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La Scuola Siciliana

letteratura italiana



La Scuola Siciliana

La poesia lirica che si sviluppò in Toscana alla fine del Duecento, prese spunto da una tradizione che deriva dai trovatori e alla cui base, in Italia, sta l'esperienza della Scuola Siciliana. Furono i Siciliani a impiegare per la prima volta un volgare italiano nella lirica d'amore, ispirandosi a quella provenzale.

La poesia lirica nasce alla corte di Federico II di Svevia, nominato imperatore nel 1220 e morto nel 1250. La sua corte, per quanto itinerante, si era stabilita per lo più in Sicilia, che cosi era divenuta il centro non solo politico ma anche culturale dell'Impero. Il potere di Federico era di tipo moderno, un accentramento unitario e non più un frazionamento di potere di tipo feudale. La "Magna Curia" (la grande corte imperiale) era il fulcro da cui doveva diramarsi a raggiera la vasta articolazione di uno Stato amministrato in modo unitario da una schiera di funzionari borghesi, laici e provvisti di una cultura di tipo giuridico (il più famoso fu Pier delle Vigne). Cercando di realizzare una egemonia ghibellina in Italia, Federico II si contrapponeva alla Chiesa non solo sul terreno della politica ma anche in quello culturale, incoraggiando alla laicità della cultura. Costituì anche la Scuola di Capua (sull'ars dictandi), l'università di Napoli, e la scuola di medicina a Palermo.

Per quanto riguarda la poesia, Federico (che fu egli stesso poeta in volgare) favorì lo sviluppo della Lirica in volgare, inspirata alla tradizione dei trovatori provenzali. Tale fu l'influenza dei Poeti Siciliani sui successivi che, sino agli stilnovisti, tutti i poeti vennero chiamati Siciliani, anche se operanti in zone geografiche differenti (lo stesso Dante nel De vulgari eloquentia indica questa cosa). Oggi si parla di Scuola siciliana in riferimento a tutti quei poeti, che erano circa 25, che operarono dal 1230 al 1266, anno in cui il figlio di Federico, Manfredi, venne sconfitto nella battaglia di Benevento vedendo scomparire i sogni ghibellini della casata sveva.



Rispetto al modello provenzale cambia la figura del poeta: non è più un professionista proveniente dalle file dei cavalieri poveri o della piccola nobiltà, non è neanche un giullare, ma un borghese, funzionario con funzioni giuridiche e amministrative nella corte, che si dedica alla poesia solo per diletto e non per lavoro. E oltre a ciò la poesia non viene più accompagnata con la musica, non è destinata all'ascolto in musica o alla recitazione, ma esclusivamente alla lettura. Qui nella 626b12g Scuola siciliana avviene dunque il divorzio fra Musica e Poesia.

Anche altre differenze si riscontrano con la lirica provenzale: resta il motivo di vassallaggio fra la donna e il soggetto poetico, il servizio d'amore nella speranza di ricevere in cambio una ricompensa, ma la realtà in cui avviene non è feudale, bensì cortigiana. Avviene dunque che il rapporto di vassallaggio non sia più fra il rapporto d'amore fra vassallo e dama, ma un rapporto d'amore generico, rapporto d'amore in quanto tale. La figura della donna appare meno evidenziata e caratterizzata, diventa una poesia più astratta e meno concreta di quella provenzale. Il centro della lirica è l'interiorizzazione e intellettualizzazione dell'esperienza amorosa, che viene accostata a considerazioni di ordine scientifico e ad aspetti della vita animale o vegetale.

Le strutture metriche della Scuola Siciliana si rifanno alla tradizione trovadorica, e condizioneranno l'intera lirica italiana. Le strutture metriche vengono ridotte a tre tipi principali: la canzone, la canzonetta e il sonetto.

