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PRINCIPI GENERALI SULLA PROVA

diritto ed economia



PRINCIPI GENERALI SULLA PROVA


Il codice del 1988 ha accolto, sia pure con temperamenti, la scelta del sistema accusatorio, indicata come linea direttiva della legge delega n. 81 del 1987. i poteri del giudice e delle parti sono distribuiti in vario modo nelle fasi della ricerca, dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova. Nel libro terzo del codice viene delineato un vero e proprio diritto delle prove. Al giudice è riservato il potere di decidere; alle parti è attribuito il potere di ricercare le prove, di chiederne l'ammissione, di contribuire alla formazione delle stesse. L'istituto che esprime nel modo più cristallino la filosofia del sistema accusatorio è l'esame incrociato, nel quale sono distribuiti in modo dettagliato i poteri di iniziativa spettanti alle parti ed i poteri di controllo attribuiti al giudice (artt. 498 e 499).

Il giudice, in primo luogo accerta se è avvenuto il fatto storico che è stato addebitato all'imputato e se questi ne è responsabile; in secondo luogo interpreta la norma incriminatrice al fine di ricavarne quale è il fatto tipico; infine, valuta se il fatto storico, che ha accertato, è conforma al fatto tipico previsto dalla legge. In estrema sintesi, la decisione è stata definita un sillogismo; il fatto storico, ricostruito attraverso le prove, è la premessa minore; la norma penale incriminatrice è la premessa maggiore; la conclusione consiste nel valutare se il fatto storico rientra nella norma incriminatrice.

L'accertamento del fatto storico. All'inizio del processo il fatto storico commesso dall'imputato non è certo; l'accusa ne afferma l'esistenza; la difesa in tutto o in parte la nega. Il conflitto tra accusa e difesa non può essere risolto in base ad un atto di fede, bensì deve essere verificato mediante un accertamento basato su principi razionali. Perché l'accertamento sia razionale, deve avere le seguenti caratteristiche: deve essere basato su prove; deve essere oggettivo; deve essere basato sui principi della logica.



Provare vuol dire, in sostanza, indurre nel giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un determinato modo. Tale fatto deve essere rappresentato al giudice mediante altri fatti. La prova è appunto quel procedimento logico in base al quale da un fatto noto si deduce l'esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali si è verificato.

La seconda caratteristica è conseguenza della prima. L'accertamento, perché sia oggettivo, non deve fondarsi sulla conoscenza privata del giudice, bensì su elementi esterni, e cioè su prove.

L'accertamento deve essere logico, e cioè basato sui principi razionali che regolano la conoscenza. L'assunzione delle prove deve permettere al giudice di valutare la credibilità di colui che rende dichiarazioni e l'attendibilità degli elementi che offre. Il risultato di una prova deve essere messo a confronto con i risultati di altre prove. Se vi è una contraddizione questa deve essere risolta. Infine, il giudice deve riportare nella motivazione il percorso logico che ha seguito nella ricostruzione del fatto storico. Soltanto attraverso la motivazione sarà possibile controllarne l'operato.

L'individuazione della norma penale incriminatrice. Si tratta di un accertamento di tipo giuridico e non di fatto. Il giudice esamina la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice.

Il giudizio di conformità. Il giudice valuta se il fatto storico, ricostruito mediante prove, è conforme al fatto tipico previsto e sanzionato dalla norma penale incriminatrice. Egli quanto emette la sentenza di assoluzione, è tenuto ad indicare nel dispositivo la formula che adotta e che costituisce una sintesi dei motivi. Le formule di assoluzione sono previste dal codice e sono tassative (art. 530); esse sono funzionali ad altri istituti ed, in particolar modo, al giudicato. Soltanto le formule di assoluzione sono idonee a fondare l'efficacia del giudicato penale nei confronti di determinati processi civili ed amministrativi (art. 651 - 654 c.p.p.). Per questo motivo il codice impone al giudice di precisare con quale formula assolve l'imputato.


Il sillogismo probatorio: prova ed indizio

Nel suo insieme la prova può essere definita come un procedimento logico che dal fatto noto ricava l'esistenza del fatto da provare. Nel processo penale il fatto da provare è precisato nell'art. 187, comma 1: sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità, alla determinazione della pena. Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l'applicazione delle norme processuali (art. 187, comma 2); si tratta, ad esempio dei fatti che servono per stabilire la credibilità di una persona che rende dichiarazioni (art. 194, comma 2).

Si distingue tra prova ed indizio. Col termine prova si fa riferimento a quel procedimento che dal fatto noto deduce, per rappresentazione, l'esistenza del fatto da privare. Il fatto ignoto è ricavabile in via diretta dalla dichiarazione perché è rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone; naturalmente il giudice deve valutare la credibilità della fonte e l'attendibilità della dichiarazione prima di decidere se e quale risultato probatorio se ne possa ricavare.

Con il termine indizio, si allude a quel procedimento mediante il quale, partendo da un fatto provato si ricava, attraverso massime di esperienza o leggi scientifiche, l'esistenza di un fatto storico da provare. La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi (è una regola ricavabile dai casi simili). La massima di esperienza è una regola, e ciè non appartiene ala mondo dei fatti; dà luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. Tuttavia, non esiste altra possibilità di accertamento, quando non sia disponibile una valida prova rappresentativa. Il giudice applica un ragionamento di tipo induttivo quando esamina casi simili e formula una regola di esperienza; e cioè, da casi particolari ricava l'esistenza di una regola generale, successivamente il giudice svolge un ragionamento deduttivo, e cioè applica al caso in esame la regola generale che ha ricavato in precedenza. Le massime di esperienza possono consistere anche in conoscenza tecniche che fanno parte della cultura dell'uomo medio. In tal caso, il giudice può direttamente applicare ad un fatto accertato una legge scientifica comunemente conosciuta. In materie che richiedono specifiche conoscenze tecniche, scientifiche o artistiche, il giudice deve affidarsi a perone che hanno conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina. Costoro potranno valutare quale legge della natura è applicabile ad un determinato fatto, al fine di individuarne le cause. Alcuni studiosi preferiscono definire tale ragionamento come prova critica, anziché prova logica od indizio. Essi vogliono sottolineare che si tratta si applicare una legge scientifica e non una regola di esperienza.

L'indizio non è una prova minore bensì una prova che deve essere verificata. Esso è idoneo ad accertare l'esistenza di un fatto storico di reato soltanto quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell'accaduto. Il principio è formulato nell'art. 192, comma 2: l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. Da ciò si ricava, in primo luogo che un solo indizio non è mai sufficiente.

La gravità degli indizi attiene al grado di convincimento: è grave l'indizio che è resistente alle obiezioni e che, pertanto, ha una elevata persuasività. Occorre cioè che la massima di esperienza, che è stata formulata, esprima una regola che ha un ampio gradi di probabilità. Gli indizi sono precisi quando non sono suscettibili di altre diverse interpretazioni. Ma soprattutto la circostanza indiziante deve essere ampiamente provata.

