, di infrangere sigilli o involucri protettivi, di modificare la condizione in cui la merce viene presentata, ed infine di utilizzare la merce secondo la destinazione sua propria, ai fini di esame e di prova.

Tuttavia, per prevenire possibili frodi da parte del consumatore, dovrà farsi riferimento ad un concetto rigoroso di prova, particolarmente nel caso di beni strumentali, per i quali l'utilizzo potrebbe essersi spinto sino al completo godimento delle utilità che il bene è idoneo a produrre.

Il tenore letterale della norma, che collega la possibilità di esercizio del recesso esclusivamente alla sostanziale integrità della merce da restituire, sembra, tuttavia, escludere la possibilità di far discendere da un utilizzo, che abbia superato i limiti della prova, una decadenza dal diritto di ripensamento, ove la merce si presenti, oggettivamente, nelle condizioni richieste.

Si potrà, quindi, in questo caso, ipotizzare un obbligo del consumatore di pagare un corrispettivo per l'utilizzo della merce, in quanto l'appropriazione delle utilità ricavabili dal bene da luogo ad un arricchimento senza causa, che comporta, ai sensi dell'art. 2041 c.c., l'obbligo di indennizzare l'operatore commerciale nei limiti di tale arricchimento.

Resta da determinare il significato da attribuire alla sostanziale integrità, ove oggetto del contratto siano beni consumabili.

In questo caso, infatti, la facoltà di verifica riconosciuta all'acquirente comporta, evidentemente, una parziale consumazione della merce, sicché la valutazione dell'integrità andrà fatta attraverso un giudizio di relazione tra la parte consumata e quella residua, volto a determinare se quest'ultima, in considerazione della sua quantità, dello stato in cui viene a trovarsi dopo la prova e della connessione tra i diversi beni che evidentemente costituiscono l'oggetto del contratto, possa essere considerata ancora sostanzialmente integra.

Ove tale giudizio risulti negativo, sarà possibile per il consumatore fare comunque ricorso al recesso parziale dal contratto, procedendo al pagamento di una parte del corrispettivo proporzionale alla parte della merce non restituita. [66]

Ben diversa, invece, la situazione nel caso in cui l'operatore commerciale abbia fornito al consumatore una informazione incompleta o errata.

In questa ipotesi, infatti, la norma non richiede più la "integrità" della merce, ma si accontenta del fatto che il bene da restituire si presenti in normale stato di conservazione, prevedendo esplicitamente la facoltà di pieno utilizzo da parte del consumatore, seppure con l'osservanza della normale diligenza. E' quindi sufficiente che il bene permanga idoneo all'uso cui è destinato.

La maggior tutela del consumatore rispetto all'ipotesi precedente, sembra rispondere a due ordini di esigenze.

La prima di natura pratica: il consumatore ha effettuato l'acquisto e, non essendo stato informato sulle possibilità di recesso, è perfettamente legittimo che, nell'arco dei sessanta giorni dalla consegna, abbia utilizzato il bene comprato.

La seconda di natura giuridica: il legislatore ha inteso reagire alla violazione del dovere di correttezza, posta in essere dall'operatore commerciale allorché ha omesso di fornire la dovuta informazione sul diritto di recesso.

Sotto questo profilo, la possibilità d'uso del bene da parte del consumatore sembra assumere connotati sanzionatori, che si concretano nell'assunzione del rischio da parte dell'operatore commerciale che la merce compravenduta - seppure utilizzata con la ordinaria diligenza - venga restituita non più integra, bensì in normale stato di conservazione.[67]

Per i contratti riguardanti le prestazioni di servizi, invece, "il diritto di recesso non può essere esercitato nei confronti delle prestazioni che siano state già eseguite" (art. 7, comma 2°).

Si tratta, in sostanza, dello stesso principio che consente di escludere il recesso nel caso di fornitura di beni consumabili integralmente utilizzati dal consumatore.

Il servizio, consistendo esclusivamente o prevalentemente nel risultato di un'attività del fornitore non produttiva di beni, sfugge, per sua natura, alla possibilità di restituzione, sicché, per la parte già eseguita, esso dovrà essere pagato dall'acquirente.



4. Effetti dell'esercizio del diritto di recesso


Nel disciplinare gli effetti dell'esercizio del diritto di recesso, il legislatore sembra avere avuto come prioritaria finalità il riportare i contraenti nella situazione patrimoniale precedente la stipula del contratto; sia il consumatore che l'operatore commerciale sono, infatti, sciolti dalle obbligazioni che non hanno ancora eseguito e devono invece restituire le prestazioni che hanno già ricevuto.

Nonostante l'apparente semplicità del meccanismo previsto, si pongono tuttavia problemi di varia natura, sia di ordine esegetico che di ordine applicativo.

A ben vedere, infatti, la norma che contempla gli effetti del recesso (art. 8), appare come una sommaria e infelice sintesi del contenuto dell'art. 5 e dell'art. 7 della direttiva, i quali prevedono, rispettivamente, che con l'invio della comunicazione il consumatore sia liberato da ogni obbligazione derivante dal contratto rescisso, e che la legislazione nazionale debba disciplinare gli effetti del recesso, particolarmente per quanto riguarda il rimborso dei pagamenti e la restituzione delle merci.

Il nostro legislatore, nel recepire la direttiva, ha tuttavia stabilito che gli effetti del recesso si producono non già dall'invio della comunicazione, ma "con la ricezione della stessa da parte dell'operatore commerciale" (art. 8, comma 1°).

Tale previsione risulta sia di dubbia legittimità che inopportuna, dal momento che determina problemi interpretativi con l'introduzione di un termine - la "ricezione" - estraneo tanto alla direttiva quanto al sistema del diritto italiano.

I dubbi circa la legittimità dello spostamento dell'efficacia del recesso dal momento dell'invio a quello della ricezione della comunicazione nascono dal fatto che la previsione della legge di attuazione risulta, così, più sfavorevole al consumatore.

Con la norma in questione, infatti, si ritarda il momento in cui il consumatore si libera del rischio di perimento della merce, ed in più si aggrava l'onere probatorio a carico del consumatore che intenda far valere il recesso per ottenere la restituzione del denaro pagato, costringendolo a dimostrare sia la tempestività della spedizione, sia l'avvenuta ricezione della dichiarazione da parte dell'operatore commerciale.

La norma risulta, quindi, in contrasto con l'art. 8 della direttiva, che, prevedendo la possibilità per gli Stati membri di discostarsi dalle previsioni della direttiva solo con disposizioni più favorevoli ai consumatori, sancisce, implicitamente, la illegittimità di disposizioni che realizzano l'effetto contrario.[68]

Ma ciò che determina le maggiori perplessità interpretative è il fatto che, nel discostarsi dalla disposizione delle direttiva, il legislatore ha fatto riferimento alla "ricezione", che è cosa diversa dalla "conoscenza", richiesta, in via generale, per l'efficacia degli atti unilaterali dagli art. 1334 e 1335 c.c.

Volendo valorizzare il dato letterale, si potrebbe ritenere che la "ricezione", quale fatto idoneo a produrre gli effetti conseguenti al recesso, postula il mero ricevimento della comunicazione di recesso all'indirizzo dell'operatore commerciale e prescinde quindi dalla "conoscenza" che questi ne abbia. Di conseguenza, all'operatore commerciale sarebbe preclusa la facoltà, prevista dall'art. 1335 c.c., di provare la propria incolpevole impossibilità di avere notizia della comunicazione, nonostante la sua avvenuta ricezione.

E' stato introdotto, così, nell'ordinamento interno un elemento di disarmonia sistematica, non giustificato nemmeno dall'esigenza di adeguarsi alla normativa comunitaria, che appare, in questo caso, sostanzialmente disattesa.[69]

Altro profilo problematico discende dalla scelta del legislatore italiano di regolare gli effetti del recesso esclusivamente in termini obbligatori, senza darsi carico dei profili sostanziali della vicenda.

Recita, infatti, il primo comma dell'art. 8 che, a seguito del recesso, "le parti sono sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta contrattuale".

Ora, nell'ipotesi di contratto ad effetti obbligatori che non abbia ancora avuto un principio di esecuzione, non sembrano porsi particolari problemi, nel senso che il consumatore avrà il solo onere di comunicare il recesso, mentre nessun obbligo o onere graverà a carico dell'operatore commerciale; entrambe le parti saranno in ogni caso liberate dalle rispettive obbligazioni.

Diversa la situazione, invece, nel caso in cui l'esecuzione sia già intervenuta, soprattutto qualora si tratti di contratti consensuali ad effetti reali come la compravendita di beni mobili. In queste ipotesi, infatti, se risulta chiara la previsione del sorgere, a carico del consumatore, di un onere di restituzione della merce già consegnatagli (art. 8, comma 2°), non risulta, invece, del tutto chiaro in quale momento si verifichi l'effetto sostanziale della retrocessione della proprietà dei beni venduti ed eventualmente consegnati, ciò che ha rilevanza essenziale al fine di determinare il momento del passaggio del rischio per la perdita o la distruzione accidentale.