Dalla "canso" provenzale deriva la Canzone, che diventa la forma più elevata e illustre di poesia lirica, l'argomento è alto, elevato, e il poeta è consapevole di dire cose elevate a un pubblico elevato. Si presenta in endecasillabi alternati spesso a settenari, mentre la provenzale le rime si presentano uguali in tutte le stanze, in quella siciliana ogni stanza riprende lo stesso sistema metrico della prima, ma al variare delle stanze corrisponde quasi sempre la variazione delle rime.

La Canzonetta è invece di argomenti meno elevati e si presenta in forma narrativa e dialogica, anche i versi sono più sono più brevi e vivaci: da settenari a ottonari e novenari in alcuni casi. Ha un andamento ritmico più semplice.

Il Sonetto è un componimento di minor impegno, che tratta di argomenti morali, filosofici, discorsivi, teorici, ma non disdegna anche argomenti scherzosi e amorosi. La struttura, che venne usato per la prima volta da Giacomo da Lentini, pare essere una stanza della canzone, di cui riprende la divisione interna fra i "due piedi" (i primi otto versi) da un lato, e le "due volte" successive (gli ultimi sei versi). I quattordici versi che lo compongono sono sempre endecasillabi.

Data la sua natura raffinata e altamente selettiva, la scuola siciliana si avvale di un linguaggio aulico ed elevato. Il volgare siciliano ne costituisce la base, seppure depurata attraverso il filtro della conoscenza del latino, del provenzale e degli altri volgari italiani. Possiamo comunque ricostruire la lingua siciliana soltanto per approssimazioni. Infatti della lingua da loro impiegata possediamo solo una scarsa documentazione.

Da un lato si costituiva una tradizione poetica che scartava, per esempio, la poesia religiosa e sceglieva la lirica, prediligendo la canzone, dall'altro il modello Toscano (che si considera erede di quello siciliano) ne veniva a costituire il punto d'arrivo e il fulcro futuro.

Con la crisi della civiltà siciliana seguita alla sconfitta di Benevento, i canzonieri siciliano non furono più ne tramandati ne ricopiati. Essi erano però stati ricopiati in Toscana da copisti che ne avevano alterato la lingua, volgendola al toscano. Dalla fine del Duecento a oggi i Siciliani si leggono dunque nella redazione toscana. E che questa redazione abbia avuto la tendenza a imporre norme e consuetudini è provato da un fatto curioso: poiché la trascrizione toscana, che modificava la -u finale in -o oppure in -a, e la -i in -e, non poteva rispettare il sistema delle rime dell'originale siciliano, andando cosi a trasformare rime perfette in rime imperfette. Dante nel De vulgari eloquentia esprime la propria ammirazione per il linguaggio illustre dei Siciliani ponendo se stesso e lo Stil Novo come continuatori di quella esperienza.

Giacomo da Lentini

L'attività di funzionario alla corte di Federico si ha fra il 1233 e il 1241, periodo a cui risalgono le sue poesie. Fu conosciuto in Italia come Il Notaro (cosi lo chiama Dante nella Commedia), egli si firmava come "domini Imperatoris notarius", di lui ci restano 38 componimenti, fra canzonette e sonetti (sonetto del quale fu quasi sicuramente l'inventore). Fu il caposcuola della Scuola siciliana.

Giacomo da Lentini, mostra di conoscere e saper utilizzare con grande perizia gli schemi della tradizione provenzale, e nello stesso tempo, di saper inserire al loro interno notevoli innovazioni sul piano tematico e sul piano fantastico della creazione delle immagini. Sul piano tematico tende all'interiorizzazione, all'analisi dei movimenti psicologici dell'io e alla descrizione della fenomenologia dell'amore. Proprio questo viene scomposto nei suoi elementi e in particolare considerato nella relazione fra il "piacimento" che viene prodotto nel vedere la bellezza della donna (prodotto dagli occhi) e il "nutricamento" che viene prodotto dalla riflessione amorosa, dall'attivita fantastica del soggetto, dal suo spirito vitale (prodotto dal cuore).

