Mentre
i due pellegrini, voltate le spalle all'ultima bolgia dell'ottavo. cerchio,
si' avviano in silenzio verso l'orlo del pozzo, in cui 323g65d sono puniti i
fraudolenti contro chi si fida, alto, terribile, lacera l'aria il suono di un
corno. Dante volge lo sguardo nella direzione dalla quale il suono è
provenuto; crede di vedere molte torri. per cui domanda al maestro verso
quale città si stiano dirigendo. Virgilio risponde che quelle che a Dante
sembrano, da lontano, le torri di una cerchia di mura sono in realtà le forme
immani dei corpi dei giganti; questi sovrastano con la parte superiore del
corpo l'orlo del pozzo dei traditori.
I due poeti s'imbattono, dapprima in Nembrot, l'ideatore della torre di
Babele, per la cui colpa gli uomini non parlano più la medesima lingua.
Poiché le parole da lui pronunciate sono incomprensibili, Virgilio lo
schernisce, esortandolo a sfogare la sua ira con il corno che porta appeso al
collo. Alla distanza di un tiro di balestra da Nembrot si trova, saldamente
avvinto da una catena, un altro gigante: è Fialte, distintosi nella lotta dei
Titani. contro gli dei; ora non può più muovere le braccia che si avventarono
contro i signori dell'Olimpo.
Allorché i due giungono presso Anteo, Virgilio si rivolge cortesemente a
questo gigante, adulandolo: gli ricorda i leoni innumerevoli catturati nella
valle poi divenuta insigne per la vittoria di Scipione su Annibale e ne
elogia la forza. Il poeta latìno, prega quindi Anteo di deporre lui e il suo
discepolo sulla superficie ghiacciata di Cocito, promettendogli in cambio
fama nel mondo dei vivi. Senza pronunciare parola il gigante acconsente alla
richiesta di Virgilio. Nell'attimo in cui si china per afferrare i due
pellegrini, la sua figura richiama alla mente dì Dante l'immagine della torre
della Garisenda, minacciosamente incombente su chi la contempla dal basso; ma
delicato è il movimento eseguito dalla sua mano per posarli sul fondo della
voragine infernale. |
I
titani simboleggiavano, nella concezione greca del sorgere e definirsi dei
cosmo, lo smisurato, il difforme, ciò che non può inquadrarsi in uno schema
concettuale o visivo: errore logico e metafisico, ripugnante tanto ai dettami
dell'evidenza - la quale prescrive a cose o idee un contorno tale da
racchiuderle nella loro identità quanto alla necessità che spinge l'uomo a
trasferire in miti, metafore, simboli il contenuto dei propri concetti, onde
trovare un accordo tra l'unitario dispiegarsi dei pensiero e la multiforme
accidentalità del percepire.
Insieme ai titani, derivati dalla tradizione classica, torreggia
nell'Inferno, a custodia dei pozzo dei traditori, Nembrot, la cui colpa, per
la pretesa di raggiungere la volta celeste, sede dei Dio degli Ebrei,
corrispose - nei moventi e nei mezzi posti in opera per attuarla - al
tentativo di -dare l'assalto all'Olimpo degli smisurati figli della terra.
Nel canto XXXI pertanto i giganti esprimono la medesima idea balenante nei
miti greci e nel racconto biblico della costruzione della torre di BabeIe:
idea morale, fondata su un religíoso consenso dall'uomo accordato all'ordine
dell'universo, e quindi assai lontana da quelle che sono alla base delle
creazioni di un Cervantes, di un Rabelais, di uno Swift, volte a satireggiare
amabilmente gli errori in cui può indurci una fede acritica nella nostra
soggettività, senza peraltro destituire quest'ultima dei suoi diritti di
legislatrice assoluta, del reale.