Nel silenzio della norma, la soluzione più logica sembra quella di ritenere che il momento della ricezione della dichiarazione di recesso da parte dell'operatore commerciale, segnando il momento dello scioglimento delle parti dalle rispettive obbligazioni, segni anche il momento in cui la proprietà della merce si ritrasferisce in capo all'operatore commerciale; ne consegue che dopo tale occasione il consumatore risponderà della conservazione dei beni in quanto custode: egli sarà, quindi, esente da ogni responsabilità in caso di deterioramento o di perdita per fatto a lui non imputabile, o dovrà rispondere, invece, ma solo nei limiti del danno concreto, ove il fatto risulti a lui riferibile.

In ogni caso, esercitato il diritto di recesso, il consumatore, ai sensi del secondo comma dell'art. 8, è tenuto a restituire la merce già ricevuta all'operatore commerciale, o al diverso soggetto da questi designato, nel termine di "sette giorni dalla data del suo ricevimento ovvero entro il maggior termine convenuto dalle parti".

Occorre rilevare, d'altra parte, che la restituzione della merce può avvenire entro sette giorni solo se il consumatore è stato adeguatamente informato sul diritto di recesso.

La norma non chiarisce, invece, da quale momento decorre l'obbligo di restituzione nel caso in cui il consumatore dispone del più lungo termine di sessanta giorni. Tale obbligo non potrà evidentemente essere adempiuto anco prima di conoscere la possibilità di sciogliersi dal contratto.

L'interpretazione più plausibile è che il termine di sette giorni per l'invio della merce decorre dall'esercizio del recesso; il consumatore, ad esempio, potrebbe comunicare la sua intenzione di recedere allo scadere del sessantesimo giorno, e restituire i beni ricevuti entro la settimana successiva.[71]

Resta da rilevare che nessuna conseguenza particolare viene dalla legge collegata all'inadempimento del consumatore.

Nel silenzio della legge, non sembra, però, si possa dubitare che quest'ultimo debba rispondere del danno eventualmente subito dall'operatore commerciale, derivante dall'inadempimento o dal ritardo nell'adempimento, secondo le disposizioni generali in materia di obbligazioni.

Inoltre, può ritenersi che la scadenza del termine sia sufficiente a costituire in mora il consumatore ai sensi dell'art. 1219 c.c., secondo cui la costituzione in mora non è necessaria "quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore"; di conseguenza, sarà a carico del consumatore il rischio per l'impossibilità sopravvenuta della riconsegna della merce derivante da causa a lui non imputabile (art. 1221 c.c.).[72]

In correlazione con l'obbligo del consumatore di restituire la merce, la legge prevede, al terzo comma dell'art. 8, l'obbligo dell'operatore commerciale di restituire le somme eventualmente

ricevute dal primo, ivi comprese le somme imputate a caparra, con la sola esclusione delle spese accessorie, "a condizione che tale esclusione sia stata espressamente prevista nella nota d'ordine, nel catalogo o altro documento illustrativo".

Il rimborso deve essere effettuato entro trenta giorni "dal ricevimento della comunicazione di cui all'art. 6" ovvero dal "ricevimento della merce restituita" e "le somme si intendono rimborsate nei termini qualora vengano effettivamente spedite o riaccreditate con valuta non posteriore alla scadenza del termine precedentemente indicato".

Tale disposizione sembra formulata in modo piuttosto difettoso.

Si può anzitutto osservare che l'espressione "valuta", indicando, secondo l'usuale terminologia bancaria, il momento di decorrenza degli interessi, sembra correttamente riferibile alla solo ipotesi del "riaccredito", ossi alle operazioni di bonifico bancario.

Con riguardo invece alla "restituzione" o alla "spedizione", il riferimento alla valuta sembra improprio.

In ogni caso, anche a prescindere da ciò, la norma non sembra possa essere intesa letteralmente, nel senso che l'operatore commerciale non sia vincolato al rispetto di alcun termine e che l'unica condizione richiesta perché lo stesso non sia considerato inadempiente è che restituisca le somme "con valuta" non posteriore alla scadenza del termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso.

Tale conclusione sarebbe infatti, chiaramente in contrasto con quanto stabilito all'inizio del medesimo terzo comma, laddove si afferma che l'operatore commerciale deve rimborsare le somme ricevute "entro trenta giorni".

Pertanto, l'obbligo di restituzione delle somme "con valuta" dal giorno della scadenza del termine, si riferisce evidentemente all'ipotesi di cui il termine in questione non venga rispettato. In tal caso, l'obbligo di restituire le somme "con valuta" del giorno della scadenza del termine, implica che, a decorrere da tale data, l'operatore commerciale è tenuto a corrispondere interessi sul capitale.[73]



Vi è infine da rilevare come la norma in esame, imponendo all'operatore commerciale l'obbligo di restituzione di tutte le somme eventualmente ricevute dal consumatore, sembra mal coordinato con l'art. 7, comma 2°, a norma del quale "per i contratti riguardanti la prestazione di servizi, il diritto di recesso non può essere esercitato nei confronti delle prestazioni che siano state già eseguite".

Nell'ipotesi di contratto avente ad oggetto prestazioni di servizi, il recesso avrà quindi effetti solo per l'avvenire e le prestazioni effettuate dall'operatore commerciale dovranno essergli retribuite.

Conseguentemente, l'obbligo di restituzione, in deroga al principio stabilito dall'art. 8, sarà limitato alle somme versate dal consumatore, detratto il corrispettivo per le prestazioni effettuate.



5. Altri strumenti di tutela


La tutela del consumatore viene, nella legge in commento, realizzata principalmente attraverso l'attribuzione del diritto di sciogliersi, in certi termini e a certe condizioni, dalle obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta contrattuale.

Il diritto di recesso non rappresenta, tuttavia, l'unico strumento predisposto dal legislatore del 1992 per tutelare il consumatore nelle ipotesi di vendite al di fuori dei locali commerciali.

Così, ad esempio, un tentativo di rafforzamento di tale tutela può essere individuato nel quinto comma dell'art. 5, secondo cui "l'operatore commerciale non potrà accettare a titolo di corrispettivo effetti cambiari che abbiano una scadenza inferiore a 15 giorni dalla stipulazione del contratto e non potrà presentali allo sconto prima di tale termine".

Il precedente della norma in esame è da ricercare nel testo della proposta di direttiva del 1977, ove, all'art. 9, si prevedeva che, salvo il caso in cui fosse previsto dalle leggi nazionali il pagamento di una cauzione, il commerciante non poteva pretendere dal consumatore, prima della scadenza del termine per l'esercizio del diritto di recesso, né il pagamento, totale o parziale, del prezzo né il rilascio di cambiali, assegni o altri effetti.

Di tale previsione, scomparsa nel testo definitivo della direttiva, riaffiora, nel testo della legge di attuazione, la previsione di cui all'art. 5, comma 5°, che però appare, così com'è formulata, priva di qualsivoglia razionalità sistematica, nonché scarsamente funzionale alla tutela del consumatore.

Avulsa da un contesto che prevedeva il divieto, per l'operatore commerciale, di pretendere qualsiasi pagamento da parte del consumatore prima dello spirare del termine per l'esercizio del recesso, la norma non appare idonea a garantire un termine per il pagamento congruente con il termine per il ripensamento, quanto meno sotto il profilo della tutela reale del consumatore.

L'operatore commerciale, infatti, potrebbe legittimamente ottenere il pagamento per contanti al momento dell'ordine o della consegna della merce, riducendo la tutela del consumatore in caso di recesso ad un mero rapporto obbligatorio, avente ad oggetto la restituzione di quanto pagato.

Non si comprende, quindi, la particolare tutela, rappresentata dall'imposizione di un termine di scadenza quindicinale, nel caso di emissione di effetti cambiari, quando il pagamento per contanti può essere contestuale alla formulazione della proposta ed addirittura anticipato rispetto alla conclusione del contratto.

Va considerato, inoltre, che, in ipotesi, il termine per il recesso potrebbe, per esplicita previsione contrattuale, essere superiore ai quindici giorni, sicché si potrebbero ben avere effetti cambiari legittimamente emessi nel rispetto del termine di scadenza previsto dalla norma in esame, e scaduti in pendenza del termine per il recesso.

Né, una volta che si ammetta la emissione di cambiali e la loro consegna al venditore prima dello scadere del termine per il recesso, la previsione del termine quindicinale di scadenza, associata al divieto di presentazione allo sconto entro lo stesso termine è, comunque, idonea ad impedire che il consumatore abbia a subire gli effetti dei successivi trasferimenti del titolo.