Sul piano delle immagini, egli procede con analogie che rimandano al mondo sociale e soprattutto a quello naturale e vegetale, con una scelta in cui si riflette la propensione dei Siciliani a una considerazione scientifica e naturalistica della realtà.

Gli altri Siciliani

Da Giacomo da Lentini derivano due correnti: una "tragica" cioè di meditazione amorosa e di elevato contenuto teorico e morale, di cui si fanno esponenti Guido delle Colonne e Stefano Protonotaro; l'altra narrativo-colloquiale, caratterizzata da una tendenza alla canzonetta popolareggiante, in cui si distinguono Rinaldo d'Aquino e Giacomino Pugliese. Questo secondo filone ha punti di contatto con una produzione che sembra giullaresca, esterna quindi alla scuola siciliana vera e propria e che trova il suo maggior esponente in Cielo d'Alcamo, "Il Contrasto".

Guido delle Colonne (1210 - 1280) giudice di Messina e funzionario imperiale. Scrisse cinque canzoni e forse anche opere storiche. Dante ne apprezza la canzone "Ancor che l'aigua per lo foco lassi". Guido si rifà al "trobar clus" provenzale, anche il suo stile è chiuso, quasi ermetico, privilegia soluzioni linguistiche e metriche complesse e rare. Sarà un anticipatore della ricerca di Guinizzelli.

Stefano Protonotaro: un messinese traduttore dall'arabo di due libri di astronomia dedicati a Manfredi. Appartiene al momento più tardo della Scuola. Di lui ci sono giunte tre canzoni una delle quali "Pir meu cori alligrari" nell'originaria trascrizione siciliana.

Al polo opposto rispetto alla gravitas di Giacomo da Lentini e gli altri sopra citati, si colloca il Contrasto di Cielo d'Alcamo (o Michele d'Alcamo). Esso riprende l'andamento della canzonetta e si rifà alla tradizione provenzale delle "pastorelle" (dialogo fra un cavaliere e una pastorella in cui si svolge il tema della seduzione d'amore). Questi riferimenti mostrano che il giullare che ha composto il Contrasto era tutt'altro che rozzo e ignorante. Ciò nulla toglie al linguaggio dal sapore parodico di questo componimento in cui si cerca di ritrarre il linguaggio cortese con intento ironico. Il Contrasto, composto fra il 1231 e il 1250, quasi certamente nella zona di Messina.

I rimatori siculo-toscani

I funzionari imperiali di Federico II e di Manfredi avevano intrattenuto rapporti con gli esponenti del partito ghibellino nei Comuni dell'Italia centrale e centro settentrionale. Inoltre questi funzionari provenivano dall'università di Giurisprudenza a Bologna. Queste comuni istanze politiche e culturali spiegano la diffusione della poesia siciliana in Toscana e Emilia.

La denominazione Siculo-Toscana indica la dipendenza di questi rimatori dalla Scuola Siciliana, sia l'apporto nuovo, "toscano, che essi introducono nel genere lirico. I nuovi rimatori riprendono sì la canzone e il sonetto elaborati dai Siciliani e la loro tematica amorosa, ma esperimentano anche altre forme metriche come la ballata e danno ampio spazio alla canzone politica. Gli autori non sono più funzionari di un imperatore a cui spettano tutte le decisioni politiche, ma cittadini di stampo borghese che partecipano all'attività politica cittadina. Anche la lingua non è più il volgare illustre siciliano, ma il toscano, ora più ora meno depurato.

Tutte le principali città toscane presentano una fioritura di poeti: alla fine però prevarrà l'egemonia fiorentina (Compiuta Donzelli), ma ci sarò la produzione lucchese, una pisana (Panuccio del Bagno) una aretina (Guittone d'Arezzo), una senese e una pistoiese (Meo Abbracciavacca). Ma anche a Bologna con Onesto degli Onesti.

