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"FONTAMARA" di IGNAZIO SILONE - PREMESSA

letteratura italiana



"FONTAMARA" di IGNAZIO SILONE


PREMESSA


In questo breve lavoro ho cercato di illustrare le varie sfaccettature della vita di Ignazio Silone e della sua grande opera "Fontamara".

L'immagine e la memoria del grande uomo, politico e scrittore, per anni non ritenuto tale dai critici, sono state, inoltre, il centro di un'accesa discussione sulla veridicit 252i86c à e sull'onestà delle sue azioni e dei suoi scritti. Il dibattito, che prende il nome di "Caso Silone", è tuttora una controversia che divide i letterati italiani e stranieri in sostenitori e oppositori dell'accusa di spionaggio dello stesso Silone: alcuni sostengono, infatti, che nel periodo in cui egli era una delle personalità di spicco del PCI, fosse allo stesso tempo informatore segreto della polizia fascista.



Per quanto riguarda l'opera più conosciuta e apprezzata di Silone, "Fontamara", ho cercato di dare un quadro generale, riassumendo gli avvenimenti, e facendo un'analisi dello stile che lo scrittore ha utilizzato per sottolineare alcune caratteristiche dei personaggi e dell'opera stessa. Ho cercato, infatti, di andare oltre quello che è il messaggio (tra l'altro molto chiaro ed esplicito) che Silone invia ai lettori: egli, confinato in Svizzera, esprime il suo disprezzo nei confronti della dittatura fascista e invita gli oppressi a ribellarsi contro ogni ingiustizia o li esorta almeno a provarci, attraverso la voce di Berardo Viola e dei suoi compaesani fontamaresi, i quali lotteranno contro una nuova realtà politica e sociale che li costringe ad una condizione ancor più disperata e misera di quella alla quale sono abituati e che hanno accettato con una sorta di rassegnata religiosità popolare, in quanto era stata data loro da Dio ed era rimasta immutata nei secoli: "[.]E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: «In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch'è finito.»"

Ma adesso è necessario ribellarsi a quel sistema violento e ingiusto che è stata la dittatura di Mussolini.




IGNAZIO SILONE: VITA E OPERE



Ignazio Silone è lo pseudonimo (poi dagli anni '60 anche nome legale) di Secondino Tranquilli. L'assunzione di tale cognome deriva dal condottiero degli antichi Marsi, Quinto Poppedio Silone, che capeggiò la prima guerra sociale contro Roma, nel 90 a. C. e nel quale lo scrittore vide un "simbolo di autonomia" e una volontà di ribellione e di lotta simile alla sua, contro il potere centralizzato e in difesa dei diritti dei conterranei, sfruttati e dimenticati. Per quanto riguarda l'assunzione del nome, possiamo distinguere due diverse teorie: la prima è che, probabilmente, lo scrittore scelse il nome "Ignazio" perché gli ricordava la prigionia di Barcellona e lo faceva sentire vicino al grande santo di Spagna che portò nella fede uno spirito appassionato di dedizione totale; la seconda è che il nome potrebbe derivare da Mario Egnazio, uno tra i valorosi combattenti della guerra sociale.

Ignazio Silone nasce il 1° maggio del 1900, a Pescina (AQ), da Paolo Tranquilli, piccolo proprietario terriero, e Marianna Delli Quadri, tessitrice. Già durante l'infanzia ebbe modo di imparare precocemente la pietà per gli oppressi, lo sdegno per il sopruso, la coerenza, l'anticonformismo, la fedeltà nell'amicizia grazie al padre che lo scrittore stesso descrive come "il più inquieto e l'unico proclive all'insubordinazione".

Le condizioni della famiglia Tranquilli sono discretamente agiate ma, dopo la morte del padre (nel 1910), di un fratello (per i postumi di un incidente) e della madre (tra le macerie della casa distrutta dal terremoto del gennaio 1915), Silone è costretto a trasferirsi col fratello e la nonna paterna "nel quartiere più povero e disprezzato" del paese, dove comincia a frequentare la baracca della Lega dei contadini. Nello stesso periodo riprende gli studi classici interrotti a causa del terremoto. La nonna lo affida al collegio Pio X di Roma, dal quale, però, viene espulso in seguito ad un tentativo di fuga. Successivamente, per diretto interessamento di don Luigi Orione (che ricorderà poi nello scritto "Incontro di uno strano prete" e che incarna l'immagine del "sacerdote positivo" in molte delle sue opere di narrativa), passa in un convitto di San Remo e poi di Reggio Calabria.

Nel 1917 Silone lascia definitivamente la scuola e si iscrive alla Gioventù Socialista. Dopo esser diventato segretario regionale dei lavoratori della terra, prende parte alle proteste contro l'entrata in guerra dell'Italia e, per questo, viene processato e condannato al pagamento di un'ammenda.

