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Maurizio De Virgilis - IL TEATRO COMICO NEL MEDIOEVO

lettere




Maurizio De Virgilis



IL TEATRO COMICO NEL MEDIOEVO















Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore

a.a. 2000/2001

Corso: Storia del Teatro 1, facoltà di lettere e filosofia




«Le ricerche intorno alla produzione estremamente vasta e complessa del Medio Evo latino non sono ancora così sufficientemente estese da permetterci di ricostruire con precisione la storia dei generi letterari e di tutti quegli elementi di vita culturale che costituirono la civiltà dell'Europa in quella fecondissima età che, occupa quasi un millennio di storia umana, dal secolo sesto al decimoquarto. Bisogna quindi accontentarsi di intravederne solo le grandi linee, gli elementi essenziali e per così dire costitutivi, le caratteristiche più cospicue, e di giungere in molti punti, meno generali, a conclusioni in parte provvisorie, lasciando a successive indagini il compito di controllare i dati acquisiti, di portare alla luce e valutare nuovi testi e nuovi documenti preparando così più abbondante materiale a quella sintesi vasta e sicuramente stabilita che soltanto lo storico dell'avvenire potrà darci»[1]. Questa è l'opinione di Ezio Franceschini in un'opera del 1960, espressa sulla base delle testimonianze fino a lui giunte. Oggi non credo sia più possibile affermare una cosa del genere, anche in virtù del fatto che la famigerata "età buia" (come viene ancora definito il medioevo in diversi libri di storia), non è più tanto oscura, grazie ai numerosi studi effettuati sull'epoca in questione. Il Franceschini aveva comunque riconosciuto la «produzione estremamente vasta e complessa del Medio Evo», ed è proprio così; in un periodo talmente travagliato e sconvolto dalle guerre, che occupavano la maggior parte della vita degli uomini, questi riuscirono ugualmente a ritagliare degli ampi spazi, scanditi nella durata di un anno dalle ricorrenze religiose e dalle cerimonie pagane, dedicati al divertimento. E per noi credo sia veramente difficile capire come potessero ridere, e ridere sul serio anche per periodi che potevano durare mesi interi, all'interno di una società in cui gli omicidi e gli stupri erano all'ordine del giorno, spesso ridicolizzando chi era più potente e per questo rimetterci la propria vita!

Sono numerosi, dunque, gli studiosi che si sono preoccupati di analizzare il teatro comico del medioevo, da Vincenzo De Bartholomaeis a Edmond Faral, dall'italiano Luigi Allegri al tedesco Hermann Reich, e ancora molti altri, e ormai si è riusciti a comprendere il significato di questo    riso medievale.

Come ci suggerisce Michail Bachtin, le forme in cui si esprimeva questo incontrollabile desiderio di divertimento possono essere sostanzialmente divise in tre grandi gruppi:

Riti e spettacoli (soprattutto il carnevale, che era la ricorrenza più importante)

Opere comiche verbali (scritte e orali, sia in latino che in volgare)

Discorsi di piazza e familiari (comprese bestemmie, imprecazioni, blasons, ecc.)[2]

Il carnevale e tutti i riti e le usanze che ne conseguono, hanno una funzione veramente importante nella vita dell'uomo medievale. Il periodo dell'anno nel quale era concesso "perdere la testa" non era solo il periodo del Mardi gras (come si chiamava in Francia) o Fastnacht (in Germania), durante i giorni precedenti la quaresima, durante il carnevale in somma, ma le occasioni per celebrare feste in piazza non mancavano di certo. Basti pensare alla "festa dell'asino", alla "festa dei folli" (festa stultorum), al ludus Cornomanniae o alle "feste del tempio", ed esisteva anche il risus paschalis, un riso spontaneo, non indotto dalla scena di un giullare o un comico, ma un riso naturale addirittura consacrato dalla tradizione.

È un riso di tutto il popolo, generale ed "universale", in quanto è il mondo intero che appare comico, ed è anche «ambivalente: è gioioso, scoppia di allegria, ma è contemporaneamente beffardo, sarcastico, nega e afferma nello stesso tempo, seppellisce e resuscita. Questo è il riso carnevalesco»[3]. Questo clima lo ritroviamo anche nelle rappresentazioni dei misteri, o delle soties francesi, piuttosto che in avvenimenti mondani come la vendemmia, o in altre feste agricole. Il riso era anche il substrato, il sottofondo, la cornice di cerimonie civili quotidiane, in cui buffoni, mostri, nani e giganti, "sapienti", menestrelli, giullari, giocolieri, ecc. intervenivano ridicolizzando e parodiando il rito, per serio che fosse, e talvolta eleggevano addirittura un loro "re per burla" per il periodo di festa. «Tutte queste forme, organizzate sul principio del riso, presentavano una differenza estremamente netta, di principio si potrebbe dire, rispetto alle forme di culto e alle cerimonie ufficiali serie della chiesa e dello stato feudale. Esse rivelano un aspetto completamente diverso del mondo, dell'uomo e dei rapporti umani, marcatamente non ufficiale, esterno alla chiesa e allo stato; sembravano aver edificato accanto al mondo ufficiale un secondo mondo e una seconda vita, di cui erano partecipi, in misura più o meno grande, tutti gli uomini del medioevo, e in cui essi vivevano in corrispondenza con alcune date particolari. [.] L'ignorare o il sottovalutare il riso popolare nel medioevo porta a snaturare il quadro di tutta l'evoluzione storica della cultura europea nei secoli seguenti» .

