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Sofocle, Antigone - Echi eschilei

letteratura greca



Sofocle, Antigone



Echi eschilei


Nella battuta che chiude l'Antigone (in part., vv. 1350-53) colpisce l'enunciazione secondo cui agli stolti vanti seguono inevitabilmente gravi colpi [le parole superbe degli uomini tracotanti (vanaglorioso; che troppo menano vanto), scontando gravi colpi, in vecchiaia insegnano ad essere saggi]. Non è l'unica eco [cfr. i composti con B D- nella parodo, ad es.]. In altri termini, sul filo di reminiscenze eschilee, si intravede una linea che porta dalla condanna della hybris al principio della saggezza conseguita attraverso la sofferenza presupposto nella battuta finale del Coro. [E cfr., in chiave di spietato sarcasmo, Creonte alla guardia, nei vv. 308 ss.; Antigone a se stessa (con straniata amarezza), nei vv. 925 s.].




Creonte: la conquista della dimensione monologica


Creonte frainteso: il personaggio ha provocato spesso un atteggiamento moralistico-denigratorio, sulla base dell'inevitabile confronto con A. Ma per Fraenkel Creonte non è un deuteragonista; in effetti, occorre uscire dalla gabbia di una rigida contrapposizione ad A., individuando i modelli formali secondo i quali il personaggio di Creonte si articola e concretamente si realizza.

C'è una linea che dalla parodo porta alla battuta finale del Coro (nella quale il Coro pensa non agli aggressori di Tebe, ma a Creonte):che di Creonte si tratti è confermato dal confronto con i vv. 726 s., quando all'invito del Coro a prendere in considerazione anche il punto di vista di Emone, Creonte (con sarcasmo) negava la possibilità che egli, alla sua età, potesse apprendere la saggezza da un giovane come Emone (c'è come l'espressione di una rivincita del Coro nei confronti di Creonte). In Creonte, effettivamente, assistiamo a un processo di modificazione del suo atteggiamento nel senso di una acquisizione di una consapevolezza a lui prima sconosciuta; e S. presenta le cose in modo che il momento della sofferenza assolva in questo processo a una funzione essenziale (anche se la cosa va ben al di là di un 'confronto' con Eschilo).

Prima di tutto, il processo di modificazione del personaggio dopo l'uscita di Tiresia viene impostato da S. in due momenti successivi e secondo due linee diverse. In un primo momento Creonte si lascia agevolmente convincere dal Coro a tributare il rito funebre a Polinice e a liberare A. (vv. 1105 s.); ma il risultato di questo cambiamento è la ricezione di un principio (non bisogna combattere contro la necessità) del tutto tradizionale nell'etica greca arcaica (cfr. anche quarto stasimo, vv. 951-954, col ricordo di Licurgo). Colpisce soprattutto la sbrigativa sicurezza di Creonte, che è convinto di tenere ancora in pugno la situazione. Ma le sue aspettative vengono spietatamente frustrate dalla realtà. Come 'simbolo'di questa situazione si può ricordare la troppo fiduciosa frase di Creonte del v. 1112 che viene 'smentita' dal ben più veritiero v. 1158, pronunciato dal messo che annuncia la morte di Emone [l' L " che Creonte crede di aver raggiunto (cfr. v. 1098 e v. 1099) è quindi illusoria: quando il messo dice, in fine (nei vv. 1242 s.), che il male peggiore per l'uomo è l' L ", è a Creonte che in primo luogo si pensa: e LF L " poco dopo Creonte attribuisce a se stesso, al v. 1269, nel corso del lamento per il figlio morto]. Il cambiamento di Creonte così come è impostato nel dialogo con il Coro subito dopo l'uscita di scena di Tiresia appare dunque privo di uno sbocco effettivo. In realtà, la sofferenza attraverso la quale Creonte arriva a una più retta consapevolezza, o meglio, la sofferenza di cui questa nuova consapevolezza si sostanzia, coinvolge la distruzione di tutta la famiglia, nelle persone di Emone prima e di Euridice poi. Il kommos luttuoso con cui si chiude la tragedia, è questa la sostanza del cambiamento di Creonte, e non il troppo facile proponimento di rimettere a posto le cose espresso nei vv. 1095-1114. La successione dei due momenti, il progetto frustrato e l'effettiva realtà, assolve alla funzione di mettere in evidenza la forza di questa realtà dolorosa che Creonte sperimenta su se stesso e l'impossibilità di trovare facili scappatoie (quasi un gioco crudele da parte della divinità).

