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PROCEDURA PENALE - Dal codice Rocco al "giusto processo"

diritto ed economia



PROCEDURA PENALE - Dal codice Rocco al "giusto processo"


Il 22 Settembre 1988 è stato approvato - con D.P.R. n. 447, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24 Ottobre 1988 - il testo del nuovo codice di procedura penale, la cui entrata in vigore è fissata un anno dopo la data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Il nuovo codice si ispira ad una filosofia e ad una struttura profondamente diverse da quelle del codice precedente. Si tratta del primo codice dell'Italia repubblicana, che sostituisce, dopo quasi sessanta anni, il codice Rocco dei 1930. E non deve sorprendere che il primo codice che si è voluto varare sia proprio quello di procedura penale in quanto è nota l'interdipendenza tra processo penale e ordinamento politico dello Stato. Non era, infatti, possibile lasciare ancora sopravvivere, dopo la restaurazione del regime democratico, un codice caratterizzato da una struttura inquisitoria, tipica dei regimi autoritari.

Per la verità il codice Rocco del 1930, indubbiamente pregevole sotto il profilo tecnico, aveva non poche connotazioni liberali, dovute alla cultura dei giuristi del periodo prefascista, che in gran parte avevano collaborato alla sua redazione. Ma l'impronta politica del regime autoritario si rivelava in molte altre sue disposizioni e, soprattutto, nella scelta di una istruzione segreta e scritta, di evidente stampo inquisitorio, in cui veniva lasciato poco spazio al diritto di difesa ed erano notevolmente compressi i diritti di libertà del cittadino. E' bensì vero che su quella struttura si erano operati, mediante leggi speciali, numerosi innesti, diretti a garantire il diritto di difesa. Ma tale processo di «liberalizzazione», reso necessario anche per l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948), aveva creato inevitabili scompensi con la originaria struttura inquisitoria del codice: tanto che qualche autore aveva parlato, a questo proposito, di «garantismo inquisitorio» o di «soave inquisizione». Si era trattato, peraltro, sempre di «piccole riforme», come quella realizzata con la legge 18 giugno 1955 n. 517, di sporadici interventi normativi o di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale, perché in contrasto con i principi costituzionali. La situazione si era complicata ulteriormente per l'intervento di una serie di innovazioni legislative dettate dalla necessità di combattere il fenomeno del terrorismo e più in generale la criminalità organizzata. Queste nuove norme, 333h76d generalmente denominate come «legislazione dell'emergenza», avevano introdotto, dal 1974 in poi, delle restrizioni estremamente pesanti ai diritti dell'imputato e, più in generale, alle garanzie difensive. Contro tali limitazioni non erano mancate critiche da parte della dottrina. Basterebbe ricordare, per fare solo un esempio, che per i reati più gravi era prevista una carcerazione preventiva che poteva giungere fino ad un massimo di dieci anni ed otto mesi, anche se, con una legge successiva dei 1984,  tale limite era stato ridotto a sei anni. Su questo tema, come su altri - quali la disciplina della contumacia e la lunga durata del processo penale - anche la Corte Europea aveva avuto occasione di criticare la legislazione processuale penale italiana. Per di più, questo alternarsi e sovrapporsi di riforme di segno opposto, espressioni di tendenze diverse e contrastanti, aveva dato luogo ad un grave disorientamento nella pubblica opinione.