Tra i 17 e i 18 anni si trasferisce a Roma, immergendosi completamente nell'attività politica: tra il 1919 e 1921 diventa segretario dell'Unione socialista romana, redige il quotidiano "Avanti!" e diventa direttore de "L'Avanguardia", il settimanale dei giovani socialisti.

Nel gennaio del 1921, al congresso di Livorno, partecipa alla fondazione del Partito Comunista Italiano. Poco dopo passa alla redazione del giornale "Il Lavoratore" di Trieste, che subirà più volte persecuzioni e saccheggi da parte degli squadristi fascisti.

Tra il 1921 e il 1927, quale membro della direzione del PCI, Ignazio Silone compie varie missioni sia in Russia sia in diversi Paesi europei, subendo tra l'altro il carcere in Spagna e in Francia, con l'accusa di sovversivismo. Nel maggio del 1927 si reca insieme a Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci a Mosca, dove partecipa ad una riunione del Comintern presieduta da Stalin e si oppone all'espulsione di Trotzki e Zinovieff. In questi anni comincia a profilarsi la crisi che in seguito lo condurrà a staccarsi totalmente dal comunismo. Mentre progressivamente si rende conto degli oscuri intrighi della politica staliniana e prende atto di "ambiguità e reticenze" dei suoi compagni di partito di fronte all'Esecutivo di Mosca, si rifugia prima in Francia e poi in Svizzera, svolgendo un'intensa attività come responsabile dell'Ufficio Stampa e Propaganda sui fogli di partito ("lo Stato operaio", "Battaglie Sindacali").

Il 13 aprile 1928, il fratello Romolo Tranquilli viene arrestato con la gravissima accusa di essere l'autore dell'attentato al re Vittorio Emanuele III alla fiera Campionaria di Milano. Benché riconosciuto innocente, Romolo sarà condannato a 12 anni di reclusione in quanto dichiaratosi comunista in omaggio al fratello esule, ma morirà appena quattro anni dopo, nel carcere di Procida, per le gravi torture subite dalla polizia fascista.

Nella primavera del 1929, ammalatosi gravemente di tisi, Silone chiede d'essere esonerato da ogni attività di partito. In effetti, tra il 1929 e il 1930, i suoi rapporti con l'Ufficio di Segreteria si fanno via via sempre più tesi, a causa soprattutto delle direttive imposte da Mosca in ordine al progetto di rivoluzione proletaria in Italia e nel mondo.

Nel luglio del 1931, dissentendo dall'adesione dei dirigenti del suo partito allo stalinismo, o come egli stesso lo definisce "dall'ordinamento cretino e criminale che sta assumendo il Partito comunista", Silone si dichiara un "anormale politico, un caso clinico" e viene espulso dal partito con l'unanimità dei voti.

L'uscita dal partito, anche se da lui voluta come la sola possibile "uscita di sicurezza", segna nella vita di Silone, per sua stessa ammissione, "una data assai triste, un grave lutto", il lutto della sua gioventù. In realtà la sua vera "uscita di sicurezza" diviene la scrittura.

Nel 1930, aggravatosi il suo stato di salute, nella clinica dove egli è ricoverato a Davos, in Svizzera, Silone inizia a scrivere il suo primo romanzo "Fonatamara", che viene pubblicato nel 1933, in tedesco e poi tradotto in 27 lingue. Scopertasi così, apparentemente per caso ma in realtà per necessità interiore, la vocazione di scrittore, Silone vi si dedica come ad una missione. Nel 1931 fonda a Zurigo, in collaborazione con altri amici, la rivista "Information", destinata a raccogliere intorno a sé un cospicuo gruppo di artisti e intellettuali residenti in Svizzera.

Durante il suo esilio in Svizzera (1931-'44), Silone scrive, oltre a "Fontamara" (1933), "Un viaggio a Parigi" (1935, una raccolta di sei racconti); "Pane e Vino" (1936), romanzo ispirato al personaggio autobiografico Pietro Spina, cui sarà dedicato anche "Il seme sotto la neve" (1941). Contemporaneamente, avvia un'intensa attività saggistico-culturale: tra il 1931 e il 1933, scrive alcuni articoli d'interesse europeistico e religioso; nel 1934 l'opera "Il fascismo, le sue origini e il suo sviluppo"; nel 1938 "La scuola dei dittatori"; nel 1938-'39, l'antologia di pagine scelte di Mazzini, dal titolo "Nuovo incontro con Mazzini".