Il nk < < della battuta con cui la tragedia si chiude (che richiama Eschilo, Agam. 176) indica consapevolezza, ma ha anche un risvolto relativo al corretto comportamento dell'uomo. E in effetti, nella parte finale dell'A., il comportamento di Creonte è ben diverso (il suo desiderio è quello di terminare i suoi giorni, o almeno di essere portato via e non essere più visto); ma ciò che è la sostanza del personaggio in questa parte finale della tragedia è il lamento, il pianto per la distruzione della famiglia. (Che il mutato atteggiamento di Creonte abbia delle conseguenze sul piano operativo, tende a porsi del tutto fuori campo.) Creonte più che agire, subisce gli avvenimenti, e nulla di 'equilibrato' (a differenza di Agamennone di fronte al Coro e a Clitemestra) hanno le sue parole, che sono un commosso, tormentato lamento per l 626j92g a sciagura che l'ha colpito. C'è in Creonte il conseguimento di una consapevolezza che prima gli mancava: ma non si può parlare di saggezza nel senso che nk < < e FTnk < < avevano nell'Inno a Zeus di Eschilo.

Il personaggio di Creonte recupera invece il principio arcaico secondo cui l'uomo, quando è colpito dalla sciagura, solo allora egli ne ha consapevolezza. Quando Creonte afferma al v. 1272 PT " < " H, il suo " < consiste nel rendersi conto del fatto che è stato lui all'origine della sciagura e nel rendersi conto dell'enormità di questa sciagura (sulla linea dell'omerico Ph < [o esiodeo B"h < X J <ZB H <T). [C'è piuttosto un richiamo di un passo del secondo stasimo, vv. 618 s., dove si afferma che l'uomo non si rende conto della sciagura che lo colpisce prima che non si scotti il piede al fuoco: non saggezza, ma turbata consapevolezza del male enorme che l'ha colpito.] La consapevolezza della propria responsabilità è per Creonte fuori discussione (cfr. v. 1261, v. 1269, v. 1318 [pur temperato dal v. 1340]), ma l'accento in tutto il kommos finale batte sul pianto, sul lamento [e significativo è qui soprattutto il carattere fortemente interiettivo della battute di Creonte, che rendono a un livello di immediatezza lo sconvolgimento emotivo del personaggio, con interiezioni, nella prima coppia strofica, che si ripetono nella stessa sede metrica nella strofe e nell'antistrofe, venendo a costituire come la griglia del pathos, la struttura portante del lamento di Creonte (cfr. v. 1261 e v. 1284, v. 1267 e v. 1290, v. 1271 e v. 1294, v. 1276 e v. 1300.] C'è una comparabilità con la fine dei Persiani, ma colpisce nel pianto di Creonte una molto minore ritualità (rispetto a Serse >VkPT< che dà istruzioni al Coro, il quale ubbidisce). La 'consolazione' del rito manca al Creonte dell'A. (e del resto la frustrazione del rito era già presente nei vv. 1199 ss.: di Polinice c'è solo ciò che i morsi dei cani hanno lasciato) [cfr., di più, le considerazioni del messo dei vv. 1240 s., che Emone solo nell'Ade ha realizzato il suo rito nuziale, in prosecuzione dell'immaginare di A. dei vv. 813-816. E analogam., il progetto di rito funebre attribuito dal messo a Euridice nei vv. 1248 s. risulta frustrato dal suicidio della donna.]. Se è vero che la vicenda della tragedia si gioca intorno al problema del rito funebre da tributare a Polinice, tuttavia il dramma si sviluppa lungo la linea del rito frustrato: e su questa linea, che non lascia spazio a spunti liberatori, si colloca anche il modo poco rituale con cui il pianto di Creonte alla fine di questa tragedia si pone di fronte al Coro.

In realtà, il rapporto di Creonte con il Coro nel kommos finale è di dissociazione, non di consonanza. La tradizionale funzione del Coro, nel senso di un simpatetico atteggiamento consolatorio, è qui del tutto assente. Nel v. 1270 affiora un esplicito rimprovero (Creonte ha visto tardi ciò che è giusto). Nei vv. 1326 s. il consenso del Coro al proposito di Creonte di essere portato via è espresso in termini tendenzialmente spersonalizzati (senza una effettiva partecipazione). Poco oltre, nei vv. 1334 s., il Coro, di fronte al desiderio di morte di Creonte, si limita a considerare che questo riguarda il futuro, mentre ora c'è da provvedere a cose di più immediata attualità. E addirittura, nei vv. 1337 s., il Coro esprime dissenso di fronte al fatto che Creonte manifesti desideri con invocazioni o preghiere, e il richiamo a una realtà non modificabile è fatto in termini duri e perentori.