Infatti, l'esercizio del diritto di recesso attiene alla disciplina del rapporto sottostante all'emissione del titolo, e pertanto il suo eventuale esercizio darebbe luogo esclusivamente ad una eccezione di carattere personale.

Il consumatore potrebbe, quindi, bloccare la richiesta di pagamento del titolo che gli venisse direttamente dall'operatore commerciale, ma non potrebbe certamente eccepire la circostanza al giratario, terzo rispetto alla vicenda che dette luogo all'emissione del titolo.

D'altro canto, il divieto di presentazione dei titoli allo sconto prima di quindici giorni dalla conclusione del contratto non può far ritenere che esso ricomprenda il divieto di qualsiasi negoziazione o altra utilizzazione del titolo.

Risulta, quindi, impedita, per quindici giorni, la stipulazione di contratti di sconto, mentre non risultano limitate le possibilità di altra cessione dei titoli pro solvendo o pro soluto, a terzi.

La norma appare, quindi, inutilmente punitiva nei confronti dell'operatore commerciale, senza essere, di fatto, utile a garantire la posizione del consumatore.[74]

Tale disposizione va inoltre coordinata con quanto statuito nel terzo comma dell'art. 8, secondo cui "nell'ipotesi in cui il pagamento sia stato effettuato per mezzo di effetti cambiari, qualora questi non siano stati ancora presentati all'incasso, deve procedersi alla loro restituzione."

Anche in questo caso, il riferimento all'ipotesi di impiego di titoli di credito avviene in maniera parziale ed imprecisa, determinando alcuni problemi interpretativi.

Innanzitutto, la norma limita testualmente l'obbligo di restituzione degli effetti al solo caso in cui gli stessi non siano ancora stati presentati all'incasso.

La previsione, però, dovrebbe essere estesa anche all'ipotesi in cui i titoli, ancorché già presentati all'incasso dell'operatore commerciale, non siano, però, stati pagati, e ciò indipendentemente dal fatto che sia intervenuto il protesto.

La restituzione dei titoli mira, infatti, evidentemente, alla liberazione del consumatore dall'obbligazione cartolare, e pertanto la ratio sussiste fino a quando tale obbligazione è in essere.

In secondo luogo, deve osservarsi che la norma non distingue tra l'ipotesi in cui il titolo sia ancora nel possesso dell'operatore commerciale e l'ipotesi in cui, invece, esso sia già stato trasferito a terzi.

Come sopra rilevato, infatti, il precetto contenuto nell'ultimo comma dell'art. 5, limitandosi a vietare la presentazione degli effetti cambiari allo sconto prima di quindici giorni, non esclude che il titolo possa essere stato legittimamente girato o ceduto por solvendo o pro soluto; inoltre il gioco dei termini rende possibile anche che il titolo, al momento in cui viene esercitato il recesso, sia stato legittimamente presentato allo sconto.

Anche in questo caso, però, la norma in esame impone la restituzione dei titoli, e non il rimborso del loro controvalore. Deve, quindi, ritenersi che sull'operatore commerciale che abbia, pur legittimamente, utilizzato gli effetti cambiari rilasciati dal consumatore, incomba l'onere, assai più gravoso del semplice rimborso delle somme pagate, di rintracciare i titoli e provvedere al loro riacquisto, onde assolvere all'obbligo di restituzione.[75]

Accanto ai rimedi di natura civile a tutela del consumatore, il decreto n. 50 prevede, all'art. 11, la irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie a carico dell'operatore commerciale che non abbia ottemperato, nello svolgimento della sua attività, agli obblighi posti a suo carico dalla legge.

Tali sanzioni amministrative, applicate ai sensi della l. 24 novembre, 1981, n. 689, consistono nel pagamento di una somma di denaro compresa tra uno e dieci milioni, limite minimo e massimo che vengono raddoppiati in caso di particolare gravità e recidiva.

Le fattispecie sanzionate possono essere ricondotte a tre ipotesi fondamentali di illecito, e precisamente: la violazione dell'obbligo di informazione previsto dall'art. 5; le operazione di incasso o di sconto di effetti cambiari prima che sia trascorso il relativo termine; la mancata restituzione dei corrispettivi pagati dal consumatore, in violazione dell'art. 8.

Infine, a chiusura del sistema di tutela del consumatore, il legislatore ha stabilito che "per le controversie civili inerenti all'applicazione del decreto la competenza territoriale inderogabile è del giudice del luogo di residenza o domicilio del consumatore, se ubicati nel territorio dello Stato" (art. 12).

La "ratio" della disposizione sta evidentemente nell'esigenza di proteggere o favorire l'acquirente in quanto contraente reputato economicamente più debole e giuridicamente meno esperto.

La protezione è poi rafforzata dal fatto che l'art. 12 è inderogabile ed esclude perciò la possibilità per l'operatore commerciale di indicare nelle condizioni generali di contratto i fori speciali facoltativi di cui all'art. 20 c.p.c., e cioè il luogo in cui è sorta l'obbligazione dedotta in giudizio e quella in cui l'obbligazione deve essere eseguita.[76]

Vi è tuttavia da rilevare come la giurisprudenza abbia variamente interpretato l'inderogabilità della competenza territoriale. Se in un primo momento, infatti, si è ritenuto che la previsione di cui all'art. 12 fosse applicabile non solo alle controversie afferenti lo "ius poenitendi", ma a tutti i tipi di controversie relative ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali[77], l'ultimo indirizzo giurisprudenziale è invece nel senso di ritenere che la competenza territoriale inderogabile è applicabile solo alle controversie riguardanti il diritto di informazione o di recesso.


CAPITOLO IV


LE VENDITE A DISTANZA



1. Tecniche di comunicazione a distanza


L'evoluzione tecnologica che negli ultimi decenni ha investito il settore della distribuzione, ha indotto molte imprese ad usufruire delle innovative forme di comunicazione a distanza, sia nella fase della negoziazione che in quella della conclusione dei contratti.

I primi canali di commercializzazione a distanza ad essere utilizzati dalle imprese per fini commerciali sono stati il telefono e la posta; a questi si sono aggiunti, più o meno recentemente, nuovi strumenti, quali televisione, fax, teletext, e, soprattutto, posta elettronica ed Internet.

In particolare si può rilevare come la tradizionale diffidenza con la quale è stata accolta nel nostro Paese la distribuzione per corrispondenza, unitamente al diffondersi delle tecnologie telematiche, abbia determinato un ridimensionamento dell'importanza delle vendite postali, a favore di nuovi mezzi di comunicazione a distanza, quali televisione, telefono e computer.

Il merito del successo di queste tipologie di vendita va attribuito all'istantaneo coinvolgimento del consumatore che con essa si riesce a realizzare e all'annullamento della distanza spazio - temporale che, invece, tradizionalmente, nelle vendite per corrispondenza, separa il consumatore dall' impresa.

L'utilizzo del mezzo televisivo per scopi commerciali ha, per esempio, permesso alle imprese di godere di un insieme di vantaggi competitivi; esse hanno potuto economizzare gli spazi ed i costi del personale, non essendo più necessario adibire specifici spazi alla vendita; l'impiego di sistemi di logistica computerizzati ha generato una notevole riduzione dei costi di deposito e gestione delle merci; i pagamenti cartacei sono stati sostituiti dal credito e dalla moneta elettronica riducendo, così, l'utilizzo del contante; la possibilità di trasmettere le televendite anche di notte e nei giorni festivi, ha consentito di superare i limiti imposti dal rispetto degli standard orari.

Il vero punto di forza della distribuzione televisiva è, però, da ravvisare nella capacità, che le è propria, di ingenerare nel consumatore il convincimento di poter godere di una illimitata accessibilità nei confronti di un enorme mercato di beni e servizi, nonché nelle sue caratteristiche di istantaneità che consentono il raggiungimento simultaneo di più consumatori e la conclusione delle operazioni contrattuali in tempo reale ( questo ha rappresentato il principale limite allo sviluppo delle vendite postali, laddove i consumatori vengono raggiunti singolarmente ed i suoi effetti vengono percepiti solo dopo un certo periodo di tempo ). [79]

A ciascuno di questi vantaggi corrispondono, peraltro, un insieme di limiti capaci di rallentare l'evoluzione di questo tipo di vendita e di creare dannosi squilibri tra le varie componenti interne al settore.

Il principale problema è da ricondurre alla difficoltà che i consumatori incontrano nel valutare adeguatamente la convenienza delle offerte e la conformità dei beni o dei servizi forniti rispetto a quelle che erano le previsioni negoziali.

Ciò deriva dal fatto che generalmente le informazioni sulle condizioni contrattuali, offerte durante la televendita, data la necessità di rispettare i sempre ridotti tempi televisivi, risultano imprecise ed insufficienti, e non essendo immediatamente tradotte in supporto cartaceo, non ne è consentita la conservazione.