Infine, gli indizi sono concordanti quando convergono tutti verso la medesima  conclusione. Non debbono esservi elementi contrastanti; se questi residuano , occorre poter escludere ogni altra conclusione prospettabile. Viceversa, se l'oggetto della prova è un fatto incompatibile con la ricostruzione del fatto storico, operata nell'imputazione, allora è sufficiente anche un solo indizio. Intendiamo riferirci all'alibi e cioè a quella prova logica che dimostra che l'imputato non poteva essere a quell'ora sul luogo del delitto perché nel medesimo momento era in altro luogo ben destinate. In tal caso può avvenire che un solo indizio sia idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come lo ha ricostruito l'accusa. Naturalmente la circostanza indiziante sulla quale si basa l'alibi come ogni altro elemento di prova deve essere sottoposto al vaglio di attendibilità da parte del giudic 636g65g e.

Il procedimento probatorio

Il procedimento probatorio è regolato dal codice nei fondamentali momenti della ricerca, dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova.

La ricerca delle fonti di prova spetta alle parti: in primo luogo il pubblico ministero, sul quale incombe l'onere della prova, e cioè l'onere di convincere il giudice della reità dell'imputato. Successivamente spetta all'imputato confutare la tesi dell'accusa, ricercare sia le prove che possano convincere il giudice della non credibilità dalla fonte e della inattendibilità dell'elemento di prova a carico, sia quelle tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente.

L'ammissione del singolo mezzo di prova deve essere chiesta, di regola, dalle parti al giudice (art. 190); le parti hanno l'onere di introdurre il mezzo di prova e lo adempiono chiedendo l'ammissione del relativo mezzo.

Il giudice decide l'ammissione della prova in base a quattro criteri (art. 190, comma 1). La prova deve essere pertinente, e cioè essa deve tendere a dimostrare l'esistenza del fatto storico enunciato nell'imputazione o l'esistenza di uno dei fatti indicati nell'art. 187 (credibilità del testimone). La prova non deve essere vietata dalla legge. Inoltre, la prova non deve essere superflua, e cioè non deve tendere ad ottenere un risultato conoscitivo già acquisito. Infine, la prova deve essere rilevante, e cioè tale che il suo probabile risultato sia idoneo a dimostrare l'esistenza del fatto da provare.

L'assunzione della prova avviene col metodo dell'esame incrociato. Spetta alle parti il compito di rivolgere le domande al dichiarante secondo l'ordine indicato nell'art. 498. spetta al giudice sovrintendere allo svolgimento dell'esame al fine di assicurare la lealtà dello stesso, la pertinenza delle domande, la correttezza delle contestazioni e la genuinità delle risposte (art. 499).

Spetta al giudice la valutazione dell'elemento di prova raccolto. Il giudice può ritenere non credibile il dichiarante o non attendibile la sua narrazione del fatto.

Il principio del libero convincimento non esime il giudice dal motivare la sua valutazione. In base all'art. 192 il giudice deve dare conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati nel valutare la credibilità e l'attendibilità delle prove. L'elemento di prova, valutato dal giudice, dà luogo al risultato probatorio. Nei casi più semplici il risultato probatorio, e cioè la dichiarazione del testimone valutata dal giudice, costituisce il fatto noto sulla base del quale il giudice stesso può ritenere esistente il fatto da provare.

L'onere della prova

L'art. 27, comma 2, Cost. afferma che l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. L'ambiguità del testo dell'art. 27, comma 2, ha fatto dire ad alcuni studiosi ed alla stessa Corte costituzionale che l'imputato non deve essere considerato né colpevole, né innocente bensì soltanto imputato; di modo che nessun effetto potrebbe dedursi dalla norma costituzionale in materia di regole di giudizio. In realtà, l'ambiguità deriva dal fatto che in un'unica formula si sono volute combinare una regola di trattamento ed un regola di giudizio. La regola di trattamento vuole che l'imputato non sia assimilato al colpevole sino al momento della condanna definitiva; e cioè impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l'applicazione di misure cautelari nei suoi confronti. La regola di giudizio vuole che l'imputato sia presunto innocente; e cioè vuole ottenere l'effetto previsto dall'art. 2728, comma 1, c.c., secondo cui le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite.

Nel processo penale colui che accusa ha l'onere di provare la reità dell'imputato in modo da eliminare il dubbio. Ove residui un dubbio, l'imputato deve essere assolto. Ciò è previsto dall'art. 530, comma 2, c.p.p.: quando è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile, il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione. La prova di reità, se è insufficiente p contraddittoria, equivale ad una mancata prova. La particolarità del processo penale sta nel fatto che il dubbio va a favore dell'imputato anche quando questi ha l'onere della prova, e cioè quando egli deve convincere il giudice dell'esistenza di un fatto favorevole. Ai sensi dell'art. 530, comma 3, se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è il dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione. Ciò vuol dire che il dubbio sull'esistenza di un fatto impeditivi o estintivo va a favore dell'imputato, che può essere considerato il convenuto nel processo penale. L'aver rappresentato, seppur in modo insufficiente o contraddittorio, l'esistenza di un fatto a lui favorevole permette all'imputato di soddisfare l'onere della prova, purchè egli sia in grado di far sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sulla propria reità.

Il diritto alla prova

Il diritto alla prova è una espressione di sintesi che comprende il diritto di tutte le parti di ricercare le fonti di prova, di chiedere l'ammissione del relativo mezzo di partecipare alla sua assunzione e di presentare una valutazione al momento delle conclusioni. In base al comma 3 dell'art. 111 Cost. l'accusato ha la facoltà di interrogare o di far interrogare davanti al giudice le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore.

Per poter funzionare il sistema accusatorio deve permettere alle parti di ricercare le prove. Nessuno meglio della parte è in grado di comprendere quali siano gli elementi idonei a convincere il giudice. Il diritto di indagare è concesso alla parti in tutto il corso del procedimento, anche durante la fase del giudizio. L'art. 38 disp. att. Riconosce ai difensori delle parti private la facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e di conferire con le persone che possono dare informazioni. La facoltà è attribuita ai difensori al fine di esercitare il diritto alla prova previsto dall'art. 190 del codice.

Il diritto alla prova implica altresì il diritto ad ottenere l'ammissione dei mezzi di prova richiesti. Ai sensi dell'art. 190 il giudice è obbligato ad ammetterli "escludendo le prove vietate e dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti". Alle parti è sufficiente dimostrare la probabile rilevanza; nel dubbio, la richiesta deve essere accolta. Ciò significa che il quantum di prova imposto alla parte richiedente è particolarmente basso. In definitiva, il riconoscimento del diritto alla prova implica un limite al potere discrezionale esercitatile dal giudice questi è vincolato anche da un aspetto di carattere procedimentale; deve provvedere sulla richiesta di ammissione senza ritardo con ordinanza (art. 190, comma 1). Ciò significa che egli deve motivare l'eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter riservarsi di decidere successivamente sull'ammissione.

Il codice prevede espressamente il diritto alla prova contraria. Ove siano stati ammessi i messi di prova richiesti dall'accusa, l'imputato ha il diritto all'ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico (art. 495, comma 2). Il medesimo diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a carico dell'imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico. In base a tale disposizione la parte avversa ha il diritto all'ammissione della prova che ha per oggetto il medesimo fatto, del quale asserisce, ad esempio, la non esistenza o l'essersi verificato con una differente modalità.

