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L'ISTIGAZIONE E LA DETERMINAZIONE A COMMETTERE UN REATO, CON PARTICOLARE RIGUARDO AL RACCORDO FRA GLI ARTT

giurisprudenza



TEMA: "L'ISTIGAZIONE E LA DETERMINAZIONE A COMMETTERE UN REATO, CON PARTICOLARE RIGUARDO AL RACCORDO FRA  GLI ARTT. 115 E 116 C.P. , CON SPECIFICO RIFERIMENTO AL RUOLO DELL'AGENTE PROVOCATORE, E AL PROBLEMA DEL RECESSO E DELLA DESISTENZA NELL'AMBITO DEL CONCORSO MORALE".


La combinazione degli artt. 110 ss c.p. con la norma incriminatrice di parte speciale dà luogo ad una nuova ed autonoma fattispecie plurisoggettiva, alla stregua della quale è possibile punire (a titolo di concorso) anche quelle condotte agevolatrici che risultano atipiche rispetto alla norma incriminatrice monosoggettiva. Nasce, cioè, un nuovo concetto di tipicità rapportato all'ìntero fatto realizzato in concorso: ciascuna condotta sarà considerata tipica o atipica (non più rispetto alla fattispecie di parte speciale, ma) rispetto alla nuova fattispecie concorsuale. La norma sul concorso risolve, quindi, il problema del fondamento tecnico della punibilità delle condotte di partecipazione. Resta invece insoluto il problema dei criteri idonei a stabilire la rilevanza di tali condotte alla stregua dellla fattispecie concorsuale: la norma sul concorso non dice, cioè, quand'è che una 545c29f condotta di partecipazione, atipica rispetto alla fattispecie monosoggettiva, è da considerarsi tipica rispetto alla fattispecie plurisoggettiva e quindi punibile a titolo di concorso. E' qui che nascono i più gravi inconvenienti della vigente disciplina del concorso criminoso: in mancanza di una tipizzazione legale delle varie forme di concorso, il compito di fissare i requisiti minimi di una partecipazione penalmente rilevante resta, in definitiva, affidato a dottrina e giurisprudenza.



Gli elementi costitutivi della partecipazione criminosa vanno ricostruiti sulla base dei principi generali in materia di reato: dovrà quindi anzitutto distinguersi fra un elemento oggettivo ed un elemento soggettivo (psicologico). Nell'ambito del primo elemento abbiamo: la pluralità degli agenti; la realizzazione di un fatto materiale di reato; il contributo di ciascun soggetto alla sua realizzazione. Il secondo elemento è formato dal dolo o dalla colpa di partecipzione.

PLURALITA' DI AGENTI: Il reato dev'essere commesso da un numero di soggetti superiore a quello che la legge ritiene necessario per l'esistenza del reato. Ma cosa significa "quando piu' persone cooperano nel medesimo reato.." (art. 110 c.p.)? Tutte le persone che cooperano materialmente alla commissione di un reato possono considerarsi concorrenti?

Secondo una certa opinione dottrinale, per poter assumere la qualifica di concorrente, il soggetto dovrebbe essere imputabile e aver agito con dolo, postulando il concorso l'unicità del titolo della responsabilità. Così, non vi sarebbe concorso, ma sarebbe applicabile la fattispecie monosoggettiva, in tutti i casi di autoria mediata. In realtà, secondo l'opinione oggi dominante, ciò non è assolutamente richiesto dall'art. 110: ogni persona che coopera materialmente alla commissione di un reato può assumere la veste di concorrente ed il concorso può sussistere anche fra persone non tutte punibili o anche tutte non punibili. Perciò, per integrare la fattispecie del concorso, occorre l'attività di più soggetti e non anche che siano tutti imputabili o che abbiano agito tutti con dolo, perché ciò non riguarda la sussistenza del concorso, ma solo la punibilità o il titolo della stessa. Non si deve, in definitiva, confondere il carattere plurisoggettivo della fattispecie del concorso con la questione della punibilità dei concorrenti o del titolo della responsabilità.