Tra questi autori spiccano Bonagiunta Orbicciani e Guittone d'Arezzo.

L'attività poetica di Bonagiunta si svolse per un buon quarantennio, dal 1240 al 1280, vide la nascita dello Stil Novo. Rappresenta in linea di massima una mediazione fra Siciliana e Toscana. In effetti privilegia soluzioni metriche (canzonette, ballate) e scelte linguistiche lontane dal trobar clus di Guittone pur condividendo l'impegno in una tematica morale e non solo eroica. Entro in tenzone con Guinizzelli, per la difesa della linea di continuità fra Siciliani e Siculo-toscani, che era tradita dal suo più giovane interlocutore. Bonagiunta fu a lungo considerato un seguace di Guittone.

Guittone d'Arezzo

Guittone d'Arezzo (1230ca - 1294), è stato un maestro di poesia fra il 1260 e l'anno della morte il 1294 tanto da lasciare dietro di se uno stuolo di imitatori in ogni città del Centro (i "guittoniani"). Dante dovette farvi i conti frontalmente e espurgere la sua mentalità dalla propria linea. Dante infatti intendeva collegare Scuola Siciliana e Stil Novo con una linea fondata sulla promozione del volgare illustre, sulla altezza e omogeneità di lingua e di stile, sulla gravità e nobiltà raffinata di accenti e di metri. Gli risultava perciò estraneo il ventaglio convulso delle proposte retoriche metriche e linguistiche avanzate da Guittone.

Guittone apparteneva al partito guelfo e per questo motivo fu costretto a lasciare Arezzo di spontaneo esilio, e rifugiarsi a Bologna. Qui nel 1265 aderì ai Cavalieri di Santa Maria, comunemente detti "frati gaudenti". Fu una conversione annunciata da una sua poesia famosa "Ora parrà s'eo saverò cantare" (con la quale dà l'addio alla lirica d'amore); questa conversione segna la sua vita, lascia moglie e figli per dedicarsi completamente a una missione religiosa. In realtà i Cavalieri di santa Maria, si poneva obiettivi più socio - politici che mistico - religiosi.

Di Guittone ci restano circa 300 componimenti, nella loro organizzazione bipartita, dovuta alla conversione del 1265. Da una parte abbiamo le liriche civili - amorose, dall'altra religiose e morali, fra le quali alcune lauda.

La sua lirica d'amore proviene dai poeti Siciliani, ma anche dal tipico trobar clus dei provenzali. La tematica cortese riguarda spesso argomenti di vita sociale della vita comunale, sia riferimenti alla vita quotidiana del poeta. Le scelte linguistiche oscillano fra un arco assai vasto di esiti, dal raffinato al plebeo: giustamente si è spesso parlato di una "pluralità dell'impianto linguistico".

Ma l'apporto più originale del poeta va individuato nella canzone politica e civile. Egli si rifà alla tradizione provenzale del sirventese. L'alta eloquenza, il vibrante sarcasmo, la sdegnata passione che animano delle canzoni (come "ahi lasso, or è stagion de doler tanto") rivelano la viva e diretta passione partecipazione del cittadino comunale che s'impegna nella lotta politica.

Occorre ricordare anche le Lettere in prosa volgare in cui l'autore fa sfoggio di un armamentario retorico e di casistica morale. Si tratta di scritti di argomento etico e civile.

Il "Dolce stil novo"

