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MALATTIA, MAIDETTA AVVENTURA

medicina



MALATTIA, MAIDETTA  AVVENTURA



Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera.
(E. Montale)


I ALCUNE CONSIDERAZIONI PSICODINAMICHE

Sul sé.

Senza dubbio, il sé rappresenta uno dei concetti più incerti e nebulosi, ma allo stesso tempo più innovativi e proliferi in psicologia. Talmente nebuloso (come lo aggettiva Jervis) che non ne esiste una definizione esaustiva, né tantomeno condivisa. Stern nella sua ricerca sull'ontogenesi del sé, ci offre la propria ipotesi circa gli elementi strutturanti il nucleo del sé: l'essere agente, ossia la sensazione di essere l'autore delle proprie azioni, sperimentando la coincidenza tra lo schema motorio attuato e la rappresentazione mentale dell'azione; l'essere coeso in termini spaziali, quindi compreso entro un confine; percepirsi entro una continuità, e dunque essere dotati di una certa memoria dell'esperienza; l'essere in possesso di una propria affettività, mantenendo con una certa costanza, e per tutto l'arco della vita, le caratteristiche qualitative del proprio assetto emozionale-affettivo. Tale sé nucleare è per Stern il fondamento dell'esperienza e dell'esperienza di sé nel mondo, e difatti sottolinea "Le quattro componenti del sé [.] sono molto importanti dal punto di vista clinico. Un danno più o meno grave al senso di sé agente avrà come conseguenza una vulnerabilità che assumerà la forma di pensieri paranoidei circa il controllo dei propri pensieri e delle proprie azioni. Ove manchi il senso di coesione si andrà incontro a forme patologiche di frammentazione, depersonalizzazione e dissociazione che sono caratteristiche sia dei disturbi psicotici che delle personalità limite. Ove faccia difetto il senso di continuità saranno possibili episodi psicotici di fuga, scissione della personalità, ecc. E se manca un solido senso della propria affettività profonda si sarà probabilmente esposti all'insorgenza di disturbi affettivi, nonché agli aspetti anedonici di certe forme di schizofrenia"[1]. Questo sé nucleare si costruisce ed è attivo sin dalla nascita fornendo appunto una matrice per il successivo sviluppo del sé, e questa visione è ben distante dalla psicoanalisi più o meno classica che vuole il neonato chiuso in un mondo che non differenzia tra sé e altro da sé (si pensi a concetti quali narcisismo primario, simbiosi o autismo normale), e un adulto che potrebbe (ahilui!) addirittura regredire sino a tale fase 646h77g . Sempre con Stern possiamo considerare lo sviluppo di questo nucleo come la graduale formazione del Senso di sé soggettivo, ossia la capacità di comprendere di avere, in quanto soggetto, un proprio contenuto mentale, e che questo accade in modo analogo anche per le altre persone che ci sono intorno: e allo stesso tempo si sperimenta che tra persone (e quindi è sottinteso: tra persone diverse!) è necessario agire sulla relazione affinché si possano condividere di volta in volta dei contenuti mentali. Il Senso di sè, avanzando nello sviluppo, si articola simbolicamente poi in contenitori verbali con cui pian piano si cominciano a confinare le esperienze e a riconoscerle come parti distinte, sino ad arrivare verso i tre anni ad acquisire competenze narrative: il Senso di sé a questo punto è vissuto, nominato (quindi reso oggetto) e organizzato narrativamente (quindi reso "processo d'azione e di inter-azione"). Il Senso di sé narrativo finalizza e organizza il sé come narrazione. Il sé, che deve rispettare alcune regole quali l'essere il soggetto, mantenere una coesione (e dunque una certa coerenza) ed una continuità, nonché riconoscersi attraverso una certa mappa affettiva, trova nell'azione narrativa la determinazione della sua unità. Schafer, sottolineando il rapporto speculare tra narrazione ed esperienza del Senso di sé, parla addirittura di molteplici sé: il sé, come esperienza dotata di nome e che viene nominata, diventa oggetto con specifici confini e qualità intrinseche; questa esperienza soggettiva resa oggetto in quanto narrata, presuppone tuttavia la presenza ineludibile di un narratore, quello che Schafer chiama persona, e che per definizione non può divenire oggetto, e può essere conosciuto solo indirettamente, attraverso i suoi derivati narrativi. Schafer sottolinea che la narrazione funge da strumento elettivo per la costruzione del sé, differenziando l'esperienza personale (io entro, io esco, io voglio, io mi chiedo, ecc, insomma la capacità di staccarsi dal mondo attraverso l'uso dell'io) dall'esperienza impersonale, che tuttavia nell'io trova comunque il suo inseparabile eco (non deformante, bensì formante l'esperienza stessa dell'altro), poiché l'esperienza non è incidentalmente incontrata narrativamente dall'io, bensì da questo formata e modellata. Schafer sottolinea "la teoria si rivolge al sé sia come attivatore mentale che al sé come contenuto mentale o al sé come soggetto e oggetto al tempo stesso, a un sé, cioè, che include se stesso"[2]. Schafer proprio per reintegrare questa dispersione dovuta alla moltiplicazione narrativa del sé, propone di parlare di persona, ossia l'unità narrante (da distinguere dall'io-narrato, oggetto), dove la persona è considerata "un narratore di sé, più che un contenitore non-euclideo dell'entità del sé"[3], esemplificando che se pur ogni narrazione sembra esser narrata da un insieme di sé diversi, come la varietà del sogno ha comunque un unico sognatore, l'intero racconto ha similmente un unico narratore[4], e a tal proposito scrive "il punto centrale della mia teoria è che il concetto di sé, o più generalmente il cosiddetto sé possono essere considerati come una serie di strategie narrative o trame narrative che ogni persona segue, cercando di sviluppare un resoconto coerente, da un punto di vista emotivo, della propria vita tra gli altri. Noi organizziamo le nostre esperienze passate e presenti attraverso la narrazione"[5], e ancora, "La priorità narrativa ad una particolare descrizione dell'azione può essere conferita soltanto dopo aver chiarito le circostanze, le finalità, le convenzioni e gli usi, o, se non altro, quando vi è buon motivo di supporre che l'ascoltatore o il lettore conoscano molto bene tale contesto. La descrizione di un'azione dipende dal tipo di resoconto che si vuole fare. Nessuna narrazione può essere presentata proficuamente e in modo comprensibile se non è inserita nel contesto di una narrazione esplicita o implicita. Il contesto narrativo aiuta i lettori a capire la descrizione impiegata e al contempo la descrizione contribuisce all'ulteriore sviluppo e alla forza persuasiva di quel racconto narrativo [ponendo anche la forza delle difese, disegnate come evento di autoinganno, all'interno del mondo narrativo]. Informazioni parziali-globali sembrano essere insite nella natura stessa della comunicazione a carattere informativo o illustrativo"[6]. Se dunque la descrizione di un'azione dipende dal tipo di resoconto che si vuole fare, allora possiamo risaltare che l'idea stessa di narrazione implica il passaggio verso un ipotetico referente, cioè ogni narrazione può vedersi nel suo atto creativo come un invio, ed ogni narrazione può leggersi come un continuo rinvio-a. "Il resoconto è qualsiasi tipo di narrazione che consente a chi racconta di descrivere un'esperienza e le emozioni ad essa correlate"[7] e ogni testo va analizzato nei suoi contenuti e considerando il contesto (poiché ogni testo è un "testo situato in un altro testo") entro cui assumono significato. Col sé narrativo si individua la capacità tipicamente umana di vivere non soltanto nel mondo della realtà, ma anche in un mondo simbolico che amplifica le potenzialità adattive e comunicative: in special modo il monologo avrebbe quindi la funzione di portare alla costruzione di un sé narrativo, una sorta di ri-organizzazione interna del mondo (Montesarchio G. 2002). Ricordare non è il semplice ritrovamento di contenuti depositati nella scatola nera della memoria, ma la narrazione personale dell'esperienza che avviene all'interno di una particolare situazione, nel qui e ora. Ogni situazione può essere trattata come un punto d'intersezione di linee-processi (a questo punto possiamo dire narrativi!): questo punto dello spazio non è fine a se stesso ma determinato dai processi che lo attraversano, come allo stesso modo questi processi danno senso (o determinano) a tutto ciò che in essi si produce (interseca), creando una situazione definibile (utilizzando in modo molto ampio tale termine) di setting: dunque non può esistere un punto di intersezione che, nel momento in cui lo si sta prendendo in considerazione, non si sta allo stesso tempo intersecando. Una precisazione è d'obbligo, poiché parlando di situazioni non facciamo riferimento a situazioni tipo, né ad eventi particolari, quasi fossero boe, attorno alle quali "gira" in modo preordinato la nostra vita e i nostri racconti: tutt'altro, poiché tracciare trame narrative è un'esigenza continua, implacabile. Semmai è proprio attraverso le narrazioni che si generano nei racconti nodi strategici, strutture portanti, attorno le quali continuar a far girare gli eventi. A questo proposito Schafer riferendosi alle relazioni narrative tra soggetto-oggetto-contesto scrive "Nelle relazioni figura-sfondo, è lo sfondo che mette in risalto la figura e mai il contrario. La figura impartisce alcune proprietà allo sfondo; visivamente uno sfondo grigio diventa più bianco se contiene una figura molto scura e diventa più scuro se contiene una figura molto chiara. E' anche possibile dire che lo sfondo impartisce alcune proprietà alla figura [.] Anche se vi sono influenze reciproche fra figura e sfondo, questa reciprocità non toglie nulla al fatto che l'una è la figura e l'altra è lo sfondo. [.] La figura è ben definita, ha dei limiti precisi, un'articolazione, una struttura, risalta e colpisce; è ciò che si vede così come appare, è ciò che si guarda, che risalta, che si ricorda. Lo sfondo o ambiente è amorfo, senza limiti precisi, senza articolazione, senza struttura, è visto soltanto in relazione alla figura; è necessario in funzione di qualcos'altro, è povero, si ritrae, è anonimo, situato nel fondo o nascosto, non viene ricordato, almeno non per se stesso [.] Lo sfondo riceve e incorpora la figura, la figura occupa lo sfondo con un'intrusione": la completezza narrativa della persona avviene attraverso la sua capacità di riuscire a vedersi sia in termini di figura che di sfondo. Schafer sottolinea che il cambiamento non può essere considerato semplicemente come un salto da una posizione all'altra, poiché tale ribaltamento è "un mutamento di contenuto senza cambiamento di struttura"[8]: salti di posizione, quale per esempio diventare bruscamente da avaro a spendaccione (o in generale dal rapporto di dipendenza a quello di ribellione), non dichiarano altro che il medesimo problema (superficialmente leggibile come "il rapporto col denaro"), raccontato da un altro punto di vista. da un altro profilo del sé, mentre "cambiamenti in entrambe le direzioni, anche se importanti e possibili, perché siano efficaci devono necessariamente includere il consequenziale cambiamento dell'idea di persona completa che può entrare in relazioni di reversibilità di figura-sfondo con gli altri, in qualità co-agenti"[9]