Questi brevi cenni alle vicende subite dal codice di procedura penale del 1930 fanno capire come le istanze di riforma del processo penale fossero diventate, negli ultimi tempi, sempre più insistenti. Per la verità, l'esigenza di riforma era stata avvertita subito dopo il ripristino delle libertà democratiche. Si trattava però di scegliere se operare ancora sulla base dei codice del 1930, con interventi razionali e coordinati, ovvero optare per un codice ispirato ad un sistema del tutto diverso. Ecco perché, abbandonata l'idea di interventi parziali e settoriali, si cominciò a pensare ad una riforma radicale dei sistema. Il primo tentativo in questa direzione fu fatto, nel 1962, da una Commissione Ministeriale presieduta dal prof. Francesco Carnelutti, che si concretò in una «bozza di Progetto», pubblicata nel 1963, ispirata al sistema accusatorio, ma incompleta e tale da non costituire una piattaforma valida per una effettiva riforma. Nel 1965 il Parlamento mise mano, invece, alla elaborazione di una «delega legislativa» al Governo, per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale. Secondo il sistema della «delega legislativa» il Parlamento indica solo i «criteri direttivi» ai quali deve ispirarsi il Governo nella predisposizione dei nuovo codice: ma questa volta il Parlamento, dopo un lavoro protrattosi per tre Legislature, approvò una Legge-delega (3 aprile 1974 n. 108) in cui venivano enunciate ben 84 direttive. Di particolare importanza era la premessa, secondo cui il nuovo codice di procedura penale doveva «attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio» ed inoltre adeguarsi ai «principi della Costituzione» ed alle «norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia relative ai diritti della persona». A questo riguardo vale la pena di ricordare che la Costituzione italiana del 1948, analogamente a quanto fanno anche altre Costituzioni moderne, dedica molte disposizioni ai principi che devono regolare il processo, ed in particolare il processo penale. Basterà ricordare, tra gli altri, l'art. 13, secondo cui «la libertà personale è inviolabile» e «non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Lo stesso articolo prevede che «la legge deve stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva». Non meno importante è l'art. 24 che proclama «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Esso impegna, inoltre, il legislatore ordinario ad «assicurare ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione», nonché a determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». Fondamentale è, altresì, la previsione secondo cui «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge» (art. 25). La presunzione di innocenza dell'imputato è consacrata, infine, nell'art. 27 con la formula «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

Sulla base della Legge-delega del 1974 una Commissione Ministeriale predispose un Progetto preliminare di 653 articoli, diviso in due Parti e composto di undici Libri. Detto Progetto, pubblicato nel 1978, delineava un tipo di «processo di parti a struttura accusatoria», con una tendenziale eguaglianza di posizione tra P.M. e difensore dell'imputato; aboliva l'istruzione formale e la figura del G.I. e spostava l'acquisizione della prova alla fase dibattimentale, che diventava il momento centrale del processo. Il Progetto del 1978 era accompagnato da un'ampia relazione illustrativa, che dava conto delle radicali innovazioni apportate. Sennonché il Governo, dopo aver chiesto numerose proroghe, lasciò scadere il termine previsto dalla Legge-delega, senza tradurre in legge il Progetto. Tale comportamento può trovare la sua spiegazione nel difficile momento che l'Italia attraversava in quel periodo, a causa della grave situazione creata dal terrorismo e da altre forme di criminalità organizzata. Ma l'esigenza di avere un nuovo codice di procedura penale permaneva e diventava, anzi, sempre più urgente, per le gravi disfunzioni dell'amministrazione della giustizia. Si lamentavano, soprattutto, la estrema lentezza dei processi, le lunghe - e spesso ingiustificate - carcerazioni preventive (la maggior parte dei detenuti era costituita da imputati in attesa di giudizio), la compressione dei diritti della difesa ed altre notevoli carenze. Cosicché il Parlamento si mise al lavoro per elaborare una nuova Legge-delega, che tenesse anche conto dei rilievi e delle critiche che erano state mosse alla precedente Legge del 1974 ed al Progetto del 1978.

La nuova Legge-delega veniva approvata dal Parlamento con Legge 16 febbraio 1987 n. 81. Dopo aver premesso, ancora una volta, che il codice di procedura penale avrebbe dovuto attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona nel processo penale, la nuova Legge-delega ribadiva che doveva essere adottato il sistema accusatorio, e fissava in 105 punti le direttive alle quali doveva adeguarsi il nuovo processo. Senza entrare nei dettagli, segnaliamo solo alcune delle direttive di carattere generale fissate dal legislatore delegante.