Di fronte a questo atteggiamento del Coro, il personaggio, a un livello formale, non soccombe, ma, in quanto personaggio, si dimostra capace di una più autonoma affermazione, con lo scatto verso spunti monologici o quasi-monologici, attraverso i quali il personaggio si pone di per sé, al di fuori di un effettivo rapporto con gli altri che sono presenti sulla scena. Ci sono vari livelli nelle battute di Creonte nel kommos finale. S. sperimenta qui una forma espressiva molto articolata, nel cui contesto i richiami all'interlocutore, a diversi livelli di intensità espressiva, si alternano a spunti che hanno un carattere schiettamente monologico [ciò fin da appena dopo essere arrivato sulla scena, con i vv. 1263 s. che tendono a porsi sulla stessa linea dei vv. 1261 s., che si sostanziano di una pura esclamazione di dolore (continua con un'altra frase interiettiva nel v. 1265); del pari, per i vv. 1284-1292 (esplosione patetica e omessa risposta), dove il rapporto tra Creonte e l' >V H non si configura, a rigore, come quello tra due interlocutori.]. [Lo stesso vale, ovviamente, per gli ordini rivolti ai servi, nei vv. 1320-1322 e v. 1339, semplice espressione della volontà del personaggio.]

Carattere quasi esclusivamente monologico hanno (infine) quelle parti delle battute liriche di Creonte in cui il personaggio si rivolge ai morti presenti sulla scena: al figlio nei vv. 1266-1269, al figlio e alla moglie nel v. 1300, alla moglie nei vv. 1319 s., ancora al figlio e alla moglie nei vv. 1340 s. [Di più, è assente, nelle parole di Creonte, qualsiasi accenno a un incontro del personaggio con i suoi morti nel mondo degli inferi.] E a un livello autenticamente monologico si pone tutta una serie di pezzi del kommos in cui Creonte esprime la sua consapevolezza della sciagura che l'ha colpito: si tratta dei vv. 1271-1276, dei vv. 1294-1299 (una sconvolta reazione di fronte alla vista del cadavere di Euridice), dei vv. 1306-1311 (paura [della maledizione] e morte desiderata), dei vv. 1317 s. (riconoscimento della propria responsabilità per la morte di Euridice che trabocca nei vv. 1319 s. in una invocazione alla morta), dei vv. 1328-1332 (augurio che arrivi il destino di morte) e dei vv. 1341-1346 (con la ripresa dell'immagine del destino della sciagura che si è abbattuta sulla sua testa). [Notevole che l'attore canti in metri (lamenti) lirici la sua infelicità, mentre il Coro (che si esprime in trimetri giambici) si pone a un livello emotivo nettamente inferiore e formalmente 'subalterno'.] Per quel che riguarda l'alternanza attore/Coro il pezzo finale dell'A. si può accostare al dialogo lirico tra Aiace e il Coro di Ai. 348-429: il confronto conferma che in Creonte S. non volle rappresentare un personaggio nullo o tutt'al più in via di disintegrazione o privo di identità. Creonte appare invece come il veicolo di una sperimentazione di un modello letterario al quale S. annetteva grande importanza e, nello stesso tempo, il personaggio di Creonte, anche a un livello 'ideologico', si rivela come l'asse portante di un discorso che costituisce un dato essenziale della tragedia. Dietro il dato tecnico c'è l'approfondimento di una dimensione emotiva del personaggio, che tende a porsi di per sé, in modo autonomo nei confronti del Coro, c'è la conquista si una nuova dimensione dell'attore: in effetti, poiché l'attore, ponendosi di per sé, lasciava al Coro solo uno spazio 'subalterno', esso tendeva a privare del suo fondamento la possibilità stessa di un'articolazione drammatica. D'altra parte, se lo spunto monologico, fatto di turbata consapevolezza del proprio io e della propria sofferenza, nasce dalla dissociazione dell'attore rispetto al Coro o altri possibili interlocutori, questa dissociazione è pur sempre un processo che poteva realizzarsi soltanto sulla scena, ed esso presuppone, come dato negato ma non obliterato, i moduli tradizionalmente sperimentati della forma tragica. E' su questo equilibrio instabile che S. sperimenta un modulo letterario nuovo, dotato di una forte carica espressiva.


Lo smontaggio del potere


Il quadro di una infelicità senza sbocco alla fine della tragedia ricollega Creonte al secondo stasimo. Ricordiamo la gnome dei vv. 618 s., che viene verificata da Creonte alla fine della tragedia, tale per cui la divinità (evocata poi da Creonte nei vv. 1272 ss. E nei vv. 1345 s.) scuote la casa degli uomini. Il secondo stasimo può, in astratto, essere letto in una chiave anti-A., ma alla fine della tragedia si capisce che l' J teorizzata in questo stasimo (l' J mandata dal dio) coinvolge anche, direttamente, Creonte. [Sulla stessa linea si pone anche il quarto stasimo (vv. 944-987), dove il discorso riguarda più specificamente la potenza della Moira, di fronte alla quale nessuno e niente, nemmeno le nere navi battute dalle onde del mare, riescono a fuggire. L'impotenza dell'uomo di fronte al destino è resa qui da immagini di blocco, di un frustrante chiudersi: la stanza-prigione di Danae, la grotta di Licurgo, l'accecamento dei Fineidi (nonostante il coinvolgimento di immagini che costituiscono come tentativi di apertura entro una realtà che non concede spazi). Anche il quarto stasimo -che il Coro intende come rivolto ad A.- si pone su una linea che nella tragedia trova il suo sbocco estremo nel pianto di Creonte. In tal modo il dolore e il pianto di Creonte alla fine della tragedia tendono ad assumere un valore esemplare, come espressione di una situazione che non è solo di Creonte, ma che può essere vista come tipica dell'uomo in quanto tale. C'è una spia preziosa a questo proposito: l'esclamazione di Creonte al v. 1276 (dopo l'immagine sinistra del dio che premendo il suo calcagno ha rovesciato tutto ciò di cui egli poteva godere), di cui S. si ricorderà nell'Edipo re, quando nel quarto stasimo il Coro teorizzerà sulla condizione di infelicità dell'uomo in quanto tale (v. 1186).

