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FRATTURE DELLA ESTREMITA' SUPERIORE DEL FEMORE
Con questo termine intendiamo le fratture del collo
del femore e del massiccio trocanterico escludendo le fratture
sottotrocanteriche che tratteremo nel capitolo dedicato alle fratture
diafisarie del femore.
Sono fratture molto gravi perchè, come vedremo, sono quanto mai sfavorevoli al
processo di riparazione; possono colpire tutte le età essendo però,
maggiormente frequenti nell' età senile.
Per generarsi, nel giovane, richiedono traumi di notevole intensità mentre
nell'anziano, si verificano comunemente per semplici cadute o comunque per
l'azione di forze di scarsa entità.
Ciò è determinato dalla particolare struttura anatomica del collo del femore
che qui di seguito ricordiamo; la struttura costitutiva del collo del femore
prevede una disposizione trabecolare nella quale si possono distinguere
essenzialmente tre sistemi traiettoriali di resistenza importanti; compreso tra
questi sistemi si distingue una zona triangolare, detta zona di Ward, nella
quale l'impalcatura scheletrica risulta meno resistente. Tale zona determina un
"locus" di minore resistenza ove può generarsi la frattura. La frattura
risulta maggiore come frequenza nell'anziano per la presenza concomitante di
una riduzione del tono calcaneare e del numero delle trabecole, caratteristiche
queste, dell'osteoporosi senile.
Per quel che riguarda la vascolarizzazione dell'epifisi è necessario ricordare
che essa deriva essenzialmente dalle seguenti arterie:
- l'arteria circonflessa anteriore che irrora il gran trocantere e manda un
ramo alla testa femorale, essa decorre nella parte anteroinferiore del collo;
- l'arteria circonflessa posteriore che dà un ramo all'epifisi femorale oltre
che per il grande trocantere;
- l'arteria del legamento rotondo, nutre la regione della fovea, decorre nel
legamento rotondo ed ha un ruolo secondario ai fini della vascolarizzazione
della testa. Questo vaso in età avanzata è solitamente obliterato.
La frattura del collo determina inevitabilmente una lesione a carico di questi rami, che decorrono lungo il collo, dalla base trocanterica del collo alla testa interrompendo così la circolazione ematica.
Volendo classificare le fratture del collo dobbiamo
innanzitutto dividere le:
- fratture mediali, interessano il collo fino alla sua base:
1) sottocapitata, al limite tra testa e collo e totalmente intraarticolare
2) transcervicale o mediocervicale, parzialmente articolare
- fratture laterali
1) basicervicali (cioè alla base del collo)
2) pertrocanteriche, con rima che decorre dal piccolo al grande trocantere
3) isolate dei trocanteri
Questa divisione corrisponde ad una diversa prognosi
oltre che ad un differente trattamento. Questo è legato al fatto che:
a) l'inserzione capsulare, è differente in quanto la capsula copre una porzione
del collo, perciò le fratture mediali saranno quasi totalmente intracapsulari,
quelle laterali del tutto extracapsulari;
b) in base alla descrizione dell'irrorazione sanguigna possiamo affermare che
la regione della testa e del collo è supportata solo dai rami circonflessi e
quindi da una circolazione di tipo terminale, mentre il trocantere è dotato di
più sistemi; quindi quest'ultimo è meno sensibile al danno provocato da una
eventuale frattura.
c) la muscolatura è altrettanto importante, di fatti nelle fratture mediali
manca un manicotto contentivo e protettivo
d) gli aspetti meccanici spiegano poi, come siano estremamente rare le fratture
della testa in quanto ben protetta nell'acetabolo e siano più frequenti quelle
del collo ove minore è la protezione e maggiore la forza muscolare che agisce
determinando scomposizione dei monconi medesimi.
Importante è anche analizzare lo spostamento dei
monconi, infatti nelle fratture mediali abbiamo che:
- la testa resta fissa
- il moncone prossimale soggiace all'azione del carico che tende a:
a) spostarlo in basso se la rima è trasversa (valgo)
b) compattarlo se la rima è orizzontale (varo)
- il moncone distale soggiace alle forze muscolari
che tendono a:
a) a far risalire il frammento distale
b) a farlo ruotare all'esterno
Detto questo si può concludere che le fratture
mediali hanno cattiva prognosi e lunghi tempi di consolidazione anche in considerazione
dell'età del paziente.