Verso la fine degli anni '30, nel momento stesso in cui cominciano ad essere più insistenti le minacce della seconda guerra mondiale, Silone sente il bisogno di riaccostarsi alla politica e accetta l'incarico di dirigere il Centro Estero del Partito Socialista Italiano, provvedendo subito a stringere rapporti con i gruppi di resistenza sorti in vari Paesi, mediante la diffusione della stampa clandestina contro i regimi dittatoriali. Per non complicare i rapporti con il governo italiano, le autorità elvetiche lo fanno rinchiudere nel carcere di Zurigo, poi in un campo d'internamento a Davos e a Baden, dove scrive il dramma "Ed egli si nascose" (1944).

Nel 1944, Silone rientra in Italia e si stabilisce a Roma, dove viene chiamato a far parte della direzione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Convinto che i problemi da affrontare non sono più quelli dell'antifascimo, ma quelli del post-fascismo, si rifiuta di entrare nel Comitato d'epurazione.

Dopo la scissione del Partito socialista, capeggiato da Nenni, da quello socialdemocratico, guidato Saragat (1947), Silone fonda, insieme ad altri autonomisti, la rivista "Europa Socialista" e il Partito Socialista Unitario, che si richiama all'ideale di un'Europa libera dalle interferenze sia della Russia sia dell'America. Quando poi questo partito si scioglierà per difficoltà organizzative e confluirà nel partito socialdemocratico, Silone tornerà a far "parte per se stesso", confessando di sentirsi tra "le persone più sconfitte della politica italiana".

Congedandosi definitivamente dalla politica dei partiti, riprende l'attività letteraria e nell'arco di un decennio scrive tre romanzi: "Una manciata di more" (1952), "Il segreto di Luca" (1956), "La volpe e le camelie" (1960). Allo stesso tempo fonda la "Associazione per la libertà della cultura" (1950) e dirige, con Nicola Chiaromonte, la rivista "Tempo Presente" (1956-1968), con la quale si batte per gli ideali di una democrazia reale e non formale, contro i mali e le ingiustizie dei Paesi sia dell'Est sia dell'Ovest.

Passando a quello che potremmo chiamare il terzo momento della sua esperienza umana e letteraria, troviamo Ignazio Silone sempre più impegnato a chiarire il suo difficile ruolo di "socialista senza partito e cristiano senza chiesa", come attestano inequivocabilmente i saggi e i racconti raccolti nel volume "Uscita di sicurezza" (1965) e il dramma "L'avventura di un povero cristiano" (1968), ispirato al conflitto tra Celestino V e il cardinale Caetani, divenuto poi Bonifacio VIII.

Negli anni '70, gli interventi di Silone sulla politica e sulla religione cominciano a diradarsi, senza mai perdere la carica fortemente polemica che lo aveva contraddistinto. La sua maggiore preoccupazione resta, tuttavia, sempre quella di penetrare il significato della Storia, in una visione che potremmo definire punto di confluenza tra socialismo e cristianesimo, intesi nell'essenza dei loro valori concreti. Cercherà ancora di dare espressione letteraria a questa sua nobile "utopia" con il suo ultimo romanzo "La speranza di Suor Severina", che resterà incompiuto.

Silone muore in una clinica di Ginevra il 22 agosto 1978. Cinque giorni dopo, sarà sepolto a Pescina, "ai piedi del vecchio campanile di San Bernardo", secondo il desiderio espresso nelle sue disposizioni testamentarie.



IL "CASO SILONE"


Gli storici Mauro Canali e Dario Biocca, di recente, alla luce di una documentazione ritrovata negli archivi fascisti, hanno sostenuto la tesi di un'attività spionistica di Silone a favore della polizia politica fascista e ai danni del Partito comunista, di cui Silone era un autorevole dirigente. L'immagine che prende forma è quella di un Ignazio Silone dalla doppia personalità: una di militante e dirigente comunista di spicco, l'altra di utilissimo collaboratore della polizia fascista. Tale ambiguità, mantenuta per tutto il corso degli  anni '20, avrebbe finito con il travolgere psicologicamente lo scrittore verso l'inizio degli anni '30, provocando una profonda depressione ed una crisi di coscienza che l'avrebbe convinto a lasciare sia il partito sia la sua attività di spionaggio, per dedicarsi completamente alla letteratura. La versione della "doppiezza" di Silone è stata oggetto di un acceso dibattito storiografico e mediatico, contestata soprattutto dallo storico Giuseppe Tamburrano che ha sostenuto l'innocenza di Silone.

Il 7 marzo 1996, su "Il Corriere della Sera", nella pagina dedicata a "Cultura e Spettacoli", Giovanni Belardinelli dà la notizia di due clamorosi documenti rinvenuti dall'allora ricercatore presso l'Università di Perugia, Dario Biocca. I documenti che, due giorni più tardi, furono presentati dallo stesso Biocca nel corso della conferenza "The other among us", organizzata dalla Stanford University a Firenze, erano stati rinvenuti dal ricercatore presso l'Archivio Centrale dello Stato di Roma e dovevano dimostrare che Ignazio Silone, al secolo Secondino Tranquilli, era stato, dal 1919 al 1930, comunista ed informatore della polizia politica fascista.

