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LA LIRICA DI DANTE BEATRICE O DEL PRIMO AMORE

dante




LA LIRICA DI DANTE

BEATRICE O DEL PRIMO AMORE




Fin qui giunge la coscienza di DANTE.

Se gli domandi più in là, ti risponde come Raffaello:" Noto, quando Amore spira: ubbidisco all'ispirazione". E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneità della sua ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la serietà e la sincerità dell'ispirazione. Chi legge la Vita nuova, non può mettere in dubbio la sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia e di retorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro: ci entra come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci è un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle i 939j94j mpressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni- ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a realtà distinta, e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi; rimase un sogno ed un sospiro. Appunto perché Beatrice ha così poca realtà e personalità, esiste più nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perciò grottesca certo, ma non falsa e non convenzionale. Queste, che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e retoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro; sono non il quadro, ma contorni e accessori. Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in sé l'amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio l'amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo il suo amore si sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso, Dante getta via il suo berretto di dottore e le sue regole retoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce all'ispirazione. Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perché immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come lo sente, più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna.



Tale è il sonetto:


Tanto gentile e tanto onesta pare.


E tale è la ballata ove, con la grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo, così parla Beatrice:


Io mi son pargoletta bella e nova,

E son venuta per mostrarmi a vui

Dalle bellezze e loco dond'io fui.

Io fui del cielo e tornerovvi ancora

Per dar della mia luce altrui diletto;

E chi mi vede e non se ne innamora,

D'amor non averà mai intelletto...

Ciascuna stella negli occhi mi piove

Della sua luce e della sua virtute:

Le mie bellezze sono al mondo nuove,

Perocché di lassù mi son venute.


Questo non è allegoria e non è concetto scientifico; o per dir meglio, ci è l'allegoria e ci è il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile.

Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa lirica. Perché infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia. Finché Beatrice vive, è un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni; ma quando quell'ideale della giovinezza minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovinezza, che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre alla tomba. L'amore si rivela nella morte. Là perde quell'aria fittizia e convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto né allegoria, ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della donna non si è potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e pura espressione, ora che Beatrice muore. A questa situazione si riannoda la parte più eletta e poetica di questa lirica.






BEATRICE COME SIMBOLO



Poi vengono sentimenti più temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene la Verità, la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza. Non hai più la Vita nuova: hai il Convito. L'amore non è più un sentimento individuale, ma è il principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che il poeta dà al suo amore, alla Filosofia. Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza, cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù, che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti dà la vera nobiltà, che ti viene da te e non dagli altri. Intendere è per lui il principio del fare, e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è l'amore. In questa triade è l'unità della vita; l'uno non può star senza l'altro. Or tutto questo in Dante non è mera speculazione né vanità scientifica; ma è vero amore, ma è un sentimento morale così profondo ed efficace come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità di sentimento fa penetrare tra tante sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale, tanto più poetica quanto meno espressa, ma che si sente nel tono, nel colorito, nello stile. Tale è la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in se medesimo:




L'esilio, che m'è dato, onor mi tegno;


e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio, direi aristocratico, del sentirsi solo con pochi privilegiati da Dio alla sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:


... Elli son quasi dei

Que' c'han tal grazia fuor di tutt'i rei;

Ché solo Iddio all'anima la dona.


Sentimento di soddisfazione che si svolge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù, non è amore e non dovrebbe esser bellezza; onde esorta le donne partirla da loro:


Ché la beltà, ch'Amore in voi consente,

A virtù solamente

Formata fu dal suo decreto antico,

Contro la qual fallate.

Io dico a voi, che siete innamorate,

Che se beltate a voi

Fu data e virtù a noi,

Ed a costui di due potere un fare,

Voi non dovreste amare,

Ma coprir quanto di beltà v'è dato,

Poiché non è virtù, ch'era suo segno.

Lasso! a che dicer vegno?

Dico che bel disdegno

Sarebbe in donna di ragion lodato

Partir da sé beltà per suo comiato.


Qui sviluppato in forma scolastica, è il solito concetto dell'amore che fa uno di due, unisce bellezza e virtù. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente, è l'anima del mondo, l'unità della vita. E poiché vede bellezza e non trova virtù, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo muove a sdegno. Indi quel movimento di immaginazione così nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di bel disdegno, per il quale dica: - Poiché nell'uomo non è virtù, cesso di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad argomentare, ad esporre il concetto in forma dottrinale, e qui è il suo torto, qui è la forma che lo certifica di quel tempo- ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realtà: Lasso! a che dicer vegno? Il poeta sente la vanità de' suoi desideri e che il mondo andrà sempre a quel modo.

Come l'amore si afferma nella morte, così la filosofia si afferma nella sua morte, cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo dell'unità della vita fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo caduto in servo di signore, già signore di sé, ora servo delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti moderni; l'anima del poeta è ancora giovane, piena di una fede robusta che il disinganno nobilita e fortifica e pero il dolore del disaccordo non io conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un più ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perciò quasi dio tra la gregge degli uomini.







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