Si stabiliva, innanzitutto, che il nuovo processo dovesse ispirarsi alla massima semplificazione delle forme e dovesse adottare il principio di oralità. Si affermava che accusa e difesa dovessero essere trattate su base di parità in ogni stato e grado del procedimento, con obbligo del giudice di provvedere senza ritardo sulle richieste delle parti e dei difensori. Si prevedeva il diritto dell'imputato o del fermato di essere avvertito immediatamente della facoltà di nominare un difensore e di farsi assistere dallo stesso nell'interrogatorio e, in caso di carcerazione preventiva, di conferire con il difensore immediatamente o subito dopo la esecuzione del provvedimento limitativo della libertà personale. Si stabilivano precise garanzie per la libertà del difensore in ogni stato e grado del procedimento. Venivano previste misure alternative alla custodia in carcere e si fissava un termine massimo di quattro anni per la carcerazione preventiva, per i reati più gravi.

Il testo del nuovo codice di procedura penale è stato predisposto da una Commissione ministeriale e sottoposto al controllo di «conformità alla delega» da una Commissione parlamentare presieduta dal prof. Marcello Gallo. Dopo l'approvazione del Governo, il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, firmava il 22 settembre 1988 il Decreto Presidenziale n. 447, controfirmato dal Guardasigilli prof. Giuliano Vassalli[1].

L'originalità del nuovo modello processuale e il "giusto processo"

Come si è già rilevato è soprattutto la struttura dei processo che è mutata, ispirandosi al modello accusatorio, anziché a quello inquisitorio. A questo riguardo, però, non possiamo sottrarci ad una osservazione. Da più parti si sente ripetere, con insistenza degna di miglior causa, che il nuovo codice di procedura penale sarebbe una riproduzione del processo anglo-americano. Orbene, se si vuole soltanto significare che il nuovo processo penale italiano è ispirato al modello accusatorio, al quale si richiamano i processi di tipo anglosassone (pur con le differenze che esistono tra il processo inglese ed i processi nordamericani) si dice cosa esatta. Non v'è dubbio, infatti, che il nuovo processo italiano si allontana decisamente dal modello inquisitorio, al quale si ispirava il codice del 1930, e si presenta come un «processo di parti». Sennonché, a prescindere dall'ovvio rilievo che ogni processo, anche a prescindere dalla sua struttura, è modellato dagli usi e costumi, oltre che dall'ordinamento politico, giuridico e costituzionale del Paese in cui opera - per cui è assurdo pensare a trapianti che sarebbero ineluttabilmente destinati ad una reazione di rigetto - non possiamo non sottolineare che la scelta del modello accusatorio si riallaccia alla migliore dottrina italiana e, storicamente, alla genuina tradizione romanistica. Basta rileggere quanto scriveva Cesare Beccaria, nella sua immortale opera «Dei delitti e delle pene», nella quale si scagliava contro le accuse segrete e contro la tortura, strumento tipico dei sistema inquisitorio, da lui considerato «mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati e per condannare i deboli innocenti». Ma, più ancora, vale la pena di ricordare quanto scriveva Francesco Carrara allorché si batteva, con parole roventi, contro l'istituto dei giudice istruttore e, più in generale, contro il sistema inquisitorio. «Sia abolito ogni segreto - Egli ammoniva - anche nel primo periodo dei processo criminale che dicesi inquisitorio. Tutto, anche qui, si faccia col metodo accusatorio puro, cioè in pubblico e nel costante contraddittorio dell'imputato e del suo difensore». Ecco perché la scelta di fondo del rito accusatorio, operata fin dalla prima Legge-delega dei 1974 e poi ribadita nella Legge-delega dei 1987, si ricollega alla migliore tradizione italiana. Certo, né la Legge-delega del 3 aprile 1974 n. 108 e neppure la nuova Legge-delega 16 febbraio 1987 n. 81, in attuazione della quale è stato redatto il nuovo codice di procedura penale, realizza un puro modello accusatorio: e neppure sarebbe stato possibile, non foss'altro perché questo avrebbe comportato anche il ripristino della «giuria», storicamente legata al processo di tipo accusatorio, mentre - come è noto - tale istituto è stato abolito in Italia e non si è inteso ripristinarlo. Del resto l'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987 n. 81 precisa - come già faceva quella del '74 - che il nuovo codice doveva attuare «i caratteri del sistema accusatorio secondo i principi e i criteri che seguono». E tra essi, mentre vengono indicati «l'adozione del metodo orale» e «la partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parità» (caratteri tipici, appunto, del sistema accusatorio), si elencano anche direttive che certamente non sono tipiche del sistema accusatorio (come, ad esempio, la presenza della parte civile, del responsabile civile e di altri soggetti sicuramente estranei alla pretesa punitiva dello Stato). Questo significa che il nuovo processo, anche se tendenzialmente ispirato al modello accusatorio, ha, nella stessa intenzione del legislatore delegante, una struttura propria originale, caratterizzata anche dalla esigenza, posta giustamente in primo piano dalla legge-delega, di attuare i principi della Costituzione e di adeguarsi alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona.