Le manifestazioni cliniche sono caratterizzate da:
- dolore: all'anca, alla coscia ed eventualmente al ginocchio, non di rado esso
è limitato o addirittura assente
- atteggiamento dell'arto: accorciato ed extraruotato; l'extraruotazione è
tipica delle fratture della base del collo in quanto in quelle più prossimali,
cioè capulari, la presenza di quest'ultima agisce da freno all'extrarotazione
che non supera di norma i 60 ø
- impotenza funzionale: impossibilità a sollevare attivamente l'arto dal piano
del letto
- ematoma, tardivo
La diagnosi oltre che alla clinica è affidata alla
radiologia convenzionale che attraverso la proiezione panoramica del bacino ed
una proiezione assiale rende la diagnosi sicura.
Per quel che riguarda la terapia vari sono i parametri di cui tenere conto: il
tipo di frattura, ovvero se mediale o laterale, le caratteristiche meccaniche e
biologiche della frattura e l'età del paziente.
Per quel che riguarda le fratture mediali dobbiamo partire dalla valutazione
dell'età del paziente considerando che tanto più avanzata è, tanto minore dovrà
essere il tempo di immobilizzazione del paziente al letto, evitando così tutte
quelle complicanze tipiche della lunga degenza; il trattamento sarà, quindi,
mirato a sostituire la testa del femore con una protesi (endoprotesi).
Per quel che riguarda poi la tipologia della frattura dobbiamo ricordare che
una frattura mediale interrompe l'irrorazione ematica alla testa e che tale
interruzione sarà tanto maggiore quanto più la frattura sarà vicina all'epifisi
e tanto maggiore sarà lo spostamento relativo dei monconi; le fratture
sottocapitate e gravemente scomposte saranno quelle a peggiore prognosi mentre
quelle basicervicali e composte avranno migliore prognosi. Quindi nelle
fratture biologicamente più sfavorevoli si preferirà un trattamento che
prevenga il rischio di pseudoartrosi e necrosi sostituendo la testa del femore
con una protesi (endoprotesi).
L'osteosintesi, cioè l'immobilizzazione della frattura mediante viti o chiodi
previa riduzione, ha il vantaggio di essere meno invasiva rispetto alla protesi
e di consentire una precoce mobilizzazione senza però consentire una rapida
ripresa del carico. Sarà da utilizzare quindi nei soggetti giovani e che
presentano fratture laterali (basicervicali o pertrocanetriche) o comunque ben
ingranate.
E' necessario comunque fare riferimento anche all'eventuale trattamento
mediante trazione ed immobilizzazione (incruento) da riservarsi a casi di
fratture incomplete e ben ingranate o a casi non operabili.
Le fratture della testa del femore presentano spesso complicazioni; esse sono
sia di ordine generale, in riferimento all'età del paziente ed alla prolugata
immobilizzazione, sia di ordine locale, quasi esclusivamente a carico delle fratture
mediali e che sono la pseudoartrosi e la necrosi epifisaria.
FRATTURE DIAFISI FEMORALE
Sono fratture frequenti, soprattutto nei giovani, sono determinate da traumi
semplici o di notevole intensità e possono essere di vario genere.
Per la lunghezza della leva scheletrica spesso sono multiple anche a più
livelli potendo così essere responsabili di una intensa sintomatologia
dolorosa.
Circa il 15 % di tali fratture sono esposte; rare
sono le lesioni vascolari importanti, al contrario, spesso coesiste un rischio
di shock legato all'imponente perdita ematica che si verifica.
Altro importante rischio collegato a questo tipo di fratture è l'embolia
adiposa legata al rilascio in circolo do microparticelle grasse dai tessuti
circostanti lesionati.
Le embolie che ne derivano possono essere polmonari o renali, e possono
provocare gravi necrosi e fatti flogistici.
L'azione della muscolatura gioca poi un ruolo importante nella scomposizione
della frattura che in questo caso è quasi inevitabile.
Distinguiamo schematicamente:
- le fratture del terzo superiore ( o prossimale) mostrano, per l'azione
traente della muscolatura, una deviazione ad axim: il moncone prossimale per
l'effetto della muscolatura glutea viene abdotta e flessa, mentre il moncone
distale, sollecitato dalla muscolatura adduttoria, si sposta medialmente
- le fratture del terzo medio mostrano una predominanza all'accavallamento dei
monconi, ad latus, ove per l'azione dello psoas e dei muscoli pelvi
trocanterici si mette in flessione, abduzione e rotazione esterna, mentre il
moncone distale per la contrazione degli adduttori e dei muscoli lunghi della
coscia, si porta in alto.