La tesi di Dario Biocca e Mauro Canali


Gli "accusatori" di Silone, nel 2000, hanno pubblicato un libro dal titolo "L'informatore: Silone, i comunisti e la polizia". In questo testo vengono raccolti i documenti rinvenuti nell'Archivio di Stato e i risultati delle ricerche condotte dai due autori.

Secondo Biocca e Canali, la documentazione che attesterebbe il collaborazionismo di Silone con i fascisti sarebbe addirittura "inoppugnabile". Le lettere sono state inviate da un certo Silvestri al commissario di polizia fascista Guido Bellone. Al loro interno verrebbero svelati numerosi dettagli relativi ai movimenti dei dirigenti comunisti, i collegamenti con il partito russo, i passaggi di uomini e capitali e altre informazioni dettagliate sul Partito Comunista d'Italia. Silvestri, secondo Biocca-Canali, non è altri che Silone. I due studiosi cercano di evidenziare i caratteri di uniformità stilistica delle relazioni fiduciarie e soprattutto tengono a far notare come ci sia una perfetta coincidenza di tempi e luoghi tra l'invio delle missive e gli spostamenti di Ignazio Silone. Sembrerebbe, inoltre, che il rapporto tra Silone e Bellone possa essere fatto risalire addirittura al 1919, quindi prima ancora della nascita del Partito Comunista d'Italia, dell'avvento del fascismo e della fondazione dell'OVRA.

Biocca e Canali ritengono assolutamente autentici i documenti rinvenuti e credono che molti degli arresti effettuati in Italia tra il 1927 e il 1928 tra i dirigenti comunisti possano essere stati originati dalle informazioni fornite da Silone ai fascisti.

La corrispondenza con Bellone si interrompe nel 1930. Ad attestarlo una lettera del 13 aprile, autentica, di Ignazio Silone.

Gli studiosi affermano anche che, con l'abbandono della politica militante, la scrittura divenne per Silone lo strumento per cercare di ricomporre la propria esistenza: esistenza che ora le carte scoperte nell'Archivio Centrale dello Stato credono di collocare nella giusta luce.

Secondo gli studiosi "accusatori", non c'è dubbio che Silvestri, alias Ignazio Silone abbia svolto l'attività di informatore con sofferto e tormentato disagio. Le note fiduciarie attestano come egli avesse tentato di porre fine al suo rapporto con la polizia già nel 1924: anno in cui fu colpito da una profonda crisi "che, riemersa alcuni anni dopo in forma assai più acuta, lo condusse fino all'orlo della morte e poi alla riscoperta della fede". Nel 1930, infatti, Silone viene espulso dal comitato centrale comunista. Finalmente chiede all'ispettore Bellone di interrompere la corrispondenza, in quanto intende iniziare una nuova vita: eliminandovi "tutto ciò che è falsità, doppiezza, equivoco, mistero", e riparando il male commesso. La drammatica testimonianza è nella lettera del 13 aprile 1930

Silone, dunque, avrebbe abbandonato il partito comunista "per ragioni del tutto estranee al dissenso con Togliatti e Grieco circa questioni tattiche e di schieramento". Biocca ritiene, infatti, che Silone alla fine si fosse tirato indietro per tre ordini di motivi: "1) il peso accumulato in questi anni faticosi di doppiezza ; 2) l'arresto del fratello che forse - il capitolo è ancora molto da esplorare - lo fa sentire responsabile di qualcosa ; 3) l'avvio della terapia con Jung, in Svizzera".

Altri ricercatori, soprattutto americani, prendono in considerazione l'identità psico-fisica di Silone, dandoci l'immagine di un uomo complessato e debole, che odiava il padre, che aveva gravi problemi mentali, vittima di una doppiezza patologica ereditaria e che soffriva di devianze di natura sessuale. Si pensa, infatti, che la relazione tra Silone e Bellone non sia stata solo di carattere "professionale" ma anche erotico-sessuale e che in Svizzera avesse frequentato lo studio dello psicanalista Jung per i problemi mentali ereditari che lo affligevano.

La difesa


Tra gli interventi più autorevoli in difesa di Silone va ricordato quello di Indro Montanelli. La posizione del grande giornalista ed intellettuale italiano è molto chiara: "anche se Silone stesso si alzasse dalla tomba per dirmi che queste accuse erano vere, ancora non le crederei". Montanelli invita, prima di tutto, a non credere che, a prescindere, "documento" sia sinonimo di "verità": non bisogna mai fidarsi ciecamente e totalmente dei documenti. Infatti, una delle critiche più pesanti rivolte a Biocca e a Canali riguarda proprio l'autenticità e l'affidabilità delle carte rinvenute.