Ai sensi del comma 3 dell'art. 111 Cost., all'imputato è riconosciuto il diritto di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persona a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore.

Rientra nel diritto alla prova la partecipazione delle parti all'assunzione del mezzo di prova ammesso dal giudice. Nell'esame incrociato le parti pongono direttamente le domande; il codice prevede quali fra di esse sono inammissibili; spetta al giudice il potere di vietarle (art. 499).

Le parti hanno altresì il diritto di offrire al giudice una valutazione degli elementi di prova. Si tratta del potere di argomentare sulla base dei risultati che siano acquisiti. In dibattimento ciò avviene nel momento della discussione finale. Le parti illustrano le proprie conclusioni in un ordine che rispetta le cadenze dell'onere della prova: al pubblico ministero seguono i difensori dell'eventuale parte civile e dell'imputato (art. 523). Il presidente dell'organo collegiale dirige la discussione ed impedisce ogni divagazione, ripetizione ed interruzione (art. 523, comma 3).

Al diritto delle parti corrisponde il dovere del giudice di dare una valutazione logica degli elementi di prova. Ciò comporta che il giudice nella motivazione non può trascurare di esaminare i risultati di una prova che appaia pertinente e rilevante. In particolare, per rendere effettivo il diritto alla prova anche in questo momento, il codice prescrive che nella sentenza il giudice debba indicare le prove poste a base della decisone e le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie (art. 546, comma 1, lett. e).

Oralità, immediatezza e contraddittorio

In prima approssimazione al termine oralità si può attribuire il significato di comunicazione del pensiero mediante la pronuncia di parole destinate ad essere udite. Il principio di immediatezza è attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l'assunzione della prova e la decisione finale sull'imputazione. Il principio del contraddittorio comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova. Occorre ricordare che il nuovo comma 4 dell'art. 111 Cost. in base al quale il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. Si tratta, all'evidenza, dell'espresso riconoscimento costituzionale del metodo dialettico inteso come la migliore forma di conoscenza.

Il principio di oralità è basato su almeno due postulati: che la memoria della persona che ha percepito un fatto, rimanga inalterata nonostante il passaggio del tempo fino al dibattimento; che la persona stessa in tale fase voglia essere sincera. A sua volta il principio di immediatezza si fonda su ulteriori postulati: che tutti gli elementi di prova necessari per decidere siano acquisibili mediante dichiarazioni orali rese in dibattimento; che le persone informate dei fatti siano in grado di presentarsi in tale sede.

Il nuovo comma dell'art. 5 dell'art. 111 Cost. ha tipizzato le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del contraddittorio. La norma è così formulata: la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

Questioni pregiudiziali e limiti probatori

Il giudice, quando accerta se vi è la corrispondenza tra un fatto storico ed una norma di legge, a volte deve risolvere questioni civili o amministrative che rappresentano l'antecedente logico - giuridico della decisione penale. La questione costituisce un antecedente quando dalla sua soluzione dipende o meno l'esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice che deve essere applicata. Il codice di regola attribuisce al giudice penale il potere di risolvere "ogni questione da cui dipende la decisione" sia sull'esistenza del reato, sia sull'applicazione di una norma processuale.


i mezzi di prova

Con l'espressione mezzo di prova si vuole indicare quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova. Il codice prevede sette mezzi di prova tipici (artt. 194 - 243). Essi sono la testimonianza, l'esame delle parti, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziali, la perizia e i documenti. I mezzi di prova tipici sono considerati dal codice idonei a permettere l'accertamento dei fatti. Il codice non impone la tassatività dei mezzi di prova; al contrario consente che possano essere assunte prove atipiche, e cioè non regolamentate  dalla legge. Tuttavia è possibile ammettere una prova atipica soltanto se questa è idonea ad assicuare l'accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. occorre che il giudice senta le parti sulle modalità di assunzione della prova prima di decidere con ordinanza sulla richiesta di ammissione. In base all'art. 189 la prova atipica può essere ammessa se presenta due requisiti. In primo luogo deve essere idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti; in secondo luogo deve assicurare la libertà morale della persona - fonte di prova. Le modalità di assunzione della prova atipica non sono previste dalla legge bensì sono prescritte dal giudice dopo avere sentito le parti. Quando una parte chiede di ammettere un mezzo di prova atipico deve essere messo in atto il procedimento appena menzionato. Naturalmente l'ordinanza del giudice, che accoglie o respinge la richiesta, è controllabile mediante l'impugnazione della sentenza (art. 586, comma 1).

La testimonianza

Il codice pone una distinzione netta tra due mezzi di prova: la testimonianza e l'esame delle parti. La distinzione riguarda aspetti sia di diritto processuale, sia di diritto penale sostanziale. Il testimone ha l'obbligo, penalmente sanzionato, di presentarsi per deporre e di dire la verità (art. 198). Viceversa la parte privata non ha l'obbligo di presentarsi per deporre (art. 208), né l'obbligo di rispondere alle domande (art. 209, comma 2), né l'obbligo di dire la verità nel caso in cui scelgano di deporre. Il codice, una volta operata tale scelta fondamentale, è costretto a trarne le logiche conseguenze. Infatti, in base all'art. 197 la qualità di testimone è di regola incompatibile con la qualità di parte privata; unica eccezione è la parte civile, che può essere sentita come testimone con gli obblighi conseguenti. Le altre parti private non possono essere chiamate a deporre come testimoni, né possono offrirsi spontaneamente a tale ruolo. Il testimone ha i seguenti obblighi. In primo luogo ha l'obbligo di presentarsi al giudice (art. 198); se non si presenta senza un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo al pagamento di un somma nonché alle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa (art. 133). In secondo luogo il testimone ha l'obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le esigenze processuali (art. 198). Infine, il testimone ha l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte. Se tace ciò che sa, afferma il falso o nega il vero, commette il delitto di falsa testimonianza (art. 372 c.p.).

La deposizione è resa in dibattimento con le forme dell'esame incrociato. Delle relative regole il codice tratta agli artt. 498 e 499. i

Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova (art. 194, comma 1). Le domande devono essere pertinenti, e cioè devono riguardare sia i fatti che si riferiscono all'imputazione, sia i fatti dei quali dipende l'applicazione  di norme processuali (art. 187) come l'accertamento dell'attendibilità di una dichiarazione. L'art. 194 pone un secondo limite alle domande: esse devono avere ad oggetto fatti determinati (comma 3). Di conseguenza, il testimone di regola non può esprimere valutazioni né apprezzamenti personali, salvo che non sia possibile scinderli dalla deposizione sui fatti. Infine non può deporre su voci correnti nel pubblico. L'esame del testimone può estendersi ai rapporti di parentela o di interesse che lo legano ad altre parti o ad altri testimoni; inoltre, può avere ad oggetto le circostanze che servono ad accertare la credibilità sia delle parti, sia dei testimoni (art. 194, comma 2).

Altri limiti valgono per le deposizioni sulla moralità dell'imputato, che sono ammesse ai soli fini di valutare la personalità dello stesso in relazione al reato ed alla pericolosità e sempre che si tratti di fatti specifici (art. 194, comma 1).