"Dolce Stil Novo" è la denominazione con cui Dante nella Commedia definisce una nuova poetica letteraria che si affermò a Firenze nel periodo fra il 1280 e il 1310. Dante impiega la definizione nel canto XXIV del Purgatorio, mettendola in bocca a Bonagiunta da Lucca, incontrato nel girone dei golosi. Bonagiunta dice averne compreso la "novità" e le ragioni che la oppongono alla precedente tradizione poetica, rappresentata da Giacomo da Lentini, e definisce la nuova scuola appunto come "Dolce Stil Novo". I suoi maggiori rappresentanti furono Guido Cavalcanti e Dante, ma anche tre poeti fiorentini come Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, e un pistoiese Cino da Pistoia. Ne fu il precursore e iniziatore però, un bolognese, Guido Guinizzelli. Il fatto che l'iniziatore fu un bolognese non deve stupire: la città emiliana era all'avanguardia sia in campo culturale e filosofico per la presenza di una famosa università, sia in campo letterario, e poi in città operava un gruppo di poeti siculo-toscani di cui faceva parte Onesto degli Onesti, che sperimentava alcune soluzioni pre-stilnovistiche. Poi però fu Firenze la città in cui si impose, dove operava un gruppo di siculo-toscani, uno dei quali Chiaro Davanzati, sembra già anticipare lo Stil Novo.

Nel XXVI del Purgatorio Dante incontrerà Guinizelli e lo chiamerà "padre mio" così riconoscendogli il ruolo di iniziatore della nuova poetica, caratterizzata da "rime d'amor dolci e leggiadre"

La "novità" del dolce stil, va ricercata nell'originalità rispetto alla Scuola Siciliana nel seguire i dettami dell'Amore e nell'assoluta fedeltà nei loro confronti a cui invece si sarebbero sottratti i Siculo-Toscani. Dante intendeva, nei confronti della Scuola Siciliana e Siculo-Toscana intraprendere un rapporto di continuazione e allo stesso tempo di rottura. Vede lo Stil Novo come un processo che era iniziato dai Siciliani, ma allo stesso tempo insiste con forza particolare sulla rottura rappresentata dalla nuova poetica, in modo da valorizzarne l'originalità e la novità. Di qui la sottolineatura dell'aggettivo "novo", sia nella denominazione di Dolce stil novo, sia, nella definizione di Dante come autore di "nove rime". Questo è un programma che pone in primo piano la "novità" della propria posizione; insomma si comporta, da questo punto di vista, come una vera e propria avanguardia letteraria.

Sul piano Tematico, Dante sottolinea, l'assoluta fedeltà ai dettami d'Amore, Ciò significa tornare ai Siciliani, scartando l'esperienza guittoniana aperta anche a motivi politici e morali. Ma rispetto ai Siciliani la nuova poetica si distingue per due ragioni: anzitutto è diversa la concezione dell'amore, in secondo luogo, l'attenzione alla fenomenologia dell'amore è guidata da una dottrina precisa: il poeta intende registrare, o annotare, i modi in cui esso "spira" e cioè crea nell'anima turbamenti, sentimenti, movimenti psicologici.

Per gli stilnovisti l'amore non è più un semplice corteggiamento, ma diventa motivo di elevazione spirituale, adorazione di una donna che può assumere i tratti di un angelo, e cioè una creatura intermediaria fra cielo e terra, fra profano e divino. La figura della donna-angelo tende a divenire una possibilità di mediazione fra il poeta e Dio, è dunque di salvezza spirituale. L'amore innalza e nobilita l'uomo e quindi lo avvicina al divino. E questo indubbiamente è un motivo nuovo. Essere "gentili di cuore" (come disse Guinizzelli) e cioè nobili per animo e per cultura, comporta una tendenza all'elevazione spirituale che si realizza contemporaneamente nella poesia, nell'amore e nella spiritualità religiosa.

Per essere fedeli ad Amore si richiedono pertanto conoscenze scientifiche e teoriche che Guittone non possedeva: di qui il disprezzo di Cavalcanti e di Dante per questo poeta, giudicato troppo rozzo perché privo di un 'adeguata filosofia d'amore. Queste cognizioni teoriche derivano poi dal pensiero di San Tommaso e dalla scolastica, ma anche dalla mistica francescana insegnata a Bologna.