LA REALIZZAZIONE DI UN REATO: secondo elemento della fattispecie plurisoggettiva è sia stato commesso un fatto materiale di reato, consumato o tentato (anche se non punibile). Quindi, il minimo indispensabile perché possa aversi concorso punibile è che siano realizzati gli estremi di un DELITTO TENTATO. Così, il nostro codice, che non punisce il tentativo di concorso, punisce però il concorso nel delitto tentato: a tal fine si richiede che l'attività dei concorrenti, complessivamente considerata, si estrinsechi negli atti idonei ed univoci, richiesti dall'art. 56 c.p.. E' utile qui richiamare proprio il disposto dell'art. 115 c.p. ("Accordo per commettere un reato. Istigazione."), il quale stabilisce che, salve diverse dipsosizioni di legge, non si fa luogo a punizione: a) qualora due o piu' persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso; b) qualora taluno istighi altri a commettere un reato, tanto nel caso in cui l'istigazione non sia accolta, quanto in quello che lo sia, ma il reato non venga commesso. Secondo una parte della dottrina, perciò, il puro accordo e la semplice istigazione sarebbero, per il nostro diritto, qualcosa di meno del tentativo punibile e, perciò, da considerarsi alla stregua di attività preparatoria non punibile. In definitiva, l'art. 115 ribadirebbe il generale principio della non punibilità degli atti preparatori, ricavabile dall'art. 56 c.p. : questo, applicato al tema del concorso di persone, esige che, per aversi concorso punibile, ricorra quanto meno un delitto tentato. Secondo un'altra impostazione, tuttavia, l'attività di accordo e di istigazione non potrebbero essere considerate attività preparatoria, e quindi non sarebbe possibile ritenere l'art. 115 c.p. come espressione del suddetto principio. Il mero accordo e la semplice istigazione non sarebbero punibili in quanto non causalmente collegati con la commissione di alcun fatto di reato. Qui il legislatore avrebbe piuttosto voluto affermare il principio per il quale può ricorrere pericolosità sociale anche nelle ipotesi in cui non ci sia lesione di beni o interessi tutelati. E' cioà socialmente pericoloso anche chi non realizza un fatto costituente reato: ciò sarebbe, per l'appunto, dimostrato dalle ipotesi di cui agli artt. 115 e 49 c.p.. La riserva contenuta nel corpo della disposizione si riferisce ad alcune norme che, per tutelare interessi di particolare natura, puniscono l'accordo e l'istigazione come reati a sé stanti. Senonchè, ACCORDO e ISTIGAZIONE (non punibili) possono essere indici di pericolosità sociale e perciò il legislatore ha previsto l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata se l'accordo e l'istigazione hanno ad oggetto un delitto.

IL CONTRIBUTO DEI CONCORRENTI: è in relazione a tale elemento della fattispecie che si pone il problema centrale del concorso di persone, quello del comportamento atipico minimo, necessario per aversi concorso di persone (che caratteristiche minime deve avere il contributo del concorrente?).

Risolvere un simile problema è di centrale importanza, perché da ciò dipende la determinatezza della fattispecie plurisoggettiva: sarebbe, infatti, un nonsenso determinare la fattispecie monosoggetiva e lasciare indefinita quella concorsuale. Bisogna tenere in ogni caso presenti i principi di: 1) MATERIALITA', in forza del quale ciascun concorrente deve anzitutto porre in essere un comportamento materiale esteriore (l'adesione tutta interiore all'altrui fatto criminoso è, in forza di tale pr., del tutto irrilevante penalmente); 2) RESPONSABILITA' PERSONALE, in forza del quale tale comportamento esteriore deve concretizzarsi in un contributo rilevante, materiale o morale, alla realizzazione del reato: a livello ideativo, preparatorio, esecutivo. Perciò, chi pone in essere una condotta che nemmeno influenzi favorevolmente l'altrui proposito criminoso o lo svolgimento del reato, non partecipa alla realizzazione comune del reato stesso, che resta "altrui".

Il problema del contributo minimo è stato in passato sviluppato soprattutto con riferimento al concorso materiale e, allo scopo, sono state elaborate diverse teorie, fra le quali: quella dell'equivalenza causale, della causalità agevolatrice, della prognosi. La dottrina più autorevole, oggi, pur conservando l'approccio causale, tende a correggere l'indirizzo condizionalistico puro secondo le direttive proposte dalla tesi della causalità agevolatrice: perciò assume rilevanza penale non solo la condotta di partecipazione che costituisca condicio sine qua non della realizzazione del reato, ma anche quella che, alla stregua di un giudizio ex post, si limiti ad agevolarne o a facilitarne la realizzazione.