La festa "principe", comunque, la ricorrenza più importante, sarà sempre il carnevale.


Il carnevale, "il mondo alla rovescia" e il "grottesco"


L'opera che a mio avviso spiega meglio quale sia il significato più profondo del carnevale, è quella già citata di Michail Bachtin. Le tre componenti dell'espr 444j94e essione comica nel medioevo da lui descritte, e qui riprese in precedenza (cfr. nota 2), appartengono tutte allo stesso clima di festa, hanno alla base la stessa visione del mondo, e sono in questo senso omogenee. Ma prima di approfondire questo discorso è meglio cercare di capire più superficialmente il carnevale e le sue origini.

«Il carnevale è una festa propiziatoria della fertilità della terra, dell'abbondanza delle messi. Per generare la nuova spiga o la nuova pianta, il seme deve trascorrere un periodo più o meno lungo sotto la terra: nel buio degli inferi stanno le potenze della generazione, le divinità sotterranee, i demoni che, evocati da appositi riti, compaiono sulla terra e vi esercitano la loro forza. Da qui l'uso di maschere demoniache nella festa carnevalesca che ha avuto un vasto ed antico sottofondo nelle forme drammatiche ritualistiche delle antiche popolazioni italiche. [.] I carnevali possono essere intesi come una memoria del "tempo dell'inizio". Un tempo che vede l'abolizione di ogni schema sociale, un mutamento dei rapporti spazio-temporali, un capovolgimento delle regole del gioco, una sorta di augurio propiziatorio per il prossimo anno agricolo. Spetterà sempre comunque al contadino relazionarsi sia con il lavoro dei campi sia ai riti che questo lavoro induce. [.] Il Carnevale, i suoi carri e i suoi trionfi fanno sfilare in un caos metafisico Bacco e Arianna, Minerva e le Pieridi, Elena e Paride, le Parche e le Amazzoni, Angeli e Arcangeli caduti, beati e dannati, allegorie della Fama e della Gloria, della Pudicizia e della pace e, sui carri intorno a loro, maschere che rappresentano l'esotico, il ferino, e ancora uomini selvatici ed ebrei, indiani, zanni e maschere bifronti che camminano all'indietro, metafora letterale del mondo alla rovescia.»[5].

«Alcuni tratti connotativi della teatralità popolare risultano già ben delineati, soprattutto il senso del grottesco inteso come mescolanza di generi: il riso liberatorio, collettivo, come momento anche socialmente eversivo; la pratica dell'abbassamento per cui soggetti alti vengono degradati e trattati satiricamente o a valenze invertite; nella corporeità come sede dei valori primari con le conseguenze che i momenti più rilevanti come la nascita, l'agonia e l'atto sessuale sono i luoghi rituali da rivisitare nelle pratiche festive.

Reiterazioni, ora più velate, di rituali chiaramente pagani che non sono mai scomparsi - come quelli di Capodanno - cui indulgono, come ammonisce Cesario di Arles, non solo i pagani ma anche i battezzati. Questi rituali comportano travestimenti di uomini in animali o di uomini in donne, oltre a balli, canti e sfrenatezze sessuali e alimentari. I carnevali vogliono essere una memoria del tempo dell'inizio, un tempo che vede l'abolizione di ogni schema sociale, un mutamento dei rapporti spazio-temporali, un capovolgimento delle regole del gioco, una sorta, cioè, di augurio propiziatorio per il prossimo anno agricolo. La maschera allora, oltre che a svolgere una funzione sociale, formare una società iniziatica segreta, risponde anche all'ancestrale bisogno dell'uomo di ricongiungersi alle forze paniche.

Le feste legate alla fecondità della terra e che marcano i cambi di stagione, specie l'inizio della primavera, conservano una sacralità pagana che neppure la loro cristianizzazione è riuscita ad assorbire. Tutte queste feste sono primariamente cerimonie di propiziazione legate a riti di fertilità, per cui è evidente che l'azzeramento del tempo deve qui servire ad individuare una sorta di momento sospeso, di terreno neutrale ed assoluto in cui il mondo terreno ed il mondo ultraterreno, il mondo dei vivi ed il mondo dei morti possano incontrarsi e comunicare.

Attraverso il mascheramento, il travestimento, durante la festa l'uomo medievale si mostra ancora, sostanzialmente, pagano. Queste stesse componenti si trovano anche nelle feste dei folli, ma con l'aggravante che i riti avvengono dentro la chiesa e comportano una evidente derisione di pratiche e funzioni ecclesiali.