Per quanto riguarda il piano Stilistico, la novità riguarda l'amalgama linguistico, metrico, sintattico che deve risultare "dolce". Occorre, un volgare illustre che sia il più possibile elevato e puro e insieme musicale e melodioso. La nuova poetica si qualifica in opposizione a Guittone e i guittoniani: meno selettivi nel linguaggio, meno "leggiadri" e più plebei. Non per nulla la struttura metrica più usata è la canzone considerata la forma più elevata di espressione.

Il pubblico delle "nove rime" sarà quello, molto selezionato e ristretto, che proviene dalla nobiltà feudale e dagli strati intellettuali più elevati. Gli stilnovisti si considerano una cerchia eletta che trova nella propria superiorità culturale e nelle propria raffinatezza spirituale le ragioni di un prestigio sociale non più dipendente dalla nobiltà di sangue, ma solo da quella dell'animo (che ora viene chiamata gentilezza).

Nei loro versi la realtà cittadina s'intravede da un nuovo punto di vista: non quello degli scontri politici e odi fra i partiti opposti, bensì quello degli incontri, delle occhiate e dei saluti d'amore per le strade urbane o in una chiesa. La nuova realtà cittadina s'intravede nel rapporto con una donna, la donna appare per la via, circondata dalle amiche, e la sua bellezza colpisce, attraverso la luce degli occhi, il cuore del poeta. Appare così il motivo dell'incontro e del saluto, che assume anche il significato di una "salvezza" spirituale per chi lo riceva ("saluto" e "salvezza" derivano dalla stessa parola latina salus). La città insomma, diventa il nuovo scenario di un corteggiamento il cui fine non è più l'elevazione sociale, ma un'elevazione spirituale e religioso.

Guido Guinizzelli

Figura misteriosa dalla quale restano incerte le date di nascita (intorno al 1230) e di morte (forse il 1276), il bolognese Guido Guinizzelli, occupa un posto rilevante nella nostra storia letteraria e in particolare all'interno del genere della lirica d'amore.

Guinizzelli ha in comune con Guittone sia il genere letterario (e dunque i temi generali) sia la tradizione, cioè quella della poesia d'amore dei provenzali e della Scuola siciliana. Il legame con i Siciliani è attestato, tra l'altro, dalla metrica, che nel sonetto non abbandona mai la tradizionale disposizione alternata delle rime. I fiorentini della generazione più giovane non esitarono a farne il maestro del loro Stil Novo.

Guinizzelli si rivolge a Guittone con rispetto chiamandolo "padre" e "maestro". Nel suo canzoniere composto da venti soli testi integri, la svolta poetica è quindi dell'ultimo periodo di attività del poeta,. La nuova poetica evidenzia una semplificazione dello stile, che abbandona i modi ricercati della preziosa retorica guittoniana e dell'ars dictandi, aspirando al linguaggio "dolce e leggiadro", che incontrerà le lodi di Dante. Alla limpidezza stilistica corrisponde un maggior impegno strutturale e dottrinario (come "Al cor gentil rempaira sempre amore"). Il risultato è quello di spostare la tensione espressiva dalla raffinatezza del dettato poetico al rapporto tra aspetto filosofico, coerenza metaforica e funzionalità formale.

Questa affinità con la futura nuova scuola della lirica d'amore si registra anche nei temi tipici della poesia gunizzelliana: l'identitò di amore e di cuore nobile, la caratterizzazione angelica della donna, la lode dell'amata. Tali temi non sono in se stessi nuovi, né in Gunizzelli né negli stilnovisti, ma è nuovo in entrambi il rigoroso inserimento di tali temi in un sistema teorico capace di organizzare con coerenza le scelte strutturali, lessicali, stilistiche, metaforiche. Quello che poi impedisce di collocare Gunizzelli entro le coordinate dello stilnovismo è la mancata partecipazione all'ambiente culturale della sua affermazione, l'estraneità rispetto alla cerchia degli "avanguardisti" toscani di pochi anni dopo.