Si realizza d'altra parte nell'A. a proposito di Creonte un processo di spodestamento, di smontaggio degli attributi tipici del potere che è comparabile a quello che si riscontra a proposito dell'Edipo dell'Edipo re. Creonte appare nella parte iniziale dell'A. come dotato di un potere assoluto che deriva dal suo essere lo FJD"J H che ha il pieno comando della polis (analogamente Edipo, che appare come il sovrano dotato di un potere assoluto e indiscusso). Ma in tutte e due le tragedie si assiste allo smontaggio del personaggio nel senso della perdita del potere di cui esso era dotato all'inizio.

Un momento importante di questa operazione di smontaggio è costituito, nell'A., dal contrasto che oppone a Creonte Emone e dalla rivelazione fatta da Emone di una dissociazione profonda tra i veri sentimenti della polis e Creonte, che pure dovrebbe esserne il rappresentante (cfr. al v. 700 e, quindi, le battute sticomitiche dei vv. 733-739 [sulla linea delle affermazioni di A. dei vv. 506 ss. e, paradossalmente, di quanto diceva Creonte stesso nei vv. 289-292]). E soprattutto, sulla stessa linea si pone anche il contrasto tra Creonte e Tiresia, attraverso il quale appare l'inconciliabilità tra la sovranità di Creonte e il regolare svolgimento delle operazioni di culto a Tebe (con rescissione del nesso, fondamentale nella cultura arcaica, tra il sovrano e il culto degli dei). A un certo punto, dopo la scena con Tiresia, Creonte si illude di potersi semplicemente limitare a disfare ciò che aveva fatto (comparabile il lieto iporchema di Ant. 1115 ss. Con il terzo stasimo di O.R. 1086 ss.): la divinità sembra prendersi gioco dell'uomo prima di perderlo definitivamente. Ma sia nell'A. sia nell'Edipo re si passa dal potere assoluto a una condizione di infelicità estrema, e non sembrano sussistere zone intermedie. Lo smontaggio del potere è in tutte e due le tragedie funzionalizzato alla scoperta di una dimensione nel cui contesto la sofferenza si pone di per sé, al di fuori di ogni possibilità di mediazione. Nel contesto di questa dimensione il personaggio è solo, non ha il conforto del Coro, non ha la consolazione del rito: e questa solitudine disperata è 'riscattata' solamente, a un livello propriamente formale, dalla capacità del personaggio di autoesprimersi, di porre se stesso in quanto tale.

Sofocle voleva inserire l'esercizio del potere da parte di Creonte in una struttura binomiale in cui l'altro termine fosse costituito dalle leggi degli dei; e alla fine il potere risulta demolito e la volontà degli dei appare come la sola vincente. Ma di questo si tratta, e non di una contrapposizione tra potere illegittimo o tirannico [non è utilizzabile in tal senso l' k Z di Creonte, poiché l'ira non appare, nei loci classici, come una qualifica specifica della tirannide; e avidità di denaro e lussuria, d'altra parte, non sono qualità caratteristiche del Creonte dell'A. E Tiresia riconosce che Creonte finora ha sempre guidato rettamente la polis (v. 994). Lo stesso Creonte faceva poi un'affermazione del tutto incompatibile con un atteggiamento tirannico, quando subordinava l'obbedienza nei confronti di chi detiene il potere al fatto che sia stata la polis a conferirgli l'autorità di cui gode (andando addirittura al di là del modello mitico del sovrano assoluto cui il suo potere è equiparabile)] e potere legittimo: a Creonte viene contrapposta la divinità, ma non un modello positivo di potere legittimo. In funzione della contrapposizione tra la rigida norma del potere e l'osservanza della legge degli dei (v. Aiace, v. 1350) S. ha voluto presentare un Creonte che si muove entro parametri etico-ideologici ben circoscritti, attribuendogli, in quanto personaggio detentore del potere, una tendenziale unidimensionalità che lasciava poco spazio ad altre motivazioni. In questo ordine di idee si spiega il suo insistere sul denaro come motore delle azioni umane, nonché, più ingenerale, la sua 'sospettosità', il suo insistente sentirsi minacciato di venire dolosamente privato del potere: l'unica cosa di cui il personaggio è dotato, questa cosa egli teme ossessivamente di perderla. E d'altra parte, proprio la perdita del potere, pur realizzata attraverso vie per lui imprevedute, costituisce la premessa attraverso la quale il personaggio consegue una turbata consapevolezza della realtà che ha di fronte e riesce a porsi autonomamente di per sé, in quanto uomo, in quanto personaggio: questa era la via per cui S. sperimentava un nuovo modello di personaggio tragico che in seguito avrebbe lasciato una traccia profonda di sé nell'Edipo re