- le fratture del terzo inferiore ( o distale ) lo spostamento sarà ad axim con
uno spostamento mediale ed in avanti del moncone prossimale, mentre il moncone
distale per l'azione del gastrocnemio, si porta in in flessione, che è tanto
più accentuata quanto più è bassa la rima di frattura.
Nel bambino sono frequenti le fratture subperiostee di tipo spiroide che
comportano una minore scomposizione.
La sintomatologia di queste fratture è caratterizzata dal dolore, intenso,
dall'impotenza funzionale, costante e dalla deviazione assiale. Tipicamente
l'arto si presenta accociato e deviato generalmente in varo. Frequente è un
quadro di shock anche molto grave, dovuto alla vasta perdita ematica. Vaste
possono essere le ecchimosi.
Le complicazioni delle fratture oltre a quelle sopraddette sono: scomposizione
con esposizione e rischio di infezioni; lesioni vascolari della femorale e
della poplitea; l'irriducibilità per la interposizione di muscoli; vizio di
consolidazione e pseudoartrosi.
Il trattamento, che un tempo si basava sull'uso di apparecchi gessati di tipo
pelvipodalico con l'impedimento così della flessione del ginocchio e lo sviluppo
di una precoce ipotrofia muscolare, prevede, oggi, una iniziale trazione al
fine di ridurre la frattura e la successiva contenzione cruenta che consente
così una precoce mobilizzazione e una riduzione delle complicanze.
La contenzione della frattura potrà essere ottenuta mediante:
- placche e viti, si tratta di un sistema di sintesi ampiamente utilizzata di
tipo molto stabile, che consiste nell'apertura del focolaio di frattura e nella
successiva immobilizzazione con placca e viti; l'eccessiva stabilità e lo
scollamento del periostio, necessario per l'applicazione della placca, fanno sì
che il callo periosteo, il più importante per la consolidazione, sia scarso e
che quindi l'uso di questo tipo di sintesi sia spesso associato a ritardi di
consolidazione ed infezioni. Per ridurre queste complicanze sono in studio
delle placche semirigide od elastiche in materiali nuovi; di fatto la sintesi
con placca sta' subendo una evoluzione concettuale che porta alla ricerca di
una placca ideale formata da materiale biocompatibile, sufficientemente
elastico da consentire le sollecitazioni eutrofiche e nello stesso tempo
resistente per impedire sollecitazioni abnormi durante la consolidazione.
- chiodo endomidollare, in questo caso si ottiene dapprima la riduzione a cielo
chiuso della frattura e successivamente si introduce, dalla porzione prossimale
del femore, un lungo chiodo, a sezione differente, per tutta la lunghezza della
diafisi ottenendo così la stabilizzazione; ideato negli anni '40 con
indicazione per le fratture oblique del terzo medio del femore oggi viene, dopo
sviluppi nei disegni e nell'applicazione utilizzato per il trattamento di varie
fratture anche comminute; vari sono i tipi di chiodi utilizzati, quelli di Rush
e di Ender ( elastici ), quello di Kuntscher ( meno elastico) e quello di
Grosse-Kempf ( rigido ). L'inchiodamento endomidollare consente una rapida
mobilizzazione del paziente, non disturba la circolazione periostea ed è di
facile rimozione.
- fissatore esterno, di tipo assiale o circolare, si applica a cavallo della
rima di frattura, con fissazione all'osso mediante grossi chiodi (fisches) o
fili trapassanti, posti a monte e a valle del focolaio. Tale sistema consente
di dosare la rigidità dell'intero sistema agendo sulla stabilizzazione degli elementi
di presa sull'osso, è poco invasivo nell'applicazione, non comporta l'apertura
del focolaio di frattura, rendendo questo sistema insostituibile nel
trattamento delle fratture infette, esposte o dove coesistano perdite di
sostanza a carico dei tessuti molli.
FRATTURE DELLA ESTREMITA' INFERIORE DEL FEMORE
Le tipiche fratture del terzo inferiore della diafisi
sono a rima trasversale od obliqua e l'interruzione della diafisi avviene in un
tratto compreso tra la base dei condili e circa 10 cm. prossimalmente a questi.
Le fratture dell'estremità distale del femore possono essere molto difficili da
trattare, a prescindere dalla scelta di metodi conservativi o chirurgici.
Esisitono difficoltà oggettive, come, ad esempio tenere un paziente anziano in
trazione, e successivamente in un apparecchio gessato, sia problemi di sintesi
e di infezione quando si seguono metodi chirurgici.
Recenti miglioramenti, sia dal punto di vista chirurgico sia dal punto di vista
conservativo, hanno permesso di ottenere migliori risultati nel trattamento
delle fratture dell'estremità distale del femore.