Le domande che riguardano la persona offesa dal reato vanno incontro a limiti, ai quali sono poste precise eccezioni. Un primo limite è posto dal codice nell'art. 194, comma 2: la deposizione su fatti che servono a definire la personalità della persona offesa è ammessa soltanto quando il fatto dell'imputato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona. A seguito della riforma dei reati sessuali è stato introdotto un ulteriore limite alle domande aventi ad oggetto la vita privata o la sessualità della persona offesa, le quali sono di regola vietate. Sono tuttavia consentite quelle necessarie alla ricostruzione del fatto.

La testimonianza indiretta

Dei fatti da provare il testimone può avere una conoscenza diretta o indiretta. Ha una conoscenza diretta quando ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi. Ha una conoscenza indiretta (de relato o de audito) quando ha appreso il fatto da una rappresentazione che altri ne ha fatto a voce, per iscritto o con altro mezzo. Nel codice la situazione è descritta in questo modo: il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone (art. 195, comma 1). Il problema della testimonianza indiretta sta nel seguente punto. Nel processo penale attraverso l'esame incrociato è possibile accertare la credibilità e l'attendibilità del testimone che ha avuto una conoscenza personale del fatto da provare; a tale fine, il codice permette che siano fatte le contestazioni (art. 500) e le domande suggerimento nel controesame (art. 499, comma 3). Quando il fatto è conosciuto dal testimone "per sentito dire"occorre che sia possibile accertare l'attendibilità sia del testimone indiretto, sia del testimone diretto. Ecco perché il codice pone alcune condizioni all'utilizzabilità della deposizione  indiretta; esse permettono di effettuare il controllo sulla credibilità della persona da cui si è "sentito dire" e sull'attendibilità di quanto è stato riferito.

La prima condizione posta dall'art. 195, comma 7, richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame. Si deve ritenere che la legge  imponga a pena di inutilizzabilità di individuare la persona o la fonte; si tratta di una condizione di cui non si può fare a meno in quanto la mancata individuazione della fonte impedisce di valutare la credibilità e l'attendibilità di quanto è stato riferito.

Vi è una seconda condizione alla quale il nostro codice subordina l'utilizzabilità della testimonianza indiretta. Quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto la conoscenza diretta del fatto, il giudice è obbligato a disporne la citazione (art. 195). Se questa norma non è osservata, la testimonianza indiretta di regola non è utilizzabile. In via eccezionale è utilizzabile quando l'esame del testimone diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità (art. 195, comma 3). Nei casi di impossibilità di rendere l'esame sopra menzionato (art. 195, comma 3), se anche la testimonianza indiretta è utilizzabile, tuttavia dovrà essere valutata con particolare cura, ad esempio, mediante riscontri con altri elementi di prova.

Infine, il codice permette al giudice di disporre d'ufficio la citazione del testimone diretto se essa non è stata richiesta da alcuna delle parti (art. 195, comma 29. il giudice non è obbligato comunque a citare d'ufficio il testimone diretto; e, cioè, se anche questi non è citato "il sentito dire può essere valutato".

Il codice pone espressamente un divieto di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini (art. 62). La finalità della norma è la seguente: la prova delle dichiarazioni rese dall'imputato o dall'indagato deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato con le forme ed entro i limiti previsti dalle varie fasi del procedimento. In tal modo si vuole evitare che il diritto al silenzio spettante all'imputato in un atto del procedimento penale, venga aggirato mediante il ricorso alla testimonianza indiretta. Occorre infatti ricordare che, in sede di interrogatorio (aart. 64) e di sommarie informazioni (art. 350, comma 1) l'imputato deve essere avvisato della facoltà di non rispondere allo scopo di tutelare la sua libertà morale nei confronti dell'autorità inquirente.

La capacità a testimoniare

Il codice pone in via generale la regola per la quale ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196, comma 1); prevede poi una serie di eccezioni, che consistono in situazioni di incompatibilità (art. 197).

La regola che riconosce a qualsiasi persona la facoltà di testimoniare fa sì che si possano assumere come testimoni sia il minore che l'infermo di mente. In questi casi il giudice dovrà valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante  e l'attendibilità della dichiarazione; egli può verificare l'idoneità fisica o mentale del soggetto chiamato a deporre ordinando gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge (art. 196, comma 2).

Le situazioni di incompatibilità sono ricollegabili a due distinti ordini di ragioni. Da un lato, le prime tre ipotesi dell'art. 197 (lett. a, b e c) vogliono escludere che alcune persone abbiano un obbligo, penalmente sanzionato, di dire il vero. Da un altro lato le situazioni previste dall'art. 197, lett. d, vogliono escludere che possano comunque deporre quei soggetti che hanno svolto nel medesimo procedimento le funzioni di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario.

Art. 197, lett. a: non possono essere assunti come testimoni coimputati nel medesimo reato e gli imputati in un procedimento connesso. Ciò è possibile soltanto quando l'imputato sia stato prosciolto con sentenza dibattimentale diventata irrevocabile.

Art. 197, lett. b: non può essere assunto come testimone l'imputato di un procedimento collegato nel caso in cui la prova di un reato influisca sulla prova di un altro reato o di una sua circostanza (art. 371, comma 2, lett. b).

Art. 197, lett. c: non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

Art. 197, lett. d.: non possono essere assunti come testimoni coloro che, nel medesimo procedimento, svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario. La ragione sta nel fatto che i soggetti menzionati non sono psicologicamente terzi.

L'art. 197, ponendosi come norma eccezionale rispetto al generale obbligo di testimoniare, non è suscettibile di interpretazione estensiva. Pertanto il difensore può deporre come testimone su fatti appresi in virtù del suo mandato difensivo. Egli dovrà comunque valutare se astenersi dal rispondere a singole domande nell'interesse dei clienti ai sensi dell'art. 200.


Il privilegio contro l'autoincriminazione

Ai sensi dell'art. 384 c.p. non è punibile chi sia stato costretto alla falsa testimonianza dalla necessità di salvare se medesimo da un grave ed inevitabile pregiudizio nella libertà o nell'onore. Il codice di procedura penale (art. 198, comma 29 vuole evitare che il testimone sia costretto alla falsa testimonianza e gli permette di non deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale. Quando il testimone eccepisce il privilegio, deve dare una giustificazione allo stesso, con l'ovvio limite che non può essere obbligato a precisare troppi dettagli; in caso contrario potrebbe fornire elementi contro di sé. Il giudice valuta le motivazioni addotte e può rinnovare al testimone l'avvertimento che ha l'obbligo di rispondere secondo verità (art. 207, comma 1). A questo punto il testimone, che sia disposto ad affrontare una eventuale incriminazione per falsa testimonianza, può persistere nel rifiuto, in quanto è coperto dalla causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p..

Quando in ogni stato e grado del procedimento il giudice accerta che il testimone aveva correttamente eccepito il privilegio contro l'autoincriminazione e questo non era stato riconosciuto, diviene inutilizzabile ciò che è stato dichiarato in violazione del presente divieto probatorio (art. 191, comma 1).