Il giusto processo

Le riforme in ordine di tempo da ultimo attuate hanno riguardato l'introduzione di taluni principi volti a spostare ulteriormente l'indirizzo del processo penale italiano verso il profilo accusatorio con la delineazione del "giusto processo".

I principi scritti nel nuovo art. 111 della Costituzione (legge costituzionale n. 2 del 1999) sanciscono non solo la necessità di una piena esplicazione del contraddittorio e quindi della difesa effettiva, ma anche la necessità di pervenire ad una decisione in tempi ragionevoli, rendendo in tal modo espliciti e più vincolanti i principi già implicitamente contenuti negli articoli 24 comma 2 e 27 comma 2 della Costituzione e traducendo in canoni oggettivi di legittimità del processo quei diritti che fino ad ora erano concepiti come garanzia individuale.

Il nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione (che enunciava: "tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati; contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione della legge.") sancisce ora la parità fra accusa e difesa, il contraddittorio di fronte al giudice terzo ed imparziale, nonché la ragionevole durata del processo.

Il contraddittorio rappresenta il cuore della riforma: la parità delle parti nel processo passa tramite il contraddittorio ad un giudice terzo ed imparziale, ossia in una posizione d'indifferenza ed equidistanza rispetto alle parti.

La nuova disposizione assicura che il soggetto indagato sia informato, in maniera riservata e nel minor tempo possibile, delle ragioni e della natura delle accuse elevate a suo carico. Quanto al diritto di difesa, l'accusato deve disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua arringa difensiva. Tra le condizioni figura la possibilità di interrogare dinanzi al magistrato colui che ha reso dichiarazioni a suo carico. L'imputato, inoltre, ha il diritto di ottenere la convocazione in aula e la deposizione davanti alla Corte o al Tribunale di testimoni a sua difesa nelle medesime condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro strumento di prova a suo vantaggio.

Il processo penale, inoltre, è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione delle prove, parte importante della riforma, destinata a riflettersi sulla gestione sui pentiti. L'articolo in esame sancisce, infatti, "la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del difensore".

La legge, infine, regola tutti i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in dibattimento per consenso dell'imputato, per accertata impossibilità di natura oggettiva, per effetto di provata condotta illegale.

Obiettivo primario dei nuovi principi inseriti nell'articolo 111 Cost., pertanto, è la piena operatività del principio del contraddittorio nella formazione della prova, in quanto "fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità".

Tuttavia, è importante notare che la parità tra le parti evidenzia la necessità di rimuovere l'ostacolo all'accesso alla giustizia rappresentato dall'onere economico richiesto per la difesa in giudizio. Si rende necessaria, pertanto, una nuova legge sul gratuito patrocinio e sulla difesa di ufficio, che superi il requisito di non abbienza per sostituirlo con quello di onere del processo rapportato al reddito familiare dell'utente, e nello stesso tempo occorre dare maggiore incisività al ruolo del difensore attraverso la nuova disciplina delle indagini difensive.