In merito a questo argomento è fondamentale il lavoro minuzioso e attento condotto da Giuseppe Tamburrano, in collaborazione con Gianna Granati e Alfonso Isinelli, e con l'ausilio di un'esperta in perizie calligrafiche, Anna Petrecchia. Il loro lavoro è stato raccolto nel libro "Processo a Silone. Le disavventure di un povero cristiano" del 2001.    Tamburrano e i suoi collaboratori hanno analizzato accuratamente i documenti su cui Biocca e Canali hanno fondato la loro tesi, ed hanno elencato una serie di imprecisioni, trascuratezze ed errori compiuti dai due. Prima di tutto essi sottolineano il fatto che i fascisti erano soliti usare tutti i mezzi possibili per riuscire ad infangare i loro avversari e, per riuscire a raggiungere lo scopo, non esitavano a raccogliere calunnie e delazioni da parte di chiunque. Per cui, molti dei materiali depositati presso l'Archivio Centrale dello Stato contengono informazioni inaffidabili, incomplete e prive di riscontro reale. Nel caso specifico, le note attribuite da Biocca e Canali a Silone sono rappresentate da messaggi dattilografati o scritti con grafie diverse, prive di mittente o con mittenti vari e dai contenuti molto generici. Non c'è nessuna identificazione certa della fonte. Il nome "Silvestro" (e non Silvestri come Biocca-Canali scrivono) appare solo dal 30 aprile 1928, immediatamente dopo l'arresto di Romolo. I rapporti, in sostanza, sono rappresentati da note anonime, generiche, scritte evidentemente da persone diverse. Secondo Tamburrano e colleghi, quindi, non c'è una ragione oggettiva che permetta di attribuire inconfutabilmente quei documenti a Silone. A confermare il tutto, la perizia della grafologa Petrecchia sulla base della lettera autografa di Silone, datata 13 aprile 1930.

Tamburrano smantella anche l'argomentazione della presunta coincidenza di tempi e luoghi rispetto all'invio delle note e gli spostamenti di Silone in quanto, anche in questo caso, non esiste una prova certa: bisognerebbe conoscere con esattezza i movimenti dello scrittore e anche il tempo che una lettera impiegava per arrivare a Roma dal luogo in cui Silone si trovava.

La tesi finale di Tamburrano è, quindi, che i documenti alla polizia fascista siano un tentativo da parte di Silone di fingersi informatore per salvare il fratello, arrestato e condannato a morte.



FONTAMARA


Il primo romanzo di Silone è "Fontamara", terminato a Davos in Svizzera nel 1930 e pubblicato a Zurigo nel 1933, in tedesco. La prima versione in italiano apparve a Parigi nel 1934, ma in Italia fu pubblicato solo nel 1947.

L'autore immagina di essere stato raggiunto nel suo esilio svizzero da tre Fontamaresi: un uomo, sua moglie e il figlio, i quali gli riferiscono gli ultimi "strani" avvenimenti accaduti in paese.

L'azione è corale: l'intera popolazione è sia soggetto che oggetto della narrazione. Dal coro si staccano alcuni personaggi di scarso rilievo, che potremmo definire macchiette o tipi.

I contadini del luogo, già impoveriti dal prosciugamento del lago Fucino e privati della luce elettrica perchè non riuscivano a pagare le bollette, devono sottostare a nuovi soprusi. Un giorno in paese si presentò un graduato della Milizia, il cavaliere Pelino, che con un raggiro convinse i cafoni a firmare un foglio bianco, che in seguito divenne un documento che permise al podestà di deviare il corso del ruscello con cui i Fontamaresi da sempre irrigavano i loro campi. Quando una mattina trovarono degli uomini che iniziavano i lavori per la deviazione del fiume, le donne del paese si recarono nel capoluogo per parlare con il sindaco, ma scoprirono che non esisteva più e che al suo posto c'era il podestà, un uomo senza scrupoli, soprannominato l'Impresario, il quale aveva acquistato le terre di don Carlo Magna, il ricco signore del capoluogo.

Nonostante le disavventure, le burle e gli scherzi degli abitanti della città e delle autorità, le donne stanche e impolverate riuscirono a parlare con l'Impresario che stava festeggiando la nomina a podestà. Dopo varie discussioni, il segretario del comune, don Circostanza (definito "l'Amico del Popolo") propose che tre quarti dell'acqua dovessero andare all'Impresario e i rimanenti tre quarti ai Fontamaresi. I cafoni, ignari dell'inganno, accettarono la proposta e i cantonieri ripresero i lavori.