Merita dar conto delle conseguenze processuali previste dal codice nel caso in cui il teste renda dichiarazioni autoincriminanti. In tal caso trova applicazione l'art. 63, comma 1. La giurisprudenza ritiene che tale norma, stante l'ampiezza della formulazione, abbia carattere generale e che, pertanto, possa essere applicata anche in dibattimento. Una volta che il testimone abbia reso una dichiarazione dalla quale emergano indizi di reità a suo carico, l'autorità procedente , e cioè, i questo caso il giudice, deve per prima cosa interrompere l'esame; in secondo luogo deve avvertire il soggetto che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; infine deve invitarlo a nominare un difensore. Quanto al valore probatorio delle precedenti dichiarazioni, il codice prevede una inutilizzabilità soggettivamente relativa. Infatti esse non possono essere utilizzata contro la persona che le ha rese.

Il testimone prossimo congiunto

I prossimi congiunti dell'imputato non possono essere obbligati a deporre come testimoni (art. 199). Il codice di procedura penale impone che il testimone prossimo congiunto dell'imputato sia avvisato dal giudice della facoltà di astenersi dal rendere la deposizione. Se l'avviso è omesso, la dichiarazione resa è affetta da nullità relativa (art. 199, comma 2) e l'eventuale reato di falsa testimonianza non è punibile (art. 384, comma 2 c.p.). Nel caso in cui il prossimo congiunto decida di non astenersi e, quindi, deponga come testimone, egli va incontro all'obbligo di verità e non può più rifiutarsi di rispondere alle singole domande; se rifiutasse, commetterebbe il reato di falsa testimonianza nella forma delle reticenza (art. 372 c.p.).

In base all'art. 199, comma 3, la facoltà di astenersi ed il diritto al preavviso della stessa sono estesi ad altri soggetti. La facoltà di astensione opera senza limiti in favore di colui che è legato all'imputato da vincoli di adozione; opera con alcuni limiti in favore: a) di chi, pur non essendo coniuge dell'imputato, some tale conviva o abbia convissuto con esso; b) del coniuge separato dell'imputato; c) della persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimoni contratto con l'imputato. In questi tre casi la facoltà di astensione dalla testimonianza è limitata ai fatti verificatesi o appresi dall'imputato durante la convivenza.

La violazione degli obblighi del testimone

Prima che inizi l'esame incrociato il giudice avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale. Il testimone legge la formula con la quale si impegna a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza (art. 497, comma 2); dopodichè è invitato a fornire le sue generalità. Il codice contiene una puntuale regolamentazione del procedimento che deve essere seguito quando appare che il testimone violi l'obbligo di rispondere secondo verità: soltanto il giudice può rivolgergli l'ammonimento a rispettare l'obbligo di dire il vero (art. 207).

In primo luogo, può accadere che il testimone rifiuti di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. In tal caso il giudice provvede ad avvertirlo sull'obbligo di deporre secondo verità. Se il testimone persiste nel rifiuto dispone l'immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge (art. 207, comma 1).


Il segreto professionale

Alcuni testimoni con determinate qualifiche di tipo privatistico hanno la facoltà di non rispondere a determinate domande quando la risposta comporti la violazione dell'obbligo del segreto professionale. Tale segreto è definito "qualificato" poiché la possibilità di non rispondere spetta soltanto ai professionisti indicati espressamente dall'art. 200 del codice di procedura penale.

Occorre precisare che il professionista comune ha l'obbligo di deporre nel processo penale anche se, al di fuori di esso, è tenuto al segreto professionale.

Naturalmente la possibilità di non rispondere è esercitabile dal professionista qualificato il quale abbia appreso quel determinato fatto per ragione del proprio ministero o ufficio (art. 200). E' altresì che il professionista, pur indicato nella norma, non abbia comunque un obbligo giuridico di riferire quel fatto all'autorità giudiziaria. Ciò accade al medico che è dipendente di un ente pubblico e che, pertanto, in qualità, quanto meno, di incaricato di pubblico servizio ha l'obbligo di denunciare  i reati procedibili d'ufficio dei quali sia venuto a conoscenza nell'esercizio o a causa del suo servizio (art. 362 c.p.). Su tali fatti egli non può opporre al segreto professionale. Quando il teste eccepisce il segreto, il giudice può provvedere agli accertamenti necessari; se ritiene infondata l'eccezione, ordina al testimone di deporre.

Sono professionisti qualificati ai sensi dell'art. 200:

a)   i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastano con l'ordinamento giuridico italiano;

b)   gli avvocati, i consulenti tecnici ed i notai;

c)    i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;

d)  gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosca la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.

Il segreto d'ufficio e di Stato

Vi sono testimoni che, in virtù della loro qualifica pubblica, hanno l'obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti in ragione del loro ufficio. Il segreto d'ufficio è posto per garantire il buon funzionamento della pubblica amministrazione. Esso vincola il pubblico ufficiale e l'incaricato di un pubblico servizio. Il segreto viene meno nei casi in cui vi è un obbligo giuridico di riferire la notizia all'autorità giudiziaria. Se il testimone oppone il segreto d'ufficio, il giudice valuta se tale eccezione è fondata, ove non lo sia, ordina al teste di deporre (art. 201, comma 2). Una particolare specie di segreto d'ufficio è il segreto di Stato, che copre ogni notizia la cui diffusione sia idonea a recare danno alla integrità, alla difesa ed alla indipendenza dello Stato.

Un'altra specie di segreto è quella che consente di non rivelare i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Legittimati ad opporre tale segreto sono sia gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, sia il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica (art. 203). Costoro possono mantenere segreti i nomi dei loro informatori; ma tutto quello che affermano di aver sentito dire non può essere acquisito né utilizzato, se non quando l'informatore sia stato esaminato come testimone.

L'art. 204 esclude poi che i segreti d'ufficio, di Stato o di polizia possano opporsi per fatti concernenti reati diretti all'eversione dell'ordinamento costituzionale.

La falsa testimonianza

Poiché il giudice non è detentore di una verità processualmente acquisita, allorché un testimone renda dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite, il presidente o il giudice può solo farglielo rilevare rinnovandogli, se del caso, l'avvertimento previsto dall'articolo 497/2 [1]. Allo stesso avvertimento provvede se un testimone rifiuta di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e, se il testimone persiste nel rifiuto, dispone l'immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge.

Con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio, il giudice, se ravvisa indizi di falsa testimonianza, ne informa il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti.

L'esame delle parti

L'esame inerisce alle dichiarazioni rese in qualità di parte processuale, così come la testimonianza a quella di qualità di testimone: costituisce un mezzo di istruzione probatoria che ha luogo nelle sedi in cui si forma la prova (dibattimento o incidente probatorio) e che investe le parti processuali private[2].