Già vari secoli avanti al Mille, nelle feste popolari derivate dai Saturnali si usavano maschere. - Il Cocchiara ricorda che il "ritorno di Saturno", allegoria del ritorno all'età dell'oro, era celebrato in questi Saturnali romani, «una festa dove troviamo uno dei moduli più caratteristici del mondo capovolto: quello dei padroni che servono gli schiavi»[6], quindi il topos del "mondo alla rovescia" risale all'antichità romana, e non è invenzione del medioevo. - I riflessi di tali feste nella società clericale del tempo, cioè negli ambienti della scuola e della cultura, ci mostrano l'esistenza di scene comiche le quali costituivano anzi il punto saliente di quelle giornate di baldoria. Da un certo momento in avanti si assiste nelle città europee alla grossa diffusione delle feste dei folli o Festum Fatuorum che si è soliti, per lo più, considerare come eredità e perpetuazione di riti pagani, specie dei Saturnalia romani, anch'essi celebrati per fine anno e anch'essi imperniati sul temporaneo sovvertimento del rapporto servo-padrone. Queste feste comprendevano, oltre a rituali profanazioni di luoghi sacri, l'uso di maschere a somiglianza di mostri e di animali, travestimenti e parodie delle più alte gerarchie ecclesiastiche, anche attraverso l'elezione di un vescovo o papa dei pazzi. La festa veniva allestita nelle chiese dal clero minore ed implicava l'instaurazione di un regime di sregolatezza in cui la licenza toccava limiti mai raggiunti durante l'anno liturgico. In taluni luoghi la festa prendeva anche il nome di Episcopello dalla carica di vescovo fanciullo assegnata ad uno degli scolari del coro. Il giovane diacono, mascherato da vescovo, doveva presiedere ai servizi divini e gli dovevano prestare obbedienza tutti i sui superiori. La persistenza di queste feste, con caratteristiche sostanzialmente immutate, continua ad esserci accreditata per i secoli successivi dai canoni dei concili, fino al concilio di Basilea (1443-59) ed a quello di Trento (1545-63).

Lo spazio della festa è il luogo in cui le classi subalterne sperimentano modalità di vita, meccanismi di opposizione sociale, forme culturali per molti versi alternative rispetto a quelli delle classi dominanti. La festa dunque, a seconda della prospettiva, come forma potenziale di opposizione oppure come tranquillante sociale. Questi "mondi alla rovescia", questi paesi di cuccagna, evocati in continuazione dall'immaginario medioevale, non costituiscono tuttavia solo quel momento di saldatura tra modello lineare e modello circolare del tempo, ma esprimono anche un'altra sutura, un'altra congiunzione forzosa tra due tempi irriducibili, quello dell'esistenza finita dell'uomo e delle cose del mondo e quelle infinito ed eterno del mondo ultraterreno»[7].

Ma per comprendere il significato in chiave medievale, e non secondo i parametri di valutazione moderni, del "rovesciamento", ritorna ad aiutarci il Bachtin, il quale afferma che «l'abbassamento di ciò che è alto non ha affatto un carattere formale e relativo. L'"alto" (verch) e il "basso" hanno qui un significato rigorosamente e unicamente topografico. L'alto è il cielo; il basso è la terra; la terra è il principio dell'assorbimento (la tomba, il ventre) ed è nello stesso tempo quello della nascita e della resurrezione (il seno materno). È questo il valore topografico dell'alto e del basso nel loro aspetto cosmico. Sotto l'aspetto corporeo, che non è mai del tutto separato con precisione dall'aspetto cosmico, l'alto è il volto (la testa), il basso gli organi genitali, il ventre e il deretano. È con questi significati assolutamente tipografici che ha a che fare il realismo grottesco, ivi compresa la parodia medievale. L'abbassamento consiste, in questo caso, nell'avvicinamento alla terra, come principio che assorbe e nello stesso tempo dà la vita; abbassando si seppellisce e nello stesso tempo si semina, si muore per nascere in seguito meglio e di più. L'abbassamento significa anche iniziazione alla vita della parte inferiore del corpo, quella del ventre e degli organi genitali e, di conseguenza, iniziazione ad atti come l'accoppiamento, il concepimento, la gravidanza, il parto, il mangiare voracemente e il soddisfare le necessità corporali»[8].

Testimonianze di questo "ribaltamento" o "abbassamento" sono riscontrabili nelle opere scritte. Un topos della commedia medievale, da cui risalgono per giunta le nostre fiabe per bambini, è quello degli animali parlanti. Il poema intitolato Ecbasis cuiusdam captivi è il primo in cui ritroviamo infatti l'epopea degli animali. In esso è narrata la storia di un monaco del monastero di Saint-Evre de Toul il quale ritorna al convento dopo essere fuggito e racconta la sua storia:


«Il monaco insofferente della dura disciplina introdotta dai riformatori dell'ordine è fuggito (o ha sognato di fuggire) dal chiostro e, dopo aver corso il pericolo di perdersi, è ritornato pentito all'ovile. È lui il prigioniero che raffigura se stesso nel vitello, che, rimasto solo nella stalla, mentre l'armento è andato al pascolo, si libera e va in cerca della madre, ma incappa nel lupo, travestito da eremita, che lo porta nel suo castello e sta per divorarlo, quando all'ultimo momento - è il giorno di Pasqua - arriva il resto dell'armamento, accompagnato dalla volpe, e pone l'assedio al castello. Il lupo si lascia indurre dalle parole della volpe, che vanta la sua bellezza, il suo valore e la sua cortesia, a mostrarsi fuori dalle mura e viene ucciso dal toro, mentre il vitello fugge e ritrova la madre.»