Facendo ricorso al costrutto del sé, possiamo quindi considerare che l'esperente (che ha un suo e proprio punto di vista irripetibile sul mondo) qualifica e fa incontrare in-sé l'esperienza, nominandola come un qual-cosa, tessendola ed intrecciandola con le quote della propria esistenza attraverso le narrazioni e le narrazioni sulle narrazioni, quindi generando senso e significato. Questo ci offre l'opportunità di chiarire che l'esperienza è un'eccedenza inevitabile rispetto alla semplice somma dei fatti, così come l'esperente a sua volta rappresenta un'eccedenza rispetto la semplice somma delle esperienze. Quindi si hanno punti di vista e campi d'azione soggettivi e fluidi, perché questi vengono definiti nel mentre in cui si narrano, ed esistono mentre avvengono, da una parte, ma dall'altra questi campi tendono verso una certa coerenza, nonostante la fluidità dell'"infinito possibile" dell'esperienza.

.sulla teoria del campo

Le teorie sistemiche, o "di campo", illustrano bene questi processi attraverso il concetto di sistema aperto. In psicologia sociale è Lewin e la scuola di Chicago che negli anni '30 inaugurano il concetto di campo: il campo è lo spazio vitale (composto dalla persona e il suo ambiente, in relazione esterna con il mondo), delimitato da un confine, ossia un limite che riconosce un dentro e un fuori, in cui all'interno sono riconoscibili le regioni, anch'esse con proprietà di confine: nel dentro agisce una energia coesiva (attrazione) che viene definita "valenza". Ma Lewin ci suggerisce anche di pensare a queste regioni, non ricorrendo ad una geometria euclidea, bensì ad una topologia dominata da legami energetici e direzionati (vettori con direzioni); questo ci aiuta a poter pensare all'interno del campo e al suo esterno flussi energetici che non si condizionano linearmente, ma che neanche sono tra loro estranei: il processo di membrana, o confine, permette un certo mantenimento dello stato della regione, nonché una certa conservazione del suo "destino energetico" interno, ma allo stesso tempo la caratteristica di permeabilità del confine ci consente di considerare che un movimento energetico nel campo, condizioni tutte le sue regioni, ma anche che i destini energetici delle regioni si condizionino a vicenda, come condizionino lo stesso campo che le contiene. All'interno del campo valgono certe regole di funzionamento, all'esterno altre, ma questo dentro-fuori si condiziona in entrambi le direzioni. Anche sul versante della psicologia dinamica il concetto di campo e le visioni sistemiche influenzarono autori rivoluzionari come ad esempio Sullivan, che con la sua teoria del campo intersistemico porta il concetto di personalità oltre il limite intrapersonale in cui era stata destinata dalla seconda topica freudiana (io-es-superio, e conflitto intrapsichico), rimandandolo concettualmente ad un prodotto complesso emergente dalle interazioni di campi di forze interpersonali, ossia contesti esperenziali con una propria valenza affettiva, ipotizzando addirittura tante identità quante relazioni umane significative esperite.

.sulla matrice relazionale delle rappresentazioni

In un'interessantissima integrazione tra infant research e psicologia dinamica, in anni più recenti Beebe e Lachmann propongono il loro modello sistemico-diadico. I due autori partono dai lavori di Sander (1977, 1985, 1995) dove i processi diadici (per esempio madre-figlio) di regolazione non distinguono tra regolazione esterna ed interna (autoregolazione), essendo questi due livelli di un unico processo di regolazione, bidirezionale-interattivo ed autoregolativo-organizzativo: "l'esperienza per la quale il bambino si percepisce come soggetto agente si organizza grazie al processo di autoregolazione, ma solo nella misura in cui anche la regolazione interattiva consente o favorisce questa esperienza. Per usare le parole di Sander, il senso del Sé agente è una competenza sistemica. L'autoregolazione accresce la consapevolezza dell'esperienza interiore (stato generale, emozioni, aspettative) fin dalla nascita"[10]. All'interno della relazione si costituirebbe man a mano una sorta di mutua corrispondenza tra gli attori, una sintonizzazione che produrrebbe una risonanza comune tra i due sistemi-persona in interazione, una corrispondenza che li renderebbe entrambi reciprocamente vincolati, poiché il modo in cui si conosce se stessi, non prescinde dal modo in cui si è conosciuti dall'altro, ossia si propone l'esistenza di un sistema-relazione, da cui emerge l'identità e il senso di sé agente[11]. "I modelli interattivi costituiscono un codice organizzato e compreso reciprocamente, in cui ciascun ruolo implica un ruolo corrispondente, e nulla può essere rappresentato senza l'altro. Quindi non può esservi rappresentazione di oggetto che non sia in relazione con una rappresentazione del sé e viceversa"[12]. Comprendiamo da questo che in sistemi relazionali particolarmente difficili da regolare si sedimentano modelli regolativi disfunzionali, unità dinamiche di autoregolazione ed eteroregolazione altamente scoordinate tra loro, che non permettono un equilibrio (consumando il compito evolutivo in questa ricerca), o all'inverso dinamiche eccessivamente rigide, costanti e ripetitive, che non permettono di variare gli equilibri, sclerotizzandoli: "un polo dello squilibrio è definito dall'eccessivo monitoraggio del partner, a spese dell'autoregolazione ("vigilanza interattiva"), mentre l'altro polo dello squilibrio è rappresentato dall'eccessiva preoccupazione per l'autoregolazione, a scapito della sensibilità interattiva ("ritiro" o "inibizione"). Riteniamo che in entrambi i tipi di squilibrio il bambino sia alle prese con livelli non ottimali di attenzione, affetto, attivazione"[13]. Nondimeno questo modello ci mostra che sé e oggetto sono inevitabilmente collocati in un'unica matrice di determinazione, un processo bidirezionale e co-evolutivo, detto relazione: ed è questa che viene interiorizzata come un'unica unità, sin dalle esperienze più primitive, ed è integrata a questa l'organizzazione autoregolativa. Le rappresentazioni e gli affetti che vi si legano sono organizzati in modelli dinamici d'esperienza, modelli attesi: la capacità di categorizzare deriva dalla capacità di dare organizzazione e destino comune ad agglomerati d'esperienza che, percepiti come una serie regolare, diventano un qualcosa, e in questo qualcosa sono organizzati e rappresentati; e questo accade anche a livello presimbolico (Beebe, Lachmann, 1988). Per Beebe e Lachmann (2003) le rappresentazioni, sin dalla nascita, si organizzano attraverso tre principi di salienza: regolazione attesa, che riflette ciò che è prevedibile nell'interazione; rottura e riparazione, ossia le violazioni (attese o meno) delle aspettative, a cui seguono gli sforzi per riorganizzare l'esperienza (le violazioni sono funzionali perché permettono di integrare l'imprevedibilità dell'esistere e dell'esplorazione, entro possibilità di cambiamento adattivo, a patto però che la frustrazione e lo stress siano realmente delle aperture di senso sostenibili; viceversa quando la violazione è una costante, ossia quando rappresenta il modello atteso, la regolazione interattiva diventa impossibile, quindi le energie si concentrano in modo patologico sull'autoregolazione; oppure quando la violazione è traumatica, si cronicizza l'esperienza. La rottura diventa quindi patogena quando non può essere seguita dalla riparazione) e a cui seguono i tentativi adattivi di riparazione, che non possono essere considerati come il compito di uno solo, bensì consistono nella ricerca del ripristino, a livello relazionale, di una sintonizzazione; momenti affettivi intensi, ossia momenti in cui si sperimenta una forte emozionalità, che fungono da esperienze-modello di esperienze affettive simili (secondo appunto il processo di aspettativa), una sorta di prototipo affettivamente intenso di esperienza (quelli positivi possono agevolare le riparazioni, quelli negativi impedirle), che organizza e da senso sia alle esperienze future, ma che agisce anche in senso retroattivo, riorganizzando quelle passate, poiché la sua forza è nell'irrompere come rappresentazione e come affetto nell'organizzazione e nella regolazione: "Noi costruiamo e ricostruiamo attivamente ogni informazione, poiché ciò che percepiamo e ci rappresentiamo in un dato momento è il risultato di una continua interazione tra ambiente e i fattori individuali. Pertanto, le rappresentazioni sono sempre in process, in uno stato di aggiornamento costante. Il concetto di rappresentazione implica un processo di continua riorganizzazione. D'altra parte, i modelli di aspettativa costituiscono stati del sistema quasi stabili. Molto lavoro resta ancora da fare per chiarire le condizioni in cui i sistemi si trasformano o restano stabili, soprattutto nei casi in cui si verificano traumi"[14]. In altre parole gli autori confermano la natura non statica, bensì dinamico-processuale e in costante evoluzione delle rappresentazioni, sottolineando la funzione determinante del contesto nello svolgersi di questo processo rappresentativo: "il contesto ha un ruolo decisivo nella formazione e trasformazione delle rappresentazioni, nella creazione e riorganizzazione delle mappe mentali, e nel riassemblaggio delle co-costruzioni. Il modo in cui due persone co-costruiscono il processo diadico dipende sensibilmente dal contesto"[15]