Un ulteriore inconveniente è rappresentato dall' impossibilità, da parte del consumatore, di visionare materialmente la merce prima della conclusione del contratto, cosa che porta spesso all'acquisto di prodotti che poi si rivelano insoddisfacenti o addirittura inutili.

Come in passato era già avvenuto per le vendite per corrispondenza, anche il successo delle vendite televisive è comunque probabilmente destinato a cedere il passo a quello che viene considerato, secondo una comune opinione, il sistema di distribuzione del futuro.

Il nuovo modo di fare acquisti prende il nome di " e- commerce ", ed ha come effetto quello di abbattere tutte le barriere spazio-temporali con una velocità di penetrazione di gran lunga superiore a quella degli altri sistemi di comunicazione.

Un'usuale distinzione, nell'ambito del commercio elettronico, è quello tra "diretto" e "indiretto".

Il commercio elettronico diretto si svolge interamente "on line", ha ad oggetto beni immateriali che possono viaggiare attraverso le reti telematiche e, quindi, essere distribuiti senza necessità di ricorrere alle forme tradizionali di trasporto. Si pensi, ad esempio, all'acquisto di un software che può essere "scaricato" dall'acquirente sul proprio computer.

L'immaterialità è quindi elemento caratterizzante questo tipo di commercio elettronico e se l'oggetto del contratto è immateriale, nulla impedisce che l'operazione di acquisto possa svolgersi interamente in forma dematerializzata.

Il commercio elettronico indiretto, invece, non può sfruttare appieno le potenzialità di trasmissione delle reti telematiche, perché esso ha ad oggetto beni materiali e, quindi, incompatibili con la circolazione digitale della rete Internet.

In sostanza, questo tipo di commercio consente di combinare elementi "on line", come l'ordine del bene, ed elementi "off line", come la consegna del bene stesso.[80]

In ogni caso, a prescindere dalla forma in cui venga attuato, il commercio elettronico rappresenta il luogo ideale di incontro tra domanda ed offerta di un numero smisurato di prodotti e servizi a prezzi decisamente più bassi rispetto a quelli del tipico commercio al dettaglio.

Tuttavia, anche il commercio elettronico, analogamente agli altri tipi di vendite a distanza, presenta aspetti non propriamente positivi.

Il primo particolare evidente è che scompare l'interazione cliente-venditore, sostituita da una vetrina "virtuale" davanti alla quale scompare anche la possibilità di trattare alcuni aspetti della vendita, coma la "limatura" del prezzo di vendita o la reciproca concessione di facilitazioni. Chi decide di acquistare in rete ha un potere contrattuale decisamente ristretto, spesso consistente solo nella scelta del modo di spedizione del bene o del pagamento.[81]

Da qui l'opportunità di un quadro normativo di protezione del consumatore, che risulti efficace, ordinato e soprattutto compatibile con l'equilibrato sviluppo del settore in questione.



2. Il quadro normativo


Si è già messo in evidenza come il legislatore italiano, attraverso il d.lg. 15 gennaio 1992, n. 50, abbia sensibilmente ampliato il circuito di operatività della disciplina inerente le negoziazioni effettuate fuori dai locali d'impresa, estendendola anche alle negoziazioni realizzate tramite il mezzo televisivo o mediante l'uso di strumenti informatici o telematici (art. 9), anticipando la allora inesistente normativa europea.

L'insoddisfazione emerge, però, se si valuta l'attitudine di questa disciplina a fornire una opportuna tutela del consumatore che risulti anche coordinata con un'equilibrata evoluzione del mercato nel settore in questione.

Ed è qui che si rileva l'incapacità del nostro legislatore di cogliere le opportunità offerte dalla direttiva comunitaria 577/85, dovuta soprattutto alla sottovalutazione di quegli elementi che caratterizzano la contrattazione tramite mezzi di comunicazione a distanza, distinguendola dalle altre forme di negoziazione regolate dallo stesso decreto.

Solo dopo pochi mesi dall'emanazione del decreto n. 50, il 7 aprile 1992, è stata approvata dalla Commissione della Comunità Europea una raccomandazione con la quale le organizzazioni professionali dei fornitori sono state invitate a dotarsi e a far rispettare specifici codici di condotta finalizzati alla protezione dei consumatori in materia di contratti conclusi a distanza, nonché a rispettare la volontà del consumatore che non voglia ricevere sollecitazioni.

Nella stessa raccomandazione sono stati inseriti principi generali riguardanti le modalità con cui attuare la sollecitazione, nel rispetto della dignità umana e delle convinzioni religiose o politiche, come pure regole inerenti le modalità di vendita, le tecniche di rimborso e di risoluzione del contratto e sulle informazioni da fornire ai consumatori sull'esistenza dello stesso codice di condotta.

L'intento di questi codici di condotta era quello di "perseguire un più elevato livello di correttezza nella contrattazione", nel convincimento che la riduzione della diffidenza dei consumatori verso questo tipo di distribuzione avrebbe determinato un vantaggioso incremento dei profitti degli operatori commerciali.

Il 20 maggio 1992, la Commissione Europea ha presentato al Consiglio il testo di una proposta di direttiva riguardante la tutela dei consumatori in materia di contratti a distanza, a cui è seguita una proposta modificativa di direttiva presentata nell'ottobre dello stesso anno.

Tale percorso normativo ha condotto all' adozione, da parte del Parlamento e del Consiglio dell'Unione Europea, in data 20 maggio 1997, della direttiva n. 97/7/CE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti negoziati a distanza.

La direttiva ha prodotto un netto avanzamento in tema di tutela degli interessi dei consumatori nei contratti a distanza, rispetto a quanto fatto in precedenza con la direttiva e la disciplina di recepimento sulle vendite fuori dai locali commerciali, dove la tutela viene limitata alla previsione del solo diritto di recesso e all'informazione sullo stesso.

Le finalità della nuova disciplina sono espresse in modo molto chiaro nei "considerando" posti in apertura del provvedimento e che costituiscono la base di partenza per l'interpretazione del testo.

L'obbiettivo principale è dunque quello di proteggere il consumatore dai dannosi effetti che l'impiego di talune tecniche di comunicazione a distanza, particolarmente aggressive ed invadenti, può produrre nella sua sfera giuridica e personale, insistendo sullo scopo protettivo per far sì che entrambe le parti conoscano al meglio le condizioni contrattuali e per prevenire l'effetto "sorpresa" collegato con la scelta che il consumatore compie a distanza.

L'Italia ha adempiuto al proprio obbligo di recepimento attraverso l'emanazione del d.lg. 22 maggio 1999, n. 185, in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge 24 aprile 1998, n. 128.

La speciale disciplina della contrattazione a distanza contenuta nel decreto n. 185, si va ad aggiungere a quella già esistente nel nostro ordinamento introdotta con il d.lg.. n. 50/92 che, come si è già rilevato, include nel proprio ambito di applicazione anche tutte le ipotesi di vendite speciali concluse con l'ausilio di tecniche di comunicazione a distanza.

I due testi normativi, quindi, finiscono con il sovrapporsi per diversi aspetti. A tale proposito, in attesa che il legislatore ponga mano al riordino della materia attraverso l'emanazione di un testo unico di coordinamento, l'art. 15 del d. lg. 185/1999 dispone, anche per i contratti di cui all'art. 9 d.lg. 50/1992, l'applicazione delle disposizioni più favorevoli per il consumatore contenute nel d.lg. 185/1999.

Vi è peraltro da rilevare che l'efficacia dei principi dettati dal decreto n.185 non si estende a tutti i contratti conclusi a distanza, essendone l'applicabilità confinata entro limiti di carattere soggettivo ed oggettivo; ne consegue che i casi di contrattazione a distanza non soggetti al nuovo provvedimento continueranno ad essere disciplinati dal decreto del 1992.

I limiti soggettivi sono individuabili all'art.1, lett. b) e c), dove vengono definite le figure di fornitore e di consumatore.

L'ambito di applicazione della nuova disciplina è circoscritto ai soli contratti che una persona ( sia essa fisica, giuridica o ente collettivo sprovvisto di personalità giuridica ), nel quadro della propria attività professionale, stipuli con una persona fisica la quale, per contro, agisca per scopi non riferibili all'attività professionale eventualmente svolta.

Non sono, dunque, soggetti alla disciplina i contratti che le parti abbiano stipulato entrambe per scopi non professionali o, quelli stipulati da ciascuna parte nell'ambito delle rispettive attività professionali, come pure, si può escludere l'applicabilità del decreto a quei contratti conclusi da una persona fisica per scopi "misti", sia privati che professionali, poiché, in tale ipotesi, le finalità per le quali quest'ultima ha agito, sono direttamente riconducibili alla sua attività professionale, circostanza che impedisce di qualificare il soggetto in questione come "consumatore".