Mentre i testimoni hanno l'obbligo di deporre, le parti hanno solo la facoltà di assoggettarsi ad esame, essendo esse titolari di un interesse proprio nel processo e quindi legittimate ad esercitare il diritto di difesa anche mediante il rifiuto dell'esame[3] (art. 209). Le dichiarazioni sono rese secondo le regole dell'esame incrociato. Le domande devono riguardare i fatti oggetto di prova. Queste sono le regole generali. Occorre, tuttavia, esaminare le varie ipotesi:

l'imputato ed il coimputato nel medesimo procedimento: il primo regime giuridico riguarda l'esame dell'imputato e del coimputato nel medesimo procedimento (cioè di un procedimento connesso che sia stato riunito). L'esame è luogo soltanto su richiesta o consenso di costoro. Il mancato consenso non può essere valutato perché è una scelta che attiene strettamente alla strategia difensiva. Tuttavia quando la difesa afferma l'esistenza di un fatto, il rifiuto di sottoporsi all'esame, opposto dall'imputato, che potrebbe confermare l'esistenza, non le permette di adempiere all'onere della prova, e cioè all'onere di convincere il giudice. L'imputato che ha chiesto l'esame non è vincolato all'obbligo di rispondere secondo verità; infatti egli non è testimone. Occorre segnalare che l'imputato può dire il falso senza ricorrere in conseguenze penali finché è coperto dalla causa di non punibilità prevista dall'art. 348 c.p..

Nel corso dell'esame l'imputato può rifiutarsi di rispondere alle domande; di ciò deve essere fatta menzione nel verbale (art. 209, comma 2) e tale circostanza può essere utilizzata come argomento di prova (infatti se ne deduce che l'imputato potrebbe voler nascondere qualcosa). Infine l'imputato ha il privilegio di poter affermare di aver sentito dire qualcosa, senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità previste dall'art. 195. Egli può non indicare la fonte da cui abbia appreso l'esistenza di un fatto. La sua dichiarazione per sentito dire può essere utilizzata perché, data la peculiare posizione di questo soggetto, è importante a più effetti acquisire tutto quanto sia venuto a sua conoscenza anche per via indiretta. Ovviamente tale dichiarazione potrebbe essere ritenuta non attendibile.

Le parti private diverse dall'imputato: l'esame del responsabile civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria e della parte civile che non debba essere esaminata come testimone, si svolge con regole identiche a quelle che valgono per l'imputato, salvo un particolare. Se le parti private diverse dall'imputato affermano di aver sentito dire, valgono le ordinarie regole previste dall'art. 195.

Occorre sottolineare che la parte civile, quando è chiamata a testimoniare. È obbligata a deporre in tale qualità e non come parte privata: di conseguenza assume l'obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. Il legislatore ha ritenuto che la rinuncia al contributo probatorio della parte civile costituisca un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale.

L'imputato di un procedimento connesso o collegato: se i procedimento, pur connessi, si svolgono separatamente ai sensi dell'art. 18 il soggetto che è imputato nel procedimento separato e che viene chiamato a deporre nel procedimento contro l'imputato deve essere sentito con un istituto che costituisce un regime speciale rispetto all'esame delle parti. L'istituto, regolato dall'art. 210, resta ricompreso nella categoria generale dell'esame delle parti, dal quale si differenzia nei seguenti punti:

l'imputato nel procedimento connesso è sottoposto all'esame senza che sia necessario il suo consenso (art. 210, comma 1); quel che conta è che l'esame sia stato richiesto da una delle parti del procedimento principale o, nei casi previsti dalla legge, sia stato disposto d'ufficio dal giudice (artt. 195 e 507);

l'imputato di un procedimento connesso deve essere assistito da un difensore che ha il diritto a partecipare all'esame. Ove non sia presente il difensore di fiducia, è designato un difensore d'ufficio (art. 210, comma 3);

l'imputato di un procedimento connesso deve essere avvisato che ha la facoltà di non rispondere, salvo che si tratti di una domanda sulla propria identità personale (art. 210, comma 4). Se l'imputato di un procedimento connesso, ma separato, decide di rispondere, egli non ha l'obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. Può dire il falso con il limite valido per l'imputato in base all'art. 348 c.p.; cioè restano punibili soltanto la calunnia e la simulazione di reato.

Il codice estende la normativa appena menzionata ad altri soggetti, e cioè agli imputati di un reato collegato probatoriamente (art. 210, comma 6) nel caso in cui la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza (art. 371, comma 2, lett. b). Tali soggetti sono chiamati a deporre molto probabilmente non su di un fatto proprio, ma su fatti altrui. Alla loro deposizione non si applicano le norme sulla testimonianza, bensì quelle  sull'esame dell'imputato di un procedimento connesso.

Il codice impone in modo espresso l'obbligo di riscontro come condizione per valutare le dichiarazioni rese sia dal coimputato nel medesimo reato, sia dall'imputato di un procedimento connesso o collegato probatoriamente (art. 371, comma 2, lett. b) a prescindere dal fatto che i relativi procedimenti siano riuniti o separati. Il codice si esprime nel seguente modo (art. 192, comma 3): "le dichiarazioni sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità". Il codice precisa che il riscontro deve avere ad oggetto "altri elementi di prova"; se ne ricava che gli elementi devono essere esterni rispetto alla dichiarazione stessa. Ma la giurisprudenza ha dedotto una ulteriore conseguenza interpretativa. Oggetto della prima verifica deve essere la credibilità del dichiarante. La giurisprudenza afferma che la dichiarazione deve essere valutata al suo interno (riscontro intrinseco) al fine di valutare se essa è precisa, coerente in se stessa, costante e spontanea.

Ogni dichiarazione è frazionabile, e cioè deve essere riscontrata per ogni fatto asserito e per ogni soggetto indicato come responsabile. Alcune sentenze affermano che è necessaria una conferma di attendibilità per ciascuna delle dichiarazioni accusatorie del dichiarante e per ciascuno degli accusati.

Pare opportuno analizzare infine la sentenza n. 361 del 1998, pronunciata dalla Corte Costituzionale la quale si è misurata con il problema della compatibilità dell'istituto dell'esame di persona imputata in un procedimento connesso con la costituzione, nell'ambito dell'uso dibattimentale delle precedenti dichiarazioni dell'imputato connesso. In prima battuta la Corte ha individuato i valori costituzionali coinvolti dalle norme sottoposte al suo vaglio: a. il diritto di difesa dell'imputato che ha reso dichiarazione; b. il diritto di difesa dell'imputato nei cui confronti le dichiarazioni sono rivolte, che si manifesta nel diritto al contraddittorio; c. la funzione del processo penale, che è strumento non disponibile di accertamento dei fatti e delle responsabilità. Secondo la Corte non è ragionevole escludere a priori la utilizzabilità di elementi legittimamente assunti nel corso delle indagini. Occorre fare tuttavia in modo che il metodo di acquisizione di tali elementi garantisca il diritto al contraddittorio dell'imputato. La Corte ha quindi, per la prima volta, tracciato la distinzione tra fatto proprio e fatto altrui, giungendo ad equiparare l'imputato connesso, che sia giudicato nel medesimo procedimento e che abbia in precedenza reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, all'imputato connesso giudicato separatamente. Di conseguenza, intervenendo sull'art. 210, la Corte viene ad enucleare la figura unitaria del dichiarante erga alios. Ove il coimputato abbia reso dichiarazioni sul fatto altrui alla polizia giudiziaria delegata o al pubblico ministero, egli non ha più la facoltà di rifiutare l'esame e può essere sottoposto ad accompagnamento coattivo. Ciò comporta anche una deroga all'art. 490, che prevede il divieto di accompagnamento coattivo dell'imputato per sottoporlo ad esame nel processo pendente a suo carico. A seguito dell'intervento della Corte, l'ambito di operatività del primo e secondo comma dell'art. 513, risulta così ridisegnato: il primo comma è riservato all'esame del coimputato sul fatto proprio; il secondo comma disciplina l'esame del coimputato su fatto altrui. In realtà la Corte nella motivazione (parte non vincolante della sentenza) afferma che per procedere all'esame dei soggetti di cui all'art. 210, i loro nominativi, insieme alle circostanze sulle quali deporranno, debbano essere inseriti nelle liste testimoniali (art. 468). In mancanza, a meno che l'esame non sia disposto d'ufficio dal giudice ai sensi dell'art. 507, il coimputato potrebbe essere esaminato solo ai sensi degli artt. 208 e 513 comma 1. In tale ipotesi non sarebbe possibile procedere alla contestazione in caso di silenzio.