Questa breve premessa teorica ci permette di considerare che un medesimo evento di vita (ad esempio la malattia, inteso come evento organico) non determina per tutti le stesse conseguenze, poiché esso è incontrato ed integrato entro specifici sistemi complessi, dove la fitta trama di relazioni tra le parti non permette previsioni certe e lineari circa lo stato futuro che quel sistema assumerà in relazione - anche! - a quell'evento. Ricordando inoltre che il sistema-persona è un sistema aperto, possiamo prevenire anche le derive individualistiche rispetto al funzionamento della mente. Esiste un'inevitabile intersezione tra il dentro-fuori, l'io e il non-io (altro) dell'esperienza: poiché entrambi sono fenomeni che avvengono contemporaneamente e con una continuità di senso, all'interno della stessa persona. In questo senso ci troviamo inevitabilmente confrontati con molti livelli possibili, una gerarchia inclusiva tra i sistemi nei loro vari gradi, per cui un oggetto non può essere definibile se non considerando i suoi rapporti funzionali con il sistema che lo contiene, nonché col sistema in cui abbiamo possibilità di incontrare quel tal oggetto e che ci determina nel nostro modo di essere osservatore, da una parte, e oggetto, dall'altra, in relazione. Con la precisazione sul rapporto figura-sfondo che ci propone Schafer, e che abbiamo sopra ricordato, è la figura che emerge dallo sfondo: così, se pure consideriamo la malattia come la "figura emergente", allora dobbiamo anche interessarci dello sfondo da cui emerge.

.sul rapporto individuo-contesto e sulla natura omogeneizzante delle esperienze

In questo senso crediamo opportuno a questo punto dichiarare la congruenza teoretica che ci sembra essere proposta da quella psicologia che interpreta i processi, non partendo dai singoli individui, bensì dai loro contesti. Nella storia della psicologia clinica l'adozione del gruppo come oggetto di studio in particolare ha significato una svolta determinante per lo studio e la comprensione degli individui, nonché per l'intervento: dall'individuo intrapsichico, con "un mistero chiuso in sé", si è passati al gruppo e suoi membri, tutti presi nella gestione delle reti di senso e significato tessute tra il suo interno e il suo esterno, conduttore compreso. Il gruppo come attuatore o fucina, come utero maieutico o come palcoscenico in cui continuare copioni emozionali addensati, in ogni caso un'unità con un margine esperenziale più ampio dell'intrapsichico, uno spazio potente d'attivazione emozionale e d'organizzazione della realtà. Da un punto di vista dell'intervento, anche un'occasione per esperire legami e colleganze affettive e cognitive, utilizzabili sia in senso terapeutico, che formativo, che per obiettivi di sviluppo (intesi come potenziamento della capacità di abitazione e convivenza in un contesto di riferimento). Potremmo sintetizzare questa "rivoluzione copernicana" della conoscenza (determinata dall'allontanamento dal singolo individuo quale oggetto di studio), affermando che "le sofferenze e le potenzialità del singolo sono diventate le sofferenze, i paradossi, le strade aperte e le potenzialità del legame soggetto-gruppo-collettività". Ben intesi che continua ad esistere tutto un mondo scientifico che propone intenti scientisti, semplificativi, tendenti alla frantumazione dei fenomeni e all'individuazione e classificazione nosologica dei problemi e delle malattie, per poterle spiegare con la causalità lineare, nell'intento di additare e possedere la pratica salvifica e risolutiva, idealizzando così un futuro epurato dai problemi: una cultura dove c'è chi sta bene e chi sta male, c'è l'organo sano e l'organo malato, c'è chi è felice e chi è infelice, chi è fortunato e chi è sfortunato, e dove il mantenimento di questa separazione implica una costante vigilanza e controllo. Anche in questa prospettiva scientista tuttavia alcune scoperte, come ad esempio i neuroni specchio, conducono verso lo studio dei processi attivi e fluttuanti della "pluralità". Nell'ambito della psicologia clinica e sociale invece Carli e Paniccia (1981) propongono un costrutto con cui identificano un fenomeno ed un processo che funge da matrice per le relazioni sociali, la collusione, ovvero l'accordo simbolico-affettivo che si determina tra singoli che condividono il medesimo contesto. La comune simbolizzazione affettiva di un evento sarebbe quindi la condizione sine qua non della relazione sociale. L'uso del termine collusione, come sottolinea lo stesso Carli[16], viene proposto proprio in riferimento al suo significato etimologico: cum-ludere, ossia giocare assieme; l'idea di giocare insieme organizza un "come se" condiviso, ordinato ed articolato attraverso l'assunzione comune di determinati elementi simbolici. Alla base del costrutto di collusione e del modello psicosociale che vi fonda (Analisi della domanda), c'è la teoria della mente di Matte Blanco (1975). Matte Blanco riprende quella che reputa la più importante intuizione freudiana, l'individuazione delle cinque leggi che regolano l'inconscio (spostamento, condensazione, assenza di negazione, assenza di tempo, sostituzione della realtà interna con la realtà esterna), e ne approfondisce il funzionamento, individuando due modi d'essere della mente, differenti, ma allo stesso tempo co-esistenti e non escludentisi, integrati in modo bi-logico: il modo asimmetrico, che risponde alle logiche aristoteliche, alle "logiche forti" e categoriche; il modo simmetrico, a-logico (ossia privante e negante la logica aristotelica), ordinato attraverso principi della generalizzazione e della simmetria, capace di include l'infinito[17] e i suoi paradossi. La mente diffusa, simmetrica, dominata dal senso, tende a fondere le connessioni in un impasto unico, sdifferenziando la realtà esterna e annullando la logica causale. La modalità asimmetrica deriva dall'esperienza percettiva e la relativa strutturazione cognitiva, quindi popolata da oggetti tridimensionali, misurabili, definiti, separati, mentre la logica simmetrica è dominata dall'emozionalità, dal sentire e dalla fusionalità "erotica", omogeneizzante, tendente all'infinito e alle esperienze sincretiche e multidimensionali. Questa fusionalità determina un livello dell'esperienza di totale diffusione emozionale, in cui non si da differenza tra sé e non sé, ma si è sincroni in un'unica realtà. Si pensi ad esempio alla perdita di singolarità nella massa, alla perdita della soggettività nella moltitudine. Con la bi-logica, non si distingue a priori e in modo categorico tra unità sintetiche e aggregati, essendo questi due modi di essere della mente, due modi coabitati di stare dentro un'esperienza: non è possibile definire in modo assoluto se l'unità sintetica vada considerata il soggetto, oppure il gruppo, o un qualche contesto, o piuttosto se invece questi vadano considerati come aggregati, poiché essi sono allo stesso tempo aggregati e sintetizzati. In questo senso i fenomeni relazionali sono legati da fenomeni logico-razionali, ma anche dalla simmetria affettivo-emozionale, tanto nel singolo, quanto nella coppia, nel gruppo, che nello spazio sociale più ampio. Su questa prospettiva si basa il concetto di collusione, appunto come "simbolizzazione affettiva del contesto, da parte di chi a quel contesto partecipa", un processo che porta a socializzare le emozioni, cosicché da una parte si ha una sintesi, dall'altra la contemporanea attuazione di un processo di rappresentazione condivisa della realtà, a cui è connessa, variamente, l'emozionalità. All'interno dei processi collusivi il "pensiero emozionato" è l'elemento terzo che può dare sviluppo e investimento all'energia emozionale, altrimenti sistematicamente "consumata" nel comportamento agito, inteso come modalità relazionale atta ad evacuare la pressione data dall'emozionalità sperimentata.

Il costrutto della collusione permette di considerare la simbolizzazione affettiva di un evento e i destini copionali in cui si relaziona il singolo soggetto, come l'esito di una determinazione complessa ed ampia, diffusa attraverso la rete multidimensionale delle connessioni affettive e dalla fenomenologia simmetrico-emozionale che la lega in modo unitario. Un costrutto che promuove una psicologia in cui viene collegato in modo saldo l'individuo al suo contesto: un individuo quindi che, impregnato emozionalmente di atmosfere e sceneggiature condivise, si posiziona affettivamente organizzando un proprio copione di relazione, mediando allo stesso tempo lo sviluppo dei suoi processi interni, che spingono verso l'attuazione, ma questa è possibile solo attraverso l'assunzione di un ruolo e una funzione sociale, ossia attraverso una certa collocazione esecutiva.

Da qui possiamo cominciare ad approcciarci all'esperienza della malattia, provando a considerarla a partire dal contesto in cui accade che qualcuno si ammala. Non di rado si considera il dolore, la sofferenza e la malattia, come se fossero dei dati oggettivi o dei fatti, cioè decontestualizzando dolore, sofferenza e malattia da dolorante, sofferente e malato, nonché dai contesti in cui l'evento malattia viene dotato di senso e significato.

Gli strumenti per significare sono nel contesto così come lo sfondo emozionale dell'esperienza: la malattia è nel malato, come l'essere malato è una qualità della persona, e la persona è tale nel suo contesto e nella sua matrice "storica", quella che "viene da-" e "la spinge verso-".


II QUALE SCENARIO?

Esiste, e vi partecipiamo, una lotta giurata contro le malattie, che si disegna per diversi tratti come una guerriglia. Questo modo di rappresentare le malattie, va situato all'interno della cultura in cui siamo immersi.