I limiti di carattere oggettivo possono essere individuati esaminando il contenuto dell'art. 1 lett. a), laddove l'operatività del decreto viene estesa ai soli contratti a distanza definiti come "i contratti, aventi per oggetto beni o servizi, stipulati tra un fornitore e un consumatore nell'ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal fornitore il quale, per contratto, impiega esclusivamente una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto stesso" .

Anche se non concretamente espresso nel contesto dell'art. 1 lett. a), dal tenore complessivo del provvedimento si può ricondurre l'assoggettabilità alla normativa di tutti i contratti a titolo oneroso, conclusi a distanza da un consumatore con un fornitore, che abbiano per oggetto l'esecuzione di una prestazione di dare o di fare da parte di quest'ultimo.

All'art. 2 del decreto sono annoverate alcune eccezioni a tale previsione; infatti, sono sottratti alla suddetta disciplina i contratti relativi ai servizi finanziari ( contratti bancari, assicurativi, servizi d'investimento ), riconfermando la scelta già fatta con la direttiva 97/7 e 85/577, di riservare la disciplina dei contratti a distanza relativi a "servizi finanziari", ad un apposito provvedimento, recante una disciplina autonoma rispetto a quella generale.

Ulteriori eccezioni sono previste alle lettere b), c), d) e ) dello stesso articolo; il decreto non può infatti regolare i contratti conclusi tramite distributori automatici o locali commerciali automatizzati; i contratti conclusi con operatori delle telecomunicazioni impiegando telefoni pubblici; i contratti d'appalto per la costruzione di immobili o, i contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà, o di altri diritti reali, di beni immobili; i contratti conclusi in occasione di una vendita all'asta.

Ad eccezioni delle precedenti ipotesi, peraltro tassativamente indicate, gli altri contratti ricadono nell'ambito di applicazione della normativa solo se conclusi a distanza, impiegando, nell'intero processo che porta alla stipulazione del contratto, esclusivamente tecniche di comunicazione a distanza, intendendosi con ciò "qualsiasi mezzo il cui impiego consenta la conclusione del contratto senza la simultanea presenza fisica delle parti o dei loro rappresentanti" (art. 1, lett. d).

Un elenco, non tassativo, delle tecniche in questione è contenuto nell' allegato I del decreto, dove ai tradizionali strumenti impiegati nelle vendite per corrispondenza ( lettera circolare, catalogo, stampati con o senza indirizzo, pubblicità a stampa con buoni d'ordine ), si vanno ad aggiungere altri mezzi quali telefono, radio, fax, videotelefono nonché, gli strumenti impiegati per il teleshopping: la televisione, nel caso delle televendite, i personal computer, per la stipulazione dei contratti telematici.

Una ulteriore condizione posta affinché si possa parlare di contratto concluso a distanza, soggetto alla disciplina del decreto, è che il fornitore utilizzi le predette tecniche nell'ambito di un'apposita struttura organizzata per la distribuzione di tutti i beni o i servizi da lui offerti sul mercato (o anche solo alcuni di essi) e che, di questa struttura si serva per avviare, condurre e portare a termine la negoziazione. In assenza di tale struttura, il solo impiego di tecniche di comunicazione a distanza sarà considerato occasionale e il contratto concluso con il consumatore non potrà essere sottoposto alla nuova disciplina.[84]



3. La tutela del consumatore ai sensi del d. lg. 22 maggio 1999,

n. 185


Un importantissimo aspetto che la disciplina attuattiva italiana considera, ripercorrendo sostanzialmente le linee generali fissate nelle direttiva comunitaria, è quello relativo al dovere informativo che il fornitore ha nei confronti del consumatore.

L'obbligazione informativa posta a carico del fornitore ha l'obbiettivo di prevenire l'effetto "sorpresa", permettendo al consumatore di poter valutare, in epoca anteriore alla stipulazione del contratto, l'opportunità dell'acquisto sulla base delle proprie cognizioni e di quelle acquisite grazie all'attività del fornitore e, di esprimere, perciò, un consenso informato.

All'art. 3 vengono elencate l'insieme di informazioni che riproducono il contenuto minimo essenziale di un contratto d'acquisto a distanza di un bene o di un servizio.

Esse si riferiscono all'identità e all'indirizzo del fornitore, alle caratteristiche essenziali del bene o del servizio, al prezzo (comprensivo di imposte e tasse), alle spese e alle modalità di consegna, alle modalità di pagamento, all'esistenza del diritto di recesso, alle modalità e ai tempi di restituzione o di ritiro del bene in caso di recesso, alla durata della validità dell'offerta e dell'immodificabilità del prezzo, alla durata minima del contratto in caso di contratto ad esecuzione continuata o periodica (la direttiva prevedeva quest'ultimo obbligo informativo solo "se del caso", mentre la disciplina italiana considera tale informazione obbligatoria in ogni caso e non la subordina ad alcuna valutazione casistica di opportunità).

L'adempimento dell'obbligazione informativa da parte del fornitore può avvenire impiegando qualunque mezzo di trasmissione che risulti "adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza impiegata" e che permetta di rilevare, inequivocabilmente, lo scopo commerciale dell'informazione la quale, a tal fine, deve risultare chiara e comprensibile, nel rispetto dei principi di buona fede e di lealtà a quello che è stato scelto quale parametro di riferimento, vale a dire il "consumatore medio " non particolarmente qualificato dal punto di vista culturale e tecnico (art. 3, comma 2° ).

Il consumatore deve ricevere le predette informazioni in "tempo utile", cioè prima della conclusione del contratto e, il momento in cui le informazioni vengono trasmesse e quello in cui il contratto viene concluso devono essere intervallati da uno spazio temporale sufficiente a consentire l'effettiva disamina delle informazioni ricevute (art. 3, comma 1° ).

Qualora le informazioni non dovessero essere trasmesse al consumatore in conformità a quanto predisposto all'art.3, oppure queste non gli siano state trasmesse tempestivamente, il decreto prevede l'applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie oscillanti da lire 1 milione a lire 10 milioni (art. 12 ).

Al fine di consentire al consumatore di prendere conoscenza dei diritti e degli obblighi assunti, deve essergli inviata conferma scritta, o a sua scelta, su altro supporto duraturo, di tutte le informazioni prescritte e ciò deve essere fatto prima o al momento dell'esecuzione del contratto.

Entro lo stesso termine, e con le stesse modalità, devono essere inviate al consumatore altre informazioni, ossia l'indicazione delle condizioni e delle modalità di esercizio del diritto di recesso e della sede del fornitore a cui il consumatore può inoltrare eventuali reclami ( art. 4 ).

Il mancato o inesatto adempimento dell'obbligo informativo, di cui all'art. 4, espone il fornitore non solo alle sanzioni amministrative pecuniarie previste all'art. 12 ma anche e soprattutto, ad una dilazione del periodo concesso al consumatore per ritornare sui suoi passi e sciogliere il vincolo contrattuale.[86]

Quanto alla regolamentazione sul diritto di recedere dal contratto, la normativa di attuazione italiana, eliminando ogni margine di ambiguità, ha chiarito che il diritto di recesso può essere esercitato in relazione a qualunque tipo di contratto a distanza e non con riguardo ai meri contratti negoziati a distanza, secondo quanto disposto all'art.6 della direttiva 97/7.

Nel decreto n. 185, l'estensione e la decorrenza del termine entro il quale avvalersi del diritto sono, però, articolati in modo più dettagliato di quanto sia stato fatto nella direttiva, potendo essi variare in relazione all'oggetto del negozio ed al momento in cui viene adempiuto l'obbligo imposto dall'art. 4.

Se il contratto ha per oggetto una prestazione di dare e l'obbligo informativo è stato regolarmente adempiuto dal fornitore, il termine di decadenza entro il quale esercitare il recesso è di dieci giorni lavorativi (contro i sette previsti dalla direttiva), decorrenti dal giorno di ricevimento del bene.

Qualora il fornitore non abbia adempiuto i propri obblighi, il termine per recedere viene esteso a tre mesi, anche in tale caso decorrenti dalla data di consegna; se poi il fornitore dovesse trasmettere le informazioni previste, in seguito alla consegna ma prima che siano trascorsi tre mesi dalla conclusione del contratto, il termine torna ad essere di dieci giorni a partire dal momento in cui il consumatore le ha ricevute.

Benché il periodo utile all'esercizio del recesso inizi a decorrere dal momento in cui avviene la consegna del bene o, a seconda dei casi, da quello di comunicazione delle informazioni, il consumatore ha comunque il diritto ad esercitare il proprio diritto a recedere prima del verificarsi di tali avvenimenti, purché il contratto sia già stato perfezionato.

I contratti aventi ad oggetto prestazioni di fare - esclusi i contratti d'appalto - sono oggetto di una disciplina in materia di recesso più complessa di quella esaminata.