Altro fondamentale enunciato è la durata ragionevole del processo, che deve essere inteso non in senso tecnico ma comprensivo anche della fase procedimentale, nella veste di garanzia oggettiva contro illogici ed ingiustificati pregiudizi per la tempestiva definizione dell'attività giurisdizionale.

Abbiamo visto che la "ragionevole durata dei processi" rappresenta l'elemento essenziale affinché il sistema giuridico sia in grado di regolare concretamente i rapporti che si costituiscono al suo interno. Del resto un sistema giudiziario veramente efficace e soddisfacente deve poter contare su strutture operative che garantiscano il rispetto delle leggi, evitando in tal modo che entri in crisi il servizio giustizia, con conseguente perdita di incisività e significato dell'opera dei giudici.

L'introduzione nell'art. 111 della Costituzione del principio della durata "ragionevole" del processo, che deve essere assicurata dalla legge ordinaria, unito a quello del contraddittorio, rappresenta sicuramente una novità interessante, da valutare attentamente e che impone di affrontare in modo diverso i vari temi della giustizia, da quello dell'efficienza ai limiti ed alle modalità di esercizio del diritto al silenzio, per giungere alla rielaborazione di una deontologia professionale del magistrato e dell'avvocato, rispondente alle esigenze del processo orale.

Con la legge costituzionale n. 2 del 1999, peraltro, è stato esplicitamente inserito nella nostra Carta fondamentale un principio già espressamente previsto dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall'Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Il citato articolo 6, par. 1 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni persona il diritto che "la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole". Con la ratifica della Convenzione lo Stato italiano si è obbligato ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da soddisfare l'esigenza di garantire uno svolgimento celere delle cause, adeguando le strutture dell'amministrazione della giustizia. Tuttavia, la lentezza dei processi, tipica del nostro Paese, si riflette in una cronica mancanza di funzionalità che spiega il motivo per cui il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa abbia posto sotto osservazione il nostro sistema giudiziario, nell'ambito dei suoi compiti di sorveglianza (previsti dagli articoli 32 e 54 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) sulla corretta esecuzione delle decisioni di Strasburgo.

L'entrata in vigore, il 7 gennaio 2000, della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111, ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo iter parlamentare e si colloca sicuramente nell'ambito delle importanti riforme del processo penale introdotte con la L. Carotti e con la delega al Governo per attribuire al giudice di pace competenze in materia penale.

Diritto processuale penale.

Generalità.

Il diritto processuale penale costituisce una species del genus diritto pubblico. Esso fa parte del diritto pubblico in quanto le modalità di svolgimento del procedimento penale sono preordinate ad attuare e proteggere interessi fondamentali. Il diritto processuale penale consiste in un sistema organico ed armonico di norme generali ed astratte (corpus juris) che regolano le forme degli atti che nei singoli concreti procedimenti possono o debbono essere compiuti dai soggetti, pubblici e privati, che in essi intervengono. Il codice di procedura penale costituisce la fonte normativa di riferimento e, quindi, il corpus juris in cui sono contenute le norme del procedimento penale. Il termine diritto processuale penale indica la scienza di tale ramo del diritto e la sua dogmatica.

La riserva di legge statuale.

Le fonti della procedura penale sono gli atti normativi che la disciplinano. Essi, per effetto della riserva assoluta di legge ordinaria statuale, desumibile implicitamente dalla Costituzione, debbono consistere in fonti normative primarie, quali la legge e gli atti aventi forza di legge (decreti legge o decreti legislativi). La riserva assoluta di legge ordinaria è posta dalla Costituzione esplicitamente per il diritto penale (art. 25 Cost.), ma solo implicitamente per il diritto procedurale penale, essendo solo desumibile dal principio di cui all'art. 101, comma 2, c.p.p. secondo il quale "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Ne deriva che i giudici sono vincolati solo da quelle norme procedurali che abbiano rango o forza di legge, mentre gli atti o regolamenti amministrativi, possono avere funzione solo esecutiva o attuativa, ma non integrativa della legge processuale.