La fortuna critica di Guinizzelli è stata segnata in modo decisivo dal reiterato intervento "a caldo" di Dante, che lo elogia due volte nel De vulgari eloquentia per la lingua e per lo stile, e incontrandolo nel Purgatorio lo chiama "padre" di tutti poeti, lui compreso, e nella Vita Nuova arriva persino a citare il modello di un sonetto, chiamandolo "saggio" ("al cor gentil.").



Guido Cavalcanti

Nel canzoniere di Guido Cavalcanti la tematica amorosa si fissa in un canone che risulta decisivo per lo stilnovismo e per il futuro della lirica d'amore, a partire da Petrarca. Temi e stilemi della tradizione provenzale vengono riorganizzati da Cavalcanti secondo un interesse filosofico (come già in Guinizzelli). Alla sovrabbondanza di trovate retoriche e stilistiche, tipica di Guittone e dei guittoniani, si sostituiscono la compattezza, la coerenza e la organicità della ricerca, favorite da un unitario e consapevole fondamento filosofico, con un lessico e uno stile specifici e quasi tecnici adatti allo scavo in profondità e alla variazione intorno al medesimo tema.

Di Guido Cavalcanti, fiorentino, è ignota la data di nascita, si presume intorno al 1259. La Casata dei Cavalcanti era tra le più potenti e nobili di Firenze, schierata con i guelfi bianchi e con la famiglia dei Cerchi. Guido si dedicò con passione alla vita politica, finché non gli fu impedito dagli Ordinamenti di Giano della Bella. La inimicizia con la famiglia dei Donati, di parte nera, assunse un carattere di rivalsa personale fra Guido e il violento Corso Donati, non senza aggressioni e ritorsioni fisiche. In seguito a nuovi violenti disordini tra le due fazioni cittadine, i capi delle due parti furono mandati in esilio, tra questi c'era anche Guido, che fu esiliato a Sarzana con un provvedimento datato 24 giugno 1300. Ammalatosi di malaria, morì il 29 agosto di quell'anno. Tra i priori che firmarono l'esilio vi era anche Dante, che chiama più volte Cavalcanti "primo de li miei amici".

Tema unico della poesia di Cavalcanti, si è detto, è l'amore. Vissuto come opportunità insostituibile di nobilitazione per il soggetto individuale; ma soprattutto come devastante esperienza tragica. Sulla scorta dell'aristotelismo averroista, Cavalcanti riconosce nell'anima sensitiva la specificità dell'individuo; mentre l'elemento razionale è concepito come riflesso di una intelligenza universale, unica per tutti gli uomini e sperata da essi. L'amore è l'esperienza più radicale e complessa dell'anima sensitiva, l'unica perciò in grado di esaltare l'identità individuale del soggetto. D'altra parte l'esperienza dell'amore, risulta in attingibile al controllo razionale. Così la passione amorosa è al tempo stesso una condizione di eccezionale intensità vitale e una minaccia di disgregazione per l'io. Lo sdoppiamento della personalità è la conseguenza inevitabile di una simile condizione.

Il canzoniere di Guido Cavalcanti è formato da poco più di 50 componimenti; le forme prevalenti sono il sonetto e al ballata, seguiti dalla canzone. In particolare la ballata appare congeniale all'ispirazione cavalcantiana, incarnando agevolmente il registro leggero e insieme sconsolato che la caratterizza. Più in generale, la tematica tragica appare affidata a una musicalità sfumata, risolvendosi in costruzioni armoniose dominate dalla figura della circolarità. Esiste quindi un contrasto fra Forma e Contenuto, contrasto che si risolve anche nella mentalità dell'autore che ammette di essere costretto ad amare quella passione che pure lo uccide.

Teatralizzazione che domina numerosi testi cavalcantiani, dove le varie componenti della condizione dell'innamoramento (gli occhi, il cuore, la mente) acquistano un'individualità autosufficiente, oggettivandosi e personificandosi. La scrittura diviene anzi il teatro nel quale si muovono i vari "spiriti" esprimendo ne loro insieme l'angoscia di una disfatta psicologica avvertita con sbigottimento e paura.