Il consumatore può, di regola, esercitare il proprio diritto fino a quando le informazioni prescritte all'art. 4 non gli siano state fornite e di questo diritto può avvalersi fino alla scadenza del terzo mese successivo alla data di conclusione del contratto.

Il periodo di riflessione subisce, però, una drastica riduzione nell'ipotesi in cui il fornitore abbia trasmesso le informazioni prima che siano trascorsi tre mesi dalla stipulazione del contratto. In tale circostanza il consumatore potrà, se lo ritiene opportuno, esercitare il proprio diritto entro il termine massimo di dieci giorni a partire dalla stipulazione del contratto, se questa si è verificata contemporaneamente o posteriormente alla ricezione delle informazioni, o dalla data di ricezione delle informazioni se queste sono state trasmesse in seguito alla conclusione del contratto.

In questi ultimi due casi se il consumatore, sulla base dell'esame delle informazioni ricevute a norma dell'art. 4, dovesse autorizzare il fornitore a dar corso all'esecuzione del servizio prima dello scadere dei dieci giorni dal ricevimento delle stesse (o nella prima ipotesi, dalla conclusione del contratto), avendo manifestato, con tale comportamento, la sua inequivocabile volontà di dare corso all'affare concluso con il fornitore, viene automaticamente privato della possibilità di esercitare il recesso.

Per quanto riguarda le modalità pratiche affinché il recesso possa considerarsi tempestivamente esercitato, è necessario che il consumatore invii, prima della scadenza del termine, una comunicazione del suo intento indirizzata alla sede del fornitore (art.5).

La volontà di recedere dal contratto deve essere resa manifesta per mezzo di una dichiarazione scritta e sottoscritta dal consumatore, ma può anche essere espressa in un documento informatico contenente la sua "firma digitale".

La comunicazione scritta deve essere inviata al fornitore, rispettando i vincoli temporali imposti, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o con l'ausilio di altro mezzo (telegramma, fax ), ma in tal caso deve essere confermata con lettera raccomandata entro le 48 ore successive ( art. 5 ).

Nella dichiarazione di recesso inviata al fornitore, il consumatore non è tenuto a specificare le ragioni che stanno alla base della sua volontà di sciogliere il rapporto, come pure l'esercizio del suo diritto non può determinare alcuna penalità a suo carico; sono, appunto, considerate nulle le clausole che prevedono il versamento di caparre o multe penitenziali, come pure quelle che impongono al consumatore il pagamento a favore del fornitore di somme di denaro a titolo di risarcimento.[87]

Gli effetti derivanti dall'esercizio del recesso sono molteplici; primo fra tutti è, ovviamente, la restituzione, o la messa a disposizione, del bene che sia stato regolarmente consegnato rispettando le modalità e i termini contrattuali.

Nei contratti relativi a servizi, l'esercizio del diritto di recesso, non carica il consumatore di alcun obbligo, anche se, nel momento in cui il rapporto viene sciolto, il fornitore abbia già iniziato o, addirittura, completato l'attività diretta a dare esecuzione al contratto.

Come già disposto in seno alla direttiva 97/7, le spese di restituzione sono poste a carico del consumatore ma, e questa è una novità introdotta dal decreto, solo se ciò è stato espressamente previsto nel contratto a distanza, per cui nel silenzio del contratto le spese gravano sul fornitore (art. 5, comma 5 ).

Sempre in tema di spese, l'art.5, comma 7, precisa che il fornitore è tenuto a rimborsare al consumatore le somme ricevute, senza detrazioni, entro un termine non maggiore a trenta giorni dalla data in cui il fornitore ha appreso la volontà di recedere del consumatore.

L'esercizio del diritto di recesso produce altresì la risoluzione di diritto del contratto di credito al consumo che il consumatore abbia concluso con lo stesso fornitore, o con il terzo a sua volta legato da un accordo concluso con il fornitore.

Il fornitore ha l'obbligo di comunicare al terzo concedente il credito, l'avvenuto esercizio del recesso nonché, di rimborsarlo delle somme già versate aggiungendovi anche gli interessi legali maturati (art. 5, comma 8).[88]

4. Esecuzione del contratto e limiti all'impiego di talune  

tecniche di contrattazione a distanza


Sempre nel rispetto dello schema predisposto dalla direttiva 97/7, il decreto attuattivo sancisce, all'art. 6, comma 1, che l'esecuzione del contratto a distanza da parte del fornitore debba avvenire entro trenta giorni a partire dal giorno successivo a quello in cui il consumatore ha trasmesso l'ordine; sempre a norma dell'art.6, l'ordinazione può ritenersi tempestivamente eseguita solo se tutte le prestazioni, principali e accessorie, cui è tenuto il fornitore, siano state eseguite entro il termine di trenta giorni (ciò fa si che, ad esempio, nei contratti aventi ad oggetto prestazioni di dare, entro il predetto termine debba essere adempiuta anche l'obbligazione di consegna del bene).

Stante il carattere dispositivo della norma, alle parti è concessa l'opportunità di determinare un termine diverso da quello prescritto, ma qualora ne venga pattuito uno maggiore, la relativa clausola soggiacerà al sindacato di vessatorietà previsto dagli artt. 1469 - bis e ss. c.c. e sarà, pertanto, inefficace se produce un rilevante squilibrio, a carico del consumatore, dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Posto che l'indisponibilità, anche temporanea del bene o del servizio, impedisca l'esecuzione tempestiva del contratto, il fornitore ha l'obbligo di dare immediata informazione al consumatore delle difficoltà intervenute e di rimborsarlo delle somme da questi già versate a titolo di corrispettivo aggiungendo anche gli interessi moratori calcolati dalla data in cui la prestazione avrebbe dovuto essere eseguita.

Come programmato dalla direttiva, il legislatore italiano ha previsto la possibilità che, con il consenso del consumatore manifestato anteriormente o all'atto della conclusione del contratto, il fornitore adempia la propria obbligazione con una fornitura diversa da quella pattuita mentre, in mancanza della specifica autorizzazione, la fornitura non può essere sostituita con un'altra diversa, anche se di valore e qualità equivalenti o superiori (art. 6, comma 2 ).

Sotto il profilo dei limiti all'impiego di talune tecniche di contrattazione a distanza, assume particolare importanza la previsione di cui all'art. 9, il quale pone il divieto di effettuare forniture di beni o servizi al consumatore che non le abbia richieste, nel caso in cui la stessa fornitura comporti una successiva richiesta di pagamento; in tale situazione, non può essere addossato al consumatore alcun obbligo ed il suo silenzio non determina consenso.

Allo stesso fine, viene scoraggiato l'uso da parte del fornitore, in assenza di preventivo consenso del consumatore, di quelle tecniche di comunicazione a distanza che permettono di attuare una comunicazione individuale, quali telefono, posta elettronica, fax (art. 10 ).

Il preventivo assenso o l'opposizione possono essere manifestati, non solo con una semplice dichiarazione espressa ma, anche con un comportamento concludente, purché idoneo a dimostrare palesemente ed inequivocabilmente l'assenso o il dissenso del consumatore.

La sostanziale differenza tra le misure di protezione del consumatore previste agli artt. 9 e 10 del decreto, sta nel voler proteggere, con la seconda disposizione, la sfera privata delle persone, contro le aggressioni che possono provenire dall'abuso delle tecniche in essa contemplate, mentre l'intento della misura considerata all'art.9, è quello di proteggere il consumatore dalle conseguenze che possono derivare da un comportamento troppo ingenuo, evitando che egli sia indotto ad acquistare prodotti o servizi non ordinati, nell'erroneo convincimento di essere a ciò tenuto per il semplice fatto di averli ricevuti o di non averli restituiti.

Nei casi di comunicazione telefonica, la tutela accordata dal legislatore ai consumatori è ancora più forte, poiché in tali occasioni è richiesta non solo la manifestazione preventiva del consenso all'utilizzo della tecnica ma, è imposto l'obbligo in capo al fornitore di dichiarare, all'inizio della conversazione, la propria identità e le finalità commerciali della telefonata, pena la nullità del contratto successivamente concluso (art. 3, comma 3 ).

Con il preciso scopo di evitare che l'operatività del sistema di protezione del consumatore predisposto dal decreto possa essere inficiata da specifici negozi o pattuizioni, il legislatore ha imposto sostanziali limiti all'autonomia negoziale delle parti.

Prima di tutto viene sancita l'irrinunciabilità dei diritti attribuiti per legge al consumatore (art.11); questo rende inammissibili i negozi con i quali il consumatore rinuncia al diritto di ricevere esaurienti informazioni o al diritto di recedere dal contratto e produce la nullità dei patti, autonomi o inseriti nel contratto a distanza, in contrasto con le disposizioni di legge.