Uno degli aspetti più determinanti del nostro tempo è la moltiplicazione disperdente delle realtà, assunte alternativamente tra il convenzionalismo più radicale, l'isolamento e l'emarginazione: l'assenza della pluralità mentale, l'assenza di continuità tra gli eventi, la afinalità delle direzioni, la mancata connettività tra i fenomeni, l'assenza delle "narrazioni durature" in cui sviluppare appartenenza, determina uno scenario deve si realizza il significato "occasionale", e dove i modelli di esistenza sono autocentrati, individualistici, e dove "si vive l'attimo" e nella "attesa dell'attimo", in un consumo usa e getta dell'esperienza che "va finché dura" e per la quale la mitologizzazione dell'evento rappresenta l'unico modo per dare continuità a ciò che invece accade in maniera sconnessa e rapidamente. Lo spazio esperienziale e della convivenza più che un contenitore utero-generativo, maieutico e di sviluppo, rappresenta la condizione dell'azione meccanica, dell'attuazione acritica: nella crisi del senso, domina il "fare" e la "riuscita"  e il successo della singola performance e l'imperiosità dell'escamotage tecnico, la magica infinitezza del "tutto per tutto" (che è poi come "niente per niente"). Al posto della continuità si verifica l'accumulo: le esperienze si sommano e restano stabili e indipendenti tra loro, con un'esistenza sconnessa, dunque mitologizzata. Le scelte sono confuse e annebbiate dalla complessità, e i tentativi e l'opportunismo sostituiscono la progettualità. La tragicità del narcisismo irrompe nel nostro tempo come una cicatrice profonda tra ciò che si è e la propria immagine, tra ciò che si è e ciò che si crede di essere: il narcisista non è motivato dai sentimenti e in assenza di una adeguata organizzazione superegoica, privo quindi del senso del limite, agisce i propri sentimenti e allo stesso tempo ne svaluta il valore, con una frenesia e una tendenza al consumo emozionale, con cui prova ad opporsi al senso di vuoto e depressione. Il fenomeno del narcisismo non è solo un evento intrapsichico, ma è prima di tutto una dimensione culturale: "Oggi prevale la tendenza a considerare i limiti come restrizioni non necessarie al potenziale umano. L'economia è regolata come se non ci fossero limiti alla crescita; nella scienza si fa strada l'idea che sia possibile sconfiggere la morte, che sia cioè possibile trasformare la natura a nostra immagine. Potere, efficientismo e produttività sono diventati i valori dominanti e hanno preso il posto di virtù ormai desuete come la dignità, l'integrità e il rispetto di se stessi"[18]. Concordiamo con Lowen (1983) quando afferma che più che un normale stadio dello sviluppo ("onnipotenza infantile" o "narcisismo primario") in cui stanzia una personalità a "sviluppo mancato", il narcisismo si determina attraverso proiezioni esterne circa le credenze su sé, con le quali l'Io viene sedotto e invaso, gonfiando e caricando la propria immagine, rendendo quindi l'immagine di sé (ciò che appare) più grande dell'esperienza di sé: l'immagine, essendo artificiale, va continuamente alimentata di quote di corrispondenza con la realtà, costringendo l'individuo ad un'esistenza di performance dimostrative e autodimostrative, un accumulo di esperienze che fungono da impalcatura e su cui poggia, come fosse il substrato della realtà, la propria immagine grandiosa. Così come il narcisista non è un bambino non cresciuto, ma semmai un bambino cresciuto con l'amore dei genitori rivolto ad un altro da sé, di cui il bambino si è trovato ad indossare i panni, identificandocisi, così allo stesso tempo, crediamo che l'innervazione sociale del fenomeno del narcisismo, abbia una certa corrispondenza isomorfica con alcuni determinanti culturali, quali la promozione autoreferenziale della libertà individuale (e dell'individualità come valore di libertà), libertà che si incontra con poteri d'azione sconfinati (ad esempio quello tecnologico), nonché l'anomia consumistica, le seduzioni della pubblicità e le narrazioni (forse le uniche universalmente condivise, con affezioni e disaffezioni rapide e divampanti) sul consumatore che questa propone, in cui il valore si lega al possesso e l'uomo ai "suoi" oggetti: un importante intellettuale italiano, Pier Paolo Pasolini, ricordava che non vi può essere vera scelta, né democrazia, senza la capacità di comprendere i limiti e le criticità delle possibili prospettive, e che lì dove il fascismo non è riuscito a conformare la visione del mondo, sono riusciti i consumi.

In questo quadro culturale, la scoperta del limite si fa cruciale, poiché svela improvvisamente uno scenario tragico, che scoperchia una realtà meno grandiosa e onnipotente di quella immaginata, ma soprattutto meno degna d'amore e d'ammirazione. Meno grandiosa e onnipotente, non significa però che questa realtà non sia grande e ricca di potenzialità: la tragicità è nel vissuto di perdita di un mondo d'amore preteso e di un potere eccezionale, quanto irreale.


III   ALCUNE QUESTIONI CRITICHE SUL RAPPORTO MEDICO-MALATTIA-MALATTO E SPUNTI FENOMENOLOGICI

Da queste precisazioni vorremmo cominciare a considerare una domanda spinosa: "cosa succede ad una persona quando incontra una malattia?".

Innanzitutto abbiamo ricordato che ogni persona condivide con il contesto di riferimento modelli di rappresentazione, significati e punti di vista sugli eventi. Quindi una persona che incontra una malattia incontra innanzitutto qualcosa di già affettivamente conosciuto, significato e condiviso nella sua cultura; è nei processi simbolico-rappresentazionali che trova, di volta in volta nei vari avvicendamenti storici, sostanziamento il concetto stesso della malattia (Zanobini, Usai, 2005). Il problema della malattia evoca immediatamente sofferenza e dolore, ma anche il rammento della caducità del corpo e della morte. In una società dove il corpo è strumento, e strumento che le richieste sociali chiedono di superare nei limiti, la malattia fonda il ritorno penoso ad uno stato precario e l'allontanamento centrifugo dalle possibilità sociali. Quindi nella società richiedente, che pone enfasi sulla forma e sulle prestazioni, l'evento della malattia implica una rinuncia. In questo la malattia introduce la persona in un nuovo ambito sociale, con un ruolo definito "malato" e che è parte di un processo di convivenza già preordinato, quindi indipendentemente da lui; Herzlich (1969) notava tre modalità di rappresentare la malattia, nelle sue determinazioni sociali: la malattia che distrugge, dove il ruolo sociale ricoperto viene vissuto come detratto dalla malattia senza possibilità di nuova acquisizione; la malattia che libera, dove la società che schiaccia con le pretese l'individuo, deve con la malattia concedere una pausa all'individuo; la malattia come mestiere, dove assunto pienamente il ruolo di malato si lotta attivamente per la guarigione. La malattia è dunque un evento biopsicosociale: è l'iniziale scoperta del corpo espugnato e violato, a cui si legano una serie di conseguenze complesse, che investono l'identità e le relazioni della persona, ora malato. Questa improvvisa virata degli orizzonti progettuali, del modo di pensarsi e circa l'ambito rappresentazionale dove collocarsi socialmente ed affettivamente, questa scoperta di "essere improvvisamente altro e altrove" ci porta inevitabilmente a considerare come la malattia, nella sua connotazione biopsicosociale, comporti il più o meno intenso ed invasivo vissuto di perdita d'integrità: e sembra ovvio rilevare come questo incidi in modo significativo sulla qualità della vita. Con il costrutto di coping (Lazarus, 1984) possiamo considerare la malattia come un insieme di stressor a cui segue uno sforzo cognitivo-comportamentale per la loro gestione, quindi l'attuazione di un processo adattivo: le strategie di coping in questo caso potrebbero essere positive, lì dove la malattia fosse accettata e trattata dall'individuo con responsione-responsabilità, facendo leva cioè sulla propria capacità d'autoefficacia; oppure negative, lì dove si risponderebbe alla malattia con fatalismo, rassegnazione e autocolpevolezza, ossia rinunciando alle prospettive dell'autoefficacia. L'importanza della partecipazione attiva e della percezione di autoefficacia possono essere intersecate anche ritornando sul vissuto di perdita e sul conseguente compito d'elaborazione del lutto.

Con lutto intendiamo quella gamma di vissuti legati alla perdita di oggetti relazionali significativi: gli oggetti significativi sono allo stesso tempo sia interni, che esterni, come chiariscono le teorie del sé sopracitate, e su loro s'erige l'identità. La perdita di oggetti relazionali significativi, e il lutto che ne deriva, accompagnano in generale ogni processo di cambiamento, poiché ogni cambiamento è una "morte simbolica". Alla perdita d'oggetti relazionali significativi derivano una costellazione di conseguenze che definiremmo tipiche, tra cui l'incapacità di coordinare gli assetti emozionali-affettivi tra gli oggetti, l'emersione di stati ansiosi e depressivi, e l'incapacità a gestire i propri comportamenti e i propri stati fisiologici: si avverte una certa detrazione della propria struttura, nei suoi risvolti funzionali, ed in pratica l'incapacità di potersi affidare all'assetto usale di autoregolazione degli stati affettivi, associando quindi paura, senso di impotenza e perdita della speranza, quindi una rapida degenerazione del livello d'autostima e motivazionale, nonché una certa involuzione dei desideri. L'evento della malattia si configura come un atto violativo, cioè non solo l'incontro col "cattivo", ma la perdita del "buono", una frattura dell'esperienza del sé, che impoverisce improvvisamente le proprie capacità autoregolative: questo evento, che abbiamo definito, per la sua multidimensionalità biopsicosociale, amplifica il bisogno di eteroregolazione, quindi diventano determinanti le rappresentazioni simboliche dell'evento messo in gioco dall'ambiente e soprattutto l'adeguatezza responsiva delle proposte affettive.