I confronti

Qualora fra due o più persone già esaminate o interrogate sussistano divergenze su fatti o circostanze importanti, il codice prevede l'istituto del confronto (art. 211). Il giudice, richiamate le precedenti dichiarazioni ai soggetti tra i quali deve svolgersi il confronto, chiede loro se le confermano o le modificano, invitandoli, ove occorra, alle reciproche contestazioni. Nel verbale è fatta menzione delle domande rivolte dal giudice, delle dichiarazioni rese dalle persone messe a confronto e di quanto altro è avvenuto durante il confronto.

Le ricognizioni

La ricognizione mira alla individuazione di persone, cose ed altre realtà sensoriali ad opera di un soggetto chiamato in sede processuale a riconoscere persone ed oggetti già caduti sotto i suoi sensi (artt. 213 - 217).

Quando occorre procedere a ricognizione personale, il giudice invita chi deve eseguirla a descrivere la persona indicando tutti i particolari che ricorda; gli chiede poi se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento, se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere, se la stessa gli sia stata indicata o descritta e se vi siano altre circostanze che possano influire sull'attendibilità del riconoscimento. Nel verbale è fatta menzione degli adempimenti previsti dal comma 1 e delle dichiarazioni rese. Tali formalità sono richieste a pena di nullità.

In seguito, allontanato colui che deve eseguire la ricognizione, il giudice procura la presenza di almeno due persone il più possibile somiglianti, anche nell'abbigliamento, a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest'ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre, curando che si presenti, sin dove è possibile, nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata alla ricognizione. Nuovamente introdotta quest'ultima, il giudice le chiede se riconosca taluno dei presenti e, in caso affermativo, la invita a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa[4].

Quando, invece, occorre procedere alla ricognizione del corpo del reato o di altre cose pertinenti al reato, il giudice procede osservando le disposizioni dell'articolo 213, in quanto applicabili. Procurati, ove possibile, almeno due oggetti simili a quello da riconoscere, il giudice chiede alla persona chiamata alla ricognizione se riconosca taluno tra essi e, in caso affermativo, la invita a dichiarare quale abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa.

In entrambi i casi, nel verbale è fatta menzione, a pena di nullità, delle modalità di svolgimento e ricognizione. Il giudice può disporre che lo svolgimento della ricognizione sia documentato anche mediante rilevazioni fotografiche o cinematografiche o mediante altri strumenti o procedimenti.

Gli esperimenti giudiziali

L'esperimento consiste nella riproduzione, per quanto è possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso. L'esperimento giudiziale è ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo (art. 218).

In fase di indagini preliminari, le esigenze cognitive che sono a fondamento dell'esperimento giudiziale sono assicurate mediante "accertamenti tecnici" da parte del P.M. e mediante "atti o operazioni tecniche" da parte della P.G., sempre, però, nell'ottica di finalità investigative, e mai probatorie.

La perizia

Ai sensi dell'art. 220, 1. la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche[5].

Quanto alle modalità di espletamento, il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina. Il giudice affida l'espletamento della perizia a più persone quando le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero richiedono distinte conoscenze in differenti discipline. Il perito ha l'obbligo di prestare il suo ufficio, salvo che ricorra uno dei motivi di astensione previsti dall'articolo 36. La necessarietà della perizia comporta che essa possa essere disposta anche di ufficio dal giudice, nella sua funzione di garante della correttezza del processo e delle procedure volte ad acquisire la verità reale, al di là delle deficienze di impulso delle parti.

Disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti[6]. Ai sensi dell'art. 230, i consulenti tecnici possono assistere al conferimento dell'incarico al perito e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione. Se sono nominati dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l'esecuzione della perizia e il compimento delle altre attività processuali .

Il giudice, accertate le generalità del perito, gli chiede se si trova in una delle condizioni di incapacità o incompatibilità previste dagli articoli 222 e 223, lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: «consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell'incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali». Il giudice formula quindi i quesiti, sentiti il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti.

Concluse le formalità di conferimento dell'incarico, il perito procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale. Se, per la complessità dei quesiti, il perito non ritiene di poter dare immediata risposta, può chiedere un termine al giudice. Quando non ritiene di concedere il termine, il giudice provvede alla sostituzione del perito; altrimenti fissa la data, non oltre novanta giorni, nella quale il perito stesso dovrà rispondere ai quesiti e dispone perché ne venga data comunicazione alle parti e ai consulenti tecnici. Quando risultano necessari accertamenti di particolare complessità, il termine può essere prorogato dal giudice, su richiesta motivata del perito, anche più volte per periodi non superiori a trenta giorni. In ogni caso, il termine per la risposta ai quesiti, anche se prorogato, non può superare i sei mesi. Qualora sia indispensabile illustrare con note scritte il parere, il perito può chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare relazione scritta.

Il perito procede alle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti. A tal fine può essere autorizzato dal giudice a prendere visione degli atti, dei documenti e delle cose prodotti dalle parti dei quali la legge prevede l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento. Il perito può essere inoltre autorizzato ad assistere all'esame delle parti e all'assunzione di prove nonché a servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti apprezzamenti e valutazioni. Qualora, ai fini dello svolgimento dell'incarico, il perito richieda notizie all'imputato, alla persona offesa o ad altre persone, gli elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell'accertamento peritale. Quando le operazioni peritali si svolgono senza la presenza del giudice e sorgono questioni relative ai poteri del perito e ai limiti dell'incarico, la decisione è rimessa al giudice, senza che ciò importi sospensione delle operazioni stesse.

Il perito indica il giorno, l'ora e il luogo in cui inizierà le operazioni peritali e il giudice ne fa dare atto nel verbale. Della eventuale continuazione delle operazioni peritali il perito dà comunicazione senza formalità alle parti presenti.

I documenti

A norma dell'art. 234, è consentita l'acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo[8]. Se si considera il contenuto probatorio, si può definire documento la rappresentazione di un fatto incorporata su una base materiale. Viceversa se si considera l'oggetto in sé, si può definire documento la base materiale che incorpora la rappresentazione di un fatto. Da ciò si ricava che il concetto di documento comprende quattro elementi: 1. il fatto rappresentato; 2. la rappresentazione; 3. l'incorporamento; 4. la base materiale.