Intanto arrivò la decisione di Berardo Viola, cafone rimasto senza terra, di partire e far fortuna in America, ma non poté riuscirci a causa di una nuova legge che sospendeva l'emigrazione. Quindi fu costretto a trovare lavoro come bracciante fuori Fontamara, ma anche in quest'occasione trovò nuovi ostacoli: non aveva la tessera del partito fascista. Senza lavoro e senza terra, Berardo non poteva sposare Elvira: "come puoi pensare che io mi sposi una ragazza con la dote e io senza terra?"

Un giorno arrivò a Fontamara Innocenzo La Legge, l'esattore delle tasse, che subito premise che non era lì per una nuova tassa ma perché il cavalier Pelino aveva riferito tutti i discorsi contro il Governo e la Chiesa fatti la sera della sua visita e che, di conseguenza, erano stati presi dei provvedimenti che sarebbero stati messi in pratica dal giorno stesso: il coprifuoco e il divieto di parlare di politica nei luoghi pubblici.

Verso la fine di giugno, si sparse la voce che i rappresentanti dei cafoni della Marsica stavano per essere convocati ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla questione del Fucino. Una domenica mattina arrivò a Fontamara un camion che, gratis, avrebbe portato i cafoni ad Avezzano e, proprio questa mancata richiesta di pagamento, fece pensare ad un inganno. Comunque salirono sul camion e, arrivati ad Avezzano, furono condotti in una grande piazza. Aspettarono un'ora seduti per terra e, mentre una macchina attraversava la piazza, dovettero alzarsi in piedi e gridare inni ai podestà. Poco dopo i carabinieri annunciarono che i cafoni potevano andarsene.

Berardo, per niente soddisfatto, andò davanti al portone del palazzo e volle parlare con il ministro per togliersi la curiosità di sapere cosa era successo. Dopo molte liti con i carabinieri, intervenne don Circostanza, che accompagnò i cafoni nel palazzo per parlare con l'impiegato del ministero, il quale disse loro che la questione del Fucino era stata risolta: "le terre non saranno divise [.]Fucino a chi lo coltiva. Fucino a chi ha i mezzi per coltivarlo o farlo coltivare. In altre parole, Fucino a chi ha capitali sufficienti. Fucino deve essere liberato dai piccoli fittavoli miserabili e concesso ai contadini ricchi."

Il giorno successivo, mentre gli uomini erano a lavoro, nel paese arrivarono dei camion con i militi fascisti che, fatta rincasare la popolazione, portarono via tutte le armi e si scatenarono su una donna, lasciandola in terra agonizzante. Al rientro dal lavoro, gli uomini furono schierati in piazza e interrogati sul Governo. Alla domanda: "Chi evviva?", nessuno diede risposte soddisfacenti. Ma alla fine, la fila di camion andò via, credendo in una visione della Madonna che in realtà era Elvira sul campanile.

Berardo, intanto, decise di chiedere consiglio a Don Circostanza affinché gli trovasse un'occupazione in città. L'avvocato riuscì ad illuderlo promettendogli aiuto.

Pochi giorni dopo, i cantonieri finirono di scavare il nuovo letto per il ruscello e giunse l'ora della spartizione dell'acqua; i Fontamaresi videro che il livello dell'acqua destinata a loro scendeva sempre di più e capirono di essere stati ingannati. Intervenne nuovamente don Circostanza che, per non far scatenare i cafoni, avanzò una nuova proposta: l'acqua sarebbe ritornata ai Fontamaresi dopo dieci lustri, ma nessuno dei cafoni sapeva quanti mesi o anni fossero.

Berardo decise allora di partire per Roma l'indomani con il narratore più giovane, ma la loro avventura fu sfortunata perché tra tasse, avvocati e inghippi vari rimasero senza soldi, senza lavoro e vennero incarcerati. Berardo fu sospettato di essere il Solito Sconosciuto, un tale che cospirava contro il sistema attraverso la stampa clandestina. Nonostante fosse innocente, quando seppe dal commissario che Elvira era morta, decise di addossarsi la colpa; in seguito verrà ucciso, ma al giovane amico fu comunicato che si era impiccato.

La notizia della morte di Berardo giunse a Fontamara e i suoi abitanti decisero allora di scrivere un giornale con gli appunti lasciati dal Solito Sconosciuto, giornale che fu intitolato "Che fare?". Alcuni cafoni andarono a distribuirlo negli altri paesi, ma mentre tornavano a Fontamara udirono degli spari. "«E' la guerra, è la guerra» rispose Cipolla. «La guerra contro i cafoni, contro il giornale»". Chi aveva potuto era scappato, gli altri erano morti. Il narratore, il figlio e i pochi cafoni che erano con loro si salvarono nascondendosi nei campi. Non ebbero più notizie di nessuno del paese e vissero all'estero grazie all'aiuto del Solito Sconosciuto, ma non poterono restarci.

"Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?". I cafoni superstiti se lo chiedono sempre.