La teoria sistemica offre al problema dei processi di cambiamento un'interessante prospettiva esplicativa. Come abbiamo visto nei sistemi aperti non può esistere un vero e totale stato di costanza, essendo questi appunto in relazione con il proprio esterno e sollecitati da questo a cambiamenti di stato e di struttura. Gli esseri umani sono sistemi aperti, quindi sottoposti in modo più o meno intenso, a seconda delle condizioni, a continue spinte al cambiamento, poiché l'universo è per definizione instabile. Quindi, in ogni caso si è continuamente implicati in processi di cambiamento, e non ci può essere alternativa a questo: semmai ci si può o meno assumere la responsabilità della e la responsività nella direzione del cambiamento, acquisendo il cambiamento come articolazione necessaria della vita come progetto. Immaginando l'esistenza come una barca tra le onde, si può mantenere la posizione di timoniere, che implica la capacità di operare progettualmente tra gli eventi, attraverso la sostenibilità delle criticità, dell'impegno, della fatica e dei rischi che derivano dall'operare delle scelte; oppure ci si può ritirare in una posizione più passiva, in cui le connessioni interne e le ambizioni progettuali perdono i loro collegamenti, in cui emerge forte la casualità, il fato, la "fortuna" o la "sfortuna", in cui cioè la propria barca ha perso il controllo (e forse il capitano è già su qualche scialuppa d'emergenza) ed è in balia delle onde, in una parola la barca è sotto il controllo dell'esterno (eteroregolazione). Abbiamo visto, attraverso l'utilizzo della prospettiva sistemica, che l'opzione "spiegazionista" di ridurre in logiche di cause effetto gli eventi, non può essere ritenuta che una pretesa intellettuale, lontana dal rappresentare esaurientemente e fenomenologicamente i processi. Come scrive Palazzoli Selvini, descrivendo i processi di determinazione degli eventi nel sistema-famiglia, "il comportamento di un membro della famiglia influenza inevitabilmente il comportamento degli altri. Tuttavia è epistemologicamente errato considerare il comportamento di questo membro come la causa del comportamento degli altri membri. E questo per il fatto che ogni membro influenza gli altri ma è anche influenzato dagli altri"[19]. Questa osservazione ovviamente è applicabile in tutti i sistemi e mette in luce come vi sia un rapporto complesso e circolare di continuità tra le parti di un sistema. Il legame tra continuità e cambiamento diviene in questo senso centrale nei processi sistemici. Il rapporto tra continuità e cambiamento si sviluppa attraverso una apparente contraddizione: perché ci sia cambiamento deve esserci il mantenimento di un certo grado di permanenza, deve cioè verificarsi, attraverso il cambiamento, l'attuazione di una continuità. "Ogni sistema, sia esso biologico o cognitivo, può modificarsi solo se non subisce un'alterazione eccessiva della sua struttura autopoietica, la quale si rinnova solo grazie ad una serie di stati di coerenza interna"[20] cosicché un cambiamento implica sempre un certo grado di permanenza. Alterazioni eccessive non portano al cambiamento, ma a strutture altre, non integrate, oppure a destrutturazione (qui non è possibile parlare neppure di cambiamento, ma di mutazione, un evento assai più radicale, una minaccia profonda per l'identità. Essendo il senso di continuità il raccordo vitale dell'identità, contro queste alterazioni eccessive spesso il diniego si frappone come estrema difesa per il mantenimento dell'integrità). Il sistema cioè cambia se è in grado di mantenersi come struttura, ossia se riesce ad autoregolarsi, altrimenti scinde e necessita di etero regolazione La domanda cruciale quindi è "come fa la l'esistente a mantenere se stesso nonostante questi cambiamenti del suo stato?". Il modello autopoietico (etimologicamente: auto=se stesso, poiesi=creazione), definito da Maturana e Varela (2001), vuole proprio rispondere a questa domanda definendo allo stesso tempo la principale caratteristica degli esseri viventi, ossia la loro capacità di mantenere una propria struttura, rigenerandola nel tempo, riuscendo così ad assorbire e metabolizzare in sé le energie e le spinte al cambiamento di stato, che provengono dall'esterno, quindi riuscendo allo stesso tempo a mantenersi funzionalmente e strutturalmente all'interno del proprio confine. Nel processo autopoietico non c'è inizio, né fine, e non c'è causa, né effetto, e non si parla di stasi, bensì di permanenza. L'unità autopoietica è capace di autorigenerarsi grazie ad una rete di reazione collegate che avvengono in modo specifico, all'interno del confine unitario: questa è altresì la caratteristica propria dei sistemi "viventi" e la manifestazione della loro finalità autoconservativa, innanzitutto; con una precisazione su cosa si intende con autoconservazione, con "conservare se stessi". Se "conservare se stessi" si considera come un dato, evidentemente la problematicità è di riuscire "resistere al cambiamento", cambiamento che come abbiamo visto è inarrestabile, ma anche fisiologico e funzionale: ogni volta che il cambiamento viene negato l'identità rimane inerme di fronte al fluire dei cambiamenti, svuotandosi delle sue parti costitutive, avviene in sostanza un ritiro, un ripiego, una rinuncia; se si considera la vita come un compito si implica una coscienza operativa, un impegno, una fatica e un rischio, non eliminabili (Nannetti, 1995): così come la individuazione junghiana, attraverso questa coscienza l'individuo riorganizza, attingendo in sé e nelle proprie esperienze, nuove connessioni (simboliche) di senso e significato. Essere impermeabili al nuovo implica una chiusura operativa!

Attualizzare la propria esistenza è la funzione fondamentale del cambiamento, ma per far questo non basta re-agire o "non re-sistere" (etimologicamente: fissarsi o fermarsi, per opposizione ad una forza contraria), bisogna che vi sia la capacità di considerare la criticità della spinta al cambiamento con cui si è sollecitati, ponderare la scelta e la direzione operativa, recuperando l'organizzazione funzionale, affinché il destino operativo e l'assetto strutturale si mantengano in una appropriata continuità.

Esistono vari tipi di eventi e sollecitazioni al cambiamento. Alcuni sono davvero traumatici, densi di una energia così dirompente, che conduce i sistemi a stati ingestibili. L'energia che spinge al cambiamento di stato, nel sistema, non è determinata unicamente dalla quantità che viene "portata" dall'esterno nel sistema, poiché ogni sistema risponde con modalità proprie, avendo una specifica organizzazione interna, e non possono determinarsi quindi risposte universali al cambiamento. Né l'energia che spinge al cambiamento di un sistema ne determina inevitabilmente l'aumento di disordine.

Proviamo a considerare queste ultime osservazioni, attraverso l'evento della malattia:

persona/progetto esistenziale/contestoàmalattia/contestoàmalato/persona/progetto esistenziale/contesto

Cosa succede quando si scopre di avere una malattia? Innanzitutto abbiamo visto come la malattia abbia una sua predeterminazione socioculturale: nei nostri modelli culturali, con la malattia si presagisce la sospensione o un certo peggioramento del campo progettuale e della sua capacità d'attuazione sociale, il peggioramento degli standard soggettivi ritenuti fattori di successo e di valore nella nostra società, l'emersione dello stigma legato alla debolezza del corpo, a cui consegue l'autoinsufficienza, il bisogno delle cure, della tutela, della protezione, l'attivazione di un processo di infantilizzazione della persona malata e la forzatura all'induzione di un suo stato di dipendenza: i rapporti con il malato si configurano, in una parola, come rapporti di tipo "sostitutivo". "La cultura dell'infantilizzazione del disabile [e del malato] e quindi del divieto a crescere diventa una sorta di attitudine collettiva che si trascina ancora come rappresentazione prevalente nell'immaginario collettivo. [.] L'infantilizzazione e l'eccesso di protezione della famiglia verso un figlio disabile si sono contagiosamente trasferite nel macrosociale e, simmetricamente, dal macrosociale ritornano alle famiglie attraverso messaggi che confermano e rafforzano questi atteggiamenti"[21]. Questo si interseca con l'identità ed il progetto esistenziale della persona. Questa tendenza a scindere il male, renderlo diverso ed estraneo, eliminandolo o purificandolo, è ciò che Fornari (1976) definisce "clistere psichico": una fantasia di rapporto che coinvolge in generale l'aiuto e il fare terapia, in medicina, in psicologia, nella religione, e nei riti magici. Fornari analizzando lo stretto rapporto malato-curatore, ne sottolinea la dinamica bisogno-capacità, con il tentativo da parte del malato della "evocazione delle imago parentali capaci di prendersi cura di lui come bambino, che è incapace di difendersi da solo dal male"[22]; allo stesso tempo Fornari nota "che all'origine dell'intenzionalità terapeutica sta, nell'inconscio del terapeuta, la fantasia di sentirsi responsabile del male che è spinto a curare (1967). [.] l'assunzione del male del paziente da parte del terapeuta potrebbe mobilitare in effetti fantasie di liberazione del male in una dimensione di onnipotenza maniacale"[23], in sostanza, nei termini relazionali, questo modello della "purga incondizionata del male" impedirebbe al paziente una integrazione delle sofferenze e delle proprie parti (perché parti a questo punto sono diventate) patologiche, in quanto espulse attraverso l'agito della cura, senza un adeguato processo di simbolizzazione dell'esperienza della cura e della relazione della cura: l'evento malattia viene assunto quale organizzatore di modalità relazionali gerarchiche, con, da una parte, l'autorità "genitoriale" (per di più "solo buona", quindi senza spazi per considerare gli aspetti ambivalenti, d'odio e amore, impliciti nel rapporto con l'autorità) del medico e la dipendenza del paziente "bambino" (Fornari, 1976). Che è un po' come dire che l'intervento riesce o non riesce, oppure riesce a metà, il paziente guarisce o non guarisce, oppure non guarisce del tutto: la questione si gioca tutta sul rapporto tra medico e malattia del paziente, e dato che il malato gioca un ruolo impotente, più ne resta ai margini, più ne rimane solo spettatore, meglio è.