Collocati fuori del tempo, i giganti danteschi non pro,pongono alla nostra attenzione
l'attimo del loro libero, fremente insorgere; immobili, convertiti in
oggetti, simboleggiano la punizione che li ha annientati, la divina
onnipotenza assai più che un loro personale modo di essere. Mentre in
Malebolge ciascun peccatore appariva così pervicacemente legato alla propria
individualità, da riuscire a dimenticare persino la, propria condizione di
dannato, concedendosi alla battuta scherzosa per il puro gusto di scherzare
(gli alchimisti del canto XXIX) o, sul piano di una più drammatica e ferma
caratterizzazione, all'insulto fine a se stesso (Sinone e maestro Adamo nel
canto XXX), i giganti esprimono Uno stato di totale sottomissione alla
sentenza che lì ha colpiti, in ciò attuandosi una forma evidente di
contrappasso, per cui, quanto più alta si tese la loro presunzione, tanto più
prostrata appare, nell'al di là, l'energia che li travolse a peccare. Nulla
hanno di smisurato le loro moli, pur travalicando i confini della nostra
quotidiana percezione. Il Poeta infatti ne determina le dimensioni,
riducendole, attraverso un, processo di scomposizione, ad una. somma di
elementi eterogenei (i tre Frìson, la pina di San Pietro). Conferisce un
sapore di distaccata ironia all'insieme della rappresentazione
l'accostamento, livellatore dell'essere vivente (determinato peraltro
attraverso una connotazione - Frison - che lo inquadra in un genere, anziché
farne risaltare l'individualità) al manufatto (l'architettura fornisce in
questo canto i termini più appropriati di confronto, imponendo alla nostra immaginazione
la staticità pesante e maestosa di forme che il principio vitale sembra aver
interamente disertato). Nessuna tensione tragica turba l'impassibile
solennità di queste torri, nulla essendovi in esse di michelangiolesco,
contrariamente a quanto sostenuto, più per enfasi che attraverso un controllo
diretto del testo, dal Ghignoni. Alle affermazioni del Ghignoni
opportunamente si contrappongono i seguenti rilievi dei Frascino: "Nelle
creazioni di Michelangelo è la vita che domina la massa, qui è la massa che
opprime e quasi annulla la vita. I colossi michelangioleschi tendono
spasmodicamente le loro membra, indomiti, nello sforzo di spezzare, quasi,
delle invisibili catene avvincenti il loro corpo. I giganti di Dante sono,
invece, i vinti che soggiacciono, domati, al peso delle loro catene; non li
scuote lo spirito della epica lotta di Flegra, bensì qualche accesso di
fraterna gelosia! Essi adempiono, nell'inferno dantesco, ad una funzione più
che altro decorativa, adornando tutt'intorno, nella loro statuaria
monumentalità, la reggia ghiacciata di Lucifero. La stessa immobilità
forzata, cui sono costretti, è una necessità della decorazione, non meno che
della pena". La verticalítà di queste masse abitate da intelligenze
infantili (le convulsioni di Fialte, la docilità di Anteo esprimono una
medesima aderenza agli aspetti più esteriori del reale, una medesima acribia,
una vanità scoperta e candida) se, nell'ambito di uno sguardo d'assieme,
suggerisce l'idea di una forza compatta ed elegante (la corona di torri sugli
spalti di Montereggioni, l'incombere vertiginoso della Garisenda sullo sfondo
di un cielo percorso da nuvole in fuga propongono questa soluzione), risulta,
ad un'analisi più attenta, materialità inerte, che il Poeta considera
"sempre secondo la forza di gravità, dall'alto in basso: dall'umbilico
in giuso tutti quanti - e per le coste giù ambo le braccia - dal luogo in giù
dov'uomo affibbia il manto" (Frascino).
Lo stato d'animo di Dante di fronte a queste creazioni della sua fantasia non
è di dura polemica, come quella che lo ha opposto ai maliziosi dei cerchio
ottavo, ne di odio esplicito, come quello che prorompe nei suoi incontri con
i traditori, ma di riposata tensione, di quasi serena (nella misura in cui
tali attributi possono applicarsi all'arte della Commedia) contemplazione.
Pur ricordandone il misfatto, egli considera i giganti come forze della
natura prima che come esseri responsabili e li contempla quindi con curiosità
e stupore, né l'ironico distacco che isola queste figure nella loro estrema
impotenza appare esente da una sfumatura di cordialità indulgente e bonaria:
la lode rivolta alla natura "per aver smesso tal sorta di generazione
non significa affatto rimprovero per aver voluto dare, una volta tanto, tale
saggio della sua potenza" (Frascino).
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