Inoltre il rovesciamento è testimoniato anche nelle Libertates Decembris, la cui denominazione «servì ad indicare in epoca medievale il periodo di sfrenatezza che soleva caratterizzare i rapporti del clero inferiore nei riguardi del superiore fra le idi di dicembre e le calende di gennaio»[9].

Tutto ciò che è "animale", compresi gli istinti, che fa parte del "basso", è il carattere dominante del tema del "grottesco". «A Carnevale termina un anno e ne incomincia un altro. Il tempo attraversa il corpo, l'anno viene digerito e, almeno in un giorno, si incontrano l'inizio, il tempo ritorna indietro, riparte da zero. I due orifizi principali dell'uomo, bocca e ano, in questo momento dell'anno coincidono»[10]. In questo senso si può comprendere il "grottesco", come inversione temporale, logistica e funzionale della ragione e degli istinti, del cielo e della terra, della vita e della morte, dell'alto e del basso. Ma è l'alto che si abbassa o è il basso ad elevarsi? A mio avviso per risolvere questo quesito è necessario spostare il problema. Non sono l'alto e il basso che si muovono, infatti se l'alto si abbassasse non sarebbe più alto, ma basso, e viceversa, ma è il grado di importanza che l'uomo gli attribuisce a modificarne l'uso. E tutto ciò non è uno sminuire il significato dell'alto, poiché questo rimane comunque il fine ultimo; si ritorna al basso più basso, perché più giù non si possa andare, perché è il punto di partenza di un cammino ascensionale, si comincia sempre dal basso, per tutte le cose. Quindi apparentemente vengono celebrati i bassi istinti, ma in realtà ciò che interessa veramente è la parte più nobile del corpo: la testa, ovvero lo spirito. E' da ricordare inoltre che nel medioevo è di fondamentale rilevanza l'interpretazione delle Sacre Scritture, nelle quali, tra l'altro, è spesso ripetuto che gli ultimi saranno i primi. Questo ha sicuramente influenzato parecchio lo sviluppo non solo del carnevale ma anche di tutte le varie feste dei folli e simili. Si possono spiegare in questo modo anche comportamenti o abitudini del periodo di festa che a noi sembrano realmente assurde. «L'inventario del corpo grottesco parla di un naso sostituto del fallo, di una bocca spalancata, di un volto dove naso e orecchie si trasformano in forme di animali o di cose e dove gli occhi, espressione individuale e interiore dell'uomo, non hanno mai rilevanza se non come occhi strabuzzati; parla di escrescenze e ramificazioni, protuberanze e orifizi, di un corpo in divenire, non separato dal mondo, di un corpo, insomma, non individuale. Il basso materiale-corporeo, il ventre, gli organi genitali, il deretano e il loro rovescio, la bocca, il naso, le orecchie, subiscono un processo di iperbolizzazione, o possono perfino staccarsi dal corpo, essere indipendenti perché» «tutte queste protuberanze e orifizi sono caratterizzanti del fatto che appunto in essi vengono scavalcati i confini fra due corpi e fra il corpo e il mondo, e hanno luogo gli scambi e gli orientamenti reciproci. E' questo il motivo per cui gli avvenimenti principali nella vita del corpo grottesco, gli atti del dramma corporeo - il mangiare, il bere, i bisogni naturali (e altre escrezioni: traspirazione, secrezione nasale, starnuti), l'accoppiamento, la gravidanza, la nascita, la crescita, la vecchiaia, le malattie, la morte, lo spezzettamento, lo smembramento, l'assorbimento da parte di un altro corpo - avvengono ai confini tra il corpo e il mondo, o tra il corpo vecchio e il corpo nuovo; in tutti questi avvenimenti del dramma corporeo l'inizio e la fine della vita sono indissolubilmente legati» .