Analisi dello stile e della poetica


In "Fontamara", la narrazione si sviluppa in prima persona ma, nel corso dei dieci capitoli, l'io narrante cambia.

Nella premessa abbiamo l'unica presenza diretta di Silone, in quanto è lo stesso autore a parlare. La focalizzazione è di tipo zero, poiché il narratore è onnisciente. In primo luogo, l'autore ci rende nota la differenza tra quelli che chiama "cafoni" e i "piccoli proprietari terrieri": da una parte abbiamo i contadini poveri che popolano sia Fontamara sia tanti paesi simili in tutto il mondo, che lavorano la terra non per guadagnare ma per sopravvivere e che parlano solo in dialetto, mentre, dall'altra parte, ci sono i cittadini. Secondo Silone un cittadino e un cafone potranno parlare per ore senza comprendersi, mentre tra i cafoni del resto del mondo che costituiscono un'unica razza, nella comunicazione riescono a superare le barriere linguistiche e intendersi.

Le vicende vengono raccontate da tre personaggi che hanno preso parte direttamente agli avvenimenti. C'è quindi una focalizzazione interna. Sono tre Fontamaresi, fortunatamente scampati al massacro, rifugiatisi all'estero e che l'autore immagina di trovare davanti alla sua porta perchè volevano raccontargli "gli strani fatti" accaduti. La famiglia è composta da un uomo, Giuvà, la moglie Matalè e il loro figlio Antonio, i quali si alternano nella narrazione.

La narrazione è ricca di cenni biografici, in particolar modo relativi al terremoto del 1915, evento che segnò profondamente la vita e il pensiero di Silone. Nelle sue opere, infatti, abbiamo frequenti ricordi, rappresentati dalle rovine delle case, dei villaggi e dai paesaggi caratterizzati da distruzione e abbandono. Oltre che dalle distruzioni materiali, Silone fu impressionato soprattutto dall'egoismo e dall'empietà degli uomini.

Per quanto riguarda la sua poetica, Silone non l'ha sistemata in un coerente disegno di ragionamenti filosofici, ma ha chiarito la concezione dell'arte che gli è propria e ha enunciato i criteri della sua opera di scrittore in una serie di osservazioni occasionali premesse ad alcuni romanzi e drammi o esposte in saggi, articoli, discorsi, interviste.

Bisogna innanzitutto sottolineare che il problema della lingua e dello stile è tutt'altro che secondario nella poetica siloniana, correggendo l'errata opinione che per dare risalto alla nobiltà del suo messaggio morale e civile, Silone abbia trascurato l'aspetto formale, ritenuto inferiore a quello contenutistico.

Questa concezione contrasta con la consapevolezza con cui Silone affronta teoricamente e risolve nella pratica il problema dell'espressione, fin dalla sua prima fatica di romanziere, e con il paziente lavoro di revisione cui sottopose le opere dell'esilio, in occasione della loro prima ristampa in Italia.

Le correzioni delle tre opere dell'esilio ("Fontamara", "Pane e vino", "Il seme sotto la neve" sono sostanzialmente di due ordini:


Tagli e ridimensionamenti di episodi e discorsi per focalizzare l'attenzione sugli aspetti che danno risalto al significato dell'opera;

Lo stile, attraverso sostituzioni di parole o abbreviazioni di frasi perché, come egli stesso dice in "Intervista con Silone" di M. Cantarella, "nella rilettura e conseguente correzione non ero guidato da norme di bello scrivere, ma dal mio nuovo modo di vedere e di sentire. Rispettai ovviamente la struttura e il carattere dei libri, ma mi applicai a rendere l'espressione più adeguata, nel senso [.] di una maggiore semplicità, chiarezza e plasticità."


Silone utilizza un linguaggio popolare che non è dialetto, ma una sorta di traduzione in italiano, ovviamente per rendere l'opera comprensibile ad un più vasto pubblico, cercando comunque di non perdere l'atmosfera della vita e dei discorsi dei contadini. Imprime infatti all'italiano quel colorito abruzzese attraverso lo stile o "maniera di raccontare" che è dei cafoni ma anche propria. Come egli stesso sottolinea nella premessa al romanzo: "A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l'esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo d'agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci.". Far parlare i cafoni in italiano sarebbe, secondo Silone, un voler tradire la loro realtà poiché ciò significherebbe storpiare il loro pensiero.

Nella sua introduzione a "Fontamara", Silone non teorizza una sua arte dello scrivere, nè afferma una poetica generale, ma prende in considerazione il problema, tipicamente meridionale, dell'espressione di una società contadina che vive fuori dal contesto della Storia e che si trova ora nella necessità di entrarvi, ritrovando una propria coscienza civile, che non sia più quella imposta da coloro che detengono il potere. La narrativa di Silone, quindi, si incentra sulla presa di coscienza dell'importanza della parola e della protesta, entrambe necessarie all'esistenza dell'uomo.