Il contributo rilevante di colui che partecipa alla realizzazione di un reato, materialmente commesso da altri, può anche manifestarsi sottoforma di impulso psicologico. Nell'ambito di questa forma di partecipazione, tradizionalmente definita CONCORSO MORALE, si è soliti distinguere fra la figura del DETERMINATORE, definito come il compartecipe che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente, e l'ISTIGATORE, cioè colui il quale si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito criminoso già esistente. Si tratta di due figure che trovano un effettivo riscontro nella realtà, alle quali corrisponde un diverso disvalore: chi suscita un intento criminoso assume, nei confronti della lesione del bene, un ruolo più decisivo rispetto a chi si limita ad eccitare un proposito criminoso già formato.

Nel nostro codice il termina "istigazione" viene impiegato come espressione comprensiva di ogni forma di partecipazione psichica: ciò si spiega considerando che, in tema di concorso di persone, il nostro legislatore prescinde da ogni differenziazione tipologica. La rilevanza penale dell'istigazione è desumibile dall'art. 115, comma 3°. Tale norma stabilisce la non punibilità dell'istigazione rimasta sterile, riconoscendo implicitamente che, quando l'istigazione è accolta ed il reato commesso, l'istigatore ne risponde a titolo di concorso.

Anche in tema di concorso morale occorre stabilire quale sia il contributo minimo necessario affinchè possa ricorrere la fattispecie del concorso di persone. La dottrina maggioritaria, anche in questo caso, ne ha fatto un problema di verifica eziologica, cioè di rapporto causale fra la condotta istigatrice e la realizzazione del fatto materiale di reato, negandosi che possano venire in rilievo criteri fondati su giudizi prognostici, cioè di idoneità ex ante, come invece sostenuto da una certa dottrina e giurisprudenza, la quale ha eccepito il fatto che, in tema di concorso morale, non si potrebbe neppure parlare di una vera e propeia "causalità".

Affinchè possa sussistere un'effettiva incidenza della condotta istigatrice sulla realizzazione del reato, si è precisato, dovrebbero comunque ricorrere due elementi: 1) un elemento oggettivo: oggetto dell'istigazione deve essere un reato determinato, specifico, anche se non delineato in tutti i suoi aspetti; 2) un elemento soggettivo: l'istigazione dev'essere rivolta a soggetti determinati o ad una cerchia definita di destinatari. In assenza di tali requisiti non potrebbe ritenersi sussistente il nesso causale tra contributo e reato commesso e, quindi, il presunto istigatore non potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo di concorso.

Il vero problema che viene in rilievo nell'ambito della tematica sulla condotta istigativa è quello relativo all'eventuale commissione di un reato diverso da quello oggetto dell'istigazione. In realtà, la divergenza fra fatto commesso e quello oggetto di istigazione può concernere sia il tipo astratto di reato sia l'oggetto materiale dell'azione (o altre modalità concrete del fatto criminoso). La prima ipotesi è disciplinata dall'art. 116 c.p., il quale è stato concretamente applicato soprattutto ai casi di accordo o istigazione, di cui si fa cenno nell'art. 115. In caso di accordo o di istigazione alla commissione di un certo reato cui segua la commissione di un reato diverso, a rigore, dovremmo escludere che ricorra un'ipotesi di concorso, in quanto esulerebbe una concreta efficienza causale del contributo rispetto alla realizzazione del fatto di reato. Al contrario, l'art. 116 prevede una disciplina che non si accorda con una simile conclusione: "Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione". Si profila un'incompatibilità logica, una contraddizione insanabile fra gli artt. 115 (su cui si fonda il concorso morale) e 116 c.p.. In realtà, l'art. 116 non può certo postulare una responsabilità per fatto altrui e, nella sua concreta applicazione, non si è mai dubitato che debba comunque ricorrere il rapporto causale tra la condotta del partecipe e la realizzazione del reato diverso, tanto che se quest'ultimo si presenta come fattore atipico ed eccezionale rispetto all'accordo o all'istigazione precedente, non si potrà non ritenere interrotto il rapporto di causalità e, quindi, non punibile la condotta istigatrice o di colui il quale si è accordato con l'esecutore del reato. In definitiva, è proprio la presenza dell'art. 116 nel nostro codice che ha fatto concludere dottrina e giurisprudenza per la configurabilità di un nesso causale fra il contributo del partecipe e la realizzazione del reato diverso, naturalmente da valutare caso per caso.