Legato al concetto del "ribaltamento" è anche l'uso, per tutto il medioevo, delle maschere. «Nel teatro medievale sacro e profano l'uso della maschera è ampliamente documentato. Nel teatro sacro esso incontra (al Concilio di Laodicea [320] e in successivi brevi pontifici) l'opposizione dell'alto clero, tesa a reprimere ogni fonte di licenza e ad impedire lo scambio di costumi tra i due sessi, già dichiarato abominevole dalla Bibbia (Deuter. XXII, 5). La maschera compare infatti come elemento di primo piano nelle licenziose cerimonie note come "feste dei Folli" e basate essenzialmente sul travisamento e sullo scambio di personalità; ma il suo impiego doveva essere ben altrimenti diffuso se un capitolare degli ultimi tempi carolingi fa divieto di portarla a preti, monaci e monache. [.] Nel teatro profano, il perpetuarsi durante tutto il Medio evo dell'uso della maschera costituirebbe secondo alcuni studiosi (De Bartholomaeis) la prova tangibile della diretta connessione della grulleria con gl'istrioni e i mimi dell'età classica. E se pur può lasciare dubbiosi "l'opinione di alcuni, secondo i quali qualche personaggio tipico del teatro comico moderno sarebbe la continuazione di qualche personaggio tipico della commedia classica (per es. Zanni per Sannio)", l'uso giullaresco della maschera è ampiamente testimoniato a partire almeno dal X secolo. [.] Giullari con maschere caricaturali e animalesche di diverso colore (gialle, nere, azzurre) compaiono in miniature tre e quattrocentesche, e sotto questa forma divengono per il teatro umanistico il simbolo della scena medievale. [.] Diverso aspetto assume l'uso della maschera nello spettacolo cortigiano tardo-medievale. I travestimenti sontuosi che stanno alla base di tutti gli spettacoli mimici e allegorici divenuti a partire dal Trecento ingrediente consueto delle feste di corte implicano costantemente l'uso della maschera»[12]. Il teatro spagnolo, il teatro italiano e quello inglese presentano nell'uso delle maschere delle interessanti analogie. Sono inevitabilmente nati, così come sarebbe accaduto successivamente con Arlecchino, alcuni tipi di personaggi medievali, tra cui in Spagna ricordiamo «quelli detti remedadores o momos, che contraffacevano le azioni e le parole altrui. Questi momos portavano "falsos vasajes", o maschere, e nel 1513 il "momo contrahezador" vien fatto risalire al mimus latino. Corretta o meno che fosse tale derivazione, resta il fatto che quegli uomini erano mimi di vario genere e che recitavano poesia di tipo drammatico con inflessioni variate e gesti appropriati. La Spagna, anzi, sembra aver conservato molti elementi dell'antico teatro polare. Il "bobo" clownesco dei misteri e delle farse ispaniche è troppo simile all'antico stupidus, e in quei testi appaiono uno spaccone e un furfante mascalzone di tipo veramente mimico. Forme di intrattenimento analoghe, con un nome che è virtualmente lo stesso - "momarie" - esistevano anche in Italia, sicuramente agli inizi del XVI secolo, probabilmente anche molto prima. Le momarie, a loro volta vanno ricollegate ai mummings inglesi di cui ci sono notizie a partire dal XIV secolo. [.] I mummings inglesi, le momarie italiane e I momos spagnoli sono tutti spettacoli in cui sono usate le maschere e se anche non ci sono prove che dimostrino che i primi mummings inglesi erano dialogati, qualche tipo di dialogo era certo presente in alcuni esempi del continente. Tutte queste testimonianze sembrano indicare che in Occidente c'era un gruppo di giullari intrattenitori che coltivano una qualche forma mimica, una mimica che implicava forse [.] appena un tocco di esagerazione e di grottesco» .