Il lessico è quotidiano e ci sono spesso espressioni tipicamente popolari e regionali, inseriti in periodi parattatici; la scarsa aggettivazione è dovuta soprattutto all'importanza che l'autore ha voluto dare al dialogo, tralasciando le parti descrittive. Le citazioni proverbiali sintetizzano le riflessioni e le convinzioni che quella gente non avrebbe saputo esprimere diversamente (ad esempio: "Aiutati che Dio ti aiuta").

Solo nei discorsi dei "galantuomini" si ritrovano parole ricercate, a volte anche in latino, ed espressione più difficili, utilizzate proprio per ingannare i cafoni e per evidenziare il distacco che c'è fra le due classi sociali. In alcuni casi Silone ricorre all'uso dell'analessi, per chiarire al lettore determinate situazioni, come ad esempio, parlando dell'Impresario, illustra la sua storia, la sua provenienza e il modo in cui è riuscito a diventare l'uomo più potente del paese.

Il racconto degli inganni subiti dai Fontamaresi assume un tono molto ironico e sarcastico che si può facilmente ritrovare in tutto il romanzo, fin dai nomi dei personaggi, che uniscono le tradizioni popolari alla volontà di Silone di rendere i personaggi e il loro modo di agire facilmente comprensibili.

Se pensiamo già ai nomi dei genitori di Antonio, i narratori Giuvà e Matalè, possiamo notare la caratteristica che accomuna molti, se non tutti, i piccoli paesi del Sud, dove molto spesso i nomi propri vengono abbreviati e dialettizzati: Giuvà è la forma contratta di Giovanni, mentre Matalè di Maddalena.

Altrettanto spesso vengono usati dei soprannomi che rimandano a caratteristiche fisiche ("Recchiuta"), al tipo di lavoro svolto ("Innocenzo La Legge", "La Zappa") oppure ad eventi talmente particolari e strani che meritano di essere ricordati nel tempo tramite un nomignolo, che di solito si tramanda di padre in figlio (esempi possono essere: "La Ciammaruga", "Castagna", "Venerdì Santo", "Teofilo", "Cicala", "Papasisto" ecc.); inoltre è da notare l'uso del titolo "don" che, nell'italiano regionale, si premette, oltre al nome dei preti, anche al nome di persone di riguardo o ritenute tali.

Quasi tutti i protagonisti del romanzo hanno nomi non casuali:

In primis, il nome del paese, "Fontamara", che racchiude in sé un destino di sventure e di sofferenze: da "Fonte Amara", che sottolinea la questione della spartizione dell'acqua del fiume e delle terre bonificate del Fucino a discapito dei cafoni;

don Circostanza, l'avvocato "Amico del Popolo", il nome del quale fa intuire la sua capacità di sfruttare qualsiasi occasione per trarne vantaggio;

l'Impresario: "non c'era dubbio che quell'uomo straordinario avesse trovato l'America nella nostra contrada"; di lui Silone ci dà solo il soprannome, che è anche il suo lavoro, per sottolineare la capacità del personaggio di "trasformare in oro anche le spine";

il nome di don Abbacchio, il prete, richiama, invece, il verbo "abbacchiare", che è sinonimo di "deprimere", "avvilire"; infatti egli, invece di aiutare gli oppressi, non farà altro che deprimere i poveri Fontamaresi con le sue prediche per esortarli al pagamento delle tasse; ma forse è possibile trovare anche un'altra chiave di lettura nel nome affissogli da Silone: l'abbacchio, infatti, è anche l'agnello da latte macellato, che può essere interpretato come metafora del prete pauroso e timoroso, che per evitare tanti problemi non difende e non aiuta chi ha bisogno, ma sta sempre dalla parte del potere;

don Carlo Magna, il ricco proprietario terriero ormai quasi sul lastrico, come lo stesso Silone scrive nel romanzo "[.] è chiamato così perché alla domanda: «Si può parlare con don Carlo? E' in casa don Carlo?» la serva risponde, per lo più, «Don Carlo? magna.»"; ma forse il nome è la storpiatura di "Carlo Magno", il grande re dei franchi, fondatore del Sacro Romano Impero. Silone forse voleva sottintendere lo stesso destino che accomuna i due imperi, sia quello di Carlo Magno che di Carlo Magna, entrambi smembrati.

















BIBLIOGRAFIA



Silone I., "Fontamara", Mondadori, 1984

Rigobello G., "Ignazio Silone", Firenze, Le Monnier, 1979

Annoni C., "Invito alla lettura di Silone", Torino, Mursia, 1974

www.silone.it

www.wikipedia.it

www.amicisilone.org

www.italialibri.net




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