Il sistema delle fonti normative, secondo la gerarchia della loro forza, è articolato come di seguito:

la Costituzione e le altre leggi Costituzionali;

le norme di diritto internazionale generale riconosciute dal diritto delle genti (norme consuetudinarie internazionali) che sono di diretta ed immediata efficacia nell'ordinamento italiano in forza dell'art. 10 Cost.;

le norme di diritto internazionale patrizio, ratificate e rese esecutive in Italia;

le leggi statali ordinaria;

i decreti legge;

i decreti legislativi;

i regolamenti amministrativi di esecuzione. Il Regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale è stato adottato con il decreto del Ministro di Grazia e Giustizia n. 334 del 1989;

i bandi militari in tempo di guerra.

I limiti di efficacia nello spazio e nel tempo.

Efficacia nello spazio. Il principio di territorialità degli ordinamenti giuridici, risolvendosi nella pretesa ad una sovranità tendenzialmente esclusiva in un dato territorio, comporta l'assoggettamento alle proprie leggi procedurali delle singole attività che ivi vengano poste in essere, anche quando un atto procedimentale debba essere compiuto per conto di una altro Stato. Stante la diversità di disciplina tra le leggi processuali dei due Stati interessati, vi è la necessità di determinare quale debba essere la forma degli atti da compiere all'estero o, nello Stato italiano, per conto dello Stato estero. Occorre distinguere tra il procedimento nel suo insieme ed i suoi singoli atti. Secondo una regola che non conosce eccezioni, il procedimento nella sia globalità e nei suoi profili essenziali resta sempre disciplinato dal nostro codice di procedura penale, anche quando la maggior parte dei suoi atti sia compiuta in territorio estero, direttamente da giudice italiano o per rogatorio da quello straniero. Per i singoli atti compiuti all'estero, si applica, invece, il principio locus regit actum. La competenza e le forme di tali atti sono, in ossequio al principio della sovranità nazionale, tendenzialmente regolate dalla legge straniera nel luogo in cui essi sono posti in essere (lex fori).

Efficacia nel tempo. Il procedimento penale, attraverso le sue varie fasi e gradi di giudizio, si protrae nel tempo, sicché è destinato ad essere disciplinato da norme processuali continuamente innovate. Le nuove disposizione, in linea generale, hanno efficacia per il futuro, ma nessuna per il passato, in conformità del principio di irretroattività della legge[2].

Tuttavia, nel procedimento si ha un'interconnessione di atti, molti dei quali sono, di solito, compiuti sotto il vigore di leggi diverse, sicché la successione di queste comporta problemi di armonizzazione interna all'unitario procedimento. Il principio fondamentale è quello della applicazione della legge vigente al momento di compimento dell'atto. Per quanto attiene i singoli atti dei procedimenti già definiti con sentenza o decreto irrevocabili, stante la intangibilità del giudicato, gli atti del procedimento ormai concluso restano indifferenti alle innovazioni procedurali.

Per i singoli atti dei procedimenti ancora pendenti:

agli atti ancora da compiere, si applica la legge nuova, in quanto contempla la regola di quel momento vigente, non solo quanto alla forma dell'atto, ma anche alla valutazione della sua rilevanza probatoria;

agli atti già interamente compiuti, prima dell'innovazione normativa, si applica le legge processuale anteriormente vigente.

Per quanto concerne il procedimento nella sua unitarietà, il problema concerne unicamente l'ipotesi di abrogazione del codice, come avvenuto con il DPR 447/88. Questo dispose: la ultrattività della abrogata legge processuale penale, se il procedimento versava in avanzata fase di istruzione probatoria o era in fase di giudizio; la retroattività della nuova normativa in tutti gli altri casi.