I Fastnachtspiel


Tra le opere comiche scritte del medioevo che sono giunte fino a noi ritroviamo numerose farse (in tedesco fastnachtspiel). La farsa è un breve componimento teatrale di natura comica che trova le sue origini nella figura del giullare. Sepet ipotizza una discendenza dai "refrains" in volgare che venivano ripetuti all'interno dei canti latini proposti durante le feste goliardiche. La vera etimologia del termine è ancora incerto, anche se pare derivare da "farcire", per via di un probabile riferimento all'"epistola farcita", una parafrasi in volgare di alcuni testi della liturgia[14]. Particolarmente interessante è la produzione di fastnachtspiel tedeschi i cui centri sono le città di Lubecca e soprattutto Norimberga, perché qui si svilupperà la tradizione farsesca che si estenderà poi in tutta la Germania. I primi fastnachtspiel «venivano rappresentati da garzoni artigiani, i quali in periodo di carnevale giravano di casa in casa preceduti da un araldo, cui spettava il compito di pronunciare anche il congedo dopo che essi avevano chiuso l'esibizione con un ballo. [.] Il fastnachtspiel nasce come spettacolo, [.] all'origine della quale genesi pare doversi collocare la consuetudine, sorta nell'ambito della festività carnevalesca, secondo cui gruppi mascherati peregrinavano di casa in casa, di locanda in locanda, e improvvisando a brevi tratti dialoghi e piccole scene comiche, sviluppo coerente e facile, in fondo, delle originarie battute con cui, in genere, accompagnavano la loro apparizione nelle case, illustrando ciascuno per suo conto, in rima, il significato del proprio costume e il motivo per cui lo indossava. Altrove è stata ricercata una genesi, parallela a questa in ambiente chiuso, di un fastnachtspiel a carattere professionale, svolgendosi cioè a cielo aperto, su di un carro che andava in giro durante le feste carnevalesche e che faceva soste ogni tanto, sino ad aver concluso il ciclo della rappresentazione. Tale carattere è stato attribuito soprattutto al tipo di fastnachtspiel sviluppatosi a Lubecca. [.] Anche l'apparato scenico risponde, agli inizi, a questo carattere provvisorio e veloce dello spettacolo. Si recitava senza palcoscenico, e qualche barba di pelo o parrucca di stoppa erano lo scarso travestimento degli attori. [.] All'inizio di questi componimenti è il prologo ("Vorspruch"), in cui s'impone silenzio agli spettatori e si rende conto del soggetto dell'azione; spesso queste parole d'apertura sono pronunciate dal cosiddetto "Ausschreier" ( "exclamator", "praecursor"), che talvolta ha anche il compito di concludere il lavoro; alle volte, invece, dall'"araldo" ("Herolt"; cfr. i fastnachtspiel di Vitipeno). [.] Il tema preferito è quello erotico, nelle sue variazioni più crude e rozze. [.] Complessità e varietà d'accenti presenta, comunque, la vicenda del fastnachtspiel una volta che esso ha abbandonato la semplice sfera dell'improvvisazione facendosi espressione letteraria e consapevole di un'osservazione spesso attenta della realtà (quella del popolo minuto, del contadiname, dei ceti artigiani, della piccola borghesia cittadina). [.] Il merito di aver elevato il fastnachtspiel a dignità letteraria spetta - senza dubbio - a H. Rosenplüt, attivo a Norimberga intorno alla metà del Quattrocento e autore sicuro di un solo testo nella raccolta Keller (Des Künig von Engellant Hochzeit . Hans Rosenplüt, insieme a Hans Folz, è dunque il più famoso autore di fastnachtspiel del XV secolo attivo a Norimberga. Entrambi questi personaggi sono maestri artigiani: il primo fu dapprima fabbricante di armature e successivamente calderaio, e il secondo cerusico e barbiere . Hagen Bastian, analizzando la raccolta di fastnachtspiel tedeschi di Keller , è riuscito a sviluppare delle interessanti osservazioni. «Le rappresentazioni hanno luogo nell'osteria (o nella sala di una casa privata). Il Fastnachtspiel è parte delle feste carnevalesche che in tali giorni danno un'impronta particolare alla vita della città. Sviluppatosi nel XV secolo in alcune città tedesche, il Fastnachtspiel ha in Norimberga il proprio centro. Dalle (due) tradizioni di spettacolo di Norimberga provengono 110 dei circa 120 testi tramandatici di Fastnachtspiel. Vista la molteplicità delle testimonianze di rappresentazioni, come anche delle tradizioni locali ogni volta diverse (il luogo e le condizioni della rappresentazione, il ceto sociale degli attori, le modalità e finalità contenutistiche, ecc.), è metodologicamente proficuo e, nello stesso tempo, adeguato all'oggetto, limitarsi a un ambito locale ristretto, cioè la tradizione del Fastnachtspiel di Norimberga. [.] Si può ritenere, con sufficiente certezza, che, socialmente, anche gli attori e il pubblico Fastnachtspiele appartenessero prevalentemente alla classe degli artigiani. O, per dirla diversamente, si può affermare che al Fastnachtspiel è preclusa ogni diffusione, sviluppo, incoraggiamento nell'aristocrazia, la classe economica, politica e culturale dominante della città. [.] Del resto, il continuo controllo degli spettacoli da parte del Consiglio (aristocratico) e il suo tentativo di tenerli "a freno", "entro limiti assai ristretti e ben accetti" sarebbero difficili da capire se il Fastnachtspiel fosse stato uno spettacolo ricreativo accomodante e non ristretto a una sola classe sociale. Per citare i tipi più comuni di censura: divieto di indossare maschere ("schembart"); obbligo di comunicare il nome del responsabile dello spettacolo ("haubtman") e preventiva esposizione e dichiarazione del titolo del soggetto, come garanzia; contenuto "onesto" ("ersamer") e "costumato" ("zuchtiglicher"). Una masnada giocosa si fa largo a spintoni nella sala - questo è l'inizio tipico - e ordina di approntare un'area d'azione provvisoria e di ascoltare con attenzione. [.] Senza altri preparativi comincia lo spettacolo, per lo più breve, raramente più lungo di 200 versi: si recita senza podio né scene, all'occasione un paio di semplici oggetti sono usati come accessori scenici. Già questi pochi accenni mostrano quanto le condizioni in cui si svolge la rappresentazione favoriscano il contatto immediato, direi fisico, dei recitanti col pubblico; era uno spettacolo nel bel mezzo del pubblico, che poteva intervenire con interruzioni, certamente poteva provocare anche cambiamenti estemporanei. Poiché i testi, appositamente scritti per le recite di carnevale [.], lasciavano ai rispettivi gruppi di recitanti un grande margine di libertà per cambiamenti e improvvisazioni, non è né proficuo né sensato voler restaurare il testo originale. [.] I Fastnachtspiele che ci sono pervenuti manoscritti sono da prendere come pure e semplici basi delle rappresentazioni concrete o come la loro tradizione testuale. [.] E se è impossibile restaurare il testo originale, altrettanto impossibile è ricostruire la prassi rappresentativa. [.] Non si possono determinare con precisione e sicurezza - tante sono le ipotesi, tutte ragionevoli, che i testi talvolta consentono - i punti in cui gli attori, ad esempio con aggiunte mimiche o con azioni sceniche eseguite in modo caricato, hanno colto di sorpresa il pubblico e/o l'hanno fatto ridere. [.] All'inizio uno degli attori saluta il padrone di casa, o l'oste ("wirt") e i suoi ospiti ("geste"), dice l'argomento della rappresentazione - che può essere un dibattimento giudiziario, una gara danzante o una lite coniugale - e descrive talvolta i rapporti tra i personaggi e la motivazione dell'azione; nell'Epilogo, l'arco si chiude e si torna dalla sfera della rappresentazione alla realtà della riunione carnevalesca, l'attore chiede scusa, per finta o sul serio, per la trama grossolana, invita a una bevuta collettiva o alla danza e prosegue verso il successivo luogo di spettacolo» .