Tali negozi o pattuizioni sono privi di effetto sia se l'adesione del consumatore agli stessi sia frutto di un imposizione del fornitore, sia quando il loro contenuto ed il loro compimento siano frutto di un'autonoma e libera decisione del consumatore.

Sempre allo scopo di prevenire possibili abusi a danno del consumatore, al 2° comma dell'art. 11, è previsto che le parti possano scegliere di applicare al contratto a distanza la legislazione di uno Stato diverso dall'Italia ma, qualora questa si riveli meno favorevole al consumatore, le norme contenute nel decreto n. 185, troveranno comunque attuazione, ferma restando anche l'applicazione delle norme della disciplina straniera che non siano incompatibili con esse.






5. La tutela giurisdizionale


In materia di tutela giurisdizionale, la maggiore innovazione introdotta dal decreto va individuata sicuramente nella possibilità di esercitare azioni collettive, più che nella previsione di una competenza territoriale inderogabile a favore del consumatore, d'altra parte già prevista dal d.lg. 50/1992.

A tal riguardo, la tutela giurisdizionale degli interessi ai quali il decreto n. 185 ha accordato specifica protezione è rimessa, oltre che alle iniziative dei singoli consumatori, soprattutto all'azione delle associazioni che li rappresentano.

Ai sensi dell' art. 13, infatti, le associazioni dei consumatori e degli utenti sono legittimate, al fine di tutelare gli interessi collettivi dei consumatori, a rivolgersi all'autorità giudiziaria chiedendo l'inibizione del compimento (e/o della continuazione ) di quegli atti che siano incompatibili con le disposizioni del decreto, nonché l'adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti già prodotti dalle violazioni accertate.

Tra le circostanze in cui l'azione inibitoria può essere esperita si possono citare ad esempio quelle di trasmissione al consumatore di informazioni non conformi alle prescrizioni legislative o, le ipotesi di forniture di beni o servizi eseguite senza la preventiva ordinazione ed accompagnate da successiva richiesta di pagamento o, ancora, l'impiego di talune tecniche di comunicazione nonostante la manifesta opposizione del consumatore.

In tutte queste ipotesi, ed in altre ancora, le azioni collettive previste all'art. 13 possono essere esperite, oltre che nei confronti dei fornitori, anche verso gli "operatori di tecniche di comunicazione" dei quali il fornitore si sia servito.

L'efficacia dell'azione inibitoria è destinata ad aumentare con il recepimento della direttiva 98/27/CE "relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori", la quale pone l'obbligo agli Stati membri di prevedere che l'autorità giudiziaria competente a conoscere le controversie instaurate con l'azione inibitoria collettiva, possa condannare la parte nei cui confronti l'ordine inibitorio è stato pronunciato a versare al Tesoro o, ad altro destinatario, delle somme di denaro, in caso di non esecuzione della decisione entro il termine fissato.

Infine, se pur non espressamente previsto dal legislatore, in dottrina è stata prospettata la possibilità che il rispetto delle prescrizioni contenute nel decreto possa avvenire anche tramite l'esperimento di azioni collettive da parte degli enti rappresentativi della categoria professionale di appartenenza dei fornitori, in quanto i comportamenti attuati dai fornitori in violazione del decreto, oltre a ledere gli interessi collettivi dei consumatori, nuocciono anche al corretto e leale svolgimento della concorrenza tra le imprese.[89]

























CONCLUSIONI



Nel contesto di questa trattazione è stato posto in luce come la tutela del consumatore che si sia determinato ad acquistare beni o servizi al di fuori dei locali tradizionalmente adibiti alla vendita, abbia trovato realizzazione essenzialmente attraverso il riconoscimento di un diritto di ripensamento, compiutamente disciplinato dal d.lg. 50/1992, attuattivo della direttiva CEE 85/577

In particolare, la normativa in questione è andata ad inserirsi in un più ampio contesto legislativo finalizzato ad istituire un sistema di tutela del consumatore in ambito finanziario, bancario e assicurativo: essa si colloca, cioè, nella prospettiva di quell'ampia serie di interventi normativi di matrice comunitaria in cui la figura del consumatore, soggetto asseritamente "debole" del mercato, assume rilievo in un'ottica nella quale la conformazione del diritto dei contratti alla personalità economica dei soggetti diviene strumento per la realizzazione dei principi di libertà sanciti nel Trattato di Roma.

Tuttavia, ciò che merita di essere messo in rilievo in queste considerazioni finali, è che il punto di vista del consumatore finale viene assunto non solo allo specifico fine di rafforzare la tutela di questo particolare acquirente di beni e di servizi, ma anche a reintrodurre, per tale via, regole generali volte a disciplinare l'attività degli operatori economici sì da assicurare effettività alla concorrenza tra le imprese.

Giova rammentare, innanzitutto, che l'intervento comunitario a tutela dei consumatori si è sviluppato a partire dalla metà degli anni settanta sino a culminare, grazie al Trattato di Maastricht, nell'introduzione dell'art. 129 A, nel Trattato istitutivo della Comunità Europea, articolo, in cui si esaurisce l'intero titolo XI, destinato alla "protezione dei consumatori".

In realtà, al di là del nuovo impulso che discende dalla introduzione dell'art. 129 A, lo sviluppo della legislazione e della giurisprudenza della Corte di giustizia ha evidenziato una fondamentale distinzione secondo che la tutela dei consumatori costituisca l'oggetto e lo scopo diretto della tutela. E' evidente, infatti, che, mentre a proposito della tutela della salute e della sicurezza, gli interventi sono volti a elevare la protezione dei concreti fruitori dei beni, è ciò può tradursi anche in una frammentazione dei mercati, a proposito della tutela dei c.d. interessi economici dei consumatori, l'attenzione per la posizione dei consumatori è dettata anche ai fini dell'instaurazione e del funzionamento del mercato interno.

A questo secondo orientamento appartiene senza dubbio anche la direttiva 85/577. In particolare, nei considerando che precedono l'articolato, il riavvicinamento tra le disposizioni legislative vigenti in materia di vendita fuori dei locali commerciali viene invocato non già per tutelare in maniera omogenea i consumatori, quanto piuttosto per eliminare la disparità tra le disposizioni legislative che "può avere un'incidenza diretta sul funzionamento del mercato comune".

Nell'ottica prescelta, l'assunzione del punto di vista del consumatore assume, in definitiva, un rilievo di ordine strumentale, in vista del conseguimento dell'obiettivo di individuare regole comuni al fine di disciplinare direttamente la concorrenza tra gli operatori commerciali.

Il consumatore, in definitiva, non è da intendersi destinatario diretto ed esclusivo della tutela. Analogamente a ciò che accade anche per altre direttive, i consumatori sono presi in considerazione in quanto chiamati ad assolvere la loro funzione di arbitri del mercato.

Così, il Comitato economico e sociale, nel suo Parere su "Il consumatore ed il mercato interno" del 25 gennaio 1993, ha osservato che "in mancanza della funzione di arbitri del mercato, svolta dai consumatori, l'economia di mercato non può funzionare in modo efficiente. In tale contesto, la politica dei consumatori va intesa come misura d'accompagnamento della politica economica, poiché essa introduce meccanismi correttori di fronte alle insufficienza, agli squilibri ed alle lacune cui il mercato può essere soggetto."

























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GIURISPRUDENZA





CORTE DI GIUSTIZIA


Corte di Giustizia, 14 luglio 1994, n. 91, in Foro. It., 1995, IV, p. 38



CASSAZIONE


Cassazione civile, 14 aprile 2000, n. 4843, in Giust. Civ. Mass., 2000, p. 40

Cassazione civile, 14 gennaio 2000, n. 372, in Foro It., 2000, I, p. 16381

Cassazione civile, 29 ottobre 1998, n. 10809, in Giust. Civ. Mass., 1998, p. 2214

Cassazione civile, 26 settembre 1996, n. 8504, in Nuova Giur. Civ. Commen., 1997, I, p. 733 ss.

Cassazione civile, 20 marzo 1996, n. 2396, in Giust. Civ. Mass., 1996, p. 395

Cassazione civile, 15 maggio 1995, n. 5289, in Nuova Giur. Civ. Commen., 1996, I, p. 151

Cassazione civile, 27 febbraio 1995, n. 2275, in Giust. Civ. Mass., 1995, p. 465



GIURISPRUDENZA DI MERITO


Tribunale Milano, 26 aprile 1999, n. 4152, in Guida al diritto, 1999, XIX, p. 57

Giudice di pace Perugia, 4 dicembre 1998, in Rass. Giur. Umbra, 1999, p. 128

Giudice di pace Perugia, 5 marzo 1998, in Foro It., 1999, I, p. 1081

Pretura Milano, 30 gennaio 1997, in Foro Padano, 1997, I, p. 168

Tribunale Milano, 27 gennaio 1997, in Contratti, 1998, I, p. 48

Giudice conciliatore Carrara, 4 ottobre 1995, in Foro It., 1996, I, p. 188

Pretura Bologna, 28 febbraio 1995, in Gius., 1995, p. 963

Tribunale Casale Monferrato, 13 gennaio 1995, in Arch. Civ., 1995, p. 1421

Tribunale Bologna, 16marzo 1994, in Giur. Merito, 1995, I, p. 438

Pretura Milano, sez. Rho, 14 novembre 1991, in Foro It., 1991, I, p. 1599 ss.