Queste fratture possono essere classificate in:
- sovracondiloidee, senza interessamento della articolazione che a loro volta
possono essere con spostamento e senza spostamento.
- condiloidee, con interessamento dell'articolazione che possono essere
monocondiloidee o bicondiloidee.
Nelle fratture condiloidee il quadro clinico è
dominato dai segni della compromissione articolare; per la presenza
dell'emartro i rilievi ossei del ginocchio sono scomparsi; l'ecchimosi è
imponente e si estende a distanza nel cavo del poplite e lungo la faccia
posteriore della gamba.
Il ginocchio può essere deviato in varismo od in valgismo a seconda che la
frattura sia al condilo interno o a quello esterno. La deformità più accentuata
la si ha nelle fratture bicondiloidee in cui può rilevarsi un evidente
accorciamento dell'arto.
Le fratture senza spostamento possono essere trattate con una trazione di
alcuni giorni seguita dall'applicazione di un apparecchio gessato. La trazione
è attuata mediante filo di Kirschner in prossimità della tuberosità tibiale,
successivamente viene applicato un apparecchio gessato di tipo pelvi-podalico
(dal bacino al piede).
Per quel che riguarda le fratture condiloidee, al fine di ottenere dei risulati
funzionali buoni, ci dobbiamo preoccupare di garantire un'accurata riduzione
della frattura. Per questo il trattamento è generalmente di tipo chirurgico
utilizzando delle lame-placca o placche condiliche ove, comunque, il successo del
trattamento dipende dall'accuratezza della tecnica chirurgica e dalla presenza
di tessuto osseo con sufficiente resistenza.
E' importante che la placca venga applicata al lato esterno del femore e che
sul lato mediale i frammenti ossei costituiscano un puntello osseo, questo per
evitare rotture dei mezzi di sintesi. Qualora mancasse sufficiente resistenza
del sistema, come nel caso di gravi fratture comminute ci si può servire di
trapianti ossei.
Le fratture isolate dei condili vengono efficacemente trattate mediante l'uso
di viti da spugnosa o placche e viti. Successivamente il trattamento prevede il
precoce inizio di una terapia di movimento attiva che può essere iniziata poco
dopo l'intervento chirurgico cui fa seguito una ripresa del carico che dipenderà
dal tipo di osteosintesi e dal mezzo di sintesi usato.
FRATTURE DELLA ROTULA
Le fratture della rotula, osso sesamoide compreso nello spessore del tendine
rotuleo, rappresentano circa l'1 % di tutti i traumi dello scheletro; possono
essere causate da traumi indiretti, soprattutto nei casi in cui il quadricipite
si contrae violentemente nel tentativo di estendere il ginocchio che si trova
in flessione forzata.
Queste fratture sono generalmente trasversali o comminute e non risparmiano i
legamenti alari del ginocchio che possono essere in questo modo lesionati e
determinare l'entità della diastasi dei monconi.
La rotula è però anche esposta anche a fratture derivanti da traumi diretti, di
fatti la posizione sottocutanea in cui si trova la rende vulnerabile a tali
traumi; l'urto violento contro il cruscotto della autovettura o una caduta a
terra spesso determinano fratture gravemente comminute; in genere il grado di
scomposizione è minimo.
Clinicamente tali fratture si manifestano con una emorraggia notevole con il
sangue che si riversa sia nell'articolazione sia attraverso le lacerazioni
della capsula e della fascia nel tessuto sottocutaneo. Il dolore è sempre
presente soprattutto ai movimenti dell'articolazione del ginocchio e alla
pressione della rotula.
Il trattamento è differente in funzione della composizione dei monconi: le
fratture composte vengono trattate immobilizzando il ginocchio in estensione
completa con una ginocchiera gessata; la consolidazione richiede circa sei
settimane al termine di tale periodo se la consolidazione è sufficiente è
possibile iniziare una cauta mobilizzazione attiva e passiva.
Le fratture trasversali con diastasi (scomposizione) dei monconi richiedono il
trattamento chirurgico; dunque i frammenti devono essere ridotti in posizione
anatomica e fissati mediante cerchiaggi, così detti, ad "8" avvolti
intorno a chiodi conficcati nel corpo della patella.
Anche in questo caso la mobilizzazione deve essere intrapresa solo dopo una
buona consolidazione della frattura. Nel caso di severe fratture comminute a
carico del polo superiore od inferiore della rotula si procederà ad una
patellectomia subtotale con conservazione di almeno una metà della superficie
articolare.
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