"De histrionibus"


Abbiamo visto quale sia il clima originale del carnevale e che cos'è il risus paschalis. Ma cosa succede quando non è carnevale, quando non c'è nessuna festa? A questo punto entrano in gioco i giullari, che venivano chiamati in diversi modi (joculatores, mimi, histriones, choraules, saltatores, balatrones, thymelici, nugatores, scurrae, bufones, gladiatores, praestigiatores, palestritae). Questi sono i responsabili di una continuità del clima carnascialesco nei periodi dell'anno in cui non esiste una ricorrenza particolare. Ma il termine giullare pare che derivi direttamente da ioculator che «è presente nel latino classico dove, però sembra usata solo come aggettivo. E' ancora usata in questo modo da Firmico Maderno a metà del IV secolo [.] ma a un certo momento, nel corso dell'alto Medioevo, assunse il valore di sostantivo. Nell'origine, la parola ci ricorda di un termine greco familiare, gelwtopoiox o mimos geloiwn, per cui potrebbe benissimo essere nata da un tentativo di traduzione diretta di questi termini; proseguendo attraverso i secoli ci accorgiamo che ioculator, histrio o mimus diventano quasi sinonimi, mantenendo costantemente il riferimento al significato teatrale. [.] La parola mimi altrove è tradotta con ioculatores e la parola scenici è data come histrionis ioculares. [.] Scenicus e mimus sono dati come identici; histrio è l'equivalente di mimo [sic] scenicus; mentre le spiegazioni di histriones come saltatores scenici e come saltatores ci ricordano l'antica danza dei mimi e dei pantomimi. E' interessante notare, anche, come scena, in un codice vaticano, è descritta come "teatri locus aut ludus mimicus" ("luogo del teatro o ludo mimico"). [.] Ora, senza la più piccola ombra di dubbio, la maggior parte di questi ioculatores (con i quali venivano solitamente identificati, come si è visto, i mimi e gli histriones) non erano altro che dei cantori di ballate e compositori di poemi. Il giullare era il poeta popolare del tempo. [.] Che non appartenessero tutti a un'unica categoria è subito dimostrato grazie a un'interessante descrizione del 1313 circa, di cui è autore Tommaso di Chabham, suddiacono di Salisbury. [.] (Egli) riconosce quattro gruppi principali di intrattenitori che chiama histriones: 1. i comuni cantori di ballate, i "suonatori di viola" del periodo elisabettiano; 2. i compositori di poemi epici, secolari o religiosi; 3. i satiristi; 4. coloro che danzano, gesticolano, variano i loro costumi e portano maschere»[19].

«Essi provenivano dalle più diverse classi sociali, agivano isolati, con scarso o nessun mezzo scenico, semplici dicitori o declamatori, di solito buffoni, spessa attori»[20]. «Quando Guiraut Riquier, nel 1272, chiede in versi ad Alfonso di Castiglia una classificazione che distinguesse le categorie della professione, la Declaratio che si finge emessa dal re riserba il nome di giullare a chi onorava con la sua arte musicale e col suo senno le corti signorili, e quel di buffone a chi esercitava un'arte inferiore e vile, addomesticatore di scimmie, cani e capre, imitatori del canto degli uccelli, suonatori ambulanti per il sollazzo plebeo» . Ma questa distinzione servì a poco, poiché le due categorie vennero confuse, e i due termini divennero sinonimi. Ormai l'esistenza di questi personaggi è assolutamente certa, ed è dimostrata anche la loro partecipazione ai banchetti nelle corti. Ho trovato come testimonianza la descrizione di tutte le portate di uno di questi convivi, e in conclusione al testo è presente un commento: «e tutte queste vivande furono portate alla tavola in piatti d'argento e d'oro et erano accompagnate da fiaccole accese e trombe che andavano suonando avanti le vivande; e nelle medesime fiaccole v'erano gabbie d'uccelli e quadrupedi di tutte quelle sorti di viventi che furono mandati in tavola cotti; e appresso furono introdotti nel luogo del convito comedianti, rappresentatori, saltatori e cianciatori oltre ai trombetti, ai suonatori, ai musici eccellenti e ad altri che correvano sopra la corda; cosa che fu rara al mondo da vedere» . Ma anche lo stesso Erasmo da Rotterdam ricorda come nei banchetti fossero presenti tali individui, personificando e dando voce alla pazzia: «Per conto mio è assolutamente certo che nessun pranzo può riuscir piacevole, se manca il condimento della pazzia, Verissimo! E se non c'è chi susciti il riso con le sue pagliacciate, vere o finte che siano, facciamo intervenire qualche buffone, magari a pagamento, e in mancanza di questo, ricorriamo a un parassita, un mattacchione che con le sue uscite ridicole scacci la silenziosa malinconia del simposio» . Non solo. Erasmo enfatizza l'importanza dei buffoni aggiungendo che «persino i più potenti sovrani li hanno carissimi, al punto che molti non riescono a pranzare, a fare una passeggiata, anzi a resistere neppure un'ora senza di loro. La considerazione ch'essi accordavano ai loro buffoni sorpassa di molto quella pei loro arcigni sapientoni, anche se per desiderio di fama ne mantengono solitamente qualcuno al proprio servizio» .