La "crisi" di Antigone


Riconosciuta essenziale la posizione del personaggio di Creonte, vediamo quindi di Antigone, per la quale si assiste, nella tragedia, a un rinnovamento profondo del modo di esprimersi e di pensare. Partiamo dalla celeberrima rhesis del secondo episodio, vv. 450-470, col richiamo, in contrapposizione a Creonte, alle "norme" non scritte degli dei. Impressiona, in questo discorso, tenuto tutto sul filo della contrapposizione polemica, la sequenza delle frasi negative, quali: v. 450 , v. 451 ', v. 453 X, v. 456 (sempre a inizio del verso), e ancora v. 460 J e v. 466 B"k X< e v. 468 b< " . Il personaggio si afferma negando, contrapponendosi sistematicamente al suo avversario (fino alla detorsio polemica alla chiusa della rhesis, rispetto all'eventuale accusa di comportamento folle).

In positivo, A. si rifà a moduli di pensiero tipicamente 'eschilei', dal ribadimento della consapevolezza del limite mortale, h< J < <J", al v. 455, al rifiuto ('eroico') della dilazione della morte, ai vv. 462 s. (per cui cfr. Eteocle nei Sette e anche Cassandra, nell'Agamennone). Di più, ricompare il motivo dell'inopportunità di vivere in mezzo ai troppi mali, che è di Aiace nella rhesis immediatamente contigua al kommos (cfr. in particolare vv. 473 ss.). Infine, il richiamo alle "norme" non scritte costituisce anch'esso un elemento importante che concorre a delineare una struttura ideologico-espressiva nel complesso solida e ben organizzata, tale da poter contrastare il punto di vista antitetico di Creonte. Organico rispetto a questa linea il richiamo al valore eroico-aristocratico della gloria (cfr. al v. 502 il nesso X H XFJ k <, con eco al v. 695 per bocca di Emone). [Motivi squisitamente aristocratici ( " < X< ") affioravano d'altronde già nel prologo, nel dialogo con Ismene, ai vv. 72 e 97 (e nei vv. 37 s.)]. In entrambe le due prime apparizioni sulla scena [prologo + secondo episodio] il personaggio è caratterizzato da inflessibilità, una rigidità che non lascia spazio a possibilità alternative, in perfetta coerenza con l'atto eroico che A. compie col seppellimento di Polinice, nella consapevolezza che sarà fatale (cfr. v. 460).

Il quadro cambia completamente con la terza e ultima apparizione sulla scena (cfr. vv. 806 ss.), nell'imminenza di essere condotta nella tenebrosa prigione sotterranea, che si presenta come immagine di morte. Il modo di esprimersi del personaggio appare assai diverso rispetto a prima, caratterizzato, fin dall'apparire sulla scena, nel senso del lamento e dell'autocommiserazione. All'inizio della prima battuta c'è l'invito ai Tebani a guardarla (cfr. v. 806) mentre si avvia alla morte (con invito che si ripete, in Ringkomposition, nell'ultima battuta, poco prima di lasciare definitivamente la scena: cfr. v. 940): è un modulo tipico del personaggio sofferente, esperito ad es. da Eschilo nel Prometeo. Il modulo compare anche nel kommos dell'Aiace, al v. 351 e al v. 364, prima però della scelta eroica di morire, col richiamo all' X< " e al X H [in sequenza rovesciata, quindi, rispetto all'Antigone, nel senso che la ricerca del pathos viene prima del consolidarsi del personaggio entro una struttura ideologico-espressiva ben definita]. Sulla linea di questo appello patetico a 'guardare' si pone anche la richiesta che A. rivolge, nei vv. 844 ss., alle fonti e al bosco di Tebe perché siano testimoni della sua sciagura ( e subito dopo la battuta si chiude con un lamento: cfr. vv. 850 ss. bFJ"< H J . [con eco in antistrofe, stessa sede, al v. 869]).