Le immunità funzionali. In considerazione della funzione o ufficio pubblico ricoperto, talune persone godono di immunità penale, in base ad un privilegio radicato nel diritto pubblico, internazionale o statuale. Tale immunità dalla legge penale sostanziale comporta, nei limiti di essa, necessariamente anche la inapplicabilità della legge processuale, almeno temporaneamente. L'immunità è assoluta, quando si estende a qualsiasi fatto-reato posto in essere, anche fuori dall'esercizio della propria funzione o incarico; è relativa, se è limitata a condotte poste in essere a causa o nell'esercizio delle proprie attribuzioni. Immunità internazionali. Per antiche consuetudini di diritto internazionale riconosciute dallo jus gentium o di norme scritte di natura patrizia (convenzioni internazionali), l'immunità, nello stato estero è assoluta soltanto per il Sommo Pontefice, i Capi di Stato esteri e gli agenti diplomatici. Nel nostro ordinamento, godono di immunità dalla giurisdizione penale, anche dopo la cessazione della rispettiva funzione o incarico il Sommo Pontefice, i Capi di Stato esteri, gli agenti diplomatici, gli organi di Stati esteri (capi di governo, ministri), i militari stranieri appartenenti alle truppe NATO di stanza in Italia limitatamente a reati contro i membri delle loro forze armate o il proprio Stato. Immunità di diritto interno. Il nostro diritto pubblico interno conosce ipotesi di immunità, sostanziali e procedurali, solo relative, limitate ai reati commessi nell'esercizio delle proprie funzioni. In particolare: a. il Presidente della Repubblica gode di immunità per qualsiasi atto funzionale ad esclusione dei reati di alto tradimento o attentato alla Costituzione; b. i membri del governo, i quali, pur non avendo alcuna immunità sostanziale, godono, sempre limitatamente ai reati ministeriali, di talune garanzie procedurali (indagini preliminari e giudizio affidati ad un collegio di giudici ordinari estratti a sorte); c. i parlamentari nazionali, i quali godono di immunità limitatamente sostanziale e processuale limitatamente alle opinioni espresse ed ai voti dati nell'esercizio delle loro funzioni; d. i parlamentari europei; e. i consiglieri regionali che godono di immunità sostanziale ma non processuale; f. i Giudici della Corte Costituzionale godono di immunità sostanziali e processuali; g i componenti del CSM, i quali hanno immunità unicamente per le opinioni espresse, ma neppure essi usufruiscono di garanzia processuale.

Stadi del procedimento.

Il vigente sistema processuale penale, avendo scelto il modello accusatorio, è calibrato sulla distinzione di valenza probatoria tra gli atti investigativi, compiuti dagli organi inquirenti e quelli giurisdizionali posti in essere, dopo l'esercizio dell'azione penale, in sede di svolgimento del giudizio, ordinario o speciale. Ne deriva la netta separazione tra la fase, non giurisdizionale, delle indagini preliminari, svolte dalla polizia giudiziaria sotto la direzione del pubblico ministero o da quest'ultimo personalmente, finalizzata all'accertamento della notitia criminis ed all'eventuale promozione dell'azione penale e la fase del processo, di natura giurisdizionale, celebrata innanzi ad un giudice nel contraddittorio tra pubblico ministero ed imputato, secondo uno dei riti, finalizzata alla pronuncia nel merito dell'imputazione e, quindi, deputata alla raccolta ed alla formazione della prova. Conseguente a tale diversità di natura delle fasi è la diversa capacità probatoria degli atti compiuti nell'una o nell'altra fase e, quindi, il differenziato regime di utilizzabilità probatoria, che è infatti attenuata per gli atti della fase investigativa. Le regole procedurali, pertanto debbono necessariamente cambiare quando dalle indagini preliminari si passa alla fase giurisdizionale del processo.

Nella terminologia del codice non si trovano mai gli aggettivi procedimentale e processuale. Tali due termini sono usati come sinonimi nella prassi, traendo questa radici dal previdente Codice Rocco, che non differenziava i termini procedimento e processo. L'ampio significato del termine procedimento si riflette nella terminologia del codice vigente che lo utilizza in riferimento sia ad entrambe le fasi procedimentale (pre - processuale e processuale), sia solo a quella processuale.

Qualsiasi procedimento comprende una fase pre - processuale, ma può proseguire con una fase processuale di primo grado ed eventualmente di secondo e terzo grado.