Superata così, in via interpretativa, la contraddizione fra gli artt. 115 e 116 c.p., è utile approfondire maggiormente gli ulteriori problemi sollevati da quest'ultima disposizione, la quale è espressione diretta dello straordinario rigore con il quale il legislatore del '33 ha affrontato il problema posto da questa figura particolare di aberratio delicti. L'art. 116 rappresenta una delle non poche ipotesi di responsabilità oggettiva previste dal nostro codice, dal momento che prevede l'applicabilità della pena stabilita per il reato doloso effettivamente commesso a chi non ha in realtà voluto tale realizzazione criminosa, ma vi ha solo contribuito sul piano della causalità materiale. Una così evidente violazione del principio di personalità della responsabilità penale, nella sua più ampia accezione, non poteva non sollecitare dottrina e giurisprudenza a proporre interpretazioni correttive di tale disposizione; senonchè le soluzioni fornite prima del decisivo intervento della Corte Costituzionale con la sent. n° 42/1965 non sono apparse idonee ad assicurare un effettivo adeguamento della norma al principio di cui all'art. 27, comma 1°, Cost.

Una dichiarata conferma del carattere oggettivo della responsabilità ex art. 116 c.p. traspariva dalla posizione di chi si sforzava di promuovere un'interpretazione restrittiva della norma, rimanendo però sul piano del nesso di causalità: la responsabilità del partecipe andrebbe esclusa quando il reato diverso e non voluto si pone rispetto alla sua condotta come un evento "eccezionale", estraneo al dominio della causalità umana.

Ma anche posizioni dirette a rivendicare un coefficiente di imputazione soggettiva dell'evento finivano per restare nell'ottica del versari in re illicita. Così si è affermato che in questi casi il dolo del partecipe comprenderebbe necessariamente le decisioni, anche divergenti dal piano comune, che l'esecutore dovesse assumere per fronteggiare eventuali difficoltà improvvise. Da altri si è persino ipotizzato che,nel concorso di persone, il dolo si risolverebbe nella consapevolezza e volontà di contribuire alla realizzazione di una qualsiasi offesa penalmente rilevante, non occorrendo che vi si riflettano i requisiti di tipicità di una detrminata figura di reato. In realtà, tali posizioni configurano una sorta di dolus generalis che è in realtà la negazione del dolo come autentica e fondamentale forma di imputazione soggettiva: in esse traspare, infatti, una residua valorizzazione del canone del versari in re illicita.

Un'analoga permanenza nell'alveo della responsabilità oggettiva può osservarsi nella posizione, tuttora osservabile in giurisprudenza, di chi configura la colpa del partecipe, nell'ipotesi di cui all'art. 116, nella violazione di una pretesa regola di prudenza che imporrebbe di non affidarsi ad altri per la realizzazione di un proposito criminoso, stante la maggiore difficoltà di esercitare un controllo finalistico sull'altrui condotta piuttosto che sul proprio operato. Anche tale posizione finisce per prospettare un'ipotesi di responsabilità per il mero versari in re illicita, come tale estesa a tutte le conseguenze dell'illecito, visto che è quanto meno singolare prospettare doveri di diligenza in un contesto di attività delittuosa.