L'amore è una minaccia per la vita stessa del soggetto, come eccesso e disavventura. Ne risultano inevitabilmente, trasformati i temi del saluto e della lode: l'incontro con l'amata appare piuttosto apportatore di distruzione che non di salvezza. La figura della donna amata è veicolo di un'esperienza a tal punto radicale per il soggetto da risultare non rappresentabile se non nei suoi effetti devastanti sull'io.

Si deve soprattutto a Cavalcanti, la canonizzazione del genere lirico come specializzazione lessicale e stilistica, cioè come promozione di certi materiali e di certe soluzioni metriche e linguistiche ad esclusione di altri; canone che verrà perfezionato da Petrarca.

Come per tutta la poesia antica italiana, risulta decisiva anche per Cavalcanti la mediazione di critica di Dante. Dante lo dichiara il primo dei suoi amici e non nasconde un iniziale debito di riconoscenza nei confronti del maggiore poeta fiorentino del suo tempo, sta però di fatto che nelle opere più mature di Dante questi viene nominato in un paio di occasioni (Inferno X, Purgatorio XI). Il trattamento Dantesco ha favorito l'idea di una contrapposizione ideologica fra l'ortodossia di Dante e il materialismo antiteologico di Guido e gli studi più recenti si soffermano appunto sullo studio da parte di Guido dell'aristotelismo avverroista, dedotto più dalle sue poesie. Alcuni studiosi decretano che il radicalismo di Guido esprimerebbe il rifiuto tanto della filosofia quanto della poetica recente affermatasi, stilnovismo compreso.

Cino da Pistoia e gli altri stilnovisti.

Lapo Gianni, autore di aggraziati componimenti meno impegnati sul piano dottrinario e più volti a cantare le dolci consuetudini di una raffinata vita giovanile di gruppo.

Gianni Alfani (forse un mercante) che riprende soprattutto le forme cavalcantiane.

Dino Frescobaldi, che compone una ventina di testi di amore per una "donna sdegnosa" rifacendosi piuttosto all'insegnamento dantesco.

Cino da Pistoia, fra i più giovani del gruppo, (1270 - 1337) restò fedele alla nuova poetica e soprattutto alle lezioni di Dante anche dopo il tramonto del Dolce Stil Novo, cosi che la sua poesia rappresenta una mediazione necessaria nel passaggio dall'esperienza lirica dantesca a quella di Petrarca. Cino (diminutivo di Guittoncino) divenne professore di diritto insegnando in varie università, a Siena, Perugina, Napoli dove conobbe il giovane Boccaccia. Guelfo di parte nera, fu esiliato da Pistoia, più tardi appoggiò con Dante, la causa dell'imperatore Arrigo VII per la cui morte scrisse due canzoni.

Il suo Canzoniere contiene 165 componimenti, molti dei quali dedicati a una donna, Selvaggia, probabilmente esiliata come lui da Pistoia. Dante tiene in grande merito Cino da Pistoia nel De vulgari eloquentia, tanto da dargli un ruolo di primo piano parallelo a Cavalcanti. Vedeva in lui un seguace fedele del suo programma linguistico e stilistico, tendente al volgare illustre, cioè nobile e raffinato e un dettato "dolce" e aristocratico, e un sicuro alleato nella polemica contro il "plebeo" Guittone.

Tuttavia il suo canzoniere presenta anche aspetti nuovi nell'apertura a tematiche civili e politiche, estranee al clima stilnovista. Nelle liriche d'amore, l'apporto più personale di Cino alla tematica stilnovista sta nella connessione di amore e morte: la rielaborazione del lutto per la morte di Selvaggia diventa meditazione, tendenza all'interrogazione, intimo soliloquio. ("ohimè lasso, quelle grezze bionde").

















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