Proviamo a calarci nell'esperienza specifica della scoperta della malattia. Anzitutto si sperimenta il dolore, dolore che emerge come male e male con una sua volontà distinta dalla persona: il primo passo del medico sarà riuscire a tradurre il male (sentito) in malattia (Cattorini, 1994), attraverso la diagnosi. Con l'avanzamento tecnologico è anche possibile riuscire ad individuare la presenza di malattie, prima ancora che si verifichi il vissuto corporeo di dolore. Le malattie possono essere diagnosticate quindi o a seguito di una sofferenza sentita nel corpo e conseguente innalzamento delle funzioni ergotrope[24] (Ruggieri, 1999) o in altri casi pur non sperimentando significativi cambiamenti nel vissuto psichico e in assenza di sintomi corporei. Ma in ogni caso, la fase dell'avvio della relazione con i medici, per la definizione della diagnosi e per il successivo trattamento, assume un'importanza determinante nella vita della persona-paziente[25]. Innanzitutto ci sembra sensato distinguere, per il momento, la malattia come evento nosologicamente localizzato e determinato attraverso la diagnosi, dalla malattia come rappresentante simbolico ed organizzatore delle relazioni sociali. Ed in questo senso risaltare che si diventa malati, in entrambe le accezioni, solo quando alla malattia organica si associa una riduzione significativa della capacità di riorganizzare l'assetto e il compimento di un proprio destino progettuale: quando come persona si diventa incapaci di mantenere o recuperare autonomia e responsabilità circa la propria vita, accentrandosi nel copione "bambino-maternage". In questa condizione vengono perduti i significati del proprio esistere attraverso l'induzione di una dimensione di dipendenza prestrutturata dove le relazioni verso il malato sono gestite attraverso l'obiettivo principale di vicariare le parti e funzioni esistenziali che si presumono da questo perdute. Il malato che si cura solamente, viene ridotto, trattato come una parte, non riconosciuto, vittimizzato, da un lato commiserato, dall'altro stigmatizzato e messo gerarchicamente su un gradino più basso. Mettiamo quindi in dubbio che il mal-essere del malato derivi unicamente dall'evento biopatologico, mentre lo crediamo fortemente connesso alla improvvisa frattura di senso e di coerenza nell'identità, derivante più dal "come si viene trattati", ossia dal ruolo copionale in cui si viene indotti, che da "quello che si ha". La negazione della difficoltà, della sofferenza, la cieca fiducia della guarigione, la fede nell'aggiustamento, impediscono alla complessità ed ambivalenza dell'esperienza di compiersi come occasione maturativa.

La fase di studio dei sintomi e dell'accertamento della malattia, con i colloqui che accompagnano (si spera) gli esami strumentali, è una fase particolarmente importante. Solitamente considerando il paziente un'utenza, il servizio d'assistenza sanitaria viene erogato presupponendo la domanda di intervento che questo richiederebbe: la domanda del paziente in altre parole viene ad essere anticipata in funzione dell'intervento e preordinata in modo obbligatorio. Eppure (ed è il tentativo del nostro discorso) possiamo immaginare una grande variabilità di domande, speculari delle dimensioni esistenziali-progettuali che sono uniche e specifiche d'ogni malato. Il primo approccio significativo, appunto quello in cui il paziente si trova a porre una domanda al servizio sanitario, avviene nella fase iniziale, quella della diagnosi. Il paziente porta in questa domanda una proposta-richiesta di relazione in cui sono attualizzate, nel tentativo agito di gestirle, fantasie circa: la simbolizzazione affettiva della malattia condivisa nella propria cultura d'appartenenza; il destino desiderato circa la risoluzione del disagio del proprio vissuto corporeo (lì dove si verifichi) nel rapporto di simbolizzazione affettiva con il medico (autorità buona e potere salvifico, piuttosto che autorità cattiva, oppure disconoscendone autorità o ruolo, ad esempio rendendolo un "impiegato al proprio servizio", un tecnologo della riparazione organica, etc.); una serie di anticipazioni sulla natura della malattia e le diverse conseguenze sulla propria esistenza e progettualità. Ciò che in questa fase viene proposto relazionalmente dal medico assume quindi un peso specifico molto alto, perché costituisce la matrice del processo di elaborazione e svolgimento di queste fantasie. Purtroppo molto spesso questa fase è invece gestita in modo molto meccanico dal medico, preordinato, tecnicistico e dogmatico, lasciando il paziente in una sconcertante e autonoma elaborazione dell'esperienza di definizione della malattia. La comparsa dei sintomi innesca uno stato di disordine nel proprio assetto identitario, una destrutturazione, "un confronto estraniante con la rappresentazione di sé", a cui si cerca di reagire innanzitutto attraverso l'attivazione di fantasie volte a contenere, o ad agire, tale estraniamento e disordine: la domanda rivolta al medico è investita quindi della richiesta di trasformazione del male in malattia, connotandosi attraverso l'invocazione della riorganizzazione del disordine e della risoluzione dell'interrogativo sulla propria identità. Ricevere una diagnosi è in tal senso un momento di giudizio sulla propria identità e di riorganizzazione rassicurante del suo disordine. Affinché il paziente possa ricevere la diagnosi e questa risposta sulla propria identità, deve tuttavia affrontare un percorso, più o meno lungo, e più o meno incisivo, di destrutturazione della propria identità: il paziente che sente in lui qualcosa che non va, che sta male, arriva a chiedere un intervento al medico, essendo già ben animato e popolato da fantasie; fantasie che molto spesso il rapporto con il medico non aiuta a riorganizzare attraverso un processo di pensiero. Il percorso diagnostico solitamente non viene adeguatamente investito nei suoi risvolti relazionali, ma del tutto affidato all'imparzialità oggettiva degli esami strumentali, che fotografando il paziente con "strani" strumenti ne producono un'immagine obiettiva, quanto estranea, trasformata, e più vicina ad un oggetto, ad una cosa, che non all'esperienza fenomenica integrata del proprio corpo (al modo in cui "ci si sente il proprio corpo" e ci si percepisce attraverso "le vibrazioni della propria carne pulsante") e alla usuale immagine di sé. Il paziente si trova a riflettere e a tradurre il suo dolore ad esempio in una lastra RMN, o in indecifrabili macchie ecografiche, alla ricerca di una qualche anomalia nel disegno: è un'esperienza perturbante[26], cioè del "corpo estraneo", visto e non sentito, parlato ma non ascoltato, dis-integrato e reso parte, vissuto come "una cosa". A questo va poi aggiunto che il paziente si trova a parlare della sua "parte malata" attraverso un linguaggio tecnico-specialistico, grondo di nomi evocativi ma non chiari, e che non chiariscono. Non è straordinario sperimentare da parte del medico la mancanza di strumenti, competenze ed attenzione agli elementi relazionali e alla possibilità di trattare con la persona, piuttosto che con il suo problema.


La sindrome di Cassandra

R. è un ragazzo di 27 anni, che ama molto suonare la chitarra e sogna che questo possa diventare un giorno la sua professione. Da un po' di tempo sente un forte formicolio alla mano sinistra e ciò lo preoccupa molto, perché gli crea difficoltà nella pratica musicale. Visita diversi specialisti, alcuni dei quali sospettano che si tratti di un problema del tunnel carpale e gli propongono di operarsi; uno specialista tra quelli consultati gli suggerisce invece di fare una RMN all'encefalo: R. ritira il referto capisce che c'è scritto qualcosa di importante, ma per lui del tutto incomprensibile, quindi ansioso chiama telefonicamente il suo medico di base per ricevere un rapido chiarimento. Il medico di base (invece di rinviarlo ad un appuntamento in studio), si vanta con R. della sua specializzazione in psichiatria e, sempre per telefono, gli comunica, con tono compassionevole, che è affetto da sclerosi multipla, una patologia gravissima (che non esita a descrivere nelle sue manifestazioni più virulente) che lo porterà a stare sempre peggio, quindi gli propone di farsi coraggio, e lo invita nel suo studio per fargli sapere se la sua diagnosi sarà confermata dallo specialista, e infine saluta R. senza mostrarsi interessato all'"effetto procurato". R. rimane notevolmente sconvolto da questa telefonata, che lo ha messo improvvisamente in contatto con elementi eccessivamente estranei e aggressivi: afferma di sentirsi disorientato, paralizzato e mentalmente immobilizzato. Stati simili sono ben descritti in letteratura, come stati di terrore. Ha avuto, successivamente alla telefonata, e anche a distanza di tempo, alcuni attacchi di panico.

Fortunatamente per R. è riuscito poi a lavorare sugli effetti di questa telefonata, sulle conseguenze destrutturanti derivate dalle modalità del suo medico curante (che poi ha cambiato), e sul suo progetto esistenziale. R., oggi, pur essendo rimasto segnato da questa esperienza e avendo chiari i limiti del suo corpo e le possibili incertezze che questa patologia cronica comporta, non pensa alla sua malattia come a una "disgrazia" e ad una "condanna": la vive come parte della sua esistenza e la considera come un'occasione che gli ha permesso di ripensare e riorganizzare aspetti di sé in modo più integrato e funzionale. Ha un lavoro che svolge con entusiasmo e, ironia della sorte, a quasi dieci anni dalla diagnosi, le condizioni della sua patologia si mantengono molto buone e pressoché invariate.