Il modulo della negazione ha ora la funzione, propria dei lamenti trenodici, di mettere in evidenza ciò che manca, ciò di cui non si fruisce: cfr. vv. 813 ss. (gli imenei, l'inno per le nozze), v. 852 (a rimarcare lo statuto sospeso della sepolta viva), vv. 876 s. (il tricolon privativo, senza compianto senza amici senza imenei), vv. 917 s. (con ribadimento dell'essere lei senza nozze, senza imenei), e anche v. 847 (senza lacrime), v. 867 (nozze) e v. 881 (lacrime). Gioca qui il motivo del rito frustrato, in quanto A. sottolinea il fatto che si avvia a morire senza aver compiuto il rito nuziale, e senza godere della rituale consolazione del pianto dei suoi cari: o è piuttosto, quello prospettato, un rito stravolto, con l'affermazione, al v. 816, che si sposerà con Acheronte. E' significativo che ora A. senta il rimpianto di non essersi sposata, motivo prima del tutto assente dal suo orizzonte. Nell'imminenza della morte, in un contesto dominato dal lamento, ora che la sfida con Creonte viene a porsi in secondo piano, sembra venir recuperato il dato tradizionale per cui la ragazza realizza se stessa nel matrimonio, con esiti di frustrazione a sottolineare ciò che A. ha perso per sempre.

Nei vv. 853-856 il Coro, in tema sempre di echi eschilei, critica l'operato di A., che avrebbe offeso l'alto trono di Dike, e le ricorda il peso della sciagura che gravava su suo padre. Questo tema dell'infelicità dei Labdacidi era stato toccato da A. nella battuta iniziale della tragedia (cfr. vv. 1-6) e lasciato poi cadere per l'esigenza di tributare a Polinice il rito funebre e difendere quindi le ragioni del suo operato. La problematica della sciagura che coinvolge tutta una famiglia era però stata ripresa dal Coro nel secondo stasimo. Ora, nel quarto episodio, di fronte alla battuta di cui sopra, A. lascia cadere l'accenno alla tematica eschilea di Dike, ma dilata con forza e commossa partecipazione il tema (non specificamente eschileo) della famiglia su cui grava la sciagura. E' però significativo che il ricordo dell'infelicità della propria famiglia trassi nella evocazione della propria infelicità personale e fornisca nuova materia per il lamento di A. (da notare l'insistenza sul pronome di prima persona: cfr. v. 858, v. 866, v. 868, v. 871). A. sente dunque il rapporto con la sua famiglia e con i suoi morti, ma la linea di pensiero recepita nel secondo stasimo (la sciagura che viene dal dio, l'inarrestabilità della sciagura di generazione in generazione) non è per lei importante: ancora una volta l'accento batte sul lamento e l'autocommiserazione.

Di fronte a Creonte A., nel quarto episodio, non si rivolge più a lui per controbattere le sue affermazioni, il nome di lui essendo fatto soltanto (al v. 914) nel contesto di un commosso appello a Polinice. E' ora 'dimenticato' il motivo eschileo dell'inopportunità di una dilazione della propria morte (a differenza di Eteocle e Cassandra), come del pari i valori aristocratici di X< " e X H (fornendo piuttosto quest'ultimo la base per una dissociazione tra A. e il Coro). Anche gli dei, stando così le cose, sono spinti ai margini: A. fa riferimento ad essi solo verso la fine della rhesis dei vv. 891-928, ma in un contesto in cui sono ben lontani dal costituire un punto di riferimento sicuro. Il richiamo, dubitativo, agli dei del v. 921 trapassa immediatamente in una sconsolata presa di coscienza che ella non ha più dei a cui rivolgere lo sguardo e non ha più alleati a cui chiedere aiuto. Nei vv. 925-928 A. prende addirittura in considerazione la possibilità che gli dei siano dalla parte di Creonte: anche se subito dopo prevale la considerazione che sia Creonte nell'errore, è però significativo che il dubbio sia enunciato (a dar rilievo, in primo piano, al dubbio e all'angoscia di A.). Anche il largo spazio che, nella stessa rhesis, viene dato da A. all'argomentazione "erodotea" del philos insostituibile, dà conferma (insieme con i lamenti, gli appelli ai morti, il dubbio che affiora a proposito degli dei) che la struttura ideologico-espressiva che A. rivelava nel prologo e nel secondo episodio davanti a Creonte è ormai entrata in crisi. Questa crisi si rivela non solo nella rhesis dei vv. 891-928, ma anche nelle ultime battute che A. pronuncia prima di lasciare la scena e anche nel rapporto di esasperata tensione che si instaura nel kommos tra lei e il Coro. Anche l'argomento dei vv. 904 ss. Non è dissociabile da una profonda passionalità, che si traduce in un quasi puntiglioso ragionare e che d'altra parte si muove, in coerenza con la 'nuova' A., entro un ambito più circoscritto e personalizzato rispetto a prima. S. ha voluto mettere in evidenza uno slittare del personaggio verso nuove forme espressive e la messa in crisi delle precedenti strutture di pensiero.