E' la sentenza della Corte Cost. sopra citata ad aver assicurato un sufficiente ancoraggio della disciplina ex art. 116 al principio della personalità della responsabilità penale. Con una tipica sentenza interpretativa di rigetto la Corte ha statuito, infatti, la necessità di di ravvisare in capo al partecipe un coefficiente di colpevolezza: il reato diverso o più grave deve essere tale da poter rappresentarsi alla psiche dell'agente, nell'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto. Nel solco di tale presa di posizione, la giurisprudenza ritiene che i presupposti della responsabilità ex art. 116 siano due: 1) in primo luogo, il rapporto di causalità tra l'azione del partecipe e il reato diverso; 2) in secondo luogo, la prevedibilità di tale reato diverso non voluto. In ordine al secondo di questi requisiti, però, si registrano due varianti interpretative. Secondo una prima posizione, sarebbe sufficiente la prevedibilità in astratto , nel senso che l'illecito non voluto deve appartenere al tipo astratto di quelli che, in linea puramente logica, si prospettano come sviluppo del reato originariamente voluto (rapporto tra fatt. incriminatrici a priori poste a confronto). Per la tesi della prevedibilità in concreto, invece, per stabilire se il reato diverso effettivamente realizzato rappresenti un prevedibile sviluppo di quello originariamente programmato, occorre tenere conto di tutte le circostanze relative alla singola vicenda concreta. Perciò, non basta che tra i tipi di reato raffrontati in astratto sussista un rapporto di sostanziale omogeneità, ma è necessario individuare il concreto piano d'azione dei concorrenti e su questa base verificare se le concrete modalità di svolgimento del fatto lasciassero prevedere un esito deviante del tipo di quello avveratosi. Tale ultima interpretazione, in effetti, corrisponde meglio ad una rilettura in chiave costituzionale dell'art. 116 e fa sì che la responsabilità per il reato diverso si orienti secondo il modello dell'imputazione colposa, pur non integrandone tutti i requisiti (non si richiede infatti la prova della violazione del dovere obiettivo di diligenza).

La stessa incriminazione dell'istigazione o dell'attività di rafforzamento del proposito criminoso per un reato diverso da quello effettivamente oggetto dell'istigazione o del rafforzamento potrà, quindi, giustificarsi soltanto in presenza di uno sviluppo logico e prevedibile dell'attività effettivamente posta in essere.

Nel diverso caso in cui la divergenza fra il fatto oggetto dell'istigazione e il fatto concretamente realizzato riguardi, anziché il tipo astratto di reato, l'oggetto materiale dell'azione o altre modalità concrete del fatto, si pone il problema di stabilire se, per la punibilità della condotta istigatoria, la volizione dell'istigatore debba trovare un'esatta corrispondenza nel fatto concreto realizzato dall'istigato, fino al punto da richiedere l'identità dell'oggetto materiale dell'azione. Potebbe sostenersi, al riguardo, che la commissione di un fatto "diverso", anche solo nell'oggetto materiale, sia in grado di spezzare il legame causale fra la condotta dell'esecutore e quella precedente dell'istigatore: in mancanza di una corrispondenza fra il "voluto" e il "realizzato", la responsabilità dell'istigatore dovrebbe esulare. Una simile soluzione, però, potrebbe andare incontro all'obiezione di lasciare scoperte esigenze repressive, considerato che nel nostro ordinamento il tentativo di istigazione non è punibile. Si tratta di un'ipotesi assai controversa.

Per quanto riguarda l'ipotesi in cui all'attività istigatrice, o comunque di partecipazione, segua la commissione di un reato diverso, è necessario prendere in considerazione l'indirizzo dottrinale e giurisprudenziale secondo il quale l'agente non potrebbe essere chiamato a rispondere del reato commesso a titolo di concorso se e nella misura in cui manchi l'elemento psicologico del dolo, cioè se la commissione del delitto non sia stata dall'agente voluta e, in ogni caso, l'agente non abbia accettato il rischio di una sua verificazione. Al più l'agente potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo di colpa, se si tratta di reato punito anche a titolo di colpa. Ciò considerato, ci si rende conto del fatto che la colpa dell'agente provocatore corrisponde, in caso di commissione di un reato diverso rispetto a quello "provocato", proprio a quella prevedibilità cui la Corte Costituzionale ha fatto riferimento nel precisare i presupposti della responsabilità ex art. 116 c.p.. Perciò, l'agente provocatore potrà essere chiamato a rispondere del reato diverso nel caso in cui questo fosse prevedibile come logico sviluppo della sua attività istigatrice, nonostante l'eventuale appostamento delle forze dell'ordine, con la differenza che, poiché viene in rilievo l'applicazione dell'art. 116 c.p., egli dovrà risponedere a titolo di dolo, benchè sia soltanto in colpa.





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