Il paziente entra in un processo fenomenico in cui è spinto ad abbandonare l'esperienza di corpo-vissuto, per accogliere quella di corpo-oggettualizzato: da "il corpo che si è", al "corpo che è". Il "corpo-cosa", nella malattia, è inoltre il corpo che non si possiede, è il corpo che si ribella, il corpo su cui non si ha più controllo, il corpo che fa male, che limita, che blocca, il corpo sfortunato, il corpo "amico fragile" o anche nemico. Questo crea fratture esistenziali che in qualche modo minano il senso di continuità. La perdita della continuità nell'esperienza della malattia è un processo abbastanza comune, anche perché istituito dalla prassi e dai modelli operativi e relazionali della medicina (c'è il corpo che sta bene, finché non viene sostituito dal corpo che sta male): la dis-abitazione del proprio corpo, la sua oggettualizzazione, la perdita più o meno importante del senso di continuità e la delega al potere medico nel tentativo di ripristinare in modo vicario il controllo sull'eversione del proprio corpo; il senso di continuità circa l'esperienza corporea, come abbiamo visto, è un fondamento su cui si poggia l'identità di un individuo, così come lo sono le strutture narrative con cui l'esperienza del corpo viene pensata, comunicata e tramata con le altre narrazioni: una frattura in questo senso crea veri e propri "nodi narrativi", interruzione o precipitazione degli eventi a cui il soggetto deve far fronte ricucendo i legami, sciogliendo i nodi narrativi, riorganizzando gli assetti della propria identità, insomma facendo fronte ad un compito adattivo importante ed impegnativo.

La malattia, come dato scisso dalla persona, sembra coerente con la logica del controllo, atta a neutralizzare l'ansia della sofferenza, del dolore e della morte: dalla forza vibrante e compartecipativa del mondo del malato come presenza, si modula la realtà per arrivare alla "malattia come cosa", gestibile, curabile o esportabile. Al di là del metodo di intervento (e evidenziando le criticità dei metodi medici, l'auspicio e l'intenzione è di potenziarne gli elementi di risorsa), tuttavia in ogni caso bisognerebbe tenere conto che la malattia (come cosa) è intersecata da un mondo ben più complesso e articolato, innestato in uno spazio-tempo ampio e definito attraverso il destino progettuale, con cui si organizza la fitta rete di relazioni interne ed esterne di significati. L'espellere è un'azione simbolica potente e si basa sull'esperienza ontologica della barriera interno-esterno. O anche dentro-fuori.


Sul dentro-fuori

Dentro, etimologicamente de-intro, ossia "ciò che denota la relazione di stato o di moto nella parte interiore di una cosa". Una prima considerazione, partendo proprio dall'etimologia, è che se c'è un dentro, ci deve essere un dentro-una-cosa; cosa, che potremmo definire in termini più specifici un'ente. Allo stesso tempo è necessario tuttavia sottolineare che per esistere un ente deve essere determinato entro dei confini: confini che sono determinati a loro volta e che non sussistono al "di-fuori" di una determinazione.

Carli (2003) propone di considerare le categorie dentro-fuori come un modello di simbolizzazione del corpo nello spazio, un modello basico, che organizza le primissime esperienze e che resta come base esperienziale per le categorizzazioni via via più sofisticate nello sviluppo della logica mentale. Sembra cioè che originariamente si comprenda la distinzione tra la presenza e la sua fine, l'assenza, come esperienza di con-fini, entro il quali avviene ed esiste un dentro, oltre i quali avviene ed esiste un fuori. L'autore suggerisce anche di considerare questa esperienza, dentro-fuori, come una esperienza umana, quindi connotata con qualità fondamentalmente affettive. Così, generalmente, il dentro ha una valenza aggregativa, fusionale, erotica: nel dentro c'è l'evocazione di una caratteristica strutturale, determinata innanzitutto dal confine, che produce un destino comune delle sue parti contenute-interne e che assumono quindi tra loro alcune caratteristiche di struttura; ma anche nel dentro c'è l'evocazione di una protezione: nel dentro c'è il noto, ed ogni esperienza ri-conosciuta. Nel fuori si proietta, dal fuori si introietta: ciò che si mette dentro viene bonificato (si rende buono), mentre il cattivo si espelle (permette al dentro di purificarsi).

Fuori, seguendo l'etimologia indica "la relazione di stato esterno alla parte interiore, e altresì di moto dall'interno all'esterno". Ossia, ciò che sta o avviene fuori da un confine, (potremmo dire tutto il resto!) la negazione del dentro. Riprendendola come categoria basica di simbolizzazione del corpo nello spazio, il fuori rappresenta l'ignoto, la dispersione, l'espulsione, lo smarrimento, la perdita, vissuti annichilenti e mortiferi determinati dalla perdita di confini. Ma anche, in quanto spazio ignoto, il "luogo del possibile", del non-noto e dell'incontro esplorativo: dopotutto il progetto di sé (che è poi di sé-nel mondo) può avvenire solo incontrando un "fuori" da sé.

Dentro-fuori come spazi simbolici a livello narrativo individuano le azioni entrare ed uscire: questioni non da poco se si considerano queste due azioni come fondamentali per organizzare la propria posizione narrativa nel suo rapporto con gli oggetti, a loro volta in rapporto tra altri oggetti: dentro-fuori cioè come qualità affettive, modalità narrative e processi di relazione, con un continuo flusso di mutua determinazione. Considerando questo processo di mutua determinazione, appare chiaro che esso prende atto a partire da un contesto di riferimento, che funge da unità semantica attraverso la quale si dispongono i codici di significazione. Quindi considerare uno spazio come interno ed un altro come esterno è il consolidamento di un'esigenza anzitutto affettiva, e quindi narrativa e di relazione: essendo "dentro-fuori" delle categorie (ossia predicati concettuali) in linea teorica queste potrebbero essere attribuite allo "spazio esistenziale" in modo illimitato, in pratica però si sperimenta la forte rigidità con cui a livello narrativo vengono organizzati questi spazi, secondo una coerenza semantica, ma soprattutto secondo la pregnanza delle esigenze affettive di volta in volta emergenti.

E l'aspetto più sorprendente nell'esplorazione dell'utilizzo delle categorie dentro-fuori sembra proprio la loro capacità di poter essere riferibili ad infiniti livelli di realtà. Una realtà che è inevitabilmente già qualcos'altro, allorché nominata.

Ma in che modo è in relazione il dentro-fuori?

Affinché ci sia un dentro ed un fuori, ci deve essere un confine, una separazione, e la distinzione di due realtà: una, il dentro, che sembra narrativamente coincidere con il punto di vista, il soggetto, l'altra, il fuori, che coincide con l'oggetto. Il dentro cioè sembra acquistare con una fluida continuità quelle caratteristiche di unità e identità proprie dell'interno di un sistema, nei suoi processi endogeni, mentre il fuori assume di volta in volte le denotazioni e connotazioni di processi esogeni.

Prendiamo ad esempio i mitemi fiabeschi del castello e del bosco, l'uno come evocazione del dentro, l'altro del fuori. Il castello è fortificato, inespugnabile e protettivo, evocando spesso uno stato interno di pace e serenità; ma le sue stesse mura possono anche isolare ed imprigionare. Nelle fiabe, come risposta ad un errore (per ingenuità o colpa) da parte dei castellani, avviene che dall'esterno un nemico penetri e fondamentalmente danneggi il castello e i suoi abitanti, gettandovi una maledizione, incantandoli, emarginandoli, rendendoli addormentati, senza tempo e con una vita in sospensione (spesso ai danni di una giovane donna, l'adolescente principessa, simbolo della continuità, o del re, simbolo imperituro del castello stesso): sempre dall'esterno, per mano di un eroe virtuoso (spesso un Principe errante), avviene poi il risveglio, lo scioglimento dell'incanto, la fine della maledizione (diremmo, in termini più psicologici, l'elaborazione di un lutto). Mentre il castello è confinato ed è una presenza visibile, appena fuori dal castello v'è il bosco, buio, grondo di pericoli, di stranezze, di ambiguità e di magia, pieno di segreti e animato da presenze varie, sconosciute ed eterogenee: il bosco è tutto tranne che sicuro, ordinato e come appare. Nel bosco (come nelle profondità del mare.) alberga l'incognito e il fantastico, i loro pericoli, le loro risorse. Il passaggio nel bosco produce nei viandanti un'esperienza determinante ed ogni svolgimento narrativo nelle fiabe ambienta (o vi fa riferimento) nel bosco un processo iniziatico. Difatti le fiabe ci esortano a non dimenticare i pericoli "interni" di un castello-prigione (per quanto dorata.) da cui non si esce e il cui tempo non scorre. Tuttavia chi esce dal castello inevitabilmente s'addentra in un bosco, i suoi segreti, le sue straordinarietà, la sua dirompenza, diventa cioè quel viandante che si prova in un'esperienza determinante.

Ad-dentrarsi, intendibile come "processo dove si integra il dentro con aspetti del fuori", coincide con quel processo di esplorazione per cui il dentro e il fuori ridefiniscono il loro confine e il loro stato. Con ciò sembrano trovare la strada dello scioglimento, e continuità nel cambiamento, i nodi narrativi.


Nel precedente capitolo sull'etica medica, abbiamo proposto una riflessione sui cambiamenti dei rapporti medico-paziente: se il prodotto definito della relazione medico-paziente è sembrato essere la promessa di ripristino delle condizioni di sanità, o della completa presa in carico del rapporto con la malattia (e della responsabilità delle conseguenze di questo rapporto), tuttavia da questo prodotto traspaiono sempre più i suoi caratteri paradossali, che si trovano spesso ad essere smascherati come falsità. Noi non crediamo che si tratti di falsi, quanto della necessità di comprendere come la domanda dell'utenza stia cambiando. Fornari (1976) sottolinea come la dinamica medico-paziente permetta di scindere la malattia da sé: il bene-sé quindi può liberarsi del male-altro da sé, potente e malefico, per essere affidato all'onnipotere del medico; in questo modello si determina così un rapporto esclusivo tra medico-malattia, mentre l'ammalato resta al di sotto, spettatore "bambinizzato". Forse nel contesto più contemporaneo, in linea con i nuovi problemi della medicina, che vanno dall'ennesimo rimando della promessa di "curare tutto", al cambiamento dello scenario culturale in cui si trova ad agire la medicina (tra tutti, il consenso informato), comincia a prendere forma una nuova domanda dell'utenza verso la medicina, ancora non pronunciata sino in fondo per l'ambivalenza emozionale che la contiene: la possibilità che l'agire del medico sia mosso dallo scopo aiutare il paziente ad aiutarsi. Questo vuol dire per il paziente rientrare in gioco con un ruolo più attivo, assumendosi il peso di una posizione più responsabile: la posizione di persona, con una propria progettualità esistenziale.