Insistendo nel mettere in evidenza una linea di continuità tra l'A. che si avvia alla morte e l'A. che difendeva il suo operato con ostinazione (nei vv. 929 s.) il Coro non coglie le novità nel modo di porsi di A., in concomitanza con quel processo di dissociazione dalla fanciulla che caratterizza gran parte di questa scena. Lamento ed espressione patetica sono la sostanza anche delle ultime parole di A. (v. 933 + vv. 937 ss.), di seguito rispetto a due battute di Creonte che sanno di insulto e di scherno (vv. 931 s. + vv. 935 s.). Il modo di esprimersi di A., il suo modo di porsi di fronte a Creonte, il suo modo di sentire la divinità sono cambiati radicalmente rispetto al secondo episodio: proprio per questo A., mentre perde alcuni connotati derivati da Eschilo (là dove il Coro, nel contesto di un processo di dissociazione nei confronti della protagonista, riprende proprio moduli eschilei: cfr. vv. 853-856) diventa più "sofoclea".

La crisi del personaggio presenta termini di contatto con quella che investe il personaggio di Creonte (per tutti e due nel loro ultimo apparire sulla scena si pone in primo piano il rapporto diretto con i propri morti, che tendono a diventare i soli veri interlocutori in concomitanza con un processo di dissociazione nei confronti del Coro e un affermarsi di moduli espressivi quasi monologici); e il modulo per cui il personaggio entra in crisi nel corso della tragedia e modifica le precedenti strutture espressive e di pensiero sarà poi quello che S. impiegherà anche nell'Edipo re. Che il richiamo agli dei e alle loro norme non scritte appartenga a uno strato del personaggio che successivamente appare "superato", non significa naturalmente che S. volesse togliere il benché minimo valore al riconoscimento della validità di queste norme. Soltanto che, nel contesto della tragedia come un tutto,  esse tendono a porsi come un dato scontato: il poeta scava in un'altra direzione. A S. non interessava delineare un modello positivo di polis dove decreti empi come quello di Creonte fossero impossibili. Più in generale, a S. nell'Antigone era estraneo un progetto di rifondazione della polis quale Eschilo si propose nell'Orestea: nell'Antigone la famiglia non è, come nelle Eumenidi, la prima cellula di un organismo più ampio che la comprende e valorizza, ma sono in primo luogo i propri morti che uno ricorda e piange. In quell'operazione di smontaggio del potere che si realizza nell'Antigone e nell'Edipo re, S. non si attesta su una posizione intermedia, e non intende delineare il modello di un potere esente dall'empietà di Creonte o dal "F " di Edipo. Dal polo di un potere assoluto si passa al polo di un'umanità sofferente, per la quale il problema di una polis giusta o ingiusta, semplicemente non si pone. Il modello hegeliano di interpretazione, che isola i due termini del contrasto per mostrarne l'unilateralità (quindi il loro torto, ma anche la loro validità), non tiene conto del fatto che nella tragedia si individua una fascia di realtà che va al di là dei termini che si pongono in reciproca opposizione. Proprio l'opposizione dei due termini è uno strumento, dotato di un fortissimo impatto emotivo, in funzione dell'individuazione di questa fascia di realtà che si pone al di là della polis e di fronte alla quale la stessa opposizione Creonte/Antigone tende ad apparire come qualcosa di circoscritto. E proprio di fronte a questa realtà, osatile e spietata, si ha un livello più propriamente formale l'affermazione del personaggio in quanto tale, che si pone di per sé, attraverso la dilatazione -"abnorme" secondo moduli eschilei- degli spunti monologici autoespressivi. E' questo il suo riscatto, il solo che S. suggerisce, a fronte del recupero dell'antico filone culturale che all'uomo racconta della sua infelicità. Tra questa infelicità l'uomo è solo e non ha altro modo di contrastarla che non sia l'affermare e il porre con forza questa sua solitudine.


La dissociazione tra il Coro e A.