Giudice conciliatore Roma, 22 agosto 1991, n. 1286, in Arch. Civ., 1991, p. 1165 ss









A. LUMINOSO, I contratti per lo scambio o la distribuzione dei beni, in

Manuale di diritto commerciale, a cura di V. BUONOCORE, Torino, 1999, p.

899 ss.

C. MACRI', I contratti negoziati fuori dai locali commerciali, Torino, 1998, p.

7 ss.

C. DI LORETO, Vendite per strada e tutela del consumatore, in Rivista di

Diritto Civile, Padova, 1992, p. 21 ss.

F. ASTONE, I contratti stipulati fuori dai locali commerciali, in Diritto

Privato Europeo, a cura di N. LIPARI, Padova, 1997, p. 801

F. ASTONE, op. cit., p. 804

A. JANNARELLI, La tutela nella negoziazione fuori dai locali commerciali,

in Le vendite aggressive, a cura di A. JANNARELLI, Napoli, 1995, p. 20

F. ASTONE, op. cit., p. 806

A. JANNARELLI, op. cit., p. 23

M. GORGONI, Sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali alla luce

del d.lg. n. 50/1992, in Contratto e Impresa, I, 1993, p. 159 ss.

F. ASTONE, op. cit., p. 808 ss.

Conc. Roma, 22 agosto 1991, n. 1286, in Arch. Civ. 1991, p. 1165 ss.; Pret.

Milano, sez. Rho, 14 novembre 1991, in Foro It., 1991, I, p. 1599 ss.; Trib.

Bologna, 16 marzo 1994, in Giur. Merito, 1995, I, p. 438; Trib. Casale

Monferrato, 13 gennaio 1995, in Arch. Civ., 1995, p. 1421

Corte di Giustizia, 14 luglio 1994, n. 91, in Foro. It., 1995, IV, p. 38

Cassazione Civile, 27 febbraio 1995, n. 2275, in Giust. Civ. Mass., 1995, p.

465; Cassazione Civile, 15 maggio 1995, n. 5289, in Nuova Giur. Civ.

Commen., 1996, I, p. 151

Cassazione Civile, 20 marzo 1996, n. 2396, in Giust. Civ. Mass., 1996, p. 395;

Cassazione Civile, 26 settembre 1996, n. 8504, in Nuova Giur. Civ. Commen.,

1997, I, p. 733 ss. con nota di ASTONE

C. MACRI', op. cit., p. 4

A. JANNARELLI, op. cit., p. 34

C. MACRI', op. cit., p. 5

M. GORGONI, op. cit., p. 159

M. CARTELLA, La disciplina dei contratti negoziati fuori dai locali

commerciali, in Giur. Comm., 1992, II, p. 724

C. MACRI', op. cit., p. 11

G. CANALE, Decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, in Commentario, a

cura di N. LIPARI, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, p. 180

P. BALZARINI, La disciplina dei contratti conclusi fuori dai locali

commerciali ed il diritto di recesso di cui al d.lg. 15 gennaio 1992, n. 50, in

Responsabilità civile e previdenza, 1993, LVIII, p. 189

G. CANALE, op. cit., p. 180

M. CARTELLA, op. cit., p. 725

O. TROIANO, L'ambito oggettivo di applicazione e le esclusioni nel d.lg. 15

gennaio 1992, n. 50, in Le vendite aggressive, a cura di A. JANNARELLI,

Napoli, 1995, p. 62

G. CANALE, op. cit., p. 181

C. MACRI', op. cit., p. 19

O. TROIANO, op. cit., p. 77

C. MACRI', op. cit., p. 9; G. CANALE, op. cit., p. 182

G. CANALE, op. cit., p. 179

P. L. CARBONE, Commento al d.lg. 15 gennaio 1992, n. 50, in Il Corriere

Giuridico, 1992, X, p. 1097

M. CARTELLA, op. cit., p. 718

G. CANALE, op. cit., p. 186

Pretura Bologna, 28 febbraio 1995, in Gius., 1995, p. 963

P. L. CARBONE, op. cit., p. 1098

C. MACRI', op. cit., p. 23

Pretura Milano, 30 gennaio 1997, in Foro Padano, 1997, I, p. 168

Cassazione Civile, 14 aprile 2000, n. 4843, in Giust. Civ. Mass., 2000, f. 4

M. CARTELLA, op. cit., p. 731

M. CARTELLA, op. cit., p. 732

O. TROIANO, op. cit., p. 88

P. L. CARBONE, op. cit., p. 1099

O. TROIANO, op. cit., p. 94 ss.

F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1990, p. 166;

A. SANTASERSE, Vendita porta a porta senza clausola di ripensamento, in

Arch. Civ., 1991, p. 1166

G. DE NOVA, Il contratto di investimento in valori mobiliari dopo la legge

SIM e i regolamenti Consob "di esecuzione", in La vendita "porta a porta"

di valori mobiliari, a cura di M. BESSONE e F. D. BUSNELLI, Milano,

1992, p. 58

A. FUSARO, Sulla vendita porta a porta (con particolare riguardo alla

vendita di valori mobiliari), in Riv. critica di dir. priv., 1985, p. 349

E. ROPPO, Offerta al pubblico di valori mobiliari e tecniche civilistiche di

protezione dei risparmiatori-investitori, in Giur. It., 1983, IV, p. 208 ss.;

B. LIBONATI, Commento alla legge 23 marzo 1983, n. 77, Art. 12, in Leggi

civ. comm., 1984, p. 521

G. SANGIORGI, voce Recesso, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991

M. GORGONI, op. cit., p. 157

G. DE NOVA, voce Recesso, in Digesto delle Discipline Privatistiche, 1997,

XVI, p. 314 ss.

A. PRINCIGALLI, La tutela del consumatore, in Le vendite aggressive, a

cura di A. JANNARELLI, Napoli, 1995, p. 105

C. MACRI', op. cit., p. 50

C. MACRI', op. cit., p. 51

P. M. PUTTI, Decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, in Commentario, a

cura di N. LIPARI, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, p. 234 ss.

Giudice conciliatore Carrara, 4 ottobre 1995, in Foro It., 1996, I, p. 1885

C. MACRI', op. cit., p. 104

Tribunale di Milano, 26 aprile 1999, n. 4152, in Guida al diritto, 1999, XIX,

p. 57

M. LOBUONO, Informazione sul diritto di recesso e tutela del consumatore,

in Le vendite aggressive, a cura di A. JANNARELLI, Napoli, 1995, p. 132

C. MACRI', op. cit., p. 60; M. A. LIVI, Decreto legislativo 15 gennaio 1992,

n. 50, in Commentario, a cura di N. LIPARI, in Le nuove leggi civili

commentate, 1992, p. 203

M. LOBUONO, op. cit., p. 140; M. GORGONI, op. cit., p. 183

C. MACRI', op. cit., p. 61

A. CALDERALE, Condizioni e modalità di esercizio del recesso, in Le

vendite aggressive, a cura di A. JANNARELLI, Napoli, 1995, p. 151

M. CARTELLA, op cit., p. 740

Tribunale di Milano, 27 gennaio 1997, in Contratti, 1998, I, p. 48

M. CARTELLA, op. cit., p. 740

C. MACRI', op. cit., p. 84 ss.

P. GELLI, Decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, in Commentario, a

cura di N. LIPARI, in Le nuove leggi civili commentate, p. 218

C. MACRI', op. cit., p. 90

F. ASTONE, Decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, in Commentario, a

cura di N. LIPARI, in Le nuove leggi civili commentate, p. 220

F. ASTONE, ult. op. cit., p. 221; C. MACRI', op. cit., p. 91 ss.

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locali commerciali, in Le vendite aggressive, a cura di A. JANNARELLI,

Napoli, 1995, p. 179

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F. ASTONE, ult. op. cit., p. 223

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C. MACRI', op. cit., p. 97

P. L. CARBONE, op. cit., p. 1100

Giudice di pace Perugia, 5 marzo 1998, in Foro It., 1999, I, p. 1081;

Cassazione Civile, 29 ottobre 1998, n. 10809, in Giust. Civ. Mass., 1998, p.

2214

Giudice di pace Perugia, 4 dicembre 1998, in Rass. Giur. Umbra, 1999, p.

128; Cassazione civile, 14 gennaio 2000, n. 372, in Foro It., 2000, I, p. 1638

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