IV   GUARIRE: OVVERO, LA FANTASIA DI AVANZARE A PASSO DI GAMBERO

Abbiamo sin qui cercato di esaminare l'incidenza che ha, non tanto la malattia, quanto il modello di relazione che si instaura tra medico e paziente, sul destino esistenziale del malato. Abbiamo visto come tale rapporto sia addensato, da entrambi le parti, di processi difensivi: la scissione, per cui il male è separato e trattato come una parte e in modo parallelo alla vita ordinaria, e la regressione[27], per cui il paziente si affida incondizionatamente al medico, dipendendo da lui, mettendogli letteralmente in mano la propria vita. Su questi elementi è quindi centrato quello che potremmo definire il rapporto collusivo tra medico e paziente, che trova il suo presupposto di realtà nella capacità del medico di sconfiggere la malattia. Spesso tuttavia viene a verificarsi un fallimento di questa collusione, ossia questo accordo copionale tra i due viene disatteso: può accadere che il medico non riesca a "sconfiggere" la malattia e che questa non venga scissa in modo "così efficace" dalla persona; può accadere che il paziente "con la scusa della malattia" dica, e pretenda di dire, anche altro; può accadere che il passaggio da ammalato, infantilizzato e dipendente, a guarito, autonomo e autoregolato, non sia né automatico, né scontato; il paziente non sempre offre al medico carta bianca sul proprio corpo, volendone mantenere una certa quota di gestione; in sostanza si propone al medico la capacità di sostenere un rapporto di tipo diverso: "L'importanza di tenere separato l'uomo dalla malattia è un processo difensivo che rende stabile il rapporto tra medico-paziente e rende possibile la cura della malattia come azione riparativa, mentre prendersi cura della persona malata permette di superare il concetto di malattia come altro da sé e tende alla ricomposizione integrativa della persona"[28]. In questa seconda accezione, in coerenza con le prospettive teoriche che abbiamo sin qui proposto, la malattia come evento critico può essere considerata un'occasione potenzialmente maturativa e riorganizzativa del sistema relazionale ed identitario della persona; e, sempre potenzialmente, del suo campo esistenziale, proprio in virtù del fatto che in qualche modo lo diverge o lo sospende. Questa riorganizzazione è un compito complesso e del resto non semplice: implica l'elaborazione del lutto, l'individuazione delle colleganze più periferiche per operare efficacemente un loro riassetto, mantenendo le strutture affettive più profonde nuovamente investibili (cambiamento come attualizzazione), e quindi implica un adattamento attivo, dove con attivo vogliamo sottendervi il mantenimento di una propria e soddisfacente finalità progettuale, la sensazione di riuscirsi a portare a compimento. Il compito non è semplice per il malato, ma non è semplice neppure per chi si prende cura di lui o vi sta in relazione. Il compito del medico e dello staff di operatori, ma anche di amici e famigliari che vivono un contatto professionale ed affettivo con il malato, è, in un complesso di funzioni, riuscire a testimoniare (e a testimoniare in sé) ed interagire in questo evento evolutivo: interagire, perché non si cresce senza radici, tanto per i malati, quanto per chi vi sta in relazione: come ci ricorda Nannetti (1995) ogni viaggio è una fuoriuscita da sé per ritrovare le proprie origini.

Del resto il malato non è una categoria di esseri umani, ma un'esperienza inevitabile per ogni essere umano. Alcune malattie espongono a compiti difficili, ma compiti difficili non si incontrano solo nelle malattie, né possono essere in ogni modo considerati essi stessi "malattie dell'esistere".




[1] Stern D. La nascita del Sé, in Ammaniti M (a cura di), La nascita del Sé. Laterza: Bari, 1989, pp 1118-119

[2] Schafer R. Retelling a life. (trad. It Rinarrare una vita. Roma: Giovanni Fioriti Editore, 1999, p. 30)

[3] Ibidem, p. 31

[4] Ibidem

[5] Ibidem, p. 39

[6] Ibidem, p. 49

[7] Montesarchio G. (2002). Colloquio in corso. Milano: Franco Angeli, p. 138

[8] Schafer R. Retelling a life. (trad. it Rinarrare una vita. Roma: Giovanni Fioriti Editore,  1999, p. 97

[9] Ibidem p. 97

[10] Beebe B, Lachmann F. Infant research e trattamento degli adulti. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2003, p. 27

[11] Se con Freud si aveva ancora l'idea di osservare e trattare l'altro come fosse un "oggetto esterno" isolabile dalle influenze dell'analista, con Sullivan e "gli interpersonalisti" il terapeuta diviene colui che "osservando partecipa", sino ad arrivare, con le nuove teorie degli autori più recenti, a divenire un "partecipante che anche osserva" , considerando l'inevitabile attivazione del sistema relazionale co-creato e dove si esiste perché esiste l'altro: l'autoregolazione individuale (determinata dagli elementi controtransferali) può essere un facilitatore o un ostacolo all'interazione e dei processi terapeutici, ma non può essere comunque mai scissa dalla relazione.

[12] Beebe B, Lachmann F. Infant research e trattamento degli adulti. Milano: Raffaello Cortina Editor, 2003, p. 111

[13] Ibidem, p. 98

[14] Beebe B, Lachmann F. Infant research e trattamento degli adulti. Milano: Raffaello Cortina Editor, 2003, pp. 198-199

[15] Beebe B, Lachmann F. Infant research e trattamento degli adulti. Milano: Raffaello Cortina Editor, 2003, p. 214

[16] Carli R. La collusione e le sue basi sperimentali. In: Rivista di psicologia clinica, 2-3

[17] Mentre non si può pensare all'infinito in un modo finito! L'infinito non è pensabile come un oggetto, semmai come un'infinità di oggetti, e questo continua a renderlo impensabile: per pensare all'infinito bisognerebbe essere dotati di un pensiero infinito.

[18] Lowen A. Il narcisimo: l'identità rinnegata. Milano: Feltrinelli, 1992, p. 21

[19] Palazzoli Salvini M. Paradosso e controparadosso. Milano: Feltrinelli, 1975, p. 13

[20] Nannetti F. Miti e metafore del cambiamento: il vissuto corporeo nelle situazioni di crisi. Milano: Giuffrè Editore, 1995, p. 8

[21] Zanobini M., Usai M. C. Psicologia della disabilità e della riabilitazione. Milano: Franco Angeli, 2005, p. 248

[22] Fornari F. Codice e simbolo. Milano: Feltrinelli, 1976, p. 113

[23] Ibidem, pp. 118-119

[24] Ergotropia: stato di arousal generalizzato, ossia stato di diffusa e globale eccitazione ed innalzamento delle attività corporee, come risposta agli stressor, e che comporta modificazioni dello stato interno (con perdita d'equilibrio omeostatico), tentando allo stesso tempo di intervenire e modificare il mondo esterno e la condizione, fonte dello stress.

[25] "Lo studio dell'esteriorità, che sottende sempre la fattità, in quanto questa esteriorità è percettibile solo sul cadavere, è l'anatomia. La ricostruzione sintetica del vivente a partire dal cadavere è la fisiologia. E' condannata, in partenza, a non capire niente del corpo, perché vede la divisibilità all'infinito del cadavere come primitiva cosa, e non conosce l'unità sintetica del 'superamento verso' per cui la divisibilità all'infinito è pure e semplice passato. Anche lo studio della vita nel vivente, e le vivisezioni, e lo studio della vita del protoplasma, e l'embriologia, e lo studio dell'uovo non possono ritrovare la vita: l'organo che si osserva è vivente, ma non è fuso nell'unità sintetica di una vita, è inteso a partire dall'anatomia, cioè dalla morte. Sarebbe quindi un errore credere che il corpo d'altri, che ci si manifesta originariamente, sia il corpo dell'anatomo-fisiologo" (Sarte J. P. L'Essere e il Nulla. Milano: Il Saggiatore, 1980, p. 430)

[26] Nel riferimento freudiano del termine: "[Quando il consueto] orientamento è smarrito, il mondo non è più famigliare (heimlich), non è più la casa (Heim) dell'uomo, ma diventa la dimora del Sinistro, dell'Insolito, dell'Inquietante la cui onnipotenza si ripartisce secondo le tecniche dell'antica magia, indifferentemente tra persone e cose. [.]" (Galimberti, 2001). Un luogo sinistro, dovuto al "ritorno del rimosso", al suo riproporsi improvviso.

[27] Regressione, nel suo senso più ampio, poiché, come afferma Cattorini (1994, p. 27) "la regressione del malato, il suo tornare cioè a modalità infantili di relazione, è la figura ed il nome psicodinamico di una vulnerabilità dell'essere e di una corrispondente esigenza d'aiuto. [.] Nel contempo la vulnerabilità del malato è da lui stesso avvertita come una contrazione nell'esercizio pieno, agile della sua libertà. Pertanto dà luogo non solo ad apprensioni e risposte difensive, ma anche ad una richiesta d'aiuto e ad un'esigenza di affidamento che, come tale, riprende e riformula paure ed attese proprie dell'infanzia". E più che "dell'infanzia" diremmo proprie delle modalità di rapporto determinate culturalmente, e storicizzate, tra il medico e il paziente, che appunto sono molto prossime (ma anche diverse!) a quelle tra l'infante e sua balia!

[28] Tomassoni M, Solano L (a cura di). Una base più sicura. Milano: Franco Angeli, 2003, p. 68




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