La polis si presenta per A. fin dall'inizio, nel dialogo con Ismene, come qualcosa di estraneo e ostile (cfr. v. 7 [associata con lo FJk"J H] e v. 36 [evocata per la minaccia di lapidazione a carico dei trasgressori]). Nel secondo episodio A. cerca di suggerire, contro Creonte, una dissociazione tra lui e la polis, nel senso che i cittadini sarebbero d'accordo con lei, ma l'argomento poi addotto come prova è debole (il silenzio del Coro). Quando infine A. ricompare sulla scena, il consenso che secondo Emone A. riscuoterebbe nella polis non trova una effettiva realizzazione a livello della concreta rappresentazione scenica. Al consumarsi della frattura tra lei e il Coro, A. nei vv. 905-907 si esprime in modo che il seppellimento di Polinice appare come qualcosa fatto B J <, sfidando il volere della città, ciò che comunque evidenzia l'isolamento di A. di fronte alla comunità. A questa luce va letto il rapporto che si instaura tra A. e il Coro nel quarto episodio. In un primo momento il Coro appare commosso e fa intravedere un atteggiamento diversificato rispetto a Creonte, anche se soprattutto a un livello di partecipazione emotiva al destino di A. (cfr. vv. 802-805). Ma già dopo il commosso appello dei vv. 808-816 (che chiama direttamente in causa i cittadini della mia patria con accenti fortemente patetici) la risposta dei vv. 817-822, giocata sul tema del X H della giovane donna, appare fredda e sfasata: la precisazione che ella si avvia a morte senza essere stata consumata da morbi letali e senza aver ottenuto colpo di spada è fredda e distaccata e, di più, la sottolineatura del fatto che muore " J < H suggerisce una chiara presa di distanza dalle motivazioni dell'agire di A.

A questo punto A. richiama, nei vv. 823 ss., l'exemplum mitico di Niobe. Il confronto, tra lei e Niobe (vv. 823-833), è in funzione del pathos, volto a confermare attraverso il paradigma mitico l'estrema infelicità di A. (per entrambe l'infelicità e la morte prendono sostanza di pietra). Ma il confronto viene rifiutato dal Coro (come non legittimo), in quanto Niobe rientrerebbe (pur con qualche forzatura) nella sfera della divinità, mentre A. è una mortale; solo subordinatamente (cfr. v. 836 " J ) si riconosce, per una morta quale sarà A., la positività di una fama comparabile con gli F , sia quando è viva sia dopo, quando sarà morta. Lo scherno che A. avverte in queste parole consiste nel brutale richiamo alla sua morte, inserito in quella che appare come una "concessione" da parte del Coro (cui A. replica "smentendo" doppiamente al v. 852 -non . non. Il desiderio di A. di una affettuosa partecipazione alla sua sofferenza non trova nel Coro una risposta adeguata e anche l'ultima battuta che il Coro pronuncia nel kommos, nei vv. 872-875, con la sottolineatura dell'" J <TJ H k V di A., rivela un atteggiamento di distacco. In realtà, S. non 'motiva' questa freddezza del Coro nel kommos: essa appare come un dato di fatto, che è necessario in vista dell'autoaffermazione del personaggio, poiché per A. la dissociazione con il Coro significa anche la rottura con la comunità, con la polis (infatti subito dopo la constatazione di essere derisa e oggetto di hybris [v. 839 e v. 841], A. ha uno spunto quasi-monologico, fatto di lamento e di autocommiserazione). Si tratta dei vv. 842 ss. C'è sì, all'inizio di questa sezione della battuta lirica, un appello alla polis e ai molto ricchi suoi abitanti, ma questo appello alla città e ai cittadini resta senza sviluppo. Subito dopo c'è come un nuovo attacco da parte di A. che invoca le fonti di Dirce e la terra di Tebe, e questa volta il discorso viene continuato, nel senso che A. chiama le fonti e la terra a testimoniare la sua sciagura [significativo a questo proposito l'uso dell'avverbio B"H: non si tratta di persone e tuttavia sono loro soltanto a cui A. si può rivolgere]. Confrontando con l'invocazione ai cittadini della sua patria dei vv. 806 ss., si ha l'idea del processo di dissociazione che si è verificato tra A. e il Coro (cioè rispetto a tutta la polis in quanto comunità di cittadini). Interlocutori di A. non sono i B J" , ma la natura circostante. E soprattutto gli interlocutori reali di A. sono i suoi morti, suo padre, sua madre (da notare al v. 898 l'improvviso scatto alla seconda persona e all'appello diretto), suo fratello Eteocle e, con particolare insistenza, suo fratello Polinice (cfr. soprattutto vv. 902 ss. [nota poi a v. 899 e v. 915 la stessa espressione, nella stessa sede metrica, "F < J < Vk", per entrambi i fratelli]). E' vero che nell'ultima battuta dei vv. 937-943 A. si rivolge di nuovo ai vecchi del Coro chiamati principi k"< " ), perché guardino quali sofferenze ella soffre e a causa di chi, lei che è l'ultima rimasta della famiglia dei re di Tebe . Ma questo appello rimane significativamente senza risposta, confermando l'isolamento in cui si trova A. (quale segno della sua esasperazione): un isolamento che è sottolineato dalla collocazione dell'invito a guardare nella parte estrema della scena, in modo atipico (cfr. per differentiam Eschilo, Prometeo incatenato, v. 93 e v. 141). La nota dominante è, alla fine, il senso di una sofferenza priva di conforto e priva, anche, di giustificazione: essa è presentata infatti da A. (con disperata amarezza) come la conseguenza di un atto di F " (implicando quindi un dubbio sulla giustizia degli dei, sulla linea dei vv. 921 ss.).





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