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ERODA - (metà III a.C.) - Vita

letteratura greca




ERODA - (metà III a.C.) 

Vita 

Di Eroda sappiamo pochissimo: che egli fosse di Cos, o almeno che vi sia vissuto, lo si deduce dalla conoscenza che mostra del tempio di Asclepio nell'isola.

Gli sparsi accenni nel I mimo consentono di capire che dovette operare tra il 270 ed il 221, in quanto fa riferimento (v.30) del santuario degli "dei fratelli", ossia Tolomeo II e sua sorella - nonché moglie - Arsinoe. Il culto fu istituito dopo la morte della sovrana, nel 270, e di Tolomeo sappiamo che fu divinizzato durante il regno del figlio Tolomeo III (246-221).

Si presuppone, dunque, che Eroda fosse di Cos, di certo più giovane di Teocrito, di cui mostra di riprendere la poetica, e che operasse tra il 290 ed il 246.



 I Mimiambi 

Fino al 1891, di Eroda si conoscevano circa dieci frammenti, per una ventina di versi, ed un lusinghiero giudizio datone, in 616f51g ambito latino, da Plinio il giovane che lo iscriveva tra gli autori di coliambi, ossia di composizioni in trimetri giambici scazonti sul modello di quelli ipponattei e callimachei.

Nel 1891, fu pubblicato un papiro egiziano contenente 8 Mimiambi (mimi in giambi), di cui l'ultimo lacunoso. I componimenti sono stati attribuiti con certezza ad Eroda proprio perché vi ricorrono cinque dei dieci frammenti noti per via indiretta. 

Il linguaggio è ionico e gli argomenti di vita quotidiana, articolati da brevi dialoghi senza intreccio in cui parlano personaggi delle classi sociali più umili. Probabilmente erano destinati alla lettura e non alla rappresentazione. Dai mimiambi emerge il ritratto di un piccolo mondo plebeo, osservato con minuzia e freddezza nella sua meschinità. Riboccano le espressioni dialettali e volgari, tuttavia Eroda non è un "artista popolare" che trae la sua materia dall'"osservazione diretta". Nonostante la sua arte appaia disadorna e realistica, essa nasce da un'ispirazione puramente letteraria ed ha perciò carattere colto e "riflesso".

L'opera di Eroda suscitò, al suo ritrovamento, inevitabili entusiasmi iniziali per un autore che si riteneva esponente avvicinabile al solo Petronio per il realismo spesso scabroso delle situazioni descritte. In un'età, come la fine del XIX secolo, vicina al naturalismo veristico, era dunque inevitabile porre l'accento sul preteso realismo erodiano.

Il realismo di Eroda (riconducibile a quello già presente nel V aC nelle commedie di Epicàrmo e nei mimi di Sòfrone)è tuttavia, come nel suo modello dichiarato, Ipponatte, e in quello più vicino, il mimo teocriteo, un'operazione letteraria e stilizzata. Tipicamente ellenistica risulta l'accentuazione parodica della dismisura tra letterarietà del metro e della lingua ionica e umiltà delle situazioni e delle psicologie rappresentate, che rinviano volutamente alle situazioni stereotipate delle "maschere" della Commedia Nuova.

L'uso della parodia di generi alti e dello stereotipo macchiettistico rendono Eroda un tipico rappresentante di quella poesia mimetica che sicuramente riprodusse gli stilemi del mimo di Teocrito. Ciò che distingue i due è sostanzialmente la freschezza dell'ispirazione e la leggerezza di tocco (che rendono affascinanti le Siracusane). Eroda è più angusto e volgare.

La rilevanza di Eroda sta appunto nel suo testimoniare la grande diffusione di un genere oscillante tra colto e popolaresco, che di certo - come sappiamo da vari testi papiracei - ebbe vasta diffusione nel pubblico e sostituì le ormai desuete tragedia e commedia.



I. La mezzana  

In questo mimo, di 90 versi, che ha una piccola lacuna all'incirca a metà testo e verso la fine, la ruffiana Gillide si reca a far visita alla giovane Metriche, che attende il marito andato in guerra in Egitto. La vecchia tenta di indurre la sposina a cedere alla corte di ricchi spasimanti dietro compenso ma, al suo netto rifiuto, si ritira con garbo.


II. Il lenone 

Riproduce, in 102 versi (i cui i primi 16 lacunosi), una burlesca orazione giudiziaria del lenone Battaro che, riproducendo stile e partizioni di un oratore, difende i suoi diritti contro un cliente troppo invadente, un certo Talete, che gli ha rapito una prostituta. E' notevole, in questo mimo, la parodia stilistica e contenutistica dell'oratoria giudiziaria di Iperide (Setti) o di Demostene (Weil).


III. Il maestro di scuola 

97 versi di dialogo in una scuola di Cos tra il maestro Lamprisco e Metrotima, madre del monello Cottalo, di cui la donna descrive le malefatte, pregando l'insegnante di applicare con severità le comuni maniere spicce di punizione per gli scolari svogliati. Cottalo viene frustato ma, appena libero, si esibisce in insulti e pernacchie e fugge, inseguito dalla madre, che promette di riportarlo in catene.


IV. Le donne che sacrificano ad Asclepio 

Questi 95 versi descrivono, ad imitazione delle Siracusane di Teocrito, due amiche che vanno a fare sacrifici al dio Asclepio e, prima di entrare nel suo tempio di Cos, ammirano i tesori artistici del tempio, tra cui celebri statue di Prassitele e dipinti di Apelle, secondo la comune tematica ecfrastica dell'ellenismo (Crusius).


V. La gelosa 

In 85 versi, è un dialogo concitato tra Bitinna, folle di gelosia per il suo schiavo traditore Gastrone, ed una sua ancella, che infine la persuade, tra le proteste d'innocenza di quest'ultimo, a non suppliziare il fedifrago.


VI. Il colloquio intimo 

Composto da 102 versi, è il mimo più scabroso della raccolta. Due amiche si descrivono e ammirano un misterioso baubon, un oggetto di piacere, opera del calzolaio Cerdone, che, attraverso le ammiccanti allusioni, scopriamo essere un fallo di cuoio.


VII. Il calzolaio 

129 versi, il più lungo a noi pervenuto, questo mimo è ambientato nella bottega di un calzolaio, Cerdone che, spalleggiato dalla complice Metro, esibisce e cerca di vendere a due clienti una vasta serie di calzature femminili al prezzo da lui voluto.


 VIII. Il sogno 

Gravemente mutilo, questo mimo doveva fare da epilogo alla raccolta completa, in quanto espone una dichiarazione poetica, svolta secondo il modulo simbolico callimacheo del sogno. Dopo aver svegliato le serve, il poeta racconta loro un suo sogno: dopo aver trascinato un capro che aveva divorato delle foglie d'edera sacre a Dioniso (il trimetro d'ascendenza tragica), l'autore ed alcuni pastori lo sacrificavano al dio, scuoiandolo e facendone un otre su cui, secondo la tradizionale gara dell'askoliasmos, saltavano a gara (le polemiche poetiche tipiche dell'ellenismo). Eroda, risultato vincitore, veniva minacciato da un vecchio ed era infine costretto a dividere con lui il premio (Ipponatte come modello riconosciuto). Negli ultimi versi, mutili, il poeta spiegava le allusioni simboliche del sogno.  





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