Le fasi del procedimento sono:

una fase pre - processuale delle indagini preliminari detta anche procedimentale;

una fase giurisdizionale ossia il processo.

Il termine procedimento è utilizzato dal codice con due significati distinti per riferirsi al modello astratto o ideale che deve essere seguito per il compimento di attività processuali ovvero di attività compiute, storicamente ed in concreto.

Nella prima accezione il termine procedimento indica il modello astratto o tipo di procedura da seguire (procedimento in camera di consiglio - procedimento di esecuzione - procedimento di sorveglianza - procedimento per il riconoscimento delle sentenze penali straniere in Italia. Nella seconda accezione, invece, sta ad indicare l'insieme delle attività o degli atti, concretamente e storicamente compiuti, tra loro funzionalmente collegati ai fini dell'accertamento di una specifica notitia criminis e del conseguente giudizio.

Il termine processo è ricompresso e racchiuso nel procedimento, di cui costituisce una fase solo eventuale. Esso può definirsi come lo stadio giurisdizionale del procedimento. Il termine iniziale del processo coincide con il momento in cui un soggetto, già sottoposto ad indagini, assume la qualità di imputato ed, in ordine al reato che gli è addebitato, è tratto dinanzi ad giudice per il giudizio, eventualmente anche preliminare o in sede preliminare. Il codice precisa con quali atti si esercita l'azione penale. Ai sensi dell'art. 405 c.p.p. nel procedimento ordinario il pubblico ministero esercita l'azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell'imputato. La richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell'imputazione. Nei procedimenti speciale che eliminano l'udienza preliminare, l'azione penale è esercitata quando il pubblico ministero formula l'imputazione nell'atto che instaura il singolo procedimento: ad esempio, nel giudizio direttissimo il pubblico ministero contesta l'imputazione all'imputato che sia stato condotto direttamente in udienza (451, comma 4, c.p.p.). L'imputazione consiste nell'addebitare ad un determinato soggetto un fatto diritto. Elementi dell'imputazione sono: l'enunciazione in forma chiara e precisa del fatto storico; l'indicazione degli articolo di legge che si assumono violati; le generalità della persona alla quale è addebitato il reato. L'esercizio dell'azione penale determina due effetti. In primo luogo pone al giudice l'obbligo di decidere. In secondo luogo, fissa in modo tendenzialmente immutabile l'oggetto del processo.

Il termine finale del processo coincide col momento in cui è esaurita la pretesa punitiva azionata dal pubblico ministero e, quindi, è pronunciata una sentenza irrevocabile o inoppugnabile. La fase procedimentale, costituita dalle indagini preliminari, resta fuori dal processo, in quanto la precede.

Nell'ambito del procedimento occorre distinguere tra gradi e fasi. Il concetto di grado presuppone lo stadio del processo e quindi l'avvenuto esercizio dell'azione penale e l'investitura per il giudizio. I gradi del procedimento sono gli stadi del processo indicanti la successione dei giudizi in ordine alla medesima res judicata.

Il numero dei gradi varia a seconda del tipo di giudizio o di procedimento:

il giudizio di cognizione è, in base alla sua progressione dinamica, articolato al massimo in tre gradi (primo grado, appello e cassazione)

il procedimento di esecuzione penale si articola in un primo grado innanzi al giudice dell'esecuzione ed in eventuale secondo grado per la cassazione del provvedimento emesso dal predetto giudice dell'esecuzione.

Le fasi del procedimento sono quegli stadi interni a ciascun grado di giudizio. Essi denotano i vari stati del procedimento. Nel giudizio di primo grado possono aversi le seguenti e successive fasi: indagini preliminari; udienza preliminare; giudizio speciale ovvero giudizio dibattimentale. Nei giudizi di appello e di cassazione esiste solo fase dibattimentale (in udienza pubblica o in camera di consiglio).




pubblicato, poi, nel Supplemento della Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988, che prevede il termine di un anno per l'entrata in vigore del codice

Art. 14 preleggi del codice civile: "La legge non dispone che per il futuro".




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