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Dal modello rieducativo al modello riparativo - FUNZIONE DELLA PENA: MODELLO RETRIBUTIVO, RIABILITATIVO, RIPARATIVO.

giurisprudenza



Dal modello rieducativo al modello riparativo




FUNZIONE DELLA PENA: MODELLO RETRIBUTIVO, RIABILITATIVO, RIPARATIVO.



osservazione quasi scontata che una civiltà possa dirsi tale in quanto si costituisce attorno ad una legge, scritta o meno, capace di codificare i rapporti tra coloro che appartengono a quella civiltà.

Ogni legge istituisce una regola, ordina i fatti e gli eventi, fondando un "dentro la legge" e un "fuori dalla legge".



Ogni legge, non appena formulata come norma o come divieto, postula la propria trasgressione, ist 232h78c ituisce un limite e, contemporaneamente, delinea un "al di là" del limite, comportando così la necessità della sanzione.


La sanzione, o meglio la pena, è definita in tempi moderni come "la sofferenza comminata dalla legge e irrogata dall'autorità giudiziaria, mediante processo, a colui che viola un comando della legge medesima"[1]. La pena svolge quindi una determinata funzione che si articola in tre tipi di teorie: "la retribuzione, l'intimidazione, l'emenda".

La pena intesa come retribuzione, denominata anche "del corrispettivo", consiste in una ricompensa, in un "castigo" per chi ha violato l'ordine giuridico.

Vi sono due tipi di retribuzione: quella morale e quella giuridica. La prima consiste nella semplice affermazione che il male deve essere retribuito con il male; la seconda, nel fatto che il delitto è ribellione del singolo alla volontà della legge e, più in generale, della collettività; esige quindi una riparazione che valga a riaffermare l'autorità dello Stato. In tal senso il delitto nega il diritto mentre la pena lo riafferma.

La pena come intimidazione ha invece la funzione di prevenire il delitto: la minaccia di pena ha la capacità di distogliere il soggetto dal violare la norma.

Infine, la teoria dell'emenda, detta anche correzionalistica, parte dal presupposto che il delinquente con il suo atto abbia dimostrato di essere incline a commettere azioni criminose e, come tale, che egli vada corretto. Questa teoria ha come fine il ravvedimento del reo.

Stabilite le funzioni della pena, possiamo ora fare un passo ulteriore per osservare che i tre modelli di giustizia penale che hanno accompagnato la storia della civiltà - classico o retributivo; riabilitativo o clinico; riparativo - dipendano direttamente da una di queste interpretazioni del concetto di pena.

Esaminerò ora il fine al quale questi modelli tendono, vale a dire, per quanto riguarda il modello classico, la duplice accezione di pena giusta e pena utile; per il modello riabilitativo, la pena rieducativa; per il modello riparativo, la pena che implica una restituzione materiale o simbolica.

Il modello classico-retributivo è quello cui si ispira l'ordinamento italiano e all'interno del quale si giustificano le istanze del modello rieducativo.

Breve excursus storico.


Una prima elaborazione di "modello penale retributivo" risale agli anni dell'Illuminismo[2] nel corso dei quali, le marcate connotazioni politico-filosofiche della "scuola classica" ebbero grande influenza nella creazione di una nuova scienza del diritto. La rivendicazione dei diritti dell'individuo e delle ragioni di garanzia, in nome del diritto naturale ed in opposizione all'autoritarismo ed alla ferocia della pena, fu certamente il maggior merito della "scuola classica", la quale in tal modo reagiva ad una prassi giuridica tradizionalmente oscura ed elitaria: si pensi per esempio alla totale segretezza del procedimento penale persino rispetto allo stesso imputato. Tutti gli elementi del procedimento, indizi, prove, testimonianze, erano di conoscenza esclusiva del giudice che doveva ricostruire la verità; questa modalità dipendeva dal fatto che il giudice riceveva direttamente dal sovrano il proprio potere.

L'ampio utilizzo della tortura per ottenere la confessione, intesa non tanto come prova determinante, quanto come trionfo di una verità costituita a priori, rispondeva d'altra parte al fatto che la tortura rappresentava una prima punizione, secondo la logica per cui il sospettato era già considerato più o meno parzialmente colpevole.

L'uso del supplizio come condanna era invece connesso al fatto che il reato fosse considerato non tanto in rapporto al danno cagionato, o all'importanza della norma infranta, quanto, prima di tutto, come un'offesa arrecata al sovrano, la cui autorità andava risarcita con il pubblico supplizio.

I riformatori illuministi, soprattutto in Francia ed in Italia, rifiutarono questo potere della monarchia, fondato su se stesso e sulla propria sacralità, invocando processi più equi e pene meno crudeli.

I riformatori reclamavano da un lato, una funzione del giudicare non più legata all'esercizio della sovranità ma distribuita e inserita nel corpo sociale, affidata insomma al potere pubblico; dall'altro che i reati fossero perseguiti con regolarità e presso tutti gli strati sociali.

