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PARADISO - CANTO I

dante



PARADISO

CANTO I


Il Paradiso è fuori della Terra: esso non poteva essere posto da Dante se non dove lo colloca l'insegnamento cristiano, nell'alto dei cieli.

Dante credeva che gli astri esercitassero influssi sugli uomini. Alla Luna egli attribuisce soprattutto l'incostanza, e perciò fa che nel cielo in cui essa si trova scendano spiriti che in terra, pur senza loro colpa, non condussero a termine i propri voti. Da Mercurio dipende l'amore di gloria terrena; e nel cielo in cui esso si trova Dante incontra spiriti che in vita operarono, sì, il bene, ma il loro movente non fu assolutamente puro, avendo essi agito non solo per amore di Dio, ma anche per procacciarsi fama tra gli uomini. Da Venere discende la tendenza all'amore; sicchè nel terzo cielo scendono spiriti che si lasciano trascinare da esso, pur pentendosi, naturalmente, in tempo. Il Sole ispira sapienza, Marte combattività, Giove giustizia. Infine Saturno ispira desiderio di raccoglimento, di meditazione sulle grandi verità morali e religiose, e pertanto nel suo cielo, che è il settimo, al poeta e alla sua donna si fanno incontro spiriti contemplativi.



Il grado di beatitudine dei singoli gruppi di beati è tanto maggiore quanto più alto il cielo in cui essi appaiono.

Dante deve nel Paradiso esprimere l'extra-umano: cioè descrivere spettacoli che non hanno alcuna corrispondenza con spettacoli terreni; i beati non hanno neppure volto, individualità fisica, giacchè Dante immagina che il suo occhio non possa penetrare oltre la luce splendente che li fascia e nasconde.


Il primo canto contiene già i motivi essenziali dell'intera terza cantica.  L'universo è visto come nel pugno del suo artefice che tutto move, e Dante descrive il volo dell'anima, di una singola anima (la sua) per giungere a lui.

Dante identifica il concetto di Dio con quello di luce. Sono i temi principali della poesia del Paradiso: Dio concepito come luce, la quale man mano che l'anima si eleva si fa sempre più intensa e trionfale.   Dante ha avuto il privilegio di godere da vivo di quella massima luce; e qui ne dà alto ma umile l'annunzio.

Non sa perché non ricorda, non può perché anche per quel poco che ricorda è impari la forza espressiva. Appare qui la recusatio, la protesta della propria insufficienza rispetto al tema.

Segue una lunga invocazione ad Apollo: se per le altre due cantiche era stato sufficiente l'aiuto delle Muse, ora gli occorre l'ausilio di ambedue, quello sacro alle Muse e l'altro sacro allo stesso dio della poesia, Apollo. Apollo deve entrare nel petto del poeta, e respirare e cantare in lui, con quella stessa pienezza di canto con la quale aveva vinto il satiro Marsia, che aveva osato sfidarlo.  Anche nel chiedere all'inizio del Purgatorio l'aiuto delle Muse, Dante aveva rievocato un'altra sfida fatta da mortali ad immortali, e un'altra conseguente punizione: le Pieridi trasformate in piche. Marsia e le Pieridi sono mortali che hanno creduto di poter fidare unicamente sulle proprie forze umane, senza e anzi contro la divinità: e sono stati con irrisoria facilità sconfitti e puniti. L'ingegno deve dunque essere costantemente guidato dal pensiero di Dio: pena la perdita del bene eterno.

Al principio di questo canto Dante è ancora nel Paradiso terrestre; anche paesisticamente siamo ancora in un angolo di bosco alpino: acque fredde trascorrenti nella penombra, sotto foglie verdi e rami che al confronto sembrano neri. A un tratto, tutto ciò è improvvisamente cancellato: nella fantasia di Dante e nella nostra il paesaggio terreno scompare: lo stacco è totale, tutto ciò che è comunque terreno e particolare è dimenticato.



Beatrice si rivolge a guardare il sole come un'aquila. L'aquila è richiamata non soltanto per il suo potere di fissare il sole, ma insieme per la sua forza di ascensione: essa fissa il sole perché vuol volare più vicino a questo più che qualunque altro essere; ed è capace di farlo. Dante fissa il sole a sua volta: obbedisce nel far ciò a una necessità, così come per necessità il raggio riflesso nasce dal raggio diretto. Non è un atto di volontà il suo: questa aveva agito nei due regni sottostanti: ma ora egli è puro, non può fare altro che tendere a Dio.

Quel corpo umano che tanto lo aveva fatto faticare alle prime salite del Purgatorio, e che aveva sempre continuato a dar ombra, suscitando spesso la meraviglia degli espianti, si era tuttavia sempre più alleggerito lungo la salita, che era perciò diventata sempre più agevole. Ora nel Paradiso Dante ha sì sempre il suo corpo, ma è un peso che ormai non è più veramente tale. Il coro non ha più peso fisico, come non ha consistenza, sì che potrà essere più leggero dell'aria e del fuoco, penetrare in un altro; non è più d'impaccio all'anima che si eleva; è tutt'una cosa con essa. Per questo con la replicata forma dubitativa viene a dirci: salli col corpo, certo; ma questo era come non esistesse. Come ciò potesse avvenire, io non lo so; lo sa Dio che governa il cielo.

Il Paradiso si palesa a Dante sin da ora come dolcezza ed ebrietà di musica e di luce. La musice è armonia prodotta dalle sfere celesti nel loro girare: e si noti che qui Dante trascura l'opinione di Aristotele e di tutta la filosofia scolastica, che quell'armonia non aveva ammessa; si affida invece a Cicerone nel Somnium Scipionis, riecheggiato testualmente: la ragion poetica prevale sulla filosofica.

Le sfere ruotano in eterno per il desiderio di Dio; e i suoni sono diversi, distinti, ma tutti fusi insieme, temperati, dalla legge dell'armonia divina.

Insieme al suono, la luce allaga tutto il cielo.

Beatrice assume il suo ufficio non tanto di guida, quanto di maestra di varia scienza, che le è proprio in tutto il Paradiso. Semplice, categorica, schematica è la prima risposta di Beatrice: tu immagini il falso, credi di essere ancora in terra, e questo falso immaginare ti rende ottuso: in realtà, tu stai tornando in cielo, dove è la vera sede della tua anima, giacchè la dimora terrena dell'uomo è provvisorio esilio; e questo ritorno avviene con la stessa naturalità e con velocità che è quasi istantaneità, con la quale la folgore fa il cammino inverso, lascia la sua sede celeste, la sfera del fuoco, per scendere in terra. Un'immagine che si affianca, integrandola, a quella del raggio riflesso.






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