Un carattere fondamentale della vita dei giullari è che questi hanno dovuto sempre convivere con quella che Carla Casagrande e Silvana Vecchio definiscono la loro "ombra". «Il giullare della piazza e della corte è accompagnato nella sua storia dalla immagine che di lui elaborano i chierici delle chiese, dei monasteri, delle università»[25]. «Dopo il Mille la Chiesa è vittoriosamente impegnata ad ampliar la propria regola per accogliervi più vita; ma prestarvisi senz'altro, anzi consentirvi in sede di così frivola apparenza come il ludo teatrale, no, questo non era ammissibile. Alla necessità di una forma espressiva che toccasse la collettività provvedeva il rito, la tragedia cristiana. [.] Ecco la ragione delle condanne che per più di un millennio, sino alla polemica del grande Bossuet, potevano al più variar leggermente nell'argomentazione, secondo il variar dello stile apologetico, non mutavano nella sostanza, che noi abbiamo cercato di ricondurre alla verità storica essenziale: immobile la Chiesa nella condanna, ma immobile anche la genia dei mimi nel ripetere le beffe, le smorfie, i giuochi fantasiosi o sconci. L'immobilità dell'una - per fatale - trascina l'immobilità degli altri» .

Secondo questa versione dell'Apollonio l'impressione che ne traggo è che la Chiesa avesse cercato di occultare il suo risentimento verso una categoria di uomini, che stavano sminuendo la loro figura e importanza, con il pretesto dell'utilità sociale. Mi sembra, cioè, che con la scusa di fare del bene morale al popolo, il clero stesse accusando questi personaggi, questi buffoni, che trascinavano la gente nel peccaminoso "culto del corporeo", affinché la società stessa li abbandonasse e non gli permettesse di sostituire il "primato" della Chiesa. E le varie accuse rivolte ai giullari partono da un'attenta analisi di questi individui: «Il chierico scruta con attenzione questa presenza; la cerca e sistematicamente la trova proprio nei luoghi in cui essa è più inquietante, nei luoghi del sacro. Pericolosi comunque in un modo in cui nulla propriamente è profano, i giullari sembrano prediligere agli occhi del chierico quegli spazi, quelle circostanze, quelle scadenze in cui la sacralità è concentrata e specifica: intervengono alle nozze, affiancando ai riti il loro chiasso e le loro canzoni spesso oscene; partecipano ai pellegrinaggi, distogliendo i pellegrini con ogni genere di allettamenti dai santi fini che si sono proposti e sovrapponendo ai canti sacri canti scurrili e sensuali; non risparmiano neppure i luoghi più santi: cimiteri, portici, chiese. [.] Il giullare e la corte diabolica che lo accompagna attenta in tal modo alla stessa esistenza della Chiesa: è l'alternativa del profano, del mondano, del corporeo che, relegata e compressa nella sfera del peccato, minaccia di riprendersi quegli spazi dai quali il chierico credeva di averla definitivamente esclusa. Il giullare invadendo, e non solo fisicamente, la Chiesa, fa saltare quella distinzione tra sacro e profano che garantisce l'ordine della società medievale, e sulla quale si giustifica e si fonda l'esistenza stessa del chierico»[27]. Ecco cosa teme veramente il chierico. Non credo che egli volesse negare al popolo delle distrazioni dal serio mondo sacrale e pagano, ma quando queste "distrazioni" urtano violentemente non solo gli ideali ma soprattutto la figura della Chiesa, allora questo non è più ammissibile. Nascono così una serie di vere e proprie invettive clericali contro il "turpe istrione". «Quando i chierici a proposito dell'istrione usano turpis, turpitudo, turpiter raccolgono tutti i significati che il latino dei classici aveva codificato in questi termini. In senso proprio turpe, da torpeo, significa deforme, informe, brutto, mostruoso, animale. Il significato si allarga sul piano etico, turpe designa anche e soprattutto indecente, disonesto, indegno, osceno, sordido, effeminato, cupido. Turpe è il corpo deforme e l'animo disonesto. [.] Il corpo è turpe nella sua essenza prima che nei suoi accidenti, e l'histrio turpis è spesso anche l'uomo fisicamente deforme, che fa della sua menomazione un elemento teatrale, ma è soprattutto l'uomo che usa il suo corpo come espressione e veicolo di significati, che fa del corpo un linguaggio al pari della parola. [.] Il turpis che definisce il giullare finisce anche col collocarlo, compagno e simbolo nello stesso tempo, in uno spazio, o meglio in ghetto, di oggetti, di luoghi e di personaggi che dallo stesso termine e dai suoi significati sono a loro volta definiti. Prima fra tutti, la meretrice. "Chiacchierona, instabile, inquieta, incapace di restare chiusa in casa, ora nelle piazze, ora insidiosa agli angoli delle strade", la meretrice è, come il giullare e accanto al giullare, turpe personaggio. Non solo, è il simbolo e la personificazione di tutte le cose turpi».


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Carla Casagrande e Silvana Vecchio, L'interdizione del giullare nel vocabolario clericale del XII e XIII secolo, in Johann Drumbl (a cura di), Il teatro medievale, cit., p. 317

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