Fu così che la punizione cominciò ad essere intesa non più come la vendetta del sovrano ai danni di un'azione insubordinante, ma come strumento di difesa sociale, mentre la giustizia prese ad essere legata all'idea di ordine e di utilità sociale.



Il crimine che si manifestava nella società, infatti, introduceva un disordine. Ecco che, per la prima volta, la condanna assumeva una funzione preventiva, intendendo evitare che il criminale ripetesse l'azione delittuosa o che altri potessero imitarne l'atto criminale. Le pene dovevano manifestare lo svantaggio in cui sarebbe incorso il criminale rispetto al vantaggio che il compimento del delitto prometteva; la condanna doveva pertanto essere certa e irrogata con precisione matematica in base alle prove.

Nasce in questo periodo la criminologia: da una parte il criminale ed il crimine dall'altra divengono oggetto di una possibile conoscenza scientifica, mentre la nozione di "recidivo", non più intesa solo in senso descrittivo, assume per certi versi il ruolo di qualificazione del delinquente, della sua personalità, di una modalità di comportamento.

Il carcere, che era stato finora utilizzato affinché i delitti non venissero reiterati, diviene lo strumento principale per la raccolta dei dati di studio sul criminale, sviluppandosi l'ottica del "trattamento".


Tale "conoscenza" - da acquisirsi - diviene lo strumento principale per raggiungere la finalità dell'apparato giudiziario: la prevenzione del delitto. Da questo momento in poi, la pena diviene sempre più individualizzata.

Anche il modello "trattamentale", in realtà, si rivelò presto inadeguato. Gli alti costi rapportati ad una diminuzione non così radicale della recidiva ne dichiaravano il fallimento.

A partire dagli anni Settanta si ricominciò a discutere di funzione della pena e dopo circa dieci anni di dibattiti (che avevano visto dispiegarsi da una parte il neoclassicismo, con un ritorno al modello retributivo, dall'altra i teorici del modello riabilitativo -peraltro mai completamente abbandonato- con l'enunciazione di strumenti alternativi alla detenzione) si affacciò sulla scena un nuovo modello, quello riparativo.

Un tale sistema nasceva dall'idea che nessuna legge esime l'individuo dall'assumersi la responsabilità soggettiva del proprio atto.

Si trattava di un modello, già utilizzato nelle società pre-statuali, all'interno del quale le offese erano intese come fatti riguardanti direttamente l'aggressione e la vittima, con l'esclusione dell'azione dello stato. Potremmo allora dire, come si mostrerà di seguito, che il modello riparativo nasceva da una crisi conclamata di efficienza del sistema penale.


La crisi di efficienza del sistema penale e il modello retributivo.


Il modello di giustizia riparativa, comunemente noto con il sintagma inglese restorative justice, rappresenta, in ordine temporale, l'ultimo degli esiti teorici contemporanei.

Tale modello ha come presupposti ideologici da una parte il New Realism, movimento che nasce in Inghilterra sulla scia della criminologia critica di ispirazione marxista; dall'altra una serie di studi di alcuni giuristi statunitensi di formazione antropologica, i quali volsero la loro attenzione alle pratiche di giustizia utilizzate da culture pre-statuali. Notiamo, in effetti, che il modello riparativo recepisce l'ideologia neo-realistica attraverso la presenza di programmi atti a ridurre l'emarginazione del reo, per mezzo di forme alternative di detenzione e mediante tentativi di conciliazione con la vittima del reato. Recepisce inoltre una concezione di giustizia informale, non più affidata allo Stato, ma alle parti coinvolte e controllata dalla comunità (tendenza che è ben rilevata dagli studi antropologici di cui sopra).

Al di là delle premesse ideologiche comunque, il motivo per il quale il modello di giustizia riparativa ha trovato un fertile terreno nei dibattiti contemporanei, risiede nella crisi di efficienza del sistema penale, stigmatizzata dalla Giurisprudenza.

Tale crisi che si manifesta nell'impunità dei delitti, nel prevalere di tecniche punitive, nel fallimento delle funzioni di prevenzione e tutela della parte offesa, ha sollecitato politici e giuristi.


Alla luce di quanto detto, risulta evidente un clima di abbandono di ideologie con fondamenti assoluti nel campo della giustizia, "che diviene ora risposta ad una domanda, soluzione concreta di un problema".

Sulla base di questa crisi effettiva del sistema penale e della sue ideologie, nonché di una diversa aspettativa del cittadino, si affermano nella società comitati spontanei, aggregazioni di individui che, consapevoli di tale crisi irreversibile del sistema, e tuttavia mossi dall'esigenza di una giustizia la quale tenga conto anche delle vittime, propongono forme di intervento tendenti non più alla condanna del reo, ma alla riparazione.













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