Subito dopo l'entrata in vigore del codice del 1988, un'opinione dottrinale ha ritenuto non utilizzabile, come prova del fatto storico rappresentato, il documento contenente la narrazione dello stesso. La Corte Costituzionale (Sent. n. 142 - 1992) ha precisato che l'art. 234 non distingue tra rappresentazione di fatti e rappresentazioni di dichiarazioni; pertanto il documento può costituire prova del fatto rappresentato nella dichiarazione è può essere ammesso ai sensi dell'at. 190 del codice. L'affermazione della Corte è stata introdotta non in modo incidentale, bensì costituisce l'oggetto principale di una sentenza interpretativa di rigetto.

Il codice distingue l'ipotesi in cui il documento contenga una dichiarazione anonima dall'ipotesi in cui il documento contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione. Nel solo caso in cui si sia in presenza di una dichiarazione anonima il codice prevede la sanzione dell'inutilizzabilità (art. 240). Del documento anonimo che contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione il codice non dà alcuna regolamentazione. Poiché è posto come regola generale il libero convincimento del giudice ne deriva che le ipotesi di inutilizzabilità di elementi di prova devono essere previste espressamente. Pertanto i documenti sopra menzionati sono utilizzabili. Il codice prevede che il documento posso essere sottoposto alle parti private o ai testimoni se occorre verificarne la provenienza (art. 239). Da tale disposizione si ricava che il documento cessa di essere anonimo quando il suo autore ne riconosce la paternità. Al tempo stesso dall'art. 239 si può ricavare la definizione di anonimo accolta dal codice. È tale quella rappresentazione della quale non è identificabile l'autore.

Occorre precisare che il divieto di utilizzare la dichiarazione anonima concerne unicamente l'uso della stessa ai fini del procedimento penale. Viceversa, è legittima una mera attività investigativa che sia stata originata da una dichiarazione anonima.

Il codice prevede due eccezioni al divieto di utilizzare il documento contenente dichiarazioni anonime. In base all'art. 240 sono utilizzabili le dichiarazioni che costituiscono corpo del reato devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga. Inoltre è consentita l'acquisizione, anche di ufficio, di qualsiasi documento proveniente dall'imputato, anche se sequestrato presso altri o da altri prodotto.

L'art. 234, comma 3, vieta l'acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo. La disposizione costituisce l'equivalente del divieto che vale per le domande che possono essere rivolte ai testimoni ed alle parti (art. 194, comma 3). L'uso di documenti concernenti la moralità delle persone che partecipano al processo penale è regolamentato in modo rigoroso. Il codice pone un generale divieto di utilizzazione (art. 234, comma 3), rispetto al quale sono previste determinate eccezioni.

Il codice pone l'obbligo di acquisire i documenti che costituiscono corpo del reato qualunque sia la pena che li abbia formati o li detenga (art. 235). Ai sensi dell'art. 253, comma 2, sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che, ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo. Inoltre è consentita l'acquisizione anche d'ufficio di qualsiasi documento proveniente dall'imputato, anche se sequestrato presso altri o da altri prodotto (art. 237).

E' consentita l'acquisizione dei certificati del casellario giudiziale, della documentazione esistente presso gli uffici del servizio sociale degli enti pubblici e presso gli uffici di sorveglianza nonché delle sentenze irrevocabili di qualunque giudice italiano e delle sentenze straniere riconosciute, ai fini del giudizio sulla personalità dell'imputato o della persona offesa dal reato, se il fatto per il quale si procede deve essere valutato in relazione al comportamento o alle qualità morali di questa[9].

L'art. 238 disciplina l'acquisizione dei verbali di prove assunte in altro procedimento penale o civile. La possibilità di utilizzare prove o atti di un altro procedimento incontra un limite generale: le parti del procedimento ad quem hanno il diritto di ottenere l'esame della persona le cui dichiarazioni sono state acquisite. Se l'esame ha luogo, la lettura dei verbali di dichiarazioni può avvenire solo dopo che la persona è stata interrogata (art. 511 bis). Se l'esame non ha luogo si può procedere direttamente alla lettura.

In particolare:

è ammessa l'acquisizione di verbali di prove di altro procedimento penale se si tratta di prove assunte nell'incidente probatorio o nel dibattimento;

è ammessa l'acquisizione di verbali di prove assunte in un giudizio civile definito con sentenza che abbia acquistato autorità di cosa giudicata;

è comunque ammessa l'acquisizione della documentazione di atti che anche per cause sopravvenute non sono ripetibili;

i verbali di dichiarazioni diverse da quelle assunte in incidente probatorio o dibattimento, possono essere acquisiti solo con il consenso delle parti. In ogni caso sono utilizzabili per le contestazioni ai sensi dell'art. 500 e 503.

Infine, l'art. 238 bis consente che le sentenze irrevocabili possano essere acquisite al solo scopo di accertare l'esistenza di fatti oggetto di prova. Ne consegue che sono utilizzabili le risultanze di fatto ricavabili dal dispositivo. Il codice pone come condizione che vi siano riscontri esterni ai sensi dell'art. 192, comma 3. Naturalmente le parti sono ammesse a provare il contrario.




Non è consentito l'arresto del testimone in udienza (art. 476).

Il P.M. in quanto parte pubblica non può essere sottoposto né a esame né a testimonianza.

Dal rifiuto dell'esame non possono trarsi deduzioni sfavorevoli. Però se la parte sceglie di essere esaminata, il rifiuto di rispondere a talune domande è suscettibile di valutazione probatoria.

Se vi è fondata ragione di ritenere che la persona chiamata alla ricognizione possa subire intimidazione o altra influenza dalla presenza di quella sottoposta a ricognizione, il giudice dispone che l'atto sia compiuto senza che quest'ultima possa vedere la prima.

Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.

Le parti private, nei casi e alle condizioni previste dalla legge sul patrocinio statale dei non abbienti, hanno diritto di farsi assistere da un consulente tecnico a spese dello Stato.

Quando non è stata disposta perizia, ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie a norma dell'articolo 121. Qualora, successivamente alla nomina del consulente tecnico, sia disposta perizia, ai consulenti tecnici già nominati sono riconosciuti i diritti e le facoltà previsti dall'articolo 230, salvo il limite previsto dall'articolo 225 comma 1.

Quando l'originale di un documento del quale occorre far uso è per qualsiasi causa distrutto, smarrito o sottratto e non è possibile recuperarlo, può esserne acquisita copia. La V sez. della Cassazione Penale, con sentenza n. 10309/93 (Limiti di utilizzabilità della copia) ha stabilito che in tema di documenti, l'art. 234 cod. proc. pen. richiede che essi vengano acquisiti in originale, potendosi acquisire copia solo quando l'originale non è recuperabile; ma poiché il vigente codice di rito non ha accolto il principio di tipicità dei mezzi di prova, tant'è che l'art. 189 cod. proc. pen. si occupa espressamente de "le prove non disciplinate dalla legge", il giudice può ben utilizzare quale elemento di prova, anziché l'originale, la copia di un documento, quando essa sia idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti. (Fattispecie in tema di copie di videoregistrazioni comprovanti la commissione del reato da parte dell'imputato).

Le sentenze e i certificati del casellario giudiziale possono inoltre essere acquisiti al fine di valutare la